TEMA BREVE DIRITTO CIVILE

TRACCIA DIRITTO CIVILE

 

Nuove forme di genitorialità, principio di autoresponsabilità e migliore interesse del minore, con particolare al riconoscimento in Italia dello status filiationis del bambino nato all’estero mediante tecniche procreative vietate dalla legge italiana.

 

Le nuove forme di genitorialità si identificano nella c.d. genitoriale intenzionale e nella c.d. genitorialità di fatto. Esse nascono dal progressivo rilievo riconosciuto ai rapporti affettivi instaurati dal minore con chi si è assunto la responsabilità di un progetto genitoriale, anche a prescindere dall’esistenza di legami biologici.

La giurisprudenza nazionale e sovranazionale ha ormai chiarito che una forma di genitorialità giuridicamente rilevante deve essere riconosciuta, al ricorrere di certe condizioni, nel caso in cui un adulto si sia assunto consapevolmente e volontariamente la responsabilità della crescita e dell’educazione del minore.

Questa assunzione di doversi si riscontra sia quando la coppia condivide un progetto di genitorialità attuato con la procreazione medicalmente assistita (c.d. genitorialità intenzionale), sia quando il convivente more uxorio (o coniuge o unito civilmente) si comporti come genitore nei confronti del figlio del proprio partner  (c.d. genitorialità di fatto).

Con riferimento alla c.d. genitorialità di fatto, la Corte di Cassazione ha precisato che tale condizione non coincide con la mera esistenza di rapporti affettivi, sebbene consolidati, ma deve desumersi dalla lunga durata della convivenza col minore, dalla diuturnitas delle frequentazioni, dal muttum auditorium, dall’assunzione concreta, da parte del genitore de facto, di tutti gli oneri, i doveri e le potestà incombenti sul genitore de iure.

In giurisprudenza si è posta la questione del mantenimento di rapporti affettivi tra il minore e il genitore di fatto in caso di disgregazione del rapporto tra quest’ultimo e il genitore biologico del minore. È un problema che viene in considerazione essenzialmente laddove il genitore “giuridico” impedisca all’ex partner di frequentare il figlio.

Una parte della dottrina e della giurisprudenza hanno prospettato una interpretazione evolutiva e sostanzialistica dell’art. 337-ter c.c., che riconosce il diritto del minore di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.  Si è sostenuto che, in un’ottica costituzionalmente orientata, quell’elenco, basto esclusivamente su vincoli formale di parentela, dovrebbe ritenersi non tassativo, con conseguente possibilità di includersi anche il c.d. genitore di fatto. Questa interpretazione è stata, però, sconfessata dalla Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 134 del 2016, ha ritenuto che l’interruzione ingiustificata, in contrasto con l’interesse del minore, di un rapporto significativo da quest’ultimo intrattenuto con soggetti che non siano parenti, è riconducibile all’ipotesi disciplinata dall’art. 333 c.c., che consente al giudice, in caso di condotta del genitore “comunque pregiudizievole al figlio”, di adottare “i provvedimenti convenienti” nel caso concreto. Ciò su ricorso del pubblico ministero (a tanto legittimato dall’art. 336 c.c.), anche su sollecitazione dell’adulto (non parente) coinvolto nel rapporto in questione.

L’aspetto critico di tale soluzione è, tuttavia, che essa sminuisce il ruolo del genitore di fatto, perché lo priva di una legittimazione diretta, dovendo egli necessariamente passare per il tramite del p.m., posponendolo così ai nonni e agli altri parenti, che sono invece muniti di azione diretta a tutela del loro diritto di intrattenere rapporti con il minore.

La genitorialità intenzionale è quella che viene attuata o con l’adozione oppure  attraverso il ricorso alla tecniche di procreazione medicalmente assistita (P.M.A.), disciplinate nel nostro ordinamento dalla legge n. 40/2004.

A tal proposito occorre ricordare come gli originai limiti previsti dalla legge n. 40/2004 sono stati progressivamente smantellati dalla Corte costituzionale, che, in particolare, ha fatto cadere il divieto di ricorso alla fecondazione eterologa per le coppie sterili o infertili (sentenza n. 162/2014), nonché per le coppie fertili, ma portatrici di gravi malattie genetiche  (sentenza n. 96/2015).

I limiti rimasti intatti riguardano essenzialmente il divieto di ricorso alla fecondazione eterologa per le coppie omosessuali (la cui violazione è punita con l’applicazione di una sanzione amministrativa: cfr. art. 12, co. 2) e il divieto di maternità surrogata (la cui violazione costituisce reato: art. 12, co. 6).

In ordine a questi divieti, le questioni che hanno maggiormente impegnato la giurisprudenza negli ultimi anni riguardano l’ipotesi in cui il figlio nasca all’estero in seguito a tecniche di P.M.A. ammesse nello Stato straniero ma vietate dalla legge italiana. Il principale problema in questi casi è se l’atto di nascita (legittimamente) formato all’estero (o il provvedimento giurisdizionale che riconosce lo status filiationis) possa essere riconosciuto in Italia o se, al contrario, non possa esserlo perché in contrasto con il limite dell’ordine pubblico internazionale.

La posizione della giurisprudenza nazionale può (allo stato e in attesa dell’intervento del legislatore recentemente sollecitato dalla Corte costituzionale) essere sintetizzata nei termini che seguonoa) il divieto di fecondazione eterologa per le coppie omosessuali non è espressione di un principio di ordine pubblico internazionale, sicché non è precluso il riconoscimento dell’atto di nascita di un figlio nato all’estero da due donne, in seguito a fecondazione eterologa, e questo tanto nel caso in cui ciascuna madre abbia un legame biologico con il minore (perché una ha fornito l’ovulo fecondato con il seme di un terzo e l’altra ha portato avanti la gravidanza), sia nel caso in cui il legame biologico sussista solo una delle due donne; b) il divieto di maternità surrogata (assistito da una rilevante sanzione penale) rappresenta, invece, un principio di ordine pubblico, in quanto diretto a tutelare il valore fondamentale della dignità umana della gestante, sicché esso non consente il riconoscimento dello status filiationis con il genitore privo di alcun legame biologico con il bambino, il quale potrà, a tutela del suo diritto alla genitorialità, avvalersi soltanto dell’istituto dell’adozione non legittimante (in casi particolari) di cui all’art. 44, lett. d), l. n. 194 del 1983 (cfr. Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193).

In ordine al principio espresso sub a) è stata la stessa Corte costituzionale ad affermare, nella recente sentenza n. 32/2021, che l’elusione del limite stabilito dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004 (che richiede appunto l’eterossessualità), non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali: da un lato, infatti, non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina; dall’altro, non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore.

I principi appena enunciati portano a distinguere il caso del figlio nato all’estero da due donne e quello del figlio nato da due padri: nel primo caso, il rapporto di filiazione può essere riconosciuto anche in Italia, nel secondo no, perché vi osta il divieto (espressione di una principio di ordine pubblico) della maternità surrogata.

La diversa soluzione, apparentemente contraddittoria, si giustifica, alla luce della eterogeneità che sussiste fra i due casi. Nel caso di omogenitorialità femminile, la tecnica impiegata non è riconducibile alla maternità surrogata, in quanto la gravidanza è portata avanti per sé, non per altri; nel caso di omogenitorialità maschile, invece, è evidente che la gravidanza è portata avanti da una donna esterna alla coppia, per altri, ed è quindi, inevitabile, la violazione dell’art. 12, co. 6, legge n. 40/2004.

Che l’ostacolo al riconoscimento derivi dalla violazione del divieto di maternità surrogata e non dalla omosessualità della coppia trova ulteriore conferma nella recente sentenza delle Sezioni Unite 31 marzo 2021, n. 9006, che ha affermato che non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.

La Corte costituzionale (sentenza n. 33/2021) è stata di recente chiamata a pronunciarsi  su una questione di costituzionalità, sollevata dalla I Sezione civile della Corte di Cassazione, riguardante lo stato civile dei bambini nati attraverso la pratica della maternità surrogata, vietata nell’ordinamento italiano dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004.

La prima sezione civile della Corte di cassazione ha dubitato della legittimità costituzionale del diritto vivente, risultante dalla sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, che, come si è visto, esclude il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato dichiarato un rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” cittadino italiano, in ragione del ritenuto contrasto di tale riconoscimento con il divieto di surrogazione di maternità stabilito dal menzionato art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile secondo le Sezioni unite come principio di ordine pubblico.

Le questioni sottoposte alla Corte costituzionale erano focalizzate sugli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata, nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale, come nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, ovvero eterosessuale) che ha sin dall’inizio condiviso il percorso che ha condotto al suo concepimento e alla sua nascita nel territorio di uno Stato dove la maternità surrogata non è contraria alla legge; e che ha quindi portato in Italia il bambino, per poi qui prendersene quotidianamente cura.

Più precisamente, si trattava di fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente espresso dalle Sezioni unite civili, alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore sanciti dalle norme costituzionali e sovranazionali.

A tal proposito, deve essere richiamato il rilievo primario riconosciuto alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore. Tale principio implica che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”.

Non v’è dubbio, in proposito, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata.

E ciò, quanto meno, da una duplice prospettiva.

Anzitutto, questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino, che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (Corte cost. sentenza n. 221 del 2019).

Sotto un secondo e non meno importante profilo, non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino. Ciò che è qui in discussione è unicamente l’interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi.

Proprio per queste ragioni, del resto, l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del «legame di filiazione» (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (sentenza Mennesson contro Francia, paragrafo 100; sentenza D. contro Francia, paragrafo 64).

Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.

La Corte EDU riconosce, in particolare, che gli Stati parte possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi.

Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati (Corte EDU, decisione 12 dicembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia, paragrafo 42; sentenza D. contro Francia, paragrafo 67); lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore.

Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato (Corte EDU, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia, paragrafo 66), e «a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino».

Né l’interesse del minore potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”. Laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata.

La Corte costituzionale, pur dando dell’importanza assunta dall’interesse del minore, ha precisato, tuttavia, che l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco.

Gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore.

Secondo la Corte costituzionale, pertanto, la Costituzione (alla luce delle fonti e della giurisprudenza sovranazionale) di per sé  non osta alla soluzione, cui le sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale.

Una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino.

Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata.

La Corte costituzionale ha osservato che il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184, ritenuto esperibile nei casi all’esame dalla stessa sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni unite civili, costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati.

L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 cod. civ., operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 330 cod. civ. – se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (art. 46 della legge n. 184 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita.

Al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983.

Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.

 

 

(Roberto Giovagnoli)