RIFORMA DEL PROCESSO PENALE: APPROVATO IL DECRETO LEGISLATIVO

SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO RECANTE ATTUAZIONE DELLA LEGGE 27 SETTEMBRE 2021 N. 134 RECANTE DELEGA AL GOVERNO PER L’EFFICIENZA DEL PROCESSO PENALE NONCHE’ IN MATERIA DI GIUSTIZIA RIPARATIVA E DISPOSIZIONI PER LA CELERE DEFINIZIONE DEI PROCEDIMENTI GIUDIZIARI.

 

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;

Vista la legge 23 agosto 1988, n. 400, e, in particolare, l’articolo 14;

Visto l’articolo 1 della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari;

Visti il regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, recante approvazione definitiva del codice penale e il decreto del presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, recante approvazione del codice di procedura penale;

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante l’approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni;

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia;

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti;

Vista la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà;

Vista la legge 24 novembre 1981, n. 689, recante modifiche al sistema penale;

Visto il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale;

Visto il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni;

Visto il decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, recante modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro;

Visto il decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468;

Visto il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, recante disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300;

Visto il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale;

Vista la legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008);

Visto il decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221;

Vista la legge 28 aprile 2014, n. 67, recante deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio;

Visto il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, comma 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103;

Viste la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del …… ;

Acquisito, per quanto riguarda  le disposizioni in materia di  giustizia  riparativa,  il  parere  della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell’articolo 9, comma 3, del  medesimo decreto  legislativo  n.  281 del 1997;

Sentito il Garante per la protezione dei dati personali, ……….;

Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni permanenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati a norma dell’articolo 1, comma 2, della citata legge delega n. 134 del 2021;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del …… ;

Sulla proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, con il  Ministro  per  la  pubblica  amministrazione,  con  il   Ministro dell’istruzione, con il Ministro dell’università  e  della  ricerca, con il Ministro per gli affari  regionali  e  le  autonomie,  con  il Ministro del lavoro  e  delle  politiche  sociali,  con  il  Ministro dell’interno,  con  il  Ministro  della  difesa;

EMANA

il seguente decreto legislativo:

 

TITOLO I

Modifiche al codice penale

 

ART. 1

(Modifiche al Libro I del codice penale)

  1. Al Libro I del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) dopo l’articolo 20, è inserito il seguente:

«Art. 20-bis

(Pene sostitutive delle pene detentive brevi)

Salvo quanto previsto da particolari disposizioni di legge, le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto sono disciplinate dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, e sono le seguenti:

1) la semilibertà sostitutiva;

2) la detenzione domiciliare sostitutiva;

3) il lavoro di pubblica utilità sostitutivo;

4) la pena pecuniaria sostitutiva.

La semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva possono essere applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni.

Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo può essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni.

La pena pecuniaria sostitutiva può essere applicata dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno.»;

  1. b) all’articolo 62, primo comma, numero 6), dopo le parole: «le conseguenze dannose o pericolose del reato» sono aggiunte le seguenti: «, o l’avere partecipato a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo. Qualora l’esito riparativo comporti l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la circostanza è valutata solo quando gli impegni sono stati rispettati.»;
  2. c) all’articolo 131-bis:
  • al primo comma, le parole: «massimo a cinque anni» sono sostituite dalle seguenti «minimo a due anni» e dopo le parole: «primo comma,» sono inserite le seguenti «anche in considerazione della condotta susseguente al reato,»;
  • al secondo comma:
  1. al secondo periodo, dopo le parole: «non può» è inserita la seguente: «inoltre» e dopo le parole: «di particolare tenuità quando si procede per» sono inserite le seguenti: «i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 558-bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583-bis, 593-ter, 600-bis, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-undecies, 612-bis, 612-ter, nonché dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, ovvero»;
  2. dopo il secondo periodo, è inserito il seguente: «L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 391-bis, 423, 423-bis, 600-ter, primo comma, 613-bis, 628, terzo comma,  629, 644, 648-bis, 648-ter, nonché per i delitti di cui agli articoli 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, e 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.»;
  3. d) all’articolo 133-bis:
  • nella rubrica, dopo la parola: «economiche» sono inserite le seguenti: «e patrimoniali»;
  • al primo comma, dopo la parola: «economiche» sono inserite le seguenti: «e patrimoniali»;
  1. e) all’articolo 133-ter, al primo comma, dopo la parola: «economiche» sono inserite le seguenti: «e patrimoniali»; le parole «da tre a trenta» sono sostituite dalle seguenti: «da sei a sessanta»; è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Non sono dovuti interessi per la rateizzazione.»;
  2. f) all’articolo 135, al primo comma, prima della parola: «Quando» sono inserite le seguenti: «Salvo quanto previsto da particolari disposizioni di legge,» le parole «Quando, per qualsiasi effetto giuridico,» sono sostituite dalle seguenti: «Salvo quanto previsto da particolari disposizioni di legge, quando, per qualsiasi effetto giuridico,»;
  3. g) all’articolo 136, il primo comma è sostituito dal seguente: «Le pene principali della multa e dell’ammenda, non eseguite entro il termine stabilito dall’articolo 660 del codice di procedura penale, si convertono a norma degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689. La pena pecuniaria sostitutiva della reclusione o dell’arresto, non eseguita entro lo stesso termine, si converte a norma dell’articolo 71 della legge 24 novembre 1981, n. 689.»;
  4. h) all’articolo 152:
  • al primo comma, la parola: «delitti» è sostituita dalla seguente: «reati»;
  • al secondo comma, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Vi è altresì remissione tacita quando il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone. Vi è inoltre remissione tacita quando il querelante ha partecipato a un programma di giustizia riparativa concluso con un esito riparativo. Nondimeno, quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati.»;
  • dopo il secondo comma, è inserito il seguente: «La disposizione del quarto periodo del secondo comma non si applica quando il querelante è persona incapace per ragioni, anche sopravvenute, di età o di infermità, ovvero persona in condizione di particolare vulnerabilità ai sensi dell’articolo 90-quater del codice di procedura penale. La stessa disposizione non si applica altresì quando la persona che ha proposto querela ha agito nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale su un minore, ovvero di rappresentante legale di una persona minore o incapace, ovvero di persona munita di poteri per proporre querela nell’interesse della persona offesa priva in tutto o in parte di autonomia, ovvero di curatore speciale nominato ai sensi dell’articolo 121.»;
  1. i) all’articolo 159:
  • il numero 3-bis), è sostituito dal seguente «3-bis) pronuncia della sentenza di cui all’articolo 420-quater del codice di procedura penale»;
  • è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Quando è pronunciata la sentenza di cui all’articolo 420-quater del codice di procedura penale il corso della prescrizione rimane sospeso sino al momento in cui è rintracciata la persona nei cui confronti è stata pronunciata, ma in ogni caso non può essere superato il doppio dei termini di prescrizione di cui all’articolo 157.»;
  1. l) all’articolo 163, ultimo comma, dopo le parole: «da lui eliminabili» sono inserite le seguenti: «ovvero abbia partecipato a un programma di giustizia riparativa concluso con un esito riparativo,»;
  2. m) all’articolo 168-bis, al comma primo, dopo le parole: «l’imputato» sono inserite le seguenti: «, anche su proposta del pubblico ministero,»;
  3. n) all’articolo 175, dopo il secondo comma, è inserito il seguente: «La non menzione della condanna può essere concessa anche in caso di condanna a pena sostitutiva di una pena detentiva entro i limiti di pena di cui al primo e al secondo comma.».

 

ART. 2

(Modifiche al Libro II del codice penale)

  1. Al Libro II del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 388-ter sono apportate le seguenti modificazioni:
  • nella rubrica, la parola: «dolosa» è sostituita con la seguente: «fraudolenta»;
  • al primo comma, le parole: «contenuta nel precetto» sono soppresse.
  1. all’articolo 582:
  • al primo comma, dopo le parole: «è punito» sono inserite le seguenti: «, a querela della persona offesa,»;
  • il secondo comma è sostituito dal seguente: «Si procede tuttavia d’ufficio se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 61, numero 11-octies), 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel primo comma, numero 1), e nel secondo comma dell’articolo 577. Si procede altresì d’ufficio se la malattia ha una durata superiore a venti giorni quando il fatto è commesso contro persona incapace, per età o per infermità.»;
  1. all’articolo 590-bis, dopo l’ottavo comma, è aggiunto il seguente: «Il delitto è punibile a querela della persona offesa se non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dal presente articolo.»;
  2. all’articolo 605, dopo il quinto comma, è aggiunto il seguente: «Nell’ipotesi prevista dal primo comma, il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che il fatto sia commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.»;
  3. all’articolo 610, dopo il secondo comma, è aggiunto il seguente: «Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre la circostanza di cui al secondo comma.»;
  4. all’articolo 612, terzo comma, dopo le parole: «nell’articolo 339» sono aggiunte le seguenti: «, ovvero se la minaccia è grave e ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva, ovvero se la persona offesa è incapace, per età o per infermità»;
  5. all’articolo 614:

1) il terzo comma è sostituito dal seguente: «La pena è da due a sei anni se il fatto è commesso con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato.»;

2) il quarto comma è sostituito dal seguente: «Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede tuttavia d’ufficio quando il fatto è commesso con violenza alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato o se il fatto è commesso con violenza sulle cose nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.»;

  1. all’articolo 623-ter, le parole: «612, se la minaccia è grave,» sono soppresse;
  2. all’articolo 624, il terzo comma è sostituito dal seguente: «Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede d’ufficio se la persona offesa è incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorrono le circostanze di cui all’articolo 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7-bis).»;
  3. all’articolo 626, nella rubrica, le parole: «a querela dell’offeso» sono sostituite con la parola: «minori»;

 

  1. all’articolo 634:
  • al primo comma, dopo le parole: «è punito» sono inserite le seguenti: «, a querela della persona offesa,»;
  • dopo il secondo comma, è aggiunto il seguente: «Si procede d’ufficio se la persona offesa è incapace, per età o per infermità.»;
  1. all’articolo 635, dopo il quarto comma, è aggiunto il seguente: «Nei casi previsti dal primo comma il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso in occasione del delitto previsto dall’articolo 331 ovvero se la persona offesa è incapace, per età o per infermità.»;
  2. all’articolo 640, al terzo comma, le parole: «o la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, primo comma, numero 7» sono soppresse;
  3. all’articolo 640-ter, quarto comma, le parole: «taluna delle circostanze previste» sono sostituite dalle seguenti: «la circostanza prevista» e le parole: «, e numero 7» sono soppresse;
  4. all’articolo 649-bis, primo comma, dopo le parole: «ad effetto speciale» sono inserite le seguenti «, diverse dalla recidiva,» e le parole: «o se il danno arrecato alla persona offesa è di rilevante gravità» sono soppresse.

ART. 3

(Modifiche al Libro III del codice penale)

  1. Al Libro III del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 659, dopo il secondo comma, è aggiunto il seguente: «Nell’ipotesi prevista dal primo comma, la contravvenzione è punibile a querela della persona offesa, salvo che il fatto abbia ad oggetto spettacoli, ritrovi o trattenimenti pubblici, ovvero sia commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.»;
  3. all’articolo 660:
  • al primo comma, dopo le parole: «è punito» sono inserite le seguenti: «, a querela della persona offesa,»;
  • dopo il primo comma è aggiunto il seguente: «Si procede tuttavia d’ufficio quando il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.».

TITOLO II

Modifiche al codice di procedura penale

 

CAPO I

Modifiche al Libro I del codice di procedura penale

 

ART. 4

(Modifiche al Titolo I del Libro I del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo I del Libro I del codice di procedura penale, dopo l’articolo 24 è inserito il seguente:

«Art. 24-bis

(Rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione per la decisione sulla competenza per territorio)

  1. Prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall’articolo 491, comma 1, la questione concernente la competenza per territorio può essere rimessa, anche di ufficio, alla Corte di cassazione. Entro il termine previsto dall’articolo 491, comma 1, può essere altresì rimessa alla Corte di cassazione la questione concernente la competenza per territorio riproposta ai sensi dell’articolo 21, comma 2.
  2. Il giudice, nei casi di cui al comma 1, pronuncia ordinanza con la quale rimette alla Corte di cassazione gli atti necessari alla risoluzione della questione, con l’indicazione delle parti e dei difensori.
  3. La Corte di cassazione decide in camera di consiglio secondo le forme previste dall’articolo 127 e, se dichiara l’incompetenza del giudice che procede, ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente.
  4. L’estratto della sentenza è immediatamente comunicato al giudice che ha rimesso la questione e, quando diverso, al giudice competente, nonché al pubblico ministero presso i medesimi giudici ed è notificato alle parti private.
  5. Il termine previsto dall’articolo 27 decorre dalla comunicazione effettuata a norma del comma 4.
  6. La parte che ha eccepito l’incompetenza per territorio, senza chiedere contestualmente la rimessione della decisione alla Corte di cassazione, non può più riproporre l’eccezione nel corso del procedimento.».

ART. 5

(Modifiche al Titolo IV del Libro I del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo IV del Libro I del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) all’articolo 60, comma 3, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure la riapertura dello stesso a seguito della rescissione del giudicato o di accoglimento della richiesta prevista dall’articolo 628-ter»;
  3. b) all’articolo 78:
  • al comma 1, lettera d), dopo le parole: «che giustificano la domanda», sono aggiunte le seguenti: «agli effetti civili;»;
  • dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. Il difensore cui sia stata conferita la procura speciale ai sensi dell’articolo 100, nonché la procura per la costituzione di parte civile a norma dell’articolo 122, se in questa non risulta la volontà contraria della parte interessata, può conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione.»;
  1. c) all’articolo 79:
  • al comma 1, le parole: «e, successivamente,» sono sostituite dalle seguenti: «, prima che siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, o, quando manca l’udienza preliminare,» e, dopo le parole: «articolo 484», sono aggiunte le seguenti: «o dall’articolo 554-bis, comma 2»;
  • al comma 2, le parole: «Il termine previsto dal comma 1 è stabilito» sono sostituite dalle seguenti: «I termini previsti dal comma 1 sono stabiliti»;
  • al comma 3, le parole: «Se la costituzione» sono sostituite dalle seguenti: «Quando la costituzione di parte civile è consentita fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484, la stessa».
  1. d) all’articolo 90:

dopo il comma 1 è inserito il seguente:

«1-bis. La persona offesa ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio. Ai fini della dichiarazione di domicilio la persona offesa può indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.»

  1. e) all’articolo 90-bis, comma 1:
  • dopo la lettera a) sono inserite le seguenti: «a-bis) all’obbligo del querelante di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento, con l’avviso che la dichiarazione di domicilio può essere effettuata anche dichiarando un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato»;

a-ter) alla facoltà del querelante, ove non abbia provveduto all’atto di presentazione della querela, di dichiarare o eleggere domicilio anche successivamente;

a-quater) all’obbligo del querelante, in caso di mutamento del domicilio dichiarato o eletto, di comunicare tempestivamente e nelle forme prescritte all’autorità giudiziaria procedente la nuova domiciliazione;

a-quinquies) al fatto che, ove abbia nominato un difensore e non abbia dichiarato o eletto domicilio, il querelante sarà domiciliato presso il difensore ai sensi dell’articolo 33 disp. att. c.p.p.;

a-sexies) al fatto che, ove non sia stata formulata dichiarazione o elezione di domicilio, ovvero in caso di dichiarazione o elezione di domicilio insufficiente o inidonea, le notificazioni in favore del querelante che non abbia nominato un difensore saranno effettuate mediante deposito presso la segreteria del pubblico ministero procedente o presso la cancelleria del giudice procedente;»;

  • alla lettera n) le parole: «, o attraverso la mediazione» sono soppresse;
  • dopo la lettera n) è inserita la seguente: «n-bis) al fatto che la mancata comparizione senza giustificato motivo della persona offesa che abbia proposto querela all’udienza alla quale sia stata citata in qualità di testimone comporta la remissione tacita di querela;»;
  • alla lettera p), dopo le parole: «alle vittime di reato» il segno di interpunzione «.» è sostituito dal seguente: «;»;
  • dopo la lettera p) sono aggiunte le seguenti: «p-bis) alla facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa;

p-ter) al fatto che la partecipazione del querelante a un programma di giustizia riparativa, concluso con un esito riparativo e con il rispetto degli eventuali impegni comportamentali assunti da parte dell’imputato, comporta la remissione tacita di querela;»;

  1. f) dopo l’articolo 90-bis, è inserito il seguente:

«Art. 90-bis.1

(Informazioni alla vittima di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134)

 

  1. La vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, viene informata in una lingua a lei comprensibile della facoltà di svolgere un programma di giustizia riparativa.».

CAPO II

Modifiche al Libro II del codice di procedura penale

 

ART. 6

(Modifiche al Titolo I del Libro II del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo I del Libro II del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. l’articolo 110 è sostituito dal seguente:

«Art. 110

(Forma degli atti)

 

  1. Quando è richiesta la forma scritta, gli atti del procedimento penale sono redatti e conservati in forma di documento informatico, tale da assicurarne l’autenticità, l’integrità, la leggibilità, la reperibilità, l’interoperabilità e, ove previsto dalla legge, la segretezza.
  2. Gli atti redatti in forma di documento informatico rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la conservazione, l’accesso, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici.
  3. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli atti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere redatti in forma di documento informatico.
  4. Gli atti redatti in forma di documento analogico sono convertiti senza ritardo in copia informatica ad opera dell’ufficio che li ha formati o ricevuti, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici.»;
  5. all’articolo 111:
  • alla rubrica, dopo la parola: «Data», sono inserite le seguenti: «e sottoscrizione»;
  • al comma 1, dopo le parole: «un atto,» sono inserite le seguenti «informatico o analogico,»;
  • dopo il comma 2 sono aggiunti i seguenti:

«2-bis. L’atto redatto in forma di documento informatico è sottoscritto, con firma digitale o altra firma elettronica qualificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici.

2-ter. La ricezione di un atto orale, trascritto in forma di documento informatico, contiene l’attestazione da parte dell’autorità procedente, che sottoscrive il documento a norma del comma 2-bis, della identità della persona che lo ha reso.

2-quater. Quando l’atto è redatto in forma di documento analogico e ne è richiesta la sottoscrizione, se la legge non dispone altrimenti, è sufficiente la scrittura di propria mano, in fine dell’atto, del nome e cognome di chi deve firmare. Se chi deve firmare non è in grado di scrivere, il pubblico ufficiale, al quale è presentato l’atto scritto o che riceve l’atto orale, accertata l’identità della persona, ne fa attestazione in fine dell’atto medesimo.»;

  1. dopo l’articolo 111, sono inseriti i seguenti:

«Art. 111-bis  

(Deposito telematico)

  1. Salvo quanto previsto dall’articolo 175-bis, in ogni stato e grado del procedimento, il deposito di atti, documenti, richieste, memorie ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici.
  2. Il deposito telematico assicura la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione, nonché l’identità del mittente e del destinatario, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.
  3. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli atti e ai documenti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere acquisiti in copia informatica.
  4. Gli atti che le parti compiono personalmente possono essere depositati anche con modalità non telematiche.

Art. 111-ter

(Fascicolo informatico e accesso agli atti)

  1. I fascicoli informatici del procedimento penale sono formati, conservati, aggiornati e trasmessi nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente il fascicolo informatico in maniera da assicurarne l’integrità, l’accessibilità, la leggibilità, l’interoperabilità nonché l’agevole consultazione telematica mediante una struttura sistematica e metodica.
  2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche quando la legge prevede la trasmissione di singoli atti e documenti contenuti nel fascicolo informatico.
  3. Gli atti e i documenti formati e depositati in forma di documento analogico sono convertiti, senza ritardo, in documento informatico e inseriti nel fascicolo informatico, secondo quanto previsto dal comma 1, salvo che per loro natura o per specifiche esigenze processuali non possano essere acquisiti o convertiti in copia informatica. In tal caso, nel fascicolo informatico è inserito elenco dettagliato degli atti e dei documenti acquisiti in forma di documento analogico.
  4. Le copie informatiche, anche per immagine, degli atti e dei documenti processuali, redatti in forma di documento analogico, presenti nei fascicoli informatici, equivalgono all’originale anche se prive della firma digitale di attestazione di conformità all’originale»;
  5. d) all’articolo 116, al comma-3 bis, dopo le parole: «atti o documenti» sono inserite le seguenti: «redatti in forma di documento analogico»;
  6. e) all’articolo 122, dopo il comma 2, è inserito il seguente: «2-bis. La procura speciale è depositata, in copia informatica autenticata con firma digitale o altra firma elettronica qualificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, con le modalità previste dall’articolo 111-bis, salvo l’obbligo di conservare l’originale analogico da esibire a richiesta dell’autorità giudiziaria.».

ART. 7

(Modifiche al Titolo II del Libro II del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro II del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 125, al comma 5, secondo periodo, dopo la parola: «redatto», sono inserite le seguenti «in forma di documento analogico;» e, dopo il secondo periodo, è aggiunto il seguente: «Non si applicano le disposizioni degli articoli 110, comma 4, e 111-ter, comma 4.»;
  3. all’articolo 127, comma 3, il secondo periodo è sostituito dai seguenti: «Se l’interessato richiede di essere sentito ed è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, si provvede mediante collegamento a distanza, oltre che casi particolarmente previsti dalla legge, quando l’interessato vi consente. In caso contrario, l’interessato è sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo.»;
  4. dopo l’articolo 129 è inserito il seguente:

«Art. 129-bis 

(Accesso ai programmi di giustizia riparativa)

  1. In ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato di cui all’articolo 16, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa.
  2. La richiesta dell’imputato o della vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b) del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, è proposta personalmente o per mezzo di procuratore speciale.
  3. L’invio degli interessati è disposto con ordinanza dal giudice che procede, sentite le parti, i difensori nominati e, se lo ritiene necessario, la vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, qualora reputi che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Nel corso delle indagini preliminari provvede il pubblico ministero con decreto motivato.
  4. Nel caso di reati perseguibili a querela soggetta a remissione e in seguito all’emissione dell’avviso di cui all’articolo 415-bis, il giudice, a richiesta dell’imputato, può disporre con ordinanza la sospensione del procedimento o del processo per lo svolgimento del programma di giustizia riparativa per un periodo non superiore a centottanta giorni. Si osservano le disposizioni dell’articolo 159, primo comma, numero 3), primo periodo, del codice penale, e dell’articolo 344-bis, commi 6 e 8, nonché, in quanto compatibili, dell’articolo 304.
  5. Al termine dello svolgimento del programma di giustizia riparativa, l’autorità giudiziaria acquisisce la relazione trasmessa dal mediatore.»;
  6. all’articolo 133, dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. La disposizione di cui al comma 1 non si applica in caso di mancata comparizione del querelante all’udienza in cui sia stato citato a comparire come testimone, limitatamente ai casi in cui la mancata comparizione del querelante integra remissione tacita di querela, nei casi in cui essa è consentita.».

ART. 8

(Inserimento del Titolo II bis del Libro II del codice di procedura penale)

  1. Al Libro II del codice di procedura penale, dopo il Titolo II, è inserito il seguente:

«Titolo II-bis

Partecipazione a distanza

Art. 133-bis

(Disposizione generale)

  1. Salvo che sia diversamente previsto, quando l’autorità giudiziaria dispone che un atto sia compiuto a distanza o che una o più parti possano partecipare a distanza al compimento di un atto o alla celebrazione di un’udienza si osservano le disposizioni di cui all’articolo 133-ter.

Art. 133-ter

(Modalità e garanzie della partecipazione a distanza)

  1. L’autorità giudiziaria, quando dispone che un atto sia compiuto a distanza o che una o più parti partecipino a distanza al compimento di un atto o alla celebrazione di un’udienza, provvede con decreto motivato. Quando non è emesso in udienza, il decreto è notificato o comunicato alle parti unitamente al provvedimento che fissa la data per il compimento dell’atto o la celebrazione dell’udienza e, in ogni caso, almeno tre giorni prima della data suddetta. Il decreto è comunicato anche alle autorità interessate.
  2. Nei casi di cui al comma 1 è attivato un collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza o l’ufficio giudiziario e il luogo in cui si trovano le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza. Il luogo in cui si trovano le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza è equiparato all’aula di udienza.
  3. Il collegamento audiovisivo è attuato, a pena di nullità, con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti all’atto o all’udienza e ad assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nei diversi luoghi e la possibilità per ciascuna di essa di udire quanto viene detto dalle altre. Nei casi di udienza pubblica è assicurata un’adeguata pubblicità degli atti compiuti a distanza. Dell’atto o dell’udienza è sempre disposta la registrazione audiovisiva.
  4. Salvo quanto disposto dai commi 5, 6 e 7, le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza si collegano da altro ufficio giudiziario o da un ufficio di polizia giudiziaria individuato dall’autorità giudiziaria, previa verifica della disponibilità di dotazioni tecniche e condizioni logistiche idonee per il collegamento audiovisivo.
  5. Le persone detenute, internate, sottoposte a custodia cautelare in carcere o ristrette in carcere a seguito di arresto o di fermo, quando compiono l’atto o partecipano all’udienza a distanza, si collegano dal luogo in cui si trovano.
  6. Sentite le parti, l’autorità giudiziaria può autorizzare le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza a collegarsi da un luogo diverso da quello indicato nel comma 4.
  7. I difensori si collegano dai rispettivi uffici o da altro luogo, purché idoneo. È comunque assicurato il diritto dei difensori o dei loro sostituti di essere presenti nel luogo dove si trova l’assistito. È parimenti sempre assicurato il diritto dei difensori o dei loro sostituti di consultarsi riservatamente tra loro e con l’assistito per mezzo di strumenti tecnici idonei.
  8. Nei casi di cui ai commi 4 e 5 e, ove l’autorità giudiziaria non disponga diversamente, nel caso di cui al comma 6, un ausiliario del giudice o del pubblico ministero, individuato anche tra gli ausiliari in servizio presso l’ufficio giudiziario di cui al citato comma 4, o un ufficiale di polizia giudiziaria, individuato in via prioritaria tra il personale in servizio presso le sezioni di polizia giudiziaria e designato tra coloro che non svolgono, né hanno svolto, attività di investigazione o di protezione nei confronti dell’imputato o ai fatti a lui riferiti, è presente nel luogo ove si trovano le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza, ne attesta l’identità e redige verbale delle operazioni svolte a norma dell’articolo 136, in cui dà atto dell’osservanza delle disposizioni di cui al comma 3, primo periodo, e al comma 8, secondo e terzo periodo, delle cautele adottate per assicurare la regolarità dell’esame con riferimento al luogo in cui la persona si trova, nonché dell’assenza di impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa spettanti.».

ART. 9

(Modifiche al Titolo III del Libro II del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro II del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 134:
  • al comma 1, dopo la parola: «verbale» sono inserite le seguenti: «e, nei casi previsti dalla legge, anche mediante riproduzione audiovisiva o fonografica»;
  • al comma 2, la parola: «meccanico» è sostituita dalle seguenti: «idoneo allo scopo» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Si osservano le disposizioni dell’articolo 110.»;

3) al comma 3, le parole: «è effettuata anche la riproduzione fonografica» sono sostituite dalle seguenti: «o quando la redazione in forma integrale è ritenuta insufficiente, alla documentazione dell’atto si procede altresì mediante riproduzione audiovisiva o fonografica.»;

  1. all’articolo 135, comma 2, la parola: «meccanico» è sostituita dalla parola: «idoneo»;
  2. all’articolo 141-bis, comma 1, le parole: «fonografica o audiovisiva» sono sostituite dalle seguenti: «audiovisiva o, se ciò non è possibile, con mezzi di riproduzione fonografica» e, dopo le parole: «strumenti di riproduzione», sono inserite le seguenti: «audiovisiva e fonografica».

ART. 10

(Modifiche al Titolo V del Libro II del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo V del Libro II del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. l’articolo 148 è sostituito dal seguente: «Art. 148 (Organi e forme delle notificazioni) In ogni stato e grado del processo, salvo che la legge disponga altrimenti, le notificazioni degli atti sono eseguite, a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche che, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, assicurano la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione.
  3. La lettura dei provvedimenti alle persone presenti o rappresentate dal difensore e gli avvisi che sono dati dal giudice o dal pubblico ministero verbalmente agli interessati in loro presenza sostituiscono le notificazioni di cui al comma 1, purché ne sia fatta menzione nel verbale.
  4. Sostituisce le notificazioni di cui al comma 1 anche la consegna di copia in forma di documento analogico dell’atto all’interessato da parte della cancelleria o della segreteria. Il pubblico ufficiale addetto annota in tal caso sull’originale dell’atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta.
  5. In tutti i casi in cui, per espressa previsione di legge, per l’assenza o l’inidoneità di un domicilio digitale del destinatario o per la sussistenza di impedimenti tecnici, non è possibile procedere con le modalità indicate al comma 1, e non è stata effettuata la notificazione con le forme previste nei commi 2 e 3, la notificazione disposta dall’autorità giudiziaria è eseguita dagli organi e con le forme stabilite nei commi seguenti e negli articoli del presente titolo.
  6. Le notificazioni degli atti, salvo che la legge disponga altrimenti, sono eseguite dell’ufficiale giudiziario o da chi ne esercita le funzioni.
  7. La notificazione è eseguita dalla polizia giudiziaria nei soli casi previsti dalla legge. In ogni caso, le notificazioni richieste dal pubblico ministero possono essere eseguite dalla polizia giudiziaria nei casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire.
  8. Nei procedimenti con detenuti e in quelli davanti al tribunale del riesame l’autorità giudiziaria può disporre che, in caso di urgenza, le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti, con l’osservanza delle norme del presente titolo.
  9. L’atto è notificato per intero, salvo che la legge disponga altrimenti, di regola mediante consegna di copia al destinatario oppure, se ciò non è possibile, alle persone indicate nel presente titolo. Quando la notifica non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, l’organo competente per la notificazione consegna la copia dell’atto da notificare, fatta eccezione per il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, dopo averla inserita in busta che provvede a sigillare trascrivendovi il numero cronologico della notificazione e dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto.»;
  10. l’articolo 149 è sostituito dal seguente:

«Art. 149

(Notificazioni urgenti a mezzo del telefono e del telegrafo)

  1. Quando nei casi previsti dall’articolo 148, comma 4, ricorre una situazione di urgenza, il giudice o il pubblico ministero dispongono, anche su richiesta di parte, che le persone diverse dall’imputato siano avvisate o convocate a mezzo del telefono a cura, rispettivamente, della cancelleria o della segreteria.
  2. Dell’attività svolta è redatta attestazione che viene inserita nel fascicolo, nella quale si dà atto del numero telefonico chiamato, del nome, delle funzioni o delle mansioni svolte dalla persona che riceve la comunicazione, del suo rapporto con il destinatario e dell’ora della telefonata.
  3. Alla comunicazione si procede chiamando il numero telefonico corrispondente ai luoghi indicati nell’articolo 157, commi 1 e 2, o il numero indicato dal destinatario o che dagli atti risulta in uso allo stesso. Essa non ha effetto se non è ricevuta dal destinatario, da persona che conviva anche temporaneamente col medesimo ovvero che sia al servizio del destinatario.
  4. La comunicazione telefonica ha valore di notificazione con effetto dal momento in cui è avvenuta, sempre che della stessa sia data immediata conferma al destinatario mediante telegramma o, in alternativa, mediante comunicazione all’indirizzo di posta elettronica indicato dallo stesso.
  5. Quando non è possibile procedere nel modo indicato nei commi precedenti, la notificazione è eseguita, per estratto, mediante telegramma.»;
  6. all’articolo 152, al comma 1, dopo le parole: «essere sostituite» sono inserite le seguenti: «dalla notificazione con modalità telematiche eseguita dal difensore a mezzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato ovvero» e dopo le parole «dell’atto» sono inserite le seguenti: «in forma di documento analogico»;
  7. all’articolo 153:
  • al comma 1:
  1. al primo periodo, la parola: «anche» è sostituita dalle seguenti: «con le modalità previste dall’articolo 148, comma 1, e, nei casi indicati dall’articolo 148, comma 4,» e dopo le parole: «dell’atto» sono inserite le seguenti: «in forma di documento analogico»;
  2. al secondo periodo, la parola: «Il» è sostituita dalle seguenti: «In tale ultimo caso, il»;
  • al comma 2, secondo periodo, la parola: «Il» è sostituita dalle seguenti: «In tal caso, il»;
  1. dopo l’articolo 153 è inserito il seguente:

«Art. 153-bis

(Domicilio del querelante. Notificazioni al querelante.)

  1. La persona offesa che abbia proposto querela, nella dichiarazione di querela e con le forme previste per la stessa, ha l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento. Per assolvere all’obbligo di dichiarazione di domicilio, il querelante può dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.
  2. Il querelante ha comunque facoltà di dichiarare o eleggere domicilio anche successivamente alla formulazione della querela, con dichiarazione raccolta a verbale o depositata con le modalità telematiche previste dall’articolo 111-bis, ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da persona autorizzata o dal difensore. La dichiarazione può essere effettuata anche presso la segreteria del pubblico ministero procedente o presso la cancelleria del giudice procedente.
  3. In caso di mutamento del domicilio dichiarato o eletto, il querelante ha l’obbligo di comunicare all’autorità procedente, con le medesime modalità previste dal comma 2, il nuovo domicilio dichiarato o eletto.
  4. Le notificazioni al querelante sono eseguite presso il domicilio dichiarato o eletto.
  5. Quando la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee, le notificazioni alla persona offesa che abbia proposto querela sono eseguite presso il difensore nominato ovvero, nel caso in cui il querelante non abbia nominato un difensore, mediante deposito dell’atto da notificare nella segreteria del pubblico ministero procedente o nella cancelleria del giudice procedente.»;
  6. all’articolo 154:
  • al comma 1:
  1. al primo periodo, la parola: «Le» è sostituita dalle seguenti: «Salvo quanto previsto dall’articolo 153-bis, nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, le» e dopo la parola: «eseguite», sono inserite le seguenti: «, salvo che la stessa abbia eletto o dichiarato domicilio,»;
  2. al terzo periodo, le parole: «o di dimora» sono sostituite dalle seguenti: «di dimora o di lavoro abituale» e dopo la parola: «Stato» sono aggiunte le seguenti: «, oppure a dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato»;
  3. al quarto periodo, le parole: «la dichiarazione o l’elezione» sono sostituite dalle seguenti: «alcuna dichiarazione o elezione» e dopo la parola: «nella» sono aggiunte le seguenti: «segreteria o nella»;
  4. dopo il quarto periodo è inserito il seguente: «Alla dichiarazione o alla elezione di domicilio si applicano le disposizioni di cui all’articolo 153-bis, commi da 1 a 6»
  • al comma 2, dopo la parola: «eseguita» sono aggiunte le seguenti: «, nei casi di cui all’articolo 148, comma 4,»;
  • al comma 4:
  1. al secondo periodo, le parole: «devono dichiarare o eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede con atto ricevuto nella cancelleria del giudice competente» sono sostituite dalle seguenti: «, quando non dispongono di un domicilio digitale, devono dichiarare o eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede o dichiarare un indirizzo di posta certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, con atto depositato nella cancelleria del giudice competente»;
  2. al terzo periodo, le parole: «nella cancelleria» sono sostituite dalle seguenti: «in cancelleria o in segreteria»;
  3. all’articolo 155, il comma 1 è sostituito dal seguente: « Quando per il numero dei destinatari o per l’impossibilità di identificarne alcuni, la notificazione nelle forme ordinarie alle persone offese risulti difficile, l’autorità giudiziaria può disporre, con decreto, che la notificazione sia eseguita mediante pubblicazione dell’atto nel sito internet del Ministero della giustizia. Nel decreto da notificare unitamente all’atto sono designati, quando occorre, i destinatari nei cui confronti la notificazione deve essere eseguita nelle forme ordinarie e sono indicati i modi che appaiono opportuni per portare l’atto a conoscenza degli altri interessati.»;
  4. all’articolo 156:
  • al comma 1, dopo la parola: «detenuto» sono aggiunte le seguenti: «, anche successive alla prima,» e dopo la parola: «sono» è inserita la seguente: «sempre»;
  • al comma 3, dopo la parola: «penitenziari» sono inserite le seguenti: «, anche successive alla prima,» e dopo la parola: «157» sono inserite le seguenti: «, con esclusione delle modalità di cui all’articolo 148, comma 1»;
  1. all’articolo 157:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: « Nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, la prima notificazione all’imputato non detenuto, che non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01, è eseguita mediante consegna di copia dell’atto in forma di documento analogico alla persona. Se non è possibile consegnare personalmente la copia, la notificazione è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa, mediante consegna a una persona che conviva anche temporaneamente ovvero addetta alla casa ovvero al servizio del destinatario o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. In caso di notifica nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa, se non è possibile consegnare personalmente la copia, la consegna è eseguita al datore di lavoro o ad una persona addetta alla ricezione degli atti.»;
  • al comma 6, la parola «3» è sostituita dalla seguente: «8»;
  • al comma 8, al terzo periodo, le parole «dà inoltre comunicazione all’imputato dell’avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento» sono sostituite dalle seguenti: «, inoltre, invia copia dell’atto, provvedendo alla relativa annotazione sull’originale e sulla copia, tramite lettera raccomandata con avviso di ricevimento nel luogo di residenza anagrafica o di dimora dell’imputato»;
  • dopo il comma 8-bis sono aggiunti i seguenti: «8-ter. Con la notifica del primo atto, anche quando effettuata con le modalità di cui all’articolo 148, comma 1, l’autorità giudiziaria avverte l’imputato, che non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01, che le successive notificazioni, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio. Avverte, inoltre, il destinatario dell’atto dell’onere di indicare al difensore ogni recapito telefonico o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché di informarlo di ogni loro successivo mutamento.

8-quater. L’omessa o ritardata comunicazione del difensore al proprio assistito dell’atto notificato, imputabile al fatto di quest’ultimo, non costituisce inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale.»;

  1. dopo l’articolo 157, sono inseriti i seguenti:

«Art. 157-bis

(Notifiche successive alla prima)

  1. Tutte le notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, sono eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio.
  2. Se l’imputato è assistito da un difensore di ufficio, nel caso in cui la prima notificazione sia avvenuta consegnando copia dell’atto a persona diversa dallo stesso imputato o da persona che con lui conviva, anche temporaneamente, o dal portiere o da chi ne fa le veci e l’imputato non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01, le notificazioni successive non possono essere effettuate al difensore. In questo caso anche le notificazioni successive alla prima sono effettuate con le modalità di cui all’articolo 157 sino a quando non si realizzano le condizioni previste al periodo che precede.»:

«Art. 157-ter

(Notifiche degli atti introduttivi del giudizio)

  1. La notificazione all’imputato non detenuto dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna sono effettuate al domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’articolo 161, comma 1. In mancanza di un domicilio dichiarato o eletto, la notificazione è eseguita nei luoghi e con le modalità di cui all’articolo 157, con esclusione delle modalità di cui all’articolo 148, comma 1.
  2. Quando sia necessario per evitare la scadenza del termine di prescrizione del reato o il decorso del termine di improcedibilità di cui all’articolo 344-bis oppure sia in corso di applicazione una misura cautelare ovvero in ogni altro caso in cui sia ritenuto indispensabile e improcrastinabile sulla base di specifiche esigenze, l’autorità giudiziaria può disporre che la notificazione all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione a giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna sia eseguita dalla polizia giudiziaria.
  3. In caso di impugnazione proposta dall’imputato o nel suo interesse, la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti è sempre eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto, ai sensi dell’articolo 581, commi 1-ter e 1quater.»:
  4. all’articolo 159, al comma 1:
  • al primo periodo, la parola «Se» è sostituita dalle seguenti: «Nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, se» e le parole «le notificazioni» sono sostituite dalle seguenti: «la prima notificazione»;
  • al secondo periodo, le parole: «la notificazione sia eseguita» sono sostituite dalle seguenti: «le notificazioni siano eseguite»;
  1. all’articolo 160, al comma 1, le parole: «pronuncia del provvedimento che definisce l’udienza preliminare» sono sostituite dalle seguenti: «notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ovvero, quando questo»;
  2. all’articolo 161:
  • prima del comma 1, è inserito il seguente: «01. La polizia giudiziaria nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, se è nelle condizioni di indicare le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto e l’autorità giudiziaria procedente, li avverte che le successive notificazioni, diverse da quelle riguardanti l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, la citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601 e il decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio. Contestualmente la persona sottoposta alle indagini o l’imputato sono avvertiti che è loro onere indicare al difensore ogni recapito, anche telefonico, o indirizzo di posta elettronica nella loro disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché informarlo di ogni loro successivo mutamento.»;
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato non detenuto né internato li invitano a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna. Contestualmente la persona sottoposta alle indagini o l’imputato sono avvertiti che hanno l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, nonché nel caso in cui il domicilio sia o divenga inidoneo, le notificazioni degli atti indicati verranno eseguite mediante consegna al difensore, già nominato o che è contestualmente nominato, anche d’ufficio.»;
  • dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. Della dichiarazione o della elezione di domicilio, ovvero del rifiuto di compierla, nonché degli avvertimenti indicati nei commi 1 e 2 è fatta menzione nel verbale.»;
  • al comma 3, al primo periodo, dopo le parole: «dell’istituto.» sono aggiunte le seguenti: «, che procede a norma del comma 1» e il secondo periodo è sostituito dal seguente: «La dichiarazione o elezione sono iscritte nell’apposito registro e il verbale è trasmesso immediatamente all’autorità che ha disposto la scarcerazione o la dimissione.»;
  • al comma 4, il primo periodo è soppresso ed il secondo periodo è sostituito dal seguente: «Nei casi previsti dai commi 1 e 3, se la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore.»;
  • dopo il comma 4, è aggiunto il seguente: «4-bis. Nei casi di cui ai commi 1 e 3 l’elezione di domicilio presso il difensore è immediatamente comunicata allo stesso.»;
  1. all’articolo 162:
  • al comma 1, dopo le parole: «che procede,» sono inserite le seguenti: «con le modalità previste dall’articolo 111-bis o»;
  • al comma 4-bis, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: «Nella medesima dichiarazione il difensore attesta anche l’avvenuta comunicazione da parte sua all’imputato della mancata accettazione della domiciliazione o le cause che hanno impedito tale comunicazione.»;
  1. all’articolo 163, le parole: «dell’articolo» sono sostituite dalle seguenti: «degli articoli 148 e»;
  2. all’articolo 164, le parole: «per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1.»;
  3. all’articolo 165, dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1- Le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601 sono eseguite mediante consegna al difensore solo nel caso in cui non si è perfezionata la notificazione disposta con le modalità indicate dall’articolo 161 o dai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 157 per l’imputato evaso o sottrattosi alla custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, nonché anche con le modalità indicate ai commi 4, 5 e 6 del medesimo articolo per l’imputato sottrattosi alle misure cautelari dell’obbligo di dimora o del divieto di espatrio.»;
  4. all’articolo 167 il comma 1 è sostituito dal seguente: «.1. Le notificazioni a soggetti diversi da quelli indicati negli articoli precedenti si eseguono a norma dell’articolo 148, comma 1. Nel caso previsto dal comma 4 dell’articolo 148, si eseguono a norma dell’articolo 157, commi 1, 2, 3, 4 e 8, salvi i casi di urgenza previsti dall’articolo 149.»;
  5. all’articolo 168, al comma 1, la parola: «Salvo» è sostituita dalle seguenti: «Per le notificazioni effettuate con modalità telematiche la ricevuta di avvenuta consegna, generata dal sistema, assume valore di relazione di notificazione. Quando la notificazione non è eseguita con modalità telematiche, salvo»;
  6. all’articolo 169, il comma 1 è sostituito dal seguente: « Quando l’autorità giudiziaria non può procedere alla notificazione con modalità telematiche e risulta dagli atti notizia precisa del luogo di residenza o di dimora all’estero della persona nei cui confronti si deve procedere ovvero del luogo in cui all’estero la stessa esercita abitualmente l’attività lavorativa, il giudice o il pubblico ministero le invia raccomandata con avviso di ricevimento, contenente l’indicazione della autorità che procede, del titolo del reato e della data e del luogo in cui è stato commesso, nonché l’invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato ovvero a dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata. Se nel termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata o della comunicazione telematica non viene effettuata la dichiarazione o l’elezione di domicilio ovvero se la stessa è insufficiente o risulta inidonea, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore.»;
  7. all’articolo 170, al comma 1 la parola: «Le» è sostituita dalle seguenti: «Nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, e ai fini di cui all’articolo 157-ter, le»;
  8. all’articolo 171, al comma 1:
  • alla lettera b), dopo la parola: «privata» sono inserite le seguenti: «mittente o»;
  • dopo la lettera b), è inserita la seguente: «b-bis) se, in caso di notificazione eseguita con modalità telematiche non sono rispettati i requisiti di cui al comma 1 dell’articolo 148;»;
  • alla lettera c), dopo la parola: «notificata» sono inserite le seguenti: «con modalità non telematiche»;
  • alla lettera e), le parole: «dall’articolo 161 commi 1, 2, 3» sono sostituite dalle seguenti: «dagli articoli 157, comma 8-ter, e 161, commi 01, 1 e 3»;
  • alla lettera f), le parole: «data la comunicazione» sono sostituite dalle seguenti: «inviata copia dell’atto con le modalità» e la parola: «prescritta» è sostituita dalla parola: «prescritte»;
  • la lettera h) è soppressa.

ART. 11

(Modifiche al Titolo VI del Libro II del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo VI del Libro II del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 172, dopo il comma 6, sono aggiunti i seguenti: «6-bis. Il termine per fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere altri atti in un ufficio giudiziario con modalità telematiche si considera rispettato se l’accettazione da parte del sistema informatico avviene entro le ore 24 dell’ultimo giorno utile.

6-ter. Salvo che non sia diversamente stabilito, i termini decorrenti dal deposito telematico, quando lo stesso è effettuato fuori dell’orario di ufficio stabilito dal regolamento, si computano dalla data della prima apertura immediatamente successiva dell’ufficio»;

  1. all’articolo 175:
  • dopo il comma 2, è inserito il seguente: «2.1. L’imputato giudicato in assenza è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato se, nei casi previsti dall’articolo 420-bis, commi 2 e 3, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa.»;
  • al comma 2-bis, le parole: «al comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «ai commi 2 e 2.1»;
  • dopo il comma 8, è aggiunto il seguente: «8-bis. Se la restituzione nel termine è concessa a norma del comma 2.1, non si tiene conto, ai fini della improcedibilità di cui all’articolo 344-bis, del tempo intercorso tra il novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’articolo 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, e la notificazione alla parte dell’avviso di deposito dell’ordinanza che concede la restituzione.»;
  1. dopo l’articolo 175, è inserito il seguente:

«Art. 175-bis

(Malfunzionamento dei sistemi informatici)

  1. Il malfunzionamento dei sistemi informatici dei domini del Ministero della giustizia è certificato dal direttore generale per i servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, attestato sul portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia e comunicato dal dirigente dell’ufficio giudiziario, con modalità tali da assicurarne la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati. Il ripristino del corretto funzionamento è certificato, attestato e comunicato con le medesime modalità.
  2. Le certificazioni, attestazioni e comunicazioni di cui al comma 1 contengono l’indicazione della data dell’inizio e della fine del malfunzionamento, registrate, in relazione a ciascun settore interessato, dal direttore generale per i servizi informativi del Ministero della giustizia.
  3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, a decorrere dall’inizio e sino alla fine del malfunzionamento dei sistemi informatici, atti e documenti sono redatti in forma di documento analogico e depositati con modalità non telematiche, fermo quanto disposto dagli articoli 110, comma 4, e 111-ter, comma 4.

4.La disposizione di cui al comma 3 si applica, altresì, nel caso di malfunzionamento del sistema non certificato ai sensi del comma 1, accertato ed attestato dal dirigente dell’ufficio giudiziario, e comunicato con modalità tali da assicurare la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati della data di inizio e della fine del malfunzionamento.

  1. Se la scadenza di un termine previsto a pena di decadenza si verifica nel periodo di malfunzionamento certificato ai sensi dei commi 1 e 2 o accertato ai sensi del comma 4, si applicano le disposizioni dell’articolo 175.».

CAPO III

Modifiche al Libro III del codice di procedura penale

 

ART. 12

(Modifiche al Titolo III del Libro III del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro III del codice di procedura penale, dopo l’articolo 252, è inserito il seguente:

«Art. 252-bis

(Opposizione al decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero)

  1. Salvo che alla perquisizione sia seguito il sequestro, contro il decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e la persona nei cui confronti la perquisizione è stata disposta o eseguita possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede a norma dell’articolo 127.
  2. L’opposizione è proposta, a pena di decadenza, entro dieci giorni dalla data di esecuzione del provvedimento o dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuta perquisizione.
  3. Il giudice accoglie l’opposizione quando accerta che la perquisizione è stata disposta fuori dei casi previsti dalla legge.».

CAPO IV

Modifiche al Libro IV del codice di procedura penale

 

Art. 13

(Modifiche al Titolo I del Libro IV del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo I del Libro IV del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 293, al comma 1, dopo la lettera i) è aggiunta la seguente: «i-bis) della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa;»;
  3. all’articolo 294:
  • al comma 4, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il giudice può autorizzare la persona sottoposta a misura cautelare e il difensore che ne facciano richiesta a partecipare a distanza all’interrogatorio.»;
  • al comma 5, dopo le parole: «procedere personalmente», sono inserite le seguenti: «e non sia possibile provvedere ai sensi del terzo periodo del comma 4,»;
  • dopo il comma 6, è inserito il seguente: «6-bis. Alla documentazione dell’interrogatorio si procede anche con mezzi di riproduzione audiovisiva o, se ciò non è possibile a causa della contingente indisponibilità di mezzi di riproduzione audiovisiva o di personale tecnico, con mezzi di riproduzione fonografica. È fatta salva l’applicazione dell’articolo 133-ter, comma 3, terzo periodo, nei casi in cui è autorizzata la partecipazione a distanza all’interrogatorio.»;
  1. all’articolo 295, al comma 2, dopo le parole: «nei casi previsti» sono sostituite dalle seguenti: «nei casi e con le modalità previste» e dopo la parola: «latitanza» sono aggiunte le seguenti: «, altrimenti dispone la prosecuzione delle ricerche»;
  2. all’articolo 296:
  • al comma 2, prima delle parole: «Con il provvedimento» sono inseriti i seguenti periodi: «La latitanza è dichiarata con decreto motivato. Se la dichiarazione consegue alla mancata esecuzione di un’ordinanza applicativa di misure cautelari, nel decreto sono indicati gli elementi che provano l’effettiva conoscenza della misura e la volontà di sottrarvisi.»;
  • dopo il comma 4 è inserito il seguente: «4-bis. Quando il provvedimento che ha dato causa alla dichiarazione di latitanza è eseguito, se il processo è in corso, all’imputato è comunicata la data dell’udienza.»;
  1. all’articolo 300:
  • nella rubrica, dopo la parola: «Estinzione» è inserita la seguente «o sostituzione»;
  • dopo il comma 4, è inserito il seguente: «4-bis. Quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna o sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444, ancorché sottoposta a impugnazione, alla pena pecuniaria sostitutiva o al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, di cui alla legge 24 novembre 1981 n. 689, non può essere mantenuta la custodia cautelare. Negli stessi casi, quando è pronunciata sentenza di condanna o sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 alla pena della detenzione domiciliare sostitutiva, non può essere mantenuta la custodia cautelare in carcere. In ogni caso, il giudice può sostituire la misura in essere con un’altra meno grave di cui ricorrono i presupposti, ai sensi dell’articolo 299.»;
  1. all’articolo 304, al comma 1:
  • alla lettera c-bis), dopo le parole: «commi 2 e 3» il segno di interpunzione «.» è sostituito dal seguente: «;»;
  • dopo la lettera c-bis) è inserita la seguente: «c-ter) nei casi previsti dall’articolo 545-bis, comma 1, durante il tempo intercorrente tra la lettura del dispositivo e l’udienza fissata per la decisione sulla eventuale sostituzione della pena detentiva con una pena sostitutiva ai sensi dell’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 681; in tal caso, la sospensione dei termini previsti dall’articolo 303 non può comunque avere durata superiore a sessanta giorni.»;
  1. all’articolo 309, al comma 4, le parole: «dagli articoli 582 e 583» sono sostituite dalle seguenti: «dall’articolo 582» e, al comma 8bis, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «o, quando una particolare disposizione di legge lo prevede, di partecipare a distanza. Il presidente può altresì disporre la partecipazione a distanza dell’imputato che vi consenta.»;
  2. all’articolo 311, al comma 3, dopo il primo periodo, è inserito il seguente: «Si osservano le forme previste dall’articolo 582.».

Art. 14

(Modifiche al Titolo II del Libro IV del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro IV del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 316, comma 1, le parole: «della pena pecuniaria,» sono soppresse;
  3. all’articolo 317, comma 4, nel primo periodo, la parola: «Gli» è sostituita dalle seguenti: «Salvo quanto disposto dal comma 1-ter dell’articolo 578, gli»;
  4. all’articolo 320:
  • al comma 1, le parole: «diventa irrevocabile la sentenza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria ovvero quando» sono soppresse;
  • al comma 2, all’ultimo periodo, le parole: «le pene pecuniarie,» sono soppresse.

 

CAPO V

Modifiche al Libro V del codice di procedura penale

 

ART. 15

(Modifiche al Titolo II del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro V del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 335:
  • al comma 1, le parole: «nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.» sono sostituite dalle seguenti: «, contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice. Nell’iscrizione sono indicate, ove risultino, le circostanze di tempo e di luogo del fatto.»;
  • dopo il comma 1, sono inseriti i seguenti: «1-bis. Il pubblico ministero provvede all’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito non appena risultino, contestualmente all’iscrizione della notizia di reato o successivamente, indizi a suo carico.

1-ter. Quando non ha provveduto tempestivamente ai sensi dei commi 1 e 1-bis, all’atto di disporre l’iscrizione il pubblico ministero può altresì indicare la data anteriore a partire dalla quale essa deve intendersi effettuata.»;

  1. dopo l’articolo 335, sono inseriti i seguenti:

«Art. 335-bis

(Limiti all’efficacia dell’iscrizione ai fini civili e amministrativi)

  1. La mera iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito.

Art. 335-ter

(Ordine di iscrizione del nome della persona sottoposta ad indagini)

  1. Quando deve compiere un atto del procedimento, il giudice per le indagini preliminari, se ritiene che il reato per cui si procede debba essere attribuito a una persona che non è stata ancora iscritta nel registro delle notizie di reato, sentito il pubblico ministero, gli ordina con decreto motivato di provvedere all’iscrizione.
  2. Il pubblico ministero provvede all’iscrizione, indicando la data a partire dalla quale decorrono i termini delle indagini. Resta salva la facoltà di proporre la richiesta di cui all’articolo 335-quater.

Art. 335-quater

(Accertamento della tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato)

  1. La persona sottoposta alle indagini può chiedere al giudice di accertare la tempestività dell’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 della notizia di reato che la riguarda e del suo nome, con richiesta di retrodatazione che indichi, a pena di inammissibilità, le ragioni che la sorreggono e gli atti del procedimento dai quali è desunto il ritardo.
  2. La retrodatazione è disposta dal giudice quando il ritardo è inequivocabile e non è giustificato.
  3. La richiesta di retrodatazione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro venti giorni da quello in cui la persona sottoposta alle indagini ha avuto facoltà di prendere conoscenza degli atti che dimostrano il ritardo nell’iscrizione. Ulteriori richieste sono ammissibili soltanto se proposte nello stesso termine e fondate su atti diversi, in precedenza non conoscibili.
  4. Salvo quanto disposto dal comma 5, la richiesta è proposta al giudice che procede o, nel corso delle indagini preliminari, al giudice per le indagini preliminari.
  5. Durante le indagini preliminari, quando il giudice deve adottare una decisione con l’intervento del pubblico ministero e della persona sottoposta alle indagini e la retrodatazione è rilevante ai fini della decisione, la richiesta può anche essere presentata nell’ambito del relativo procedimento e trattata e decisa nelle forme di questo.
  6. Salvo che sia proposta in udienza oppure ai sensi del comma 5, la richiesta è depositata presso la cancelleria del giudice, con la prova dell’avvenuta notificazione al pubblico ministero. Il pubblico ministero, entro sette giorni, può depositare memorie e il difensore del richiedente può prenderne visione ed estrarne copia. Entrambe le parti hanno facoltà di depositare ulteriori memorie entro i sette giorni successivi. Decorso tale ultimo termine, il giudice, se ritiene che non sia necessario un contraddittorio orale, provvede sulla richiesta; altrimenti, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio, dandone avviso al pubblico ministero e al difensore del richiedente. All’udienza, il pubblico ministero e il difensore sono sentiti se compaiono. La decisione è adottata con ordinanza.
  7. Nel corso dell’udienza preliminare o del giudizio, se non è proposta in udienza, la richiesta è depositata nella cancelleria del giudice e viene trattata e decisa in udienza.
  8. In caso d’accoglimento della richiesta, il giudice indica la data nella quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.
  9. Fermo quanto disposto nel secondo periodo del comma 3, la parte la cui richiesta di retrodatazione è stata respinta ovvero, in caso di accoglimento della richiesta, il pubblico ministero e la parte civile possono, a pena di decadenza, chiedere che la questione sia nuovamente esaminata prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manca, entro il termine previsto dall’articolo 491, comma 1. Nel dibattimento preceduto da udienza preliminare, la domanda di nuovo esame della richiesta di retrodatazione può essere proposta solo se già avanzata nell’udienza preliminare.
  10. L’ordinanza del giudice dibattimentale può essere impugnata nei casi e nei modi previsti dai primi due commi dell’articolo 586.».

ART. 16

(Modifiche al Titolo III del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro V del codice di procedura penale, all’articolo 344 – bis, comma 6, terzo periodo, dopo le parole: «dell’articolo 159», sono inserite le seguenti: «o dell’articolo 598- ter, comma 2,».

ART. 17

(Modifiche al Titolo IV del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Libro V, Titolo IV, del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 349, al comma 3, dopo le parole: «1’articolo 161» sono inserite le seguenti: «nonché ad indicare il recapito della casa di abitazione, del luogo in cui esercita abitualmente l’attività lavorativa e dei luoghi in cui ha temporanea dimora o domicilio, oltre che ad indicare i recapiti telefonici o gli indirizzi di posta elettronica nella sua disponibilità.»;
  3. all’articolo 350, dopo il comma 4, è inserito il seguente: «4-bis. Quando la persona sottoposta alle indagini e il difensore vi consentono, il pubblico ministero, su richiesta della polizia giudiziaria, può autorizzare lo svolgimento dell’atto a distanza. Si osservano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 133-ter.»;
  4. all’articolo 351, dopo il comma 1-ter, è inserito il seguente: «1-quater. Alla persona chiamata a rendere sommarie informazioni è sempre dato avviso che, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione, ha diritto di ottenere, ove ne faccia richiesta, che le dichiarazioni rese siano documentate mediante riproduzione fonografica»;
  5. all’articolo 352:
  • al comma 4, il secondo periodo è sostituito dal seguente: «Il pubblico ministero, nelle quarantotto ore successive, decide con decreto motivato sulla convalida della perquisizione.»;
  • dopo il comma 4, è aggiunto il seguente: «4-bis. Salvo che alla perquisizione sia seguito il sequestro, entro dieci giorni dalla data in cui hanno avuto conoscenza del decreto di convalida, la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e la persona nei cui confronti la perquisizione è stata disposta o eseguita possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede a norma dell’articolo 127. Si applica la disposizione di cui all’articolo 252-bis, comma 3.»;
  1. all’articolo 357, dopo il comma 3, sono inseriti i seguenti: «3-bis. Quando le indagini riguardano taluno dei delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), oppure quando la persona informata sui fatti ne faccia richiesta, alla documentazione delle informazioni di cui al comma 2, lettera c), si procede altresì mediante riproduzione fonografica a mezzo di strumenti tecnici idonei ad opera della polizia giudiziaria, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione.

3-  ter. Le dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente o in condizioni di particolare vulnerabilità sono documentate integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica, salvo che si verifichi una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione e sussistano particolari ragioni di urgenza che non consentano di rinviare l’atto.

3- quater. La trascrizione della riproduzione audiovisiva o fonografica di cui ai commi 3- bis e 3- ter è disposta solo se assolutamente indispensabile e può essere effettuata dalla polizia giudiziaria.».

ART. 18

(Modifiche al Titolo V del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo V del Libro V del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 360, dopo il comma 3, è inserito il seguente: «3-bis. Il pubblico ministero può autorizzare la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato, i difensori e i consulenti tecnici eventualmente nominati, che ne facciano richiesta, a partecipare a distanza al conferimento dell’incarico o agli accertamenti.»;
  3. all’articolo 362, dopo il comma 1-ter, è inserito il seguente: «1-quater. Alla persona chiamata a rendere sommarie informazioni è sempre dato avviso che, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione, ha diritto di ottenere, ove ne faccia richiesta, che le dichiarazioni rese siano documentate mediante riproduzione fonografica.»;
  4. all’articolo 369:
  • al comma 1, le parole: «invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno,» sono sostituite dalla seguente: «notifica»;
  • dopo il comma 1-bis, è inserito il seguente: «1-ter. Il pubblico ministero avvisa inoltre la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  1. all’articolo 370:
  • dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. Quando la persona sottoposta alle indagini e il difensore vi consentono, il pubblico ministero può disporre che l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini si svolga a distanza. Allo stesso modo, il pubblico ministero provvede nei casi in cui il compimento dell’interrogatorio è delegato alla polizia giudiziaria ai sensi del comma 1.»;
  • al comma 2, dopo le parole: «365 e 373», sono aggiunte le seguenti: «e, nel caso di cui al comma 1- bis, le disposizioni dell’articolo 133-ter in quanto compatibili.»;
  • al comma 3, dopo le parole: «altro tribunale,» le parole: «pubblico ministero,» sono soppresse e dopo le parole: «procedere personalmente» sono inserite le seguenti: «e, nei casi di interrogatorio, di provvedere ai sensi del comma 1-bis, il pubblico ministero»;
  1. all’articolo 373,
  • al comma 1, lettera d), la parola: «sommarie» è soppressa;
  • dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti: «2-bis. Alla documentazione degli interrogatori di cui al comma 1, lettere b) e d-bis), si procede anche con mezzi di riproduzione audiovisiva o, se ciò non è possibile a causa della contingente indisponibilità di mezzi di riproduzione audiovisiva o di personale tecnico, con mezzi di riproduzione fonografica.

2- ter. Quando le indagini riguardano taluno dei delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), oppure quando la persona informata sui fatti ne faccia richiesta, alla documentazione delle informazioni di cui al comma 1, lettera d), si procede altresì mediante riproduzione fonografica, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico.

2- quater. Le dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente o in condizioni di particolare vulnerabilità sono documentate integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica, salvo che si verifichi una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico e sussistano particolari ragioni di urgenza che non consentano di rinviare l’atto.

2- quinquies. La trascrizione della riproduzione audiovisiva o fonografica di cui ai commi 2-bis e 2-ter è disposta solo se assolutamente indispensabile e può essere effettuata anche dalla polizia giudiziaria che assiste il pubblico ministero.».

ART. 19

(Modifiche al Titolo VI del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo VI del Libro V del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 386:
  • al comma 1, dopo la lettera i) è aggiunta la seguente: «i- bis) della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  • dopo il comma 1 bis, è inserito il seguente: «1- ter. La comunicazione scritta di cui al comma 1 viene allegata agli atti in forma di documento informatico. Se l’originale è redatto in forma di documento analogico, si osservano le disposizioni degli articoli 110, comma 4, e 111-ter, comma 3»;
  1. all’articolo 391, comma 1, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: «Quando l’arrestato, il fermato o il difensore ne fanno richiesta, il giudice può autorizzarli a intervenire a distanza.».

ART. 20

(Modifiche al Titolo VI bis del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo VI bis del Libro V del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 391-ter, dopo il comma 3, sono aggiunti i seguenti: «3-bis. Le informazioni di cui al comma 3 sono documentate anche mediante riproduzione fonografica, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione.

3-ter. Le dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente o in condizioni di particolare vulnerabilità sono documentate integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica, salvo che si verifichi una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione e sussistano particolari ragioni di urgenza che non consentano di rinviare l’atto.

3- quater. La trascrizione della riproduzione audiovisiva o fonografica di cui ai commi 3- bis e 3- ter è disposta solo se assolutamente indispensabile.»;

  1. all’articolo 391-octies, comma 3, il primo periodo è sostituito dai seguenti: «La documentazione di cui ai commi 1 e 2 è inserita nella parte del fascicolo informatico riservata al difensore. I documenti redatti e depositati in forma di documento analogico sono conservati presso l’ufficio del giudice per le indagini preliminari.».

ART. 21

(Modifiche al Titolo VII del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo VII del Libro V del codice di procedura penale, all’articolo 401, comma 5, dopo la parola «assunte» sono inserite le seguenti: «e documentate».

ART. 22

(Modifiche al Titolo VIII del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo VIII del Libro V del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 405:
  • la rubrica è sostituita dalla seguente: «Termini per la conclusione delle indagini preliminari.»;
  • il comma 2 è sostituito dal seguente: «Salvo quanto previsto dagli articoli 406 e 415- bis, il pubblico ministero conclude le indagini preliminari entro il termine di un anno dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato. Il termine è di sei mesi, se si procede per una contravvenzione, e di un anno e sei mesi, se si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2.»;
  1. all’articolo 406:
  • al comma 1, le parole: «per giusta causa» sono sostituite dalle seguenti: «quando le indagini sono complesse»;
  • il comma 2 è sostituito dal seguente: «la proroga non può essere autorizzata per più di una volta, né per un tempo complessivamente superiore a sei mesi.»;
  • nella rubrica le parole: «del termine» sono sostituite dalle seguenti: «dei t»;
  1. all’articolo 407:
  • al comma 1, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «o, se si procede per una contravvenzione, un anno»;
  • il comma 3 è sostituito dal seguente: «Salvo quanto previsto dall’articolo 415- bis, non possono essere utilizzati gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine per la conclusione delle indagini preliminari stabilito dalla legge o prorogato dal giudice.»;
  1. dopo l’articolo 407, è inserito il seguente:

«Art. 407-bis

(Inizio dell’azione penale. Forme e termini)

  1. Il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, nei casi previsti nei titoli II, III, IV, V e V- bis del libro VI ovvero con richiesta di rinvio a giudizio.
  2. Il pubblico ministero esercita l’azione penale o richiede l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine di cui all’articolo 405, comma 2, o, se ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, entro tre mesi dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415-bis, comma 3 e 4. Il termine è di nove mesi nei casi di cui all’articolo 407, comma 2.»
  3. all’articolo 408:
  • al comma 1, le parole: «Entro i termini previsti dagli articoli precedenti, il pubblico ministero, se la notizia di reato è infondata» sono sostituite dalle seguenti: «Quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il pubblico ministero»;
  • al comma 2, le parole: «L’avviso» sono sostituite dalle seguenti: «Fuori dei casi di rimessione della querela, l’avviso»;
  • al comma 3, dopo il primo periodo, è aggiunto il seguente: «Nell’avviso è indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  1. all’articolo 409, comma 2, dopo il primo periodo, è inserito il seguente: «Nell’avviso è indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  2. all’articolo 412:
  • al comma 1, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Il procuratore generale presso la corte d’appello può disporre, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari, se il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, oppure non ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407- bis, comma 2, 415- bis, comma 5-quinquies, 415-ter, comma 3.» e, dopo il secondo periodo, è aggiunto il seguente: «Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 415- bis, commi 5-quater e 5-quinquies, e 415-ter, commi 1 e 3.»;
  • al comma 2, le parole: «della comunicazione prevista dall’articolo 409, comma 3» sono sostituite dalle seguenti: «delle comunicazioni previste dagli articoli 409, comma 3, e 415-bis, comma 5-quater.»;
  1. all’articolo 414:
  • al comma 1, dopo il primo periodo, è aggiunto il seguente: «La richiesta di riapertura delle indagini è respinta quando non è ragionevolmente prevedibile la individuazione di nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare l’esercizio dell’azione penale.»;
  • dopo il comma 2, è aggiunto il seguente: «2-bis. Gli atti di indagine compiuti in assenza di un provvedimento di riapertura del giudice sono inutilizzabili.»;
  1. all’articolo 415, al comma 2, il secondo periodo è soppresso;
  2. all’articolo 415-bis:
  • al comma 1, la parola: «Prima» è sostituita dalle seguenti: «Salvo quanto previsto dai commi 5-bis e 5-ter, prima»;
  • al comma 3, dopo il secondo periodo, è aggiunto il seguente: «L’avviso contiene inoltre l’informazione della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa»;
  • al comma 5, le parole: «per l’esercizio dell’azione penale o per la richiesta di archiviazione» sono sostituite dalle seguenti: «previsto dal comma 2 dell’articolo 405»;
  • dopo il comma 5, sono inseriti i seguenti: «5-bis. Il pubblico ministero, prima della scadenza del termine previsto dal comma 2 dell’articolo 405, può presentare richiesta motivata di differimento della notifica dell’avviso di cui al comma 1 al procuratore generale presso la corte di appello:
  1. a) quando è stata richiesta l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari e il giudice non ha ancora provveduto o quando, fuori dai casi di latitanza, la misura applicata non è stata ancora eseguita;
  2. b) quando la conoscenza degli atti d’indagine può concretamente mettere in pericolo la vita o l’incolumità di una persona o la sicurezza dello Stato ovvero, nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, arrecare un concreto pregiudizio, non evitabile attraverso la separazione dei procedimenti o in altro modo, per atti o attività di indagine specificamente individuati, rispetto ai quali non siano scaduti i termini di indagine e che siano diretti all’accertamento dei fatti, all’individuazione o alla cattura dei responsabili o al sequestro di denaro, beni o altre utilità di cui è obbligatoria la confisca.

5- ter. Entro venti giorni dal deposito della richiesta del pubblico ministero, se ne ricorrono i presupposti, il procuratore generale autorizza con decreto motivato il differimento per il tempo strettamente necessario e, comunque, per un periodo complessivamente non superiore a sei mesi o, se si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, non superiore a un anno. In caso contrario, il procuratore generale ordina con decreto motivato al procuratore della Repubblica di provvedere alla notifica dell’avviso di cui al comma 1 entro un termine non superiore a venti giorni. Copia del decreto con cui il procuratore generale rigetta la richiesta di differimento del pubblico ministero è notificata alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa.

5- quater. Alla scadenza dei termini di cui all’articolo 407 bis, comma 2, se il pubblico ministero non ha esercitato l’azione penale, né richiesto l’archiviazione, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al giudice di ordinare al pubblico ministero di assumere le determinazioni sull’azione penale. Sulla richiesta il giudice provvede, nei venti giorni successivi, con decreto motivato. In caso di accoglimento, il giudice ordina al procuratore della Repubblica di assumere le determinazioni sull’azione penale entro un termine non superiore a venti giorni. Copia del decreto è comunicata al pubblico ministero e al procuratore generale presso la corte d’appello e notificato alla persona che ha formulato la richiesta.

5- quinquies. Il pubblico ministero trasmette al giudice e al procuratore generale copia dei provvedimenti assunti in conseguenza dell’ordine emesso ai sensi del comma 5- quater.

5- sexies. Nei casi di cui al comma 1 quater, se non ha già ricevuto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi del comma 1, alla persona offesa dal reato è notificato l’avviso previsto dal comma 1 dell’articolo 415-ter. Si applicano le disposizioni di cui al comma 2 del medesimo articolo 415-ter.»;

  1. dopo l’articolo 415-bis, è inserito il seguente:

«Art. 415-ter

(Diritti e facoltà dell’indagato e della persona offesa in caso di inosservanza dei termini per la conclusione delle indagini preliminari)

  1. Salvo quanto previsto dal comma 4, alla scadenza dei termini di cui all’articolo 407- bis, comma 2, se il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata in segreteria, con facoltà della persona sottoposta a indagini e della persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volere essere informata della conclusione delle indagini, di esaminarla ed estrarne copia. Alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa è altresì immediatamente notificato avviso dell’avvenuto deposito, con indicazione delle facoltà loro spettanti. L’avviso contiene altresì l’indicazione della facoltà di cui al comma 3. Copia dell’avviso è comunicata al procuratore generale presso la corte di appello.
  2. Quando, decorsi dieci giorni dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 407-bis, comma 2, non riceve la comunicazione prevista al comma 1, se non dispone l’avocazione delle indagini preliminari, il procuratore generale ordina con decreto motivato al procuratore della Repubblica di provvedere alla notifica dell’avviso di deposito di cui al comma 1 entro un termine non superiore a venti giorni. Copia del decreto è notificata alla persona sottoposta a indagini e alla persona offesa.
  3. Se dalla notifica dell’avviso di deposito indicato al comma 1 o del decreto indicato al comma 2 è decorso un termine pari a un mese senza che il pubblico ministero abbia assunto le determinazioni sull’azione penale, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al giudice di ordinare al pubblico ministero di provvedere. Il termine è pari a tre mesi nei casi di cui all’articolo 407, comma 2. Si applicano il secondo, il terzo e il quarto periodo del comma 5-quater nonché il comma 5- quinquies dell’articolo 415-bis. Quando, in conseguenza dell’ordine emesso dal giudice, è notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, i termini di cui all’articolo 407-bis, comma 2, sono ridotti di due terzi.
  4. Prima della scadenza dei termini previsti dall’articolo 407-bis, comma 2, quando ricorrono le circostanze di cui al comma 5-bis dell’articolo 415-bis, il pubblico ministero può presentare richiesta motivata di differimento del deposito e della notifica dell’avviso di deposito di cui al comma 1 al procuratore generale. Sulla richiesta il procuratore generale provvede ai sensi del comma 5-ter dell’articolo 415-bis. Le disposizioni del presente comma non si applicano quando il pubblico ministero ha già presentato la richiesta di differimento prevista dal comma 5-bis dell’articolo 415-bis.».

ART. 23

(Modifiche al Titolo IX del Libro V del codice di procedura penale)

  1. Al Libro V, Titolo IX, del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 419:
  • al comma 1, le parole: «e 420-quinquies» sono sostituite dalle seguenti: «420- quinquies e 420- sexies»;
  • dopo il comma 3, è inserito il seguente: «3- Nell’avviso è indicata anche l’informazione all’imputato e alla persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  • al comma 5, le parole: «in cancelleria a mezzo di procuratore speciale» sono sostituite dalle seguenti: «personalmente o depositata, anche a mezzo di procuratore speciale, con le modalità previste dall’articolo 111-bis, in cancelleria»;
  1. all’articolo 420, dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti: «2-bis. In caso di regolarità delle notificazioni, se l’imputato non è presente, e non ricorrono i presupposti di cui all’articolo 420-ter, il giudice procede ai sensi dell’articolo 420- bis.

2- ter.  Salvo che la legge disponga altrimenti, l’imputato che, dopo essere comparso, si allontana dall’aula di udienza o che, presente ad una udienza, non compare alle successive, è considerato presente ed è rappresentato dal difensore. È considerato presente anche l’imputato che ha richiesto per iscritto, nel rispetto delle forme di legge, di essere ammesso ad un procedimento speciale o che è rappresentato in udienza da un procuratore speciale nominato per la richiesta di un procedimento speciale.»;

  1. l’articolo 420-bis è sostituito dal seguente:

«Art. 420-bis

(Assenza dell’imputato)

  1. Se l’imputato, libero o detenuto, non è presente all’udienza, il giudice procede in sua assenza:
  2. a) quando l’imputato è stato citato a comparire a mezzo di notificazione dell’atto in mani proprie o di persona da lui espressamente delegata al ritiro dell’atto;
  3. b) quando l’imputato ha espressamente rinunciato a comparire o, sussistendo un impedimento ai sensi dell’articolo 420- ter, ha rinunciato espressamente a farlo valere.
  4. Il giudice procede in assenza dell’imputato anche quando ritiene altrimenti provato che lo stesso ha effettiva conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza all’udienza è dovuta ad una scelta volontaria e consapevole. A tal fine il giudice tiene conto delle modalità della notificazione, degli atti compiuti dall’imputato prima dell’udienza, della nomina di un difensore di fiducia e di ogni altra circostanza rilevante.
  5. Il giudice procede in assenza anche fuori dai casi di cui ai commi 1 e 2, quando l’imputato è stato dichiarato latitante o si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo.
  6. Nei casi previsti dai commi 1, 2 e 3 il giudice dichiara l’imputato assente. Salvo che la legge disponga altrimenti, l’imputato dichiarato assente è rappresentato dal difensore.
  7. Fuori dai casi previsti dai commi 1, 2 e 3, prima di procedere ai sensi dell’articolo 420- quater, il giudice rinvia l’udienza e dispone che l’avviso di cui all’articolo 419, la richiesta di rinvio a giudizio e il verbale d’udienza siano notificati all’imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria.
  8. L’ordinanza che dichiara l’assenza dell’imputato è revocata anche d’ufficio se, prima della decisione, l’imputato compare. L’imputato è restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto:
  9. a) se fornisce la prova che, per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa;
  10. b) se, nei casi previsti dai commi 2 e 3, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto;
  11. c) se comunque risulta che le condizioni per procedere in sua assenza non erano soddisfatte.
  12. Salvo quanto previsto dal comma 5, se risulta che le condizioni per procedere in assenza non erano soddisfatte, il giudice revoca, anche d’ufficio, l’ordinanza che dichiara l’assenza dell’imputato e procede ai sensi del comma 4-bis.»;
  13. all’articolo 420- ter:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: « Quando l’imputato, anche se detenuto, non si presenta ad una udienza e risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad una nuova udienza e dispone la notificazione dell’ordinanza all’imputato»;
  • al comma 4, le parole «la citazione e» sono soppresse;
  1. l’articolo 420-quater è sostituito dal seguente:

«Art. 420-quater

(Sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato)

  1. In caso di regolarità delle notificazioni e fuori dei casi previsti dagli articoli 420-bis e 420-ter, se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato.
  2. La sentenza contiene:
  3. a) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
  4. b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo, nonché le generalità delle altre parti private;
  5. c) l’imputazione;
  6. d) l’indicazione dell’esito delle notifiche e delle ricerche effettuate;
  7. e) l’indicazione della data fino alla quale dovranno continuare le ricerche per rintracciare la persona nei cui confronti la sentenza è emessa;
  8. f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati;
  9. g) la data e la sottoscrizione del giudice.
  10. Con la sentenza il giudice dispone che, fino a quando per tutti i reati oggetto di imputazione non sia superato il termine previsto dall’articolo 159, ultimo comma, del codice penale, la persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza sia ricercata dalla polizia giudiziaria e, nel caso in cui sia rintracciata, le sia personalmente notificata la sentenza.
  11. La sentenza contiene altresì:
  12. a) l’avvertimento alla persona rintracciata che il processo a suo carico sarà riaperto davanti alla stessa autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza;
  13. b) quando la persona non è destinataria di un provvedimento applicativo della misura cautelare degli arresti domiciliari o della custodia in carcere, l’avviso che l’udienza per la prosecuzione del processo è fissata:
  • il primo giorno non festivo del successivo mese di settembre, se è stato rintracciato nel primo semestre dell’anno;
  • il primo giorno non festivo del mese di febbraio dell’anno successivo, se è stato rintracciato nel secondo semestre dell’anno;
  1. c) l’indicazione del luogo in cui l’udienza si terrà;
  2. d) l’avviso che, qualora la persona rintracciata non compaia e non ricorra alcuno dei casi di cui all’articolo 420-ter, si procederà in sua assenza e la stessa sarà rappresentata in udienza dal difensore.
  3. Alla sentenza si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 546.
  4. Decorso il termine di cui al comma 3 senza che l’imputato sia stato rintracciato, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata.
  5. In deroga a quanto disposto dall’articolo 300, le misure cautelari degli arresti domiciliari e della custodia in carcere perdono efficacia solo quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6. In deroga a quanto disposto dagli articoli 262, 317, 323, gli effetti dei provvedimenti che hanno disposto il sequestro probatorio, il sequestro conservativo e il sequestro preventivo permangono fino a quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6.»;
  6. l’articolo 420-quinquies è sostituito dai seguenti:

«Art. 420-quinquies

(Atti urgenti)

  1. Finché le ricerche della persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater sono in corso, il giudice che l’ha pronunciata assume, a richiesta di parte, le prove non rinviabili nelle forme di cui all’articolo 401. Del giorno, dell’ora e del luogo stabiliti per il compimento dell’atto è dato avviso almeno ventiquattro ore prima al pubblico ministero, alla persona offesa e ai difensori già nominati nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza.
  2. Per lo stesso periodo di tempo indicato nel comma 1, il giudice che ha pronunciato la sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420- quater resta competente a provvedere sulle misure cautelari e sui provvedimenti di sequestro fino alla perdita di efficacia prevista dal comma 7 dell’articolo 420-quater.

Art. 420-sexies

(Revoca della sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo)

  1. Quando rintraccia la persona nei cui confronti è stata emessa sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater, la polizia giudiziaria le notifica la sentenza e le dà avviso della riapertura del processo, nonché della data dell’udienza, individuata ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lettera b), nella quale è citata a comparire davanti all’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza.
  2. La polizia giudiziaria comunica alla persona rintracciata che sia rimasta priva del difensore che lo assisteva nel giudizio concluso con la sentenza, e che non provveda alla nomina di un difensore di fiducia, le generalità di un difensore d’ufficio, nominato ai sensi dell’articolo 97, comma 4, e provvede ai sensi dell’articolo 161. In ogni caso avvisa la persona rintracciata che al difensore sarà notificata la data dell’udienza individuata ai sensi del comma 1. Di tutte le attività e gli avvisi è redatto verbale.
  3. La polizia giudiziaria trasmette senza ritardo al giudice la relazione di notificazione della sentenza e il verbale di cui al comma 2.
  4. Il giudice con decreto revoca la sentenza e, salvo quanto previsto al comma 6, fa dare avviso al pubblico ministero, al difensore dell’imputato e alle altre parti della data dell’udienza fissata ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lettera b). L’avviso è comunicato o notificato almeno venti giorni prima della data predetta.
  5. Nell’udienza fissata per la prosecuzione ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lettera b), il giudice procede alla verifica della regolare costituzione delle parti. Salva l’applicazione degli articoli 420 e 420-ter, si procede sempre ai sensi dell’articolo 420bis, comma 1, lett. a).
  6. Nei casi di cui all’articolo 420-quater, comma 7, quando la sentenza è revocata nei confronti di un imputato sottoposto a misura cautelare, il giudice fissa l’udienza per la prosecuzione e dispone che l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza sia notificato all’imputato, al difensore dell’imputato e alle altre parti, nonché comunicato al pubblico ministero, almeno venti giorni prima. All’udienza il giudice procede alla verifica della regolare costituzione delle parti. Si applicano gli articoli 420, 420- bis e 420-ter.»;
  7. all’articolo 421:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: « Conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice dichiara aperta la discussione, se rileva una violazione dell’articolo 417, comma 1, lettera b), il giudice, sentite le parti, invita il pubblico ministero a riformulare l’imputazione. Qualora il pubblico ministero non provveda, il giudice, sentite le parti, dichiara anche d’ufficio la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e dispone, con ordinanza, la restituzione degli atti al pubblico ministero.»;
  • dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. L’imputazione modificata è inserita nel verbale di udienza e contestata all’imputato presente. Quando l’imputato non è fisicamente presente, il giudice rinvia a una nuova udienza e dispone che il verbale sia notificato all’imputato entro un termine non inferiore a dieci giorni dalla data della nuova udienza.»;
  • al comma 2, prima del primo periodo, è inserito il seguente: «Se non dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero, il giudice dichiara aperta la discussione.»;
  1. all’articolo 422, comma 2, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: «Quando una particolare disposizione di legge lo prevede, il giudice dispone che l’esame si svolga a distanza. Il giudice può altresì disporre che l’esame si svolga a distanza quando le parti vi consentono.»;
  2. all’articolo 423:
  • al comma 1, le parole: «e la contesta all’imputato presente. Se l’imputato non è presente, la modificazione della imputazione è comunicata al difensore, che rappresenta l’imputato ai fini della contestazione» sono soppresse;
  • dopo il comma 1 sono inseriti i seguenti: «1-bis. Se rileva che il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza non sono indicati nell’imputazione in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti o che la definizione giuridica non è corretta, il giudice invita il pubblico ministero a operare le necessarie modificazioni. Se la difformità indicata permane, sentite le parti, il giudice dispone con ordinanza, anche d’ufficio, la restituzione degli atti al pubblico ministero.

1- ter. Nei casi di modifica dell’imputazione ai sensi dei commi 1 e 1-bis, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 421, comma 1-bis.»;

  1. all’articolo 425, al comma 2, le parole: «risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio» sono sostituite dalle seguenti: «non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna»;
  2. all’articolo 428, comma 3- quater, le parole: «contravvenzioni punite» sono sostituite dalle seguenti: «reati puniti» e le parole: «dell’ammenda» sono sostituite dalla seguente: «pecuniaria»;
  3. all’articolo 429, al comma 1:
  • dopo la lettera d) è aggiunta la seguente: «d-bis) l’avviso all’imputato e alla persona offesa, della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa;».
  • la lettera f) è sostituita dalla seguente: «f) l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora dell’udienza per la prosecuzione del processo davanti al giudice del dibattimento;»;

 

CAPO VI

Modifiche al Libro VI del codice di procedura penale

 

ART. 24

(Modifiche al Titolo I del Libro VI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo I del Libro VI del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 438:
  • al comma 3, le parole: «nelle forme previste dall’articolo 583, comma 3» sono sostituite dalle seguenti: «da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore»;
  • al comma 5, secondo periodo, dopo le parole: «il giudizio abbreviato se» sono inserite le seguenti: «, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili,» e le parole: «compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili» sono sostituite dalle seguenti: «il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale»;
  • al comma 6- ter, dopo il primo periodo, è aggiunto il seguente: «In ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato.»;
  1. all’articolo 441, al comma 6, dopo il primo periodo, è aggiunto il seguente: «Le prove dichiarative sono documentate nelle forme previste dall’articolo 510.»;
  2. all’articolo 442, dopo il comma 2, è inserito il seguente: «2-bis. Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione.».

 

ART. 25

(Modifiche al Titolo II del Libro VI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro VI del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  1. all’articolo 444:
  • al comma 1, dopo il primo periodo, è aggiunto il seguente: «L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3- bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.»;
  • al comma 2, dopo le parole: «circostanze prospettate dalle parti,» sono inserite le seguenti «le determinazioni in merito alla confisca,» e le parole: «congrua la pena indicata» sono sostituite dalle seguenti: «congrue le pene indicate,»;
  1. all’articolo 445, il comma 1- bis è sostituito dal seguente: «La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna.»;
  2. all’articolo 446:
  • al comma 1, al secondo periodo, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «o all’udienza prevista dal comma 2- bis dello stesso articolo»;
  • al comma 3, le parole: «nelle forme previste dall’art. 583, comma 3» sono sostituite dalle seguenti: «da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore»;
  1. all’articolo 447, comma 1, al primo periodo le parole: «in calce alla richiesta» sono soppresse e, dopo il primo periodo, è inserito il seguente: «Nel decreto di fissazione dell’udienza è indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  2. all’articolo 448, dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1- bis. Nei casi previsti dal comma 1, quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 545- bis, commi 2 e 3.».

ART. 26

(Modifiche al Titolo III del Libro VI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro VI del codice di procedura penale, all’articolo 450, comma 3, le parole: «dall’articolo 429 comma 1 lett. a), b), c), f),», sono sostituite dalle seguenti: «dall’articolo 429, comma 1, lett. a), b), c), d- bis), f),».

ART. 27

(Modifiche al Titolo IV del Libro VI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo IV del Libro VI del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 456, comma 2, dopo le parole: «giudizio abbreviato», la parola: «ovvero» è sostituita dal seguente segno di interpunzione: «,» e, dopo le parole: «dell’articolo 444», sono aggiunte le seguenti: «ovvero la sospensione del procedimento con messa alla prova»;
  3. all’articolo 458:
  • al comma 2, al primo periodo, dopo le parole: «Il giudice fissa», sono inserite le seguenti: «in ogni caso» e, dopo le parole: «camera di consiglio», sono inserite le seguenti: «per la valutazione della richiesta,»; al terzo periodo, le parole: «commi 3 e 5», sostituite dalle seguenti «commi 3, 5 e 6-ter»;
  • dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti: «2-bis. Se il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 5, l’imputato, alla stessa udienza, può chiedere il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, comma 1, l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 oppure la sospensione del procedimento con messa alla prova.

2- ter. Se non è accolta alcuna richiesta di cui al comma precedente, il giudice rimette le parti al giudice del dibattimento, dandone comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate.»;

  1. dopo l’articolo 458, è inserito il seguente:

«Art. 458-bis

(Richiesta di applicazione della pena)

  1. Quando è formulata la richiesta prevista dall’articolo 446, il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la decisione, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa.
  2. Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice, l’imputato, nella stessa udienza, può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova oppure il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438. Se il giudice dispone il giudizio abbreviato, si applica l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 458. Nel caso di rigetto delle richieste, si applica l’articolo 458, comma 2- ter.».

ART. 28

(Modifiche al Titolo V del Libro VI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo V del Libro VI del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 459:
  • al comma 1, le parole: «sei mesi» sono sostituite dalle seguenti: «un anno»;
  • il comma 1-bis è sostituito dal seguente: «1-bis Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del codice penale. Entro gli stessi limiti, la pena detentiva può essere sostituita altresì con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56 bis della legge 24 novembre 1981, 689, se l’indagato, prima dell’esercizio dell’azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente.»;
  • dopo il comma 1-bis è inserito il seguente: «1-ter. Quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981, 689, senza formulare l’atto di opposizione. Con l’istanza, l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis, primo comma, e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato.»;
  1. all’articolo 460:
  • al comma 1:
    1. alla lettera d), dopo le parole: «il dispositivo» sono aggiunte le seguenti: «, con l’indicazione specifica della riduzione di un quinto della pena pecuniaria nel caso previsto dalla lettera h-ter)»;
    2. alla lettera h), dopo le parole: «lo assiste», il segno di interpunzione «.» è sostituito dal seguente: «;»;
    3. dopo la lettera h), sono aggiunte le seguenti: «h-bis) l’avviso all’imputato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa; h-ter) l’avviso che può essere effettuato il pagamento della pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, con rinuncia all’opposizione.»;
  • al comma 5:
  1. dopo il primo periodo, è inserito il seguente: «Nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto il condannato può effettuare il pagamento della sanzione nella misura ridotta di un quinto, con rinuncia all’opposizione»;
  2. la parola: «Anche» è sostituita dalle seguenti: «Il decreto, anche»;
  3. dopo le parole: «Il reato è estinto se», sono inserite le seguenti: «il condannato ha pagato la pena pecuniaria e,»;
  4. dopo le parole: «il decreto concerne una contravvenzione,», le parole: «l’imputato» sono soppresse;
  5. all’articolo 461, comma 1, le parole: «mediante dichiarazione ricevuta» sono sostituite dalle seguenti: «con le forme previste dall’articolo 582»;
  6. all’articolo 462, comma 1, le parole: «dell’articolo 175» sono sostituite dalle seguenti: «degli articoli 175 e 175- bis».

ART. 29

(Modifiche al Titolo V bis del Libro VI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo V bis del Libro VI del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 464-bis:
  • al comma 1, dopo la parola: «l’imputato», sono inserite le seguenti: «, anche su proposta del pubblico ministero,» e, dopo il primo periodo, è aggiunto il seguente: «Se il pubblico ministero formula la proposta in udienza, l’imputato può chiedere un termine non superiore a venti giorni per presentare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.»;
  • al comma 2, le parole: «e nel procedimento di citazione diretta a giudizio», sono sostituite dalle seguenti: «oppure, nel procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla conclusione dell’udienza predibattimentale prevista dall’articolo 554-bis»»;
  • al comma 3, le parole: «nelle forme previste dall’articolo 583, comma 3» sono sostituite dalle seguenti «da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore»;
  • al comma 4, lettera c), dopo le parole: «la mediazione con la persona offesa», sono aggiunte le seguenti: «e lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa»;
  1. dopo l’articolo 464-ter, è inserito il seguente:

«Art. 464-ter.1

(Sospensione del procedimento con messa alla prova su proposta del pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari)

  1. Il pubblico ministero, con l’avviso previsto dall’articolo 415-bis, può proporre alla persona sottoposta ad indagini la sospensione del procedimento con messa alla prova, indicando la durata e i contenuti essenziali del programma trattamentale. Ove lo ritenga necessario per formulare la proposta, il pubblico ministero può avvalersi dell’ufficio di esecuzione penale esterna.
  2. Nel caso previsto dal comma 1, entro il termine di venti giorni, la persona sottoposta ad indagini può aderire alla proposta con dichiarazione resa personalmente o a mezzo di procuratore speciale, depositata presso la segreteria del pubblico ministero.
  3. Quando la persona sottoposta ad indagini aderisce alla proposta, il pubblico ministero formula l’imputazione e trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari, dando avviso alla persona offesa dal reato della facoltà di depositare entro dieci giorni memorie presso la cancelleria del giudice.
  4. Nel caso previsto dal comma 3, il giudice per le indagini preliminari, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’articolo 129 e quando ritiene che la proposta del pubblico ministero cui ha aderito l’imputato sia conforme ai requisiti indicati dall’articolo 464-quater, comma 3, primo periodo, richiede all’ufficio di esecuzione penale esterna di elaborare il programma di trattamento d’intesa con l’imputato.
  5. Nel caso previso dal comma 4, l’ufficio di esecuzione penale esterna trasmette al giudice entro novanta giorni il programma di trattamento elaborato d’intesa con l’imputato.
  6. Quando lo ritiene necessario ai fini della decisione, il giudice per le indagini preliminari può fissare udienza ai sensi dell’articolo 127. Il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione dell’imputato.
  7. Il giudice, valutata l’idoneità del programma trattamentale elaborato ai sensi del comma 5, eventualmente integrato o modificato con il consenso dell’imputato nel corso dell’udienza prevista dal comma 6, dispone con ordinanza la sospensione del procedimento con messa alla prova.».

 

CAPO VII

Modifiche al Libro VII del codice di procedura penale

 

ART. 30

(Modifiche al Titolo II del Libro VII del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro VII del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 477, il comma 1 è sostituito dal seguente: « Quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede sulle richieste di prova, sentite le parti, stabilisce il calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere.»;
  3. all’articolo 483, dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1- bis. Il verbale redatto in forma di documento informatico è sottoscritto dal pubblico ufficiale che lo ha redatto secondo le modalità di cui all’articolo 111 e sottoposto al presidente per l’apposizione del visto con firma digitale o altra firma elettronica qualificata.»;
  4. all’articolo 484, al comma 2-bis le parole: «degli articoli 420-bis, 420-ter, 420-quater e 420- quinquies» sono sostituite dalle seguenti: «dell’articolo 420-ter e, nei casi in cui manca l’udienza preliminare, anche le disposizioni di cui agli articoli 420, 420-bis, 420-quater, 420- quinquies, 420-sexies»;
  5. all’articolo 489:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: « Se vi è la prova che nel corso dell’udienza preliminare l’imputato è stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità del decreto di rinvio a giudizio e restituisce gli atti al giudice dell’udienza preliminare.»;
  • il comma 2 è sostituito dal seguente: « La nullità prevista dal comma 1 è sanata se non è eccepita dall’imputato presente, ferma la facoltà dello stesso di essere restituito nel termine per formulare le richieste di procedimenti speciali e di esercitare le ulteriori facoltà dalle quali sia decaduto. In ogni caso la nullità non può essere rilevata o eccepita se risulta che l’imputato era nelle condizioni di comparire all’udienza preliminare.»;
  • dopo il comma 2 è aggiunto il seguente: «2-bis. Fuori dai casi previsti dal comma 1, ferma restando la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza, l’imputato è restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto:
  1. a) se fornisce la prova che, per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare la facoltà dalla quale è decaduto e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa;
  2. b) se, nei casi previsti dai commi 2 e 3 dell’articolo 420-bis, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto.»;
  • nella rubrica, le parole: «Dichiarazioni dell’imputato» sono sostituite dalle seguenti: «Rimedi per l’imputato»;
  1. all’articolo 493, al comma 3, dopo le parole: «l’ammissione delle prove» sono aggiunte le seguenti: «, illustrandone esclusivamente l’ammissibilità ai sensi degli articoli 189 e 190, comma 1»;
  2. all’articolo 495, dopo il comma 4-bis, è aggiunto il seguente: «4-ter. Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze.»;
  3. all’articolo 496:
  • dopo il comma 2, è inserito il seguente: «2-bis. Salvo che una particolare disposizione di legge preveda diversamente, il giudice può disporre, con il consenso delle parti, che l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle persone indicate nell’articolo 210 e delle parti private si svolga a distanza.»;
  • la rubrica è sostituita dalla seguente: «Ordine e modalità dell’assunzione delle prove»;
  1. all’articolo 501:
  • dopo il comma 1, sono inseriti i seguenti: «1-bis. Almeno sette giorni prima dell’udienza fissata per il suo esame, il perito autorizzato ai sensi dell’articolo 227, comma 5, deposita in cancelleria la propria relazione scritta. Nello stesso termine la parte che ha nominato un consulente tecnico deposita in cancelleria l’eventuale relazione scritta del consulente.

1-ter. Fuori dai casi previsti al comma 1-bis, la parte che ha chiesto l’esame di un consulente tecnico deposita l’eventuale relazione almeno sette giorni prima dell’udienza fissata per quell’esame.»;

  • al comma 2, dopo le parole: «e pubblicazioni,», sono inserite le seguenti: «nonché le relazioni depositate ai sensi dei commi 1-bis e 1-ter,» e la parola: «acquisite» è sostituita dalla parola: «acquisiti»;
  1. all’articolo 510:
  • dopo il comma 2, è inserito il seguente: «2-bis. L’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell’articolo 210, nonché gli atti di ricognizione e confronto, sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva.»;
  • dopo il comma 3, è inserito il seguente: «3-bis. La trascrizione della riproduzione audiovisiva di cui al comma 2-bis è disposta solo se richiesta dalle parti.».
  1. all’articolo 519:
  • al comma 1, dopo le parole: «per la difesa» sono aggiunte le seguenti: «e formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova»;
  • il comma 2 è sostituito dal seguente: «Se l’imputato fa richiesta di un termine per la difesa, il presidente sospende il dibattimento per un tempo non inferiore al termine per comparire previsto dall’articolo 429, ma comunque non superiore a quaranta giorni. In ogni caso l’imputato può chiedere l’ammissione di nuove prove o formulare, a pena di decadenza entro l’udienza successiva, richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova.»;
  1. all’articolo 520:
  • nella rubrica, la parola: «assente» è sostituita dalle seguenti: «non presente»:
  • al comma 1, la parola: «assente» è sostituita dalle seguenti: «non presente fisicamente in udienza» e, dopo le parole: «all’imputato» sono aggiunte le seguenti: «, con l’avvertimento che entro l’udienza successiva può formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova.».
  • .

ART. 31

(Modifiche al Titolo III del Libro VII del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro VII del codice di procedura penale, dopo l’articolo 545, è inserito il seguente:

«Art. 545-bis 

(Condanna a pena sostitutiva)

  1. Quando è stata applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni e non è stata ordinata la sospensione condizionale, subito dopo la lettura del dispositivo ai sensi dell’articolo 545, il giudice, se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva con una o più delle pene sostitutive di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ne dà avviso alle parti. Se l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, acconsente alla sostituzione della pena detentiva con una pena diversa dalla pena pecuniaria, ovvero se può aver luogo la sostituzione con detta pena, il giudice, sentito il pubblico ministero, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e i termini fissati per il deposito della motivazione e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente.
  2. Al fine di decidere sulla sostituzione della pena detentiva e sulla scelta della pena sostitutiva ai sensi dell’articolo 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni relative, il giudice può acquisire dall’ufficio di esecuzione penale esterna e, se del caso, dalla polizia giudiziaria tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali dell’imputato. Il giudice può richiedere, altresì, all’ufficio di esecuzione penale esterna, il programma di trattamento della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità con la relativa disponibilità dell’ente. Agli stessi fini, il giudice può acquisire altresì, dai soggetti indicati dall’articolo 94 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, la certificazione di disturbo da uso di sostanze o di alcol ovvero da gioco d’azzardo e il programma terapeutico, che il condannato abbia in corso o a cui intenda sottoporsi. Le parti possono depositare documentazione all’ufficio di esecuzione penale esterna e, fino a cinque giorni prima dell’udienza, possono presentare memorie in cancelleria.
  3. Acquisiti gli atti, i documenti e le informazioni di cui ai commi precedenti, all’udienza fissata, sentite le parti presenti, il giudice, se sostituisce la pena detentiva, integra il dispositivo indicando la pena sostitutiva con gli obblighi e le prescrizioni corrispondenti; si applicano gli articoli 57 e 61 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Diversamente conferma il dispositivo. In ogni caso, il giudice dà lettura del dispositivo ai sensi del primo comma dell’articolo 545.
  4. Quando il processo è sospeso ai sensi del primo comma, la lettura della motivazione redatta a norma dell’art. 544 comma 1 segue quella del dispositivo integrato o confermato e può essere sostituita con un’esposizione riassuntiva. Si applica il terzo comma dell’articolo 545.».

CAPO VIII

Modifiche al Libro VIII del codice di procedura penale

 

ART. 32

(Modifiche al Titolo II del Libro VIII del codice di procedura penale)

  1. Al libro VIII, Titolo II del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 550, il comma 2 è sostituito dal seguente: « Le disposizioni del comma 1 si applicano anche quando si procede per i reati previsti dagli articoli 336, 337, 337- bis, primo e secondo comma, 340, terzo comma, 343, secondo comma, 348, terzo comma, 349, secondo comma, 351, 372, 374-bis, 377, terzo comma, 377- bis, 385, secondo comma, con esclusione delle ipotesi in cui la violenza o la minaccia siano state commesse con armi o da più persone riunite, 390, 414, 415, 454, 460, 461, 467, 468, 493-ter, 495, 495-ter, 496, 497-bis, 497-ter, 527, secondo comma, 556, 588, secondo comma, con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime, 590-bis, 611, 614, quarto comma, 615, primo comma, 619, secondo comma, 625, 635, terzo comma, 640, secondo comma, 642, primo e secondo comma, 646 e 648 del codice penale, quando si procede per i reati previsti:
  3. a) dall’articolo 291- bis del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;
  4. b) dagli articoli 4, quarto comma, 10, terzo comma, e 12, quinto comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110;
  5. c) dagli articoli 82, comma 1, del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309;
  6. d) dagli articoli 75, comma 2, 75-bis e 76, commi 1, 5, 7 e 8, del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159;
  7. e) dall’articolo 55-quinquies, comma 1, del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165;
  8. f) dagli articoli 5, comma 8-bis, 10, comma 2-quater, 13, comma 13-bis, e 26-bis, comma 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
  9. g) dagli articoli 5, commi 1 e 1-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.»;
  10. all’articolo 552:
  • al comma 1:
  1. alla lettera d), le parole: «per il giudizio» sono sostituite dalle seguenti: «per l’udienza di comparizione predibattimentale» e le parole: «in contumacia» sono sostituite dalle seguenti: «in assenza»;
  2. alla lettera f), le parole: «, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado,» sono sostituite dalle seguenti: «entro il termine di cui all’articolo 554-ter, comma 2» e le parole: «e 444» sono sostituite dalle seguenti: «, 444 e 464-bis»;
  3. alla lettera g), le parole: «segreteria del pubblico ministero» sono sostituite dalle seguenti: «cancelleria del giudice»;
  4. dopo la lettera h), è inserita la seguente: «h-bis) l’informazione alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa della facoltà di accedere a un programma di giustizia riparativa»;
  • al comma 3, dopo la parola: «notificato», sono inserite le seguenti: «, a pena di nullità,» e dopo le parole: «di comparizione», è inserita la seguente: «predibattimentale»;
  • al comma 4, le parole: «unitamente al fascicolo contenente la documentazione, gli atti e le cose indicati nell’articolo 416, comma 2» sono soppresse;
  1. all’articolo 553:
  • al comma 1, le parole: «con il» sono sostituite dalle seguenti: «, unitamente al fascicolo contenente la documentazione, i verbali e le cose indicati nell’articolo 416, comma 2, e al»;
  • alla rubrica, le parole: «in dibattimento» sono sostituite dalla seguente: «predibattimentale»;
  1. dopo l’articolo 554, sono inseriti i seguenti:

«Art. 554-bis

(Udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta)

  1. L’udienza di comparizione predibattimentale si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore dell’imputato.
  2. Il giudice procede agli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, ordinando la rinnovazione degli avvisi, delle citazioni, delle comunicazioni e delle notificazioni di cui dichiara la nullità. Se l’imputato non è presente si applicano le disposizioni di cui agli articoli 420, 420-bis, 420-ter, 420-quater, 420-quinquies e 420-sexies.
  3. Le questioni indicate nell’articolo 491, commi 1 e 2, o quelle che la legge prevede siano proposte entro i termini di cui all’articolo 491, comma 1, sono precluse se non proposte subito dopo compiuto, per la prima volta, l’accertamento della costituzione delle parti e sono decise immediatamente. Esse non possono essere riproposte nell’udienza dibattimentale. Si applicano i commi 3, 4 e 5 dell’articolo 491.
  4. Il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, verifica se il querelante, ove presente, è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione.
  5. In caso di violazione della disposizione di cui all’articolo 552, comma 1, lettera c), il giudice, anche d’ufficio, sentite le parti, invita il pubblico ministero a riformulare l’imputazione e, ove lo stesso non vi provveda, dichiara, con ordinanza, la nullità dell’imputazione e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero.
  6. Al fine di consentire che il fatto, la definizione giuridica, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, siano indicati in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti, il giudice, anche d’ufficio, sentite le parti, invita il pubblico ministero ad apportare le necessarie modifiche e, ove lo stesso non vi provveda, dispone, con ordinanza, la restituzione degli atti al pubblico ministero. Quando il pubblico ministero modifica l’imputazione, procede alla relativa contestazione e la modifica dell’imputazione è inserita nel verbale di udienza. Quando l’imputato non è fisicamente presente, il giudice sospende il processo, rinvia a una nuova udienza e dispone che il verbale sia notificato all’imputato entro un termine non inferiore a dieci giorni dalla data della nuova udienza.
  7. Se a seguito della modifica dell’imputazione, il reato risulta attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione del giudice è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, immediatamente dopo la nuova contestazione ovvero, nel caso indicato nell’ultimo periodo del comma 6, prima del compimento di ogni altro atto nella nuova udienza fissata a norma del medesimo comma. Se, a seguito della modifica, risulta un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, la relativa eccezione è proposta, a pena di decadenza, entro gli stessi termini indicati nel periodo che precede.
  8. Il verbale dell’udienza predibattimentale è redatto in forma riassuntiva a norma dell’articolo 140, comma 2.

Art. 554-ter

(Provvedimenti del giudice)

  1. Se, sulla base degli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 553, sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se risulta che il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che l’imputato non è punibile per qualsiasi causa, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere. Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 425, comma 2, 426 e 427. Il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.
  2. L’istanza di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444, di sospensione del processo con messa alla prova, nonché la domanda di oblazione sono proposte, a pena di decadenza, prima della pronuncia della sentenza di cui al comma 1. Entro lo stesso termine, quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 545- bis commi 2 e 3.
  3. Se non sussistono le condizioni per pronunciare sentenza di non luogo a procedere e in assenza di definizioni alternative di cui al comma 2, il giudice fissa per la prosecuzione del giudizio la data dell’udienza dibattimentale davanti ad un giudice diverso e dispone la restituzione al pubblico ministero del fascicolo contenente la documentazione, i verbali e le cose indicati nell’articolo 416, comma 2.
  4. Tra la data del provvedimento e la data fissata per l’udienza dibattimentale deve intercorrere un termine non inferiore a venti giorni.

Art. 554- quater

(Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere)

  1. Contro la sentenza di non luogo a procedere possono proporre appello:
  2. a) il procuratore della Repubblica e il procuratore generale nei casi di cui all’articolo 593- bis, comma 2;
  3. b) l’imputato, salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso.
  4. La persona offesa può proporre appello nei soli casi di nullità previsti dall’articolo 552, comma 3.
  5. Sull’impugnazione la corte di appello decide in camera di consiglio con le forme previste dall’articolo 127. In caso di appello del pubblico ministero, la corte, se non conferma la sentenza, fissa la data per l’udienza dibattimentale davanti ad un giudice diverso da quello che ha pronunciato la sentenza o pronuncia sentenza di non luogo a procedere con formula meno favorevole all’imputato. In caso di appello dell’imputato, la corte, se non conferma la sentenza, pronuncia sentenza di non luogo a procedere con formula più favorevole all’imputato.
  6. Contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello possono ricorrere per cassazione l’imputato e il procuratore generale solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell’articolo 606.
  7. Sull’impugnazione la corte di cassazione decide in camera di consiglio con le forme previste dall’articolo 611.
  8. Sono inappellabili le sentenze di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa».

Art. 554-quinquies

(Revoca della sentenza di non luogo a procedere)

  1. Se dopo la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare l’utile svolgimento del giudizio, il giudice su richiesta del pubblico ministero dispone la revoca della sentenza.
  2. Con la richiesta di revoca il pubblico ministero trasmette alla cancelleria del giudice gli atti relativi alle nuove fonti di prova.
  3. Il giudice, se non dichiara inammissibile la richiesta, designa un difensore all’imputato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’imputato, al difensore, alla persona offesa e alle altre parti costituite. Il procedimento si svolge nelle forme previste dall’articolo 127.
  4. Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza e quando revoca la sentenza di non luogo a procedere fissa la data dell’udienza per la prosecuzione del giudizio ai sensi dell’articolo 554-ter, commi 3 e 4. In questo caso, le istanze di cui all’articolo 554-ter, comma 2, sono proposte, a pena di decadenza, prima dell’apertura del dibattimento.
  5. Si applica l’articolo 437.»;
  6. all’articolo 555:
  • alla rubrica, le parole: «di comparizione» sono sostituite dalla seguente: «dibattimentale»;
  • al comma 1, le parole: «di comparizione» sono sostituite dalla seguente: «dibattimentale»;
  • al comma 4, le parole: «Se deve procedersi al giudizio le parti» sono sostituite dalle seguenti: «Le parti» e dopo le parole: «l’ammissione delle prove» sono inserite le seguenti: «, illustrandone esclusivamente l’ammissibilità, ai sensi degli articoli 189 e 190, comma 1»;
  1. dopo l’articolo 558, è inserito il seguente:

«Art. 558-bis

(Giudizio immediato)

  1. Per il giudizio immediato si osservano le disposizioni del titolo IV del libro sesto, in quanto compatibili.
  2. Nel caso di emissione del decreto di giudizio immediato non si procede all’udienza predibattimentale prevista dall’articolo 554-bis».

CAPO IX

Modifiche al Libro IX del codice di procedura penale

 

ART. 33

(Modifiche al Titolo I del Libro IX del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo I del Libro IX del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 573:
  • al comma 1, le parole: «i soli» sono sostituite dalla parola: «gli»;
  • dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. Quando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice d’appello e la Corte di cassazione, se l’impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.»;
  1. all’articolo 578:
  • il comma 1-bis è sostituito dal seguente: «1-bis. Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, e in ogni caso di impugnazione della sentenza anche per gli interessi civili, il giudice di appello e la corte di cassazione, se l’impugnazione non è inammissibile, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344 bis, rinviano per la prosecuzione al giudice o alla sezione civile competente nello stesso grado, che decidono sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.»;
  • dopo il comma 1- bis, è aggiunto il seguente: «1-ter. Nei casi di cui al comma 1 bis, gli effetti del sequestro conservativo disposto a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato, permangono fino a che la sentenza che decide sulle questioni civili non è più soggetta a impugnazione.»;
  • nella rubrica, dopo le parole: «per prescrizione» sono aggiunte le seguenti: «e nel caso di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione»;
  1. dopo l’articolo 578-bis, è inserito il seguente:

«Art. 578-ter

(Decisione sulla confisca e provvedimenti sui beni in sequestro nel caso di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione)

  1. Il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344 –bis, dispongono la confisca nei casi in cui la legge la prevede obbligatoriamente anche quando non è stata pronunciata condanna.
  2. Fuori dai casi di cui al comma 1, se vi sono beni in sequestro di cui è stata disposta confisca, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344- bis, dispongono con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto o al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo competenti a proporre le misure patrimoniali di cui al titolo II del Libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.
  3. Il sequestro disposto nel procedimento penale cessa di avere effetto se, entro novanta giorni dalla ordinanza di cui al comma 2, non è disposto il sequestro ai sensi dell’articolo 20 o 22 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.»;
  4. all’articolo 581, dopo il comma 1, sono inseriti i seguenti: «1- L’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione.

1-ter. Con l’atto d’impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena d’inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.

1-quater. Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore è depositato, a pena d’inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.»;

  1. all’articolo 582:
  • al comma 1, le parole: «personalmente ovvero a mezzo di incaricato» sono sostituite dalle seguenti: «mediante deposito con le modalità previste dall’articolo 111- bis» ed è soppresso il secondo periodo;
  • dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. Le parti private possono presentare l’atto con le modalità di cui al comma 1 oppure personalmente, anche a mezzo di incaricato, nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. In tal caso, il pubblico ufficiale addetto vi appone l’indicazione del giorno in cui riceve l’atto e della persona che lo presenta, lo sottoscrive, lo unisce agli atti del procedimento e rilascia, se richiesto, attestazione della ricezione.»;
  1. all’articolo 585, dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. I termini previsti dal comma 1 sono aumentati di quindici giorni per l’impugnazione del difensore dell’imputato giudicato in assenza.» e, al comma 4, le parole: «nel numero di copie necessarie per tutte le parti» sono sostituite dalle seguenti: «, con le forme previste dall’articolo 582»;
  2. all’articolo 589, al comma 3, le parole: «581, 582 e 583,» sono sostituite dalle seguenti: «581 e 582»;
  3. all’articolo 591, comma 1, lettera c), la parola: «583,» è soppressa.

ART. 34

(Modifiche al Titolo II del Libro IX del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro IX del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 593, il comma 3 è sostituito dal seguente: «sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.»;
  3. all’articolo 595, comma 2, la parola: «583,» è soppressa;
  4. dopo l’articolo 598, è inserito il seguente:

«Art. 598-bis

(Decisioni in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti)

  1. Salvo quanto previsto nei commi da 2 a 4 o da altre particolari disposizioni di legge, la corte provvede sull’appello in camera di consiglio, giudicando sui motivi, sulle richieste e sulle memorie senza la partecipazione delle parti. Fino a quindici giorni prima dell’udienza, il procuratore generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica. Il provvedimento emesso in seguito alla camera di consiglio è immediatamente depositato in cancelleria. Il deposito della sentenza equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’articolo 545.
  2. L’appellante e, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore possono chiedere di partecipare all’udienza. La richiesta è irrevocabile ed è presentata, a pena di decadenza, nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione di cui all’articolo 601 o dell’avviso della data fissata per il giudizio di appello. La parte privata può presentare la richiesta esclusivamente a mezzo del difensore. Quando la richiesta è ammissibile, la corte dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti e indica se l’appello sarà deciso a seguito di udienza pubblica o in camera di consiglio, con le forme previste dall’articolo 127. Il provvedimento è comunicato al procuratore generale e notificato ai difensori.
  3. La corte può disporre d’ufficio che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame, con provvedimento nel quale è indicato se l’appello sarà deciso a seguito di udienza pubblica o in camera di consiglio, con le forme previste dall’articolo 127. Il provvedimento è comunicato al procuratore generale e notificato ai difensori, salvo che ne sia stato dato avviso con il decreto di citazione di cui all’articolo 601.
  4. La corte, in ogni caso, dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti quando ritiene necessario procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a norma dell’articolo 603, comma 5.»;
  5. dopo l’articolo 598- bis, è inserito il seguente:

«Art. 598-ter

(Assenza dell’imputato in appello)

  1. In caso di regolarità delle notificazioni, l’imputato appellante non presente all’udienza di cui agli articoli 599 e 602 è sempre giudicato in assenza anche fuori dei casi di cui all’articolo 420-bis.
  2. In caso di regolarità delle notificazioni, se l’imputato non appellante non è presente all’udienza di cui agli articoli 599 e 602 e le condizioni per procedere in assenza, ai sensi dell’articolo 420-bis, commi 1, 2 e 3, non risultano soddisfatte, la corte dispone, con ordinanza, la sospensione del processo e ordina le ricerche dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione. L’ordinanza contiene gli avvisi di cui all’articolo 420-quater, comma 4, lettere b), c) e d). Non si applicano le ulteriori disposizioni di cui all’articolo 420-quater, nonché gli articoli 420-quinquies e 420- sexies.
  3. Durante la sospensione del processo la corte, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili.
  4. Nell’udienza di cui all’articolo 598-bis, la corte accerta la regolarità della notificazione e, quando nei confronti dell’imputato non appellante le condizioni per procedere in assenza, ai sensi dell’articolo 420-bis commi 1, 2 e 3, non risultano soddisfatte, provvede ai sensi del comma 2.»;
  5. all’articolo 599:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: «Quando dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti, la corte provvede con le forme previste dall’articolo 127, oltre che nei casi particolarmente previsti dalla legge, quando l’appello ha ad oggetto una sentenza pronunciata a norma dell’articolo 442 o quando ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario.»;
  • nella rubrica, dopo le parole: «camera di consiglio» sono aggiunte le seguenti: «con la partecipazione delle parti»;
  1. all’articolo 599-bis:
  • al comma 1, al primo periodo, le parole: «La Corte provvede in camera di consiglio anche quando le parti, nelle forme previste dall’articolo 589, ne fanno richiesta dichiarando di» sono sostituite dalle seguenti: «Le parti possono dichiarare di»; dopo il terzo periodo, è aggiunto il seguente: «La dichiarazione e la rinuncia sono presentate nelle forme previste dall’articolo 589 e nel termine, previsto a pena di decadenza, di quindici giorni prima dell’udienza.»;
  • il comma 3 è sostituito dal seguente: «Quando procede nelle forme di cui all’articolo 598-bis, la corte, se ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata tra le parti, dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione di queste e indica se l’appello sarà deciso a seguito di udienza pubblica o in camera di consiglio, con le forme previste dall’articolo 127. Il provvedimento è comunicato al procuratore generale e notificato alle altre parti. In questo caso la richiesta e la rinuncia perdono effetto, ma possono essere riproposte in udienza.»;
  • dopo il comma 3, sono inseriti i seguenti: «3- bis. Quando procede con udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, la corte, quando ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata tra le parti, dispone la prosecuzione del giudizio.

3-ter. La richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se la corte decide in modo difforme dall’accordo.»;

  1. all’articolo 601:
  • al comma 1, dopo le parole: «pubblico ministero» sono inserite le seguenti: «, o» e le parole: «o se l’appello è proposto per i soli interessi civili» sono soppresse»;
  • il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Quando la corte, anteriormente alla citazione, dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti, ne è fatta menzione nel decreto di citazione. Nello stesso decreto è altresì indicato se l’appello sarà deciso a seguito di udienza pubblica ovvero in camera di consiglio, con le forme previste dall’articolo 127.»;
  • al comma 3, al primo periodo, le parole: «dall’articolo 429 comma 1 lettere a), f), g)» sono sostituite dalle seguenti: «dall’articolo 429. comma 1, lettere a), f), d bis), g)» e dopo le parole: «giudice competente» sono inserite le seguenti: «e, fuori dal caso previsto dal comma 2, l’avviso che si procederà con udienza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti, salvo che l’appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore chiedano di partecipare nel termine perentorio di quindici giorni dalla notifica del decreto. Il decreto contiene altresì l’avviso che la richiesta di partecipazione può essere presentata dalla parte privata esclusivamente a mezzo del difensore»; al secondo periodo, la parola: «venti» è sostituita dalla seguente: «quaranta»;
  • al comma 5, la parola: «venti» è sostituita dalla seguente: «quaranta»;
  1. all’articolo 602, al comma 1, prima delle parole: «Nell’udienza» sono inserite le seguenti: «Fuori dei casi previsti dall’articolo 599, quando dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti, la corte provvede in pubblica udienza.»;
  2. all’articolo 603:
  • il comma 3-bis è sostituito dal seguente: «3-bis. Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5.»;
  • dopo il comma 3-bis è inserito il seguente: «3-ter. Il giudice dispone altresì la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, quando l’imputato ne fa richiesta ai sensi dell’articolo 604, comma 5-ter e 5-quater. Ciò non di meno, quando nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato ai sensi dell’articolo 420-bis, comma 3, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è disposta ai sensi dell’articolo 190-bis.»;
  1. all’articolo 604:
  • il comma 5-bis è sostituito dal seguente: «5-bis. Nei casi in cui nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato, se vi è la prova che la dichiarazione di assenza è avvenuta in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, commi 1, 2 e 3, il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità. La nullità è sanata se non è stata eccepita nell’atto di appello. In ogni caso, la nullità non può essere rilevata o eccepita se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.»;
  • dopo il comma 5-bis sono inseriti i seguenti: «5-ter. Fuori dai casi previsti dal comma 5-bis, ferma restando la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza, l’imputato è sempre restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto:
  1. a) se fornisce la prova che, per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa;
  2. b) se, nei casi previsti dai commi 2 e 3 dell’articolo 420-bis, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto.

5-quater. Nei casi di cui al comma 5-ter, il giudice di appello annulla la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice della fase nella quale può essere esercitata la facoltà dalla quale l’imputato è decaduto, salvo che questi chieda l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 ovvero l’oblazione o esclusivamente la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. In questi casi provvede il giudice di appello. Quando il giudice di appello rigetta l’istanza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 o di oblazione, le stesse non possono essere riproposte.».

 

ART. 35

(Modifiche al Titolo III del Libro IX del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro IX del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 611:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Salvo quanto previsto nei commi 2-ter e 2-quater o da altre particolari disposizioni di legge, la corte provvede sui ricorsi in camera di consiglio, giudicando sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie senza la partecipazione del procuratore generale e dei difensori. Fino a quindici giorni prima dell’udienza il procuratore generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica.»;
  • dopo il comma 2, abrogato dall’articolo 6, comma 3 della legge 26 marzo 2001, n. 128, sono inseriti i seguenti: «2-bis. Nei procedimenti per la decisione su ricorsi contro le sentenze pronunciate nel dibattimento o ai sensi dell’articolo 442 il procuratore generale e i difensori possono chiedere la trattazione in pubblica udienza. Gli stessi possono chiedere la trattazione in camera di consiglio con la loro partecipazione per la decisione:
  1. a) su ricorsi da trattare con le forme previste dall’articolo 127;
  2. b) su ricorsi avverso sentenze pronunciate all’esito di udienza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti, a norma dell’articolo 598-bis, salvo che l’appello abbia avuto esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario.

2-ter. Le richieste di cui al comma 2-bis sono irrevocabili e sono presentate, a pena di decadenza, nel termine di dieci giorni dalla ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza. Quando ritiene ammissibile la richiesta proposta, la corte dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione del procuratore generale e dei difensori. La cancelleria dà avviso del provvedimento al procuratore generale e ai difensori, indicando se il ricorso sarà trattato in udienza pubblica o in camera di consiglio, con le forme previste dall’articolo 127.

2-quater. Negli stessi casi di cui al comma 2-bis, la corte può disporre d’ufficio la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione del procuratore generale e dei difensori per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame, dandone comunicazione alle parti mediante l’avviso di fissazione dell’udienza.

2-quinquies. Nei procedimenti da trattare con le forme previste dall’articolo 127, l’avviso di fissazione dell’udienza è comunicato o notificato almeno venti giorni prima dell’udienza e i termini di cui ai commi 1 e 2 sono ridotti a cinque giorni per la richiesta di intervenire in udienza, a dieci giorni per le memorie e a tre giorni per le memorie di replica.

2-sexies. Se ritiene di dare al fatto una definizione giuridica diversa, la corte dispone con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, indicando la ragione del rinvio e dandone comunicazione alle parti con l’avviso di fissazione della nuova udienza.»;

  1. all’articolo 623, comma 1:
  • alla lettera b), le parole: «, 4 e 5-bis» sono sostituite dalle seguenti: «e 4»;
  • dopo la lettera b), è inserita la seguente: «b-bis) se è annullata una sentenza di condanna nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-bis, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice del grado e della fase in cui si è verificata la nullità o, nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-ter, al giudice del grado e della fase nella quale può essere esercitata la facoltà dalla quale l’imputato è decaduto, salvo  risulti che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo e nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata;».

 

ART. 36

(Inserimento del Titolo III bis del Libro IX del codice di procedura penale)

  1. Dopo il Titolo III del Libro IX del codice di procedura penale è inserito il seguente:

«Titolo III-bis

Rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo

Art. 628- bis

(Richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei Protocolli addizionali)

  1. Il condannato e la persona sottoposta a misura di sicurezza possono richiedere alla Corte di cassazione di revocare la sentenza penale o il decreto penale di condanna pronunciati nei loro confronti, di disporre la riapertura del procedimento o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quando hanno proposto ricorso per l’accertamento di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dai Protocolli addizionali alla Convenzione e la Corte europea ha accolto il ricorso con decisione definitiva, oppure ha disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso ai sensi dell’articolo 37 della Convenzione a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato.
  2. La richiesta di cui al comma 1 contiene l’indicazione specifica delle ragioni che la giustificano ed è presentata personalmente dall’interessato o, in caso di morte, da un suo congiunto, a mezzo di difensore munito di procura speciale, con ricorso depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza o il decreto penale di condanna nelle forme previste dall’articolo 582, entro novanta giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte europea che ha accertato la violazione o dalla data in cui è stata emessa la decisione che ha disposto la cancellazione del ricorso dal ruolo. Unitamente alla richiesta sono depositati, con le medesime modalità, la sentenza o il decreto penale di condanna, la decisione emessa dalla Corte europea e gli eventuali ulteriori atti e documenti che giustificano la richiesta.
  3. Le disposizioni del comma 2, primo periodo, si osservano a pena di inammissibilità.
  4. Sulla richiesta la Corte di cassazione decide in camera di consiglio a norma dell’articolo 611. Se ne ricorrono i presupposti, la corte dispone la sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza ai sensi dell’articolo 635.
  5. Fuori dei casi di inammissibilità, la corte accoglie la richiesta quando la violazione accertata dalla Corte europea, per natura e gravità, ha avuto una incidenza effettiva sulla sentenza o sul decreto penale di condanna pronunciati nei confronti del richiedente. Se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto o comunque risulta superfluo il rinvio, la corte assume i provvedimenti necessari a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, anche disponendo la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna, ove necessario. Altrimenti, secondo i casi, trasmette gli atti al giudice dell’esecuzione o dispone la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione e stabilisce se e in quale parte conservano efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi.
  6. La prescrizione riprende il suo corso dalla pronuncia della Corte di cassazione che dispone la riapertura del processo davanti al giudice di primo grado.
  7. Quando la riapertura del processo è disposta davanti alla corte di appello, fermo restando quanto previsto dall’articolo 624, si osservano le disposizioni di cui ai commi 1, 4, 5, 6 e 7 dell’articolo 344-bis e il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all’articolo 128.
  8. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando la violazione accertata dalla Corte europea riguarda il diritto dell’imputato di partecipare al processo.»;

ART. 37

(Modifiche al Titolo IV del Libro IX del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo IV del Libro IX del codice di procedura penale, l’articolo 629-bis è sostituito dal seguente:

«Art. 629-bis

(Rescissione del giudicato)

  1. Fuori dei casi disciplinati dall’articolo 628-bis, il condannato o la persona sottoposta a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato nei cui confronti si sia proceduto in assenza, può ottenere la rescissione del giudicato qualora provi che sia stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, che non abbia avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e che non abbia potuto proporre impugnazione della sentenza nei termini senza sua colpa.
  2. La richiesta è presentata alla corte di appello nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento, a pena di inammissibilità, personalmente dall’interessato o da un difensore munito di procura speciale autenticata nelle forme previste dall’articolo 583, comma 3, entro trenta giorni dal momento dell’avvenuta conoscenza della sentenza.
  3. La corte di appello provvede ai sensi dell’articolo 127 e, se accoglie la richiesta, revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice della fase o del grado in cui si è verificata la nullità.
  4. Si applicano gli articoli 635 e 640.».

 

CAPO X

Modifiche al Libro X del codice di procedura penale

 

ART. 38

(Modifiche al Titolo II del Libro X del codice di procedura penale)

  1. Al Libro X, Titolo II del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 656:
  • al comma 3, dopo le parole: «necessarie all’esecuzione» sono aggiunte le seguenti: «nonché l’avviso al condannato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa»;
  • al comma 5, dopo il terzo periodo è aggiunto il seguente: «Con l’avviso il condannato è informato che, se il processo si è svolto in sua assenza, nel termine di trenta giorni dalla conoscenza della sentenza può chiedere, in presenza dei relativi presupposti, la restituzione nel termine per proporre impugnazione o la rescissione del giudicato. Nell’avviso è indicata anche l’informazione al condannato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.»;
  1. all’articolo 657, al comma 3, dopo le parole: «pubblico ministero» sono inserite le seguenti: «o, in caso di condanna alla pena del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, al giudice»; la parola: «sanzione» è sostituita dalla parola: «pena» e la parola: «sanzioni», ovunque ricorra, è sostituita dalla parola: «pene»;
  2. l’articolo 660 è sostituito dal seguente: « Quando deve essere eseguita una condanna a pena pecuniaria, anche in sostituzione di una pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale ingiunge al condannato il pagamento.
  3. L’ordine è notificato al condannato e al suo difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, e contiene le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e quanto altro valga a identificarla, l’imputazione, il dispositivo del provvedimento, l’indicazione dell’ammontare della pena, nonché le modalità del pagamento, che può avvenire in un’unica soluzione ovvero in rate mensili ai sensi dell’articolo 133- ter del codice penale, secondo quanto disposto dal giudice nella sentenza o nel decreto di condanna. Nei casi dell’articolo 534, l’ordine di esecuzione è notificato altresì al civilmente obbligato per la pena pecuniaria.
  4. L’ordine di esecuzione contiene altresì l’intimazione al condannato a pena pecuniaria di provvedere al pagamento entro il termine di novanta giorni dalla notifica e l’avviso che, in mancanza, la pena pecuniaria sarà convertita nella semilibertà sostitutiva o, in caso di accertata insolvibilità, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva, ai sensi degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ovvero, quando deve essere eseguita una pena pecuniaria sostitutiva, nella detenzione domiciliare sostitutiva o, in caso di accertata insolvibilità, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva, ai sensi dell’articolo 71 della legge 24 novembre 1981, n. 689. L’ordine di esecuzione contiene inoltre l’avviso al condannato che, quando non è già stato disposto nella sentenza o nel decreto di condanna, entro venti giorni, può depositare presso la segreteria del pubblico ministero istanza di pagamento rateale della pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 133-ter del codice penale. Se è presentata istanza di pagamento rateale, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che procede ai sensi dell’articolo 667, comma 4.

Con l’avviso il condannato è informato che, se il processo si è svolto in sua assenza, nel termine di trenta giorni dalla conoscenza della sentenza può chiedere, in presenza dei relativi presupposti, la restituzione nel termine per proporre impugnazione o la rescissione del giudicato. Nell’avviso è indicata anche l’informazione al condannato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa

  1. Quando con la sentenza o con il decreto di condanna è stato disposto il pagamento in rate mensili, ai sensi dell’articolo 133-ter del codice penale, l’ordine di esecuzione contiene l’indicazione del numero delle rate, dell’importo e delle scadenze di ciascuna per il pagamento. Con l’ordine di esecuzione il pubblico ministero ingiunge al condannato di pagare la prima rata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento, avvertendolo che in caso di mancato tempestivo pagamento della prima rata è prevista l’automatica decadenza dal beneficio e il pagamento della restante parte della pena in un’unica soluzione, da effettuarsi, a pena di conversione ai sensi del comma precedente, entro i sessanta giorni successivi.
  2. Quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza dell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero può assumere, anche presso il difensore, le opportune informazioni, all’esito delle quali può disporre la rinnovazione della notifica.
  3. Entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento della multa o dell’ammenda da parte del condannato e dichiara l’avvenuta esecuzione della pena. In caso di pagamento rateale, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento delle rate e, dopo l’ultima, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena.
  4. Quando accerta il mancato pagamento della pena pecuniaria, ovvero di una rata della stessa, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione ai sensi degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ovvero, quando si tratta di pena pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’articolo 71 della medesima legge. In ogni caso, se il pagamento della pena pecuniaria è stato disposto in rate mensili, è convertita la parte non ancora pagata.
  5. Il procedimento per la conversione della pena pecuniaria, anche sostitutiva, è disciplinato dall’articolo 667, comma 4. Per la conversione della pena pecuniaria, ai sensi degli articoli 71, 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si applica, in quanto compatibile, l’articolo 545- bis, commi 2 e 3.
  6. Il magistrato di sorveglianza provvede alla conversione della pena pecuniaria con ordinanza, previo accertamento della condizione di insolvenza ovvero di insolvibilità del condannato. A tal fine dispone le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si ha ragione di ritenere che il condannato possieda beni o cespiti di reddito e richiede, se necessario, informazioni agli organi finanziari o di polizia giudiziaria.
  7. Quando il mancato pagamento della pena pecuniaria è dovuto a insolvibilità, il condannato può chiedere al magistrato di sorveglianza il differimento della conversione per un tempo non superiore a sei mesi, rinnovabile per una sola volta se lo stato di insolvibilità perdura. Ai fini della estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale la conversione è stata differita.
  8. Se vi è stata condanna ai sensi dell’articolo 534, ed è accertata l’insolvibilità del condannato, il magistrato di sorveglianza ne dà comunicazione al pubblico ministero, il quale ordina al civilmente obbligato per la pena pecuniaria di provvedere al pagamento della multa o dell’ammenda entro il termine di cui al terzo comma, ovvero, in caso di pagamento rateale, entro il termine di cui al quarto comma. Qualora il civilmente obbligato per la pena pecuniaria non provveda al pagamento entro i termini stabiliti, il pubblico ministero ne dà comunicazione al magistrato di sorveglianza che provvede alla conversione della pena nei confronti del condannato.
  9. L’ordinanza di conversione è eseguita dal magistrato di sorveglianza, ai sensi degli articoli 62 e 63 della legge 24 novembre 1981, n. 689 in quanto compatibili.
  10. Il ricorso contro l’ordinanza di conversione ne sospende l’esecuzione.
  11. Per l’esecuzione delle pene sostitutive conseguenti alla conversione della pena pecuniaria si applica l’articolo 107 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
  12. Le pene sostitutive, conseguenti alla conversione della pena pecuniaria, sono immediatamente revocate dal magistrato di sorveglianza quando risulta che il condannato ha pagato la multa o l’ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della pena da conversione espiata. Durante l’esecuzione, il condannato può chiedere al magistrato di sorveglianza di essere ammesso al pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133- ter del codice penale. In tal caso, dopo il pagamento della prima rata l’esecuzione della pena da conversione è sospesa, e riprende in caso di mancato pagamento di una delle rate.»;
  13. all’articolo 661:
  • il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a una delle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare, il pubblico ministero trasmette la sentenza al magistrato di sorveglianza, che provvede senza ritardo ai sensi dell’articolo 62 della legge 24 novembre 1981 n. 689. Fino alla decisione del magistrato di sorveglianza, se il condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare è in custodia cautelare permane nello stato detentivo in cui si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti. In tutti gli altri casi, le misure cautelari disposte perdono immediatamente efficacia.»;
  • dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. L’esecuzione del lavoro di pubblica utilità è ordinata dal giudice che ha applicato la pena, il quale provvede ai sensi dell’articolo 63 della legge 24 novembre 1981, n. 689.».

ART. 39

(Modifiche al Titolo III del Libro X del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo III del Libro X del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 666, comma 4, le parole: «; tuttavia, se è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice,» sono sostituite dalle seguenti: «. A tal fine si procede mediante collegamento a distanza, quando una particolare disposizione di legge lo prevede o quando l’interessato vi consente. Tuttavia, se è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e non consente all’audizione mediante collegamento a distanza, l’interessato»;
  3. all’articolo 676, comma 1, al primo periodo, dopo le parole: «cose sequestrate» sono inserite le seguenti: «e all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis»;
  4. all’articolo 678, al comma 1-bis, le parole: «della semidetenzione e della libertà controllata» sono sostituite con le seguenti: «delle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare e delle pene conseguenti alla conversione della pena pecuniaria».

 

CAPO XI

Modifiche al Libro XI del codice di procedura penale

 

ART. 40

(Modifiche al Titolo II del Libro XI del codice di procedura penale)

  1. Al Titolo II del Libro XI del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 703, al comma 2, dopo il quarto periodo, è inserito il seguente: «Quando una particolare disposizione di legge lo prevede, il procuratore generale dispone che l’interessato partecipi a distanza all’interrogatorio. Il procuratore generale può altresì autorizzare a partecipare a distanza all’interrogatorio l’interessato e il difensore quando ne fanno richiesta.»;
  3. all’articolo 717, comma 2, dopo il secondo periodo è inserito il seguente: «Quando una particolare disposizione di legge lo prevede, il presidente della corte dispone che l’interessato partecipi a distanza all’interrogatorio. Il presidente della corte può altresì autorizzare l’interessato e il difensore a partecipare a distanza all’interrogatorio quando ne fanno richiesta.».

TITOLO III

Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale

ART. 41

(Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale)

  1. Alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, sono apportate le seguenti modifiche:
  2. dopo l’articolo 3, abrogato dall’articolo 7, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, è inserito il seguente:

«Art. 3-bis

(Priorità nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale)

  1. Nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio.»;
  2. all’articolo 28, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente: «1- Contestualmente sono comunicati i recapiti, anche telefonici e telematici, del difensore.»;
  3. dopo l’articolo 45-bis è inserito il seguente:

«Art. 45-ter

(Giudice competente in ordine all’accesso alla giustizia riparativa)

  1. A seguito dell’emissione del decreto di citazione diretta a giudizio i provvedimenti concernenti l’invio al Centro per la giustizia riparativa sono adottati dal giudice per le indagini preliminari fino a quando il decreto, unitamente al fascicolo, non è trasmesso al giudice a norma dell’articolo 553, comma 1, del codice. Dopo la pronuncia della sentenza e prima della trasmissione degli atti a norma dell’articolo 590 del codice, provvede il giudice che ha emesso la sentenza; durante la pendenza del ricorso per cassazione, provvede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.»;
  2. all’articolo 55, al comma 2, le parole: «e il testo del fonogramma» sono soppresse;
  3. dopo l’articolo 56 è inserito il seguente:

«Art. 56-bis

(Notificazione con modalità telematiche effettuate dal difensore)

  1. La notificazione con modalità telematiche è eseguita dal difensore a mezzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato a un domicilio digitale risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un domicilio digitale del notificante risultante da pubblici elenchi.
  2. L’avvocato redige la relazione di notificazione su documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale o altra firma elettronica qualificata ed allegato al messaggio inviato con le modalità di cui al comma 1. La relazione deve contenere:
  3. a) il nome e il cognome dell’avvocato notificante;
  4. b) il nome e il cognome della parte che lo ha nominato o nel cui interesse è stato nominato;
  5. c) il nome e cognome del destinatario;
  6. d) il domicilio digitale a cui l’atto viene notificato;
  7. e) l’indicazione dell’elenco da cui il predetto domicilio digitale è stato estratto;
  8. f) l’ufficio giudiziario, l’eventuale sezione e il numero del procedimento.
  9. Quando l’atto da notificarsi è redatto in forma di documento analogico, l’avvocato provvede ad estrarne copia informatica, sulla quale appone attestazione di conformità nel rispetto delle modalità previste per i procedimenti civili.
  10. Ai fini previsti dall’articolo 152 del codice, il difensore documenta l’avvenuta notificazione dell’atto con modalità telematiche depositando in cancelleria il duplicato informatico o la copia informatica dell’atto inviato, attestandone la conformità all’originale, la relazione redatta con le modalità di cui al comma 2, nonché le ricevute di accettazione e di avvenuta consegna generate dal sistema.»;
  11. dopo l’articolo 63 è inserito il seguente:

«Art. 63-bis

(Comunicazione di cortesia)

  1. La cancelleria o la segreteria, in tutti i casi in cui la relazione della notificazione alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato, fatta eccezione per il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, attesta l’avvenuta consegna dell’atto a persona fisica diversa dal destinatario, dà avviso di cortesia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto tramite comunicazione al recapito telefonico o all’indirizzo di posta elettronica dallo stesso indicato ai sensi dell’articolo 349, comma 3, del codice.»;
  2. l’articolo 64 è sostituito dal seguente:

«Art. 64

(Comunicazione di atti)

  1. La comunicazione di atti del giudice ad altro giudice si esegue mediante trasmissione di copia dell’atto con le modalità telematiche di cui all’articolo 148, comma 1, del codice o nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero mediante consegna al personale di cancelleria, che ne rilascia ricevuta su apposito registro custodito presso la cancelleria del giudice che ha emesso l’atto.
  2. La comunicazione di atti dal giudice al pubblico ministero che ha sede diversa da quella del giudice si esegue mediante trasmissione di copia dell’atto con le modalità telematiche di cui all’articolo 148, comma 1, del codice o, nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
  3. Nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, quando ricorre una situazione di urgenza o l’atto contiene disposizioni concernenti la libertà personale, la comunicazione è eseguita col mezzo più celere nelle forme previste dall’articolo 149 del codice ovvero è eseguita dalla polizia giudiziaria mediante consegna di copia dell’atto presso la cancelleria o la segreteria. In questo ultimo caso, la polizia redige verbale, copia del quale è trasmessa al giudice che ha emesso l’atto.»;
  4. dopo l’articolo 64-bis è inserito il seguente:

«Art. 64-ter

(Diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini)

  1. L’imputato destinatario di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere e la persona sottoposta alle indagini destinataria di un provvedimento di archiviazione possono richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016.
  2. Nel caso di richiesta volta a precludere l’indicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone e sottoscrive la seguente annotazione, recante sempre l’indicazione degli estremi del presente articolo: «Ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del Regolamento del Parlamento europeo del 27 aprile 2016, n. 679, è preclusa l’indicizzazione dei dati personali dell’interessato, riportati nel provvedimento».
  3. Nel caso di richiesta volta ad ottenere la deindicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone e sottoscrive la seguente annotazione, recante sempre l’indicazione degli estremi del presente articolo: «Il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante»;
  4. all’articolo 86 sono apportate le seguenti modificazioni:

1) al comma 1, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: «Il compimento delle operazioni di vendita può essere delegato a un istituto all’uopo autorizzato o ad uno dei professionisti indicati negli articoli 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile, con le modalità ivi previste, in quanto compatibili.»;

2) dopo il comma 1, è inserito il seguente: «1-bis. Qualora sia stata disposta una confisca per equivalente di beni non sottoposti a sequestro o, comunque, non specificamente individuati nel provvedimento che dispone la confisca, l’esecuzione si svolge con le modalità previste per l’esecuzione delle pene pecuniarie, ferma la possibilità per il pubblico ministero di dare esecuzione al provvedimento su beni individuati successivamente al provvedimento di confisca.»;

  1. all’articolo 104-bis, sono apportate le seguenti modificazioni:

1) al comma 1, le parole: «Nel caso» sono sostituite dalle seguenti: «In tutti i casi» e la parola: «abbia» è sostituita dalle seguenti: «o la confisca abbiano»;

2) al comma 1-bis le parole: «Quando il sequestro è disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice» sono sostituite dalle seguenti: «In caso di sequestro disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice o di confisca»;

3) al comma 1-quater, l’ultimo periodo è soppresso;

4) il comma 1-sexies è sostituito dal seguente: «In tutti i casi di sequestro preventivo e confisca restano comunque salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche nel caso indicato dall’articolo 578-bis del codice.»;

5) nella rubrica, le parole «a sequestro preventivo e a sequestro e confisca in casi particolari» sono sostituite dalle seguenti: «sequestro e confisca»;

  1. dopo l’articolo 110-bis, sono inseriti i seguenti:

«Art. 110-ter

(Informazione sulle iscrizioni)

  1. Il pubblico ministero, quando presenta una richiesta al giudice per le indagini preliminari, indica sempre la notizia di reato e il nome della persona a cui è attribuita.

Art. 110- quater

(Riferimenti alla persona iscritta nel registro delle notizie di reato contenuti nelle disposizioni civili e amministrative)

  1. Fermo quanto previsto dal secondo periodo dell’articolo 335-bis del codice, le disposizioni da cui derivano effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta a indagini devono intendersi nel senso che esse si applicano comunque alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautelare personale o è stata esercitata l’azione penale.»;
  2. l’articolo 127 è sostituito dal seguente:

«Art. 127

(Comunicazione delle notizie di reato al procuratore generale)

  1. La segreteria del pubblico ministero trasmette ogni settimana al procuratore generale presso la corte di appello i dati di cui al comma 3 relativi ai procedimenti di seguito indicati, da raggrupparsi in distinti elenchi riepilogativi:
  2. a) procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407-bis, comma 2, del codice;
  3. b) procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha assunto le determinazioni sull’azione penale nei termini di cui all’articolo 415-ter, comma 3, primo e secondo periodo del codice;
  4. c) procedimenti, diversi da quelli indicati alle lettere b) e c), nei quali il pubblico ministero, non ha esercitato l’azione penale, né richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407-bis, comma 2, e 415-ter, comma 3, quarto periodo.
  5. Per ciascuno dei procedimenti di cui al comma 1, lettera a), è specificato se il pubblico ministero ha formulato la richiesta di differimento di cui al comma 5-bis dell’articolo 415-bis del codice e, in caso affermativo, se il procuratore generale ha provveduto sulla richiesta e con quale esito.
  6. Per ciascuno dei procedimenti indicati al comma 1, la segreteria del pubblico ministero comunica:
  7. a) le generalità della persona sottoposta alle indagini o quanto altro valga a identificarla;
  8. b) il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona sottoposta alle indagini;
  9. c) le generalità della persona offesa o quanto altro valga a identificarla;
  10. d) il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona offesa;
  11. e) i nominativi dei difensori della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa e i relativi recapiti;
  12. f) il reato per cui si procede, con indicazione delle norme di legge che si assumono violate, nonché, se risultano, la data e il luogo del fatto.»;
  13. dopo l’articolo 127 è inserito il seguente:

«Art. 127-bis.

(Avocazione e criteri di priorità)

1.Nel disporre l’avocazione delle notizie di reato nei casi previsti dagli articoli 412 e 421-bis, comma 2, del codice, il procuratore generale presso la corte d’appello tiene conto dei criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio della procura della Repubblica che ha iscritto la notizia di reato.»;

  1. dopo l’articolo 132-bis è inserito il seguente:

«Art. 132-ter.

(Fissazione dell’udienza per la riapertura del processo)

  1. I dirigenti degli uffici giudicanti adottano i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la celebrazione, nella medesima aula di udienza, il primo giorno non festivo del mese di febbraio e il primo giorno non festivo del mese di settembre di ogni anno delle udienze destinate alla riapertura dei procedimenti definiti con sentenza resa ai sensi dell’articolo 420-quater, nonché alla celebrazione dei processi nei quali è stata pronunciata l’ordinanza di cui all’articolo 598-ter, comma 2.»;
  2. all’articolo 141, al comma 4-bis, dopo il primo periodo è inserito il seguente: «La disposizione di cui al periodo precedente si applica anche nel caso di nuove contestazioni ai sensi degli articoli 517 e 518 del codice.»;
  3. all’articolo 141-bis:
  • dopo il comma 1 è aggiunto il seguente: «1-bis. Il pubblico ministero può formulare la proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova, prevista dall’articolo 464-ter.1 del codice, in occasione della notifica dell’avviso previsto dall’articolo 415-bis del codice.»;
  • nella rubrica, dopo le parole: «alla messa alla prova.» sono aggiunte le seguenti: «Proposta di messa alla prova formulata dal pubblico ministero.»;
  1. all’articolo 141-ter dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. Gli uffici di esecuzione penale esterna forniscono le indicazioni loro richieste dal pubblico ministero ai sensi dell’articolo 464-ter.1, comma 1, del codice entro il termine di trenta giorni.»
  2. all’articolo 142:
    • al comma 3, dopo la lettera d) è inserita la seguente: «d-bis) l’avvertimento che la mancata comparizione senza giustificato motivo del querelante all’udienza in cui è citato a comparire come testimone integra remissione tacita di querela, nei casi in cui essa è consentita»; alla lettera e), dopo le parole: «l’avvertimento che,» sono inserite le seguenti: «fuori del caso previsto dalla lettera d-bis),»;
    • al comma 4, dopo le parole: «previsti dal comma 3 lettere b), c), d),» sono inserite le seguenti: «d-bis),».
  3. all’articolo 145, al comma 2, le parole: «può stabilire» sono sostituite dalla seguente: «stabilisce»;
  4. all’articolo 146-bis, al comma 4-bis, la parola: «altre» è soppressa e dopo la parola: «parti» è inserita la seguente: «private»;
  5. all’articolo 147-bis, il comma 2 è sostituito dal seguente: «Il giudice o il presidente, sentite le parti, può disporre, anche d’ufficio, che l’esame si svolga a distanza»;
  6. all’articolo 154, al comma 2, le parole: «consegna la minuta» sono sostituite dalle seguenti: «rende disponibile la bozza» e, al comma 4, le parole: «, verificata la corrispondenza dell’originale alla minuta,» sono sostituite dalle seguenti: «rende disponibile la bozza»;
  7. dopo l’articolo 165-bis, è inserito il seguente:

«Art. 165-ter

(Monitoraggio dei termini di cui all’articolo 344 bis del codice)

  1. I presidenti della Corte di cassazione e delle corti di appello adottano i provvedimenti organizzativi necessari per attuare il costante monitoraggio dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione e del rispetto della disposizione di cui all’articolo 175-bis.»;
  2. dopo l’articolo 167, è inserito il seguente:

«Art. 167-bis

(Adempimenti connessi all’udienza di cui all’articolo 598-bis del codice)

  1. Avviso del deposito del provvedimento emesso dalla Corte in seguito alla camera di consiglio di cui all’articolo 598 bis del codice, contenente l’indicazione del dispositivo, è comunicato a cura della cancelleria al procuratore generale e ai difensori delle altre parti.»;
  2. dopo l’articolo 175, è inserito il seguente:

«Art. 175-bis 

(Decisione sulla improcedibilità ai sensi dell’articolo 344 bis del codice)

  1. Ai fini di cui agli articoli 578, comma 1-bis, e 578-ter, comma 2, del codice, la Corte di cassazione e le corti di appello, nei procedimenti in cui sono costituite parti civili o vi sono beni in sequestro, si pronunciano sulla improcedibilità non oltre il sessantesimo giorno successivo al maturare dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione di cui all’articolo 344-bis del codice.»;
  2. dopo l’articolo 181, è inserito il seguente:

«Art. 181-bis

(Modalità di pagamento delle pene pecuniarie)

  1. Le modalità di pagamento delle pene pecuniarie applicate dal giudice con la sentenza o con il decreto di condanna sono indicate dal pubblico ministero, anche in via alternativa, nell’ordine di esecuzione di cui all’articolo 660 del codice. Esse comprendono, in ogni caso, il pagamento attraverso un modello precompilato, allegato all’ordine di esecuzione.
  2. Le modalità tecniche di pagamento, anche per via telematica, sono individuate e periodicamente aggiornate con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi per la prima volta entro novanta giorni dall’entrata in vigore della presente disposizione.»;
  3. all’articolo 205-ter:
    • al comma 1 le parole: «146-bis» sono sostituite dalle seguenti «133-ter del codice»;
    • al comma 5, le parole: «147-bis» sono sostituite dalle seguenti «133-ter del codice».

TITOLO IV

Disciplina organica della giustizia riparativa

 

CAPO I

Principi e disposizioni generali

 

Sezione I

Definizioni, principi e obiettivi

ART. 42

(Definizioni)

  1. Ai fini del presente decreto si intende per:
  2. a) giustizia riparativa: ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore;
  3. b) vittima del reato: la persona fisica che ha subìto direttamente dal reato qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona;
  4. c) persona indicata come autore dell’offesa: la persona indicata come tale dalla vittima prima della proposizione della querela, la persona sottoposta alle indagini, l’imputato, la persona sottoposta a misura di sicurezza personale, la persona condannata con pronuncia irrevocabile, la persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva;
  5. d) familiare: il coniuge, la parte di un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 20 maggio 2016, n. 76, il convivente di fatto di cui all’articolo 1, comma 36, della stessa legge, la persona che è legata alla vittima o alla persona indicata come autore dell’offesa da un vincolo affettivo stabile, nonché i parenti in linea retta, i fratelli, le sorelle e le persone a carico della vittima o della persona indicata come autore dell’offesa;
  6. e) esito riparativo: qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti;
  7. f) servizi per la giustizia riparativa: tutte le attività relative alla predisposizione, al coordinamento, alla gestione e all’erogazione di programmi di giustizia riparativa;
  8. g) Centro per la giustizia riparativa: la struttura pubblica di cui al capo V, sezione II, cui competono le attività necessarie all’organizzazione, gestione, erogazione e svolgimento dei programmi di giustizia riparativa.
  9. I diritti e le facoltà attribuite alla vittima del reato sono riconosciuti anche al soggetto giuridico offeso dal reato.

ART. 43

(Principi generali e obiettivi)

  1. La giustizia riparativa in materia penale si conforma ai seguenti principi:
  2. a) la partecipazione attiva e volontaria della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima del reato e degli altri eventuali partecipanti alla gestione degli effetti pregiudizievoli causati dall’offesa;
  3. b) l’eguale considerazione dell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa;
  4. c) il coinvolgimento della comunità nei programmi di giustizia riparativa;
  5. d) il consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa;
  6. e) la riservatezza sulle dichiarazioni e sulle attività svolte nel corso dei programmi di giustizia riparativa;
  7. f) la ragionevolezza e proporzionalità degli eventuali esiti riparativi consensualmente raggiunti;
  8. g) l’indipendenza dei mediatori e la loro equiprossimità rispetto ai partecipanti ai programmi di giustizia riparativa;
  9. h) la garanzia del tempo necessario allo svolgimento di ciascun programma.
  10. I programmi di giustizia riparativa tendono a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità.
  11. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa è assicurato ai soggetti che vi hanno interesse con le garanzie previste dal presente decreto ed è gratuito.
  12. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito, senza discriminazioni e nel rispetto della dignità di ogni persona. Può essere limitato soltanto in caso di pericolo concreto per i partecipanti, derivante dallo svolgimento del programma.

Sezione II

Accesso ai programmi di giustizia riparativa

 

ART. 44

(Principi sull’accesso)

  1. I programmi di giustizia riparativa disciplinati dal presente decreto sono accessibili senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità.
  2. Ai programmi di cui al comma 1 si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione delle stesse e all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del
  3. Qualora si tratti di delitti perseguibili a querela, ai programmi di cui al comma 1 si può accedere anche prima che la stessa sia stata proposta.

ART. 45

 (Partecipanti ai programmi di giustizia riparativa)

  1. Possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa, con le garanzie di cui al presente decreto:
  2. a) la vittima del reato;
  3. b) la persona indicata come autore dell’offesa;
  4. c) altri soggetti appartenenti alla comunità, quali familiari della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa, persone di supporto segnalate dalla vittima del reato e dalla persona indicata come autore dell’offesa, enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali;
  5. d) chiunque altro vi abbia interesse.

Sezione III

Persone minori di età

 

ART. 46

(Diritti e garanzie per le persone minori di età)

  1. Nello svolgimento dei programmi di giustizia riparativa che coinvolgono a qualsiasi titolo persone minori di età, le disposizioni del presente decreto, in quanto compatibili, sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze del minorenne, tenuto in considerazione il suo superiore interesse conformemente a quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata dalla legge 27 maggio 1991, n. 176.
  2. Allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa che coinvolgono a qualsiasi titolo persone minori di età sono assegnati mediatori dotati di specifiche attitudini, avuto riguardo alla formazione e alle competenze acquisite.

 

Capo II

Garanzie dei programmi di giustizia riparativa

 

Sezione I

Disposizioni in materia di diritti dei partecipanti

 

ART. 47

(Diritto all’informazione)

  1. La persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato vengono informate senza ritardo da parte dell’autorità giudiziaria, in ogni stato e grado del procedimento penale o all’inizio dell’esecuzione della pena detentiva o della misura di sicurezza, in merito alla facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa e ai servizi disponibili.
  2. L’informazione di cui al comma 1 è altresì fornita agli interessati dagli istituti e servizi, anche minorili, del Ministero della giustizia, dai servizi sociali del territorio, dai servizi di assistenza alle vittime, dall’autorità di pubblica sicurezza, nonché da altri operatori che a qualsiasi titolo sono in contatto con i medesimi soggetti.
  3. I soggetti di cui all’articolo 45 hanno diritto di ricevere dai mediatori una informazione effettiva, completa e obiettiva sui programmi di giustizia riparativa disponibili, sulle modalità di accesso e di svolgimento, sui potenziali esiti e sugli eventuali accordi tra i partecipanti. Vengono inoltre informati in merito alle garanzie e ai doveri previsti nel presente decreto.
  4. Le informazioni di cui al presente articolo sono fornite all’esercente la responsabilità genitoriale, al tutore, all’amministratore di sostegno, al curatore speciale nei casi di cui all’articolo 121 del codice penale, nonché al difensore della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa, ove nominato.
  5. Le informazioni vengono fornite ai destinatari in una lingua comprensibile e in modo adeguato all’età e alle capacità degli stessi.

 

ART. 48

(Consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa)

  1. Il consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa è personale, libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta. È sempre revocabile anche per fatti concludenti.
  2. Per la persona minore d’età che non ha compiuto gli anni quattordici, il consenso è espresso, previo ascolto e assenso della stessa, tenuto conto della sua capacità di discernimento, dall’esercente la responsabilità genitoriale o, nei casi di cui all’articolo 121 del codice penale, dal curatore speciale.
  3. Per la persona minore d’età che ha compiuto gli anni quattordici, il consenso è espresso dalla stessa e dall’esercente la responsabilità genitoriale o, nei casi di cui all’articolo 121 del codice penale, dal curatore speciale. Qualora l’esercente la responsabilità genitoriale o il curatore speciale non prestino il consenso, il mediatore, sentiti i soggetti interessati e considerato l’interesse della persona minore d’età, valuta se procedere sulla base del solo consenso di quest’ultima. Restano fermi i limiti inerenti alla capacità di agire del minore.
  4. Nel caso di interdetto giudiziale il consenso è espresso dal tutore, sentito l’interdetto. Nel caso di inabilitato il consenso è espresso dallo stesso e dal curatore. Nel caso di persona sottoposta ad amministrazione di sostegno il consenso è espresso da quest’ultima, da sola o con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, sulla base delle indicazioni contenute nel provvedimento di cui agli articoli 405 e 407, comma 4, del codice civile appositamente emesso.
  5. Il consenso per l’ente è espresso dal legale rappresentante pro tempore o da un suo delegato.
  6. Il consenso viene raccolto nel corso del primo incontro dal mediatore designato, alla presenza anche del difensore della vittima del reato o della persona indicata come autore dell’offesa, se questi lo richied

ART. 49

(Diritto all’assistenza linguistica)

  1. La persona indicata come autore dell’offesa, la vittima del reato e gli altri partecipanti che non parlano o non comprendono la lingua italiana hanno diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di prendere parte consapevolmente ai programmi di giustizia riparativa.
  2. Negli stessi casi è disposta la traduzione della relazione del mediatore.
  3. La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano. L’impiego di una lingua diversa dalla lingua madre dell’interessato è consentito solo laddove l’interessato ne abbia una conoscenza sufficiente ad assicurare la partecipazione effettiva al programma. L’accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dal mediatore.
  4. L’interprete e il traduttore sono nominati anche quando il mediatore ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare.
  5. La nomina dell’interprete o del traduttore è regolata dagli articoli 144 e seguenti del codice di procedura penale, in quanto compatibili.

Sezione II

Doveri e garanzie dei mediatori e dei partecipanti

 

ART. 50

(Dovere di riservatezza)

  1. I mediatori e il personale dei Centri per la giustizia riparativa sono tenuti alla riservatezza sulle attività e sugli atti compiuti, sulle dichiarazioni rese dai partecipanti e sulle informazioni acquisite per ragione o nel corso dei programmi di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione o il mediatore ritenga questa assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e quando le dichiarazioni integrino di per sé reato.
  2. I partecipanti sono tenuti a non rendere pubbliche le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del programma di giustizia riparativa prima della sua conclusione e della definizione del procedimento penale con sentenza o decreto penale irrevocabili.
  3. Dopo la conclusione del programma di giustizia riparativa e la definizione del procedimento penale con sentenza o decreto penale irrevocabili, la pubblicazione delle dichiarazioni e delle informazioni acquisite è ammessa con il consenso dell’interessato e nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali.

ART. 51

(Inutilizzabilità)

 

  1. Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del programma non possono essere utilizzate nel procedimento penale e nella fase dell’esecuzione della pena, fatti salvi i contenuti della relazione di cui all’articolo 57 e fermo quanto disposto nell’articolo 50, comma 1.

 

ART. 52

(Tutela del segreto)

 

  1. Il mediatore non può essere obbligato a deporre davanti all’autorità giudiziaria né a rendere dichiarazioni davanti ad altra autorità sugli atti compiuti, sui contenuti dell’attività svolta, nonché sulle dichiarazioni rese dai partecipanti e sulle informazioni apprese per ragione o nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione o il mediatore ritenga questa assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e quando le dichiarazioni integrino di per sé reato.

Al mediatore si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale.

  1. Presso i mediatori e nei luoghi in cui si svolge il programma di giustizia riparativa non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto del programma, salvo che costituiscano corpo del reato.
  2. Non è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni nei luoghi in cui si svolge il programma di giustizia riparativa, né di conversazioni o comunicazioni dei mediatori che abbiano ad oggetto fatti conosciuti per ragione o nel corso del medesimo programma.
  3. I risultati dei sequestri e delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni eseguiti in violazione delle disposizioni di cui al presente articolo non possono essere utilizzati, salvo che costituiscano corpo di reato o, nel caso di intercettazioni, abbiano ad oggetto fatti sui quali i mediatori abbiano deposto o che gli stessi abbiano in altro modo divulgato.
  4. Il mediatore non ha obblighi di denuncia in relazione ai reati dei quali abbia avuto notizia per ragione o nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione o il mediatore ritenga questa assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e quando le dichiarazioni integrino di per sé reato.

 

Capo III

Programmi di giustizia riparativa

 

Sezione I

Svolgimento dei programmi di giustizia riparativa

 

ART. 53

(Programmi di giustizia riparativa)

  1. I programmi di giustizia riparativa si conformano ai principi europei e internazionali in materia e vengono svolti da almeno due mediatori con le garanzie previste dal presente decreto. Essi comprendono:
  2. a) la mediazione tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato, anche estesa ai gruppi parentali o con la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede;
  3. b) il dialogo riparativo;
  4. c) ogni altro programma dialogico guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa.

ART. 54

(Attività preliminari)

  1. L’incontro tra i partecipanti ai programmi di giustizia riparativa è preceduto da uno o più contatti con i mediatori e da colloqui tra il mediatore e ciascuno dei partecipanti diretti a fornire le informazioni previste dall’articolo 47, comma 3, a raccogliere il consenso, nonché a verificare la fattibilità dei programmi stessi.
  2. I difensori della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima del reato hanno facoltà di intervenire ai colloqui preliminari, su richiesta delle persone interessate.

 

ART. 55

(Svolgimento degli incontri)

  1. I programmi di giustizia riparativa si svolgono in spazi e luoghi adeguati allo svolgimento dei programmi e idonei ad assicurare riservatezza e indipendenza.
  2. Nello svolgimento degli incontri i mediatori assicurano il trattamento rispettoso, non discriminatorio ed equiprossimo dei partecipanti, garantendo tempi adeguati alle necessità del caso.
  3. Gli interessati partecipano personalmente a tutte le fasi del programma e possono essere assistiti da persone di supporto, anche in relazione alla loro capacità, fermo quanto previsto dall’articolo 54, comma 2.
  4. Il mediatore, anche su richiesta dell’autorità giudiziaria procedente, invia comunicazioni sullo stato e sui tempi del programma.

ART. 56

(Disciplina degli esiti riparativi)

  1. Quando il programma si conclude con un esito riparativo, questo può essere simbolico o materiale.
  2. L’esito simbolico può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi.
  3. L’esito materiale può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori.
  4. È garantita alle parti l’assistenza dei mediatori per l’esecuzione degli accordi relativi all’esito simbolico.
  5. I difensori della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima del reato hanno facoltà di assistere i partecipanti nella definizione degli accordi relativi all’esito materiale.

 

Sezione II

Valutazione dell’autorità giudiziaria

 

ART. 57

(Relazione e comunicazioni all’autorità giudiziaria)

  1. Al termine del programma viene trasmessa all’autorità giudiziaria procedente una relazione redatta dal mediatore contenente la descrizione delle attività svolte e dell’esito riparativo raggiunto. Ulteriori informazioni sono trasmesse su richiesta dei partecipanti e con il loro consenso.
  2. Il mediatore comunica all’autorità giudiziaria procedente anche la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo, fermo restando quanto disposto dall’articolo 58.

ART. 58

(Valutazione dell’esito del programma di giustizia riparativa)

  1. L’autorità giudiziaria, per le determinazioni di competenza, valuta lo svolgimento del programma e, anche ai fini di cui all’articolo 133 del codice penale, l’eventuale esito riparativo.
  2. In ogni caso, la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa.

 

Capo IV

Formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa

e requisiti per l’esercizio dell’attività

 

Sezione I

Formazione dei mediatori esperti

 

ART. 59

(Formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa)

  1. La formazione dei mediatori esperti assicura l’acquisizione delle conoscenze, competenze, abilità e dei principi deontologici necessari a svolgere, con imparzialità, indipendenza, sensibilità ed equiprossimità, i programmi di giustizia riparativa.
  2. I mediatori esperti ricevono una formazione iniziale e continua.
  3. La formazione iniziale consiste in almeno duecentoquaranta ore, di cui un terzo dedicato alla formazione teorica e due terzi a quella pratica, seguite da almeno cento ore di tirocinio presso uno dei Centri per la giustizia riparativa di cui al presente decreto.
  4. La formazione continua consiste in non meno di trenta ore annuali, dedicate all’aggiornamento teorico e pratico, nonché allo scambio di prassi nazionali, europee e internazionali.
  5. La formazione teoricafornisce conoscenze su principi, teorie e metodi della giustizia riparativa, nonché nozioni basilari di diritto penale, processuale penale, penitenziario e minorile, criminologia, vittimologia e ulteriori materie correlate.
  6. La formazione pratica mira a sviluppare capacità di ascolto e di relazione e a fornire competenze e abilità necessarie alla gestione degli effetti negativi dei conflitti, con specifica attenzione alle vittime, ai minorenni e alle altre persone vulnerabili.
  7. La formazione pratica e quella teorica sono assicurate dai Centri per la giustizia riparativa e dalle Università che operano in collaborazione, secondo le rispettive competenze. Ai Centri per la giustizia riparativa è affidata in particolare la formazione pratica, che viene impartita attraverso mediatori esperti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 60 i quali, congiuntamente, abbiano un’esperienza almeno quinquennale nei servizi per la giustizia riparativa e siano in possesso di comprovate competenze come formatori.
  8. L’accesso ai corsi è subordinato al possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea e al superamento di una prova di ammissione culturale e attitudinale.
  9. I partecipanti al corso di formazione acquisiscono la qualifica di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa in seguito al superamento della prova finale teorico-pratica.
  10. Con decreto del Ministro della giustizia, adottato di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, sono disciplinati le forme e i tempi della formazione pratica e teorica di cui al comma 7, nonché le modalità delle prove di cui ai commi 8 e 9. Gli oneri per la partecipazione alle attività di formazione ed alla prova finale teorico-pratica sono posti a carico dei partecipanti.

 

Sezione II

Requisiti per l’esercizio dell’attività

 

ART. 60

(Requisiti per l’esercizio dell’attività di mediatore esperto. Elenco dei mediatori esperti)

  1. Oltre ai requisiti di cui all’articolo 59, per l’esercizio dell’attività di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa è necessario l’inserimento nell’elenco di cui al comma 2.
  2. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca, da adottarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, è istituito presso il Ministero della giustizia l’elenco dei mediatori esperti. L’elenco contiene i nominativi dei mediatori esperti, con l’indicazione della eventuale qualifica di formatori. Il decreto stabilisce anche i criteri per la valutazione delle esperienze e delle competenze dei mediatori esperti, al fine dell’ammissione allo svolgimento dell’attività di formazione, nonché i criteri per l’iscrizione e la cancellazione, anche per motivi sopravvenuti, dall’elenco, le modalità di revisione dell’elenco, nonché la data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione di cui all’articolo 59 costituisce requisito obbligatorio per l’esercizio dell’attività di mediatore esperto. Lo stesso decreto disciplina le incompatibilità con l’esercizio dell’attività di mediatore esperto, nonché i requisiti di onorabilità e l’eventuale contributo per l’iscrizione nell’elenco.
  3. L’istituzione e la tenuta dell’elenco di cui al comma 2 avvengono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali già esistenti e disponibili a legislazione vigente, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato.

Capo V

Servizi per la giustizia riparativa

 

Sezione I

Coordinamento dei servizi e livelli essenziali delle prestazioni

 

ART. 61

(Coordinamento dei servizi e Conferenza nazionale per la giustizia riparativa)

  1. Il Ministero della giustizia provvede al coordinamento nazionale dei servizi per la giustizia riparativa, esercitando le funzioni di programmazione delle risorse, di proposta dei livelli essenziali delle prestazioni e di monitoraggio dei servizi erogati. A tali fini si avvale della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa.
  2. La Conferenza nazionale è presieduta dal Ministro della giustizia o da un suo delegato. Ad essa partecipano un rappresentante per ogni Regione o Provincia autonoma, un rappresentante della Cassa delle ammende e sei esperti con funzioni di consulenza tecnico-scientifica.
  3. La Conferenza nazionale è convocata annualmente dal Ministro della giustizia o da un suo delegato e si svolge mediante videoconferenza.
  4. La Conferenza redige annualmente una relazione sullo stato della giustizia riparativa in Italia, che viene presentata al Parlamento dal Ministro della giustizia.
  5. Gli esperti di cui al comma 2 sono nominati con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca, tra personalità di riconosciuta competenza ed esperienza nell’ambito della giustizia riparativa, tenuto conto della necessità di assicurare una equilibrata rappresentanza di mediatori esperti e di docenti universitari. L’incarico di esperto ha durata biennale, con possibilità di rinnovo per un ulteriore biennio.
  6. All’attuazione delle attività di cui al presente articolo le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. La partecipazione alle attività della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa non dà diritto a compensi, gettoni, emolumenti, indennità o rimborsi di spese di qualunque natura o comunque denominati.

ART. 62

(Livelli essenziali delle prestazioni)

  1. Mediante intesa assunta nella Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 sono stabiliti i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni dei servizi per la giustizia riparativa, in conformità ai principi e alle garanzie stabiliti dal presente decreto.
  2. Nella determinazione dei livelli essenziali sono indicate le risorse necessarie alla loro erogazione.

 

Sezione II

Centri di giustizia riparativa

 

ART. 63

(Istituzione dei Centri per la giustizia riparativa e Conferenza locale per la giustizia riparativa)

 

  1. I Centri per la giustizia riparativa sono istituiti presso gli enti locali, individuati a norma del presente articolo.
  2. Per ciascun distretto di corte d’appello è istituita la Conferenza locale per la giustizia riparativa cui partecipano, attraverso propri rappresentanti:
  3. a) il Ministero della giustizia;
  4. b) le Regioni o le Province autonome sul territorio delle quali si estende il distretto della corte d’appello;
  5. c) le Province o le Città metropolitane sul territorio delle quali si estende il distretto della corte d’appello;
  6. d) i Comuni, sedi di uffici giudiziari, compresi nel distretto di corte d’appello;
  7. e) ogni altro Comune, compreso nel distretto di corte d’appello, presso il quale sono in atto esperienze di giustizia riparativa.
  8. La Conferenza locale è convocata, anche su richiesta del Ministro della giustizia, con cadenza almeno annuale, dal Presidente della Regione o della Provincia autonoma o, se il distretto si estende sul territorio di più di una Regione, dal Presidente della Regione in cui ha sede l’ufficio di corte d’appello.
  9. La Conferenza locale è presieduta dal Presidente della Regione o della Provincia autonoma o da un loro delegato oppure, se il distretto si estende sul territorio di più di una Regione, dal Presidente della Regione in cui ha sede l’ufficio di Corte d’appello o da un suo delegato. Essa si svolge mediante videoconferenza.
  10. La Conferenza locale per la giustizia riparativa, previa ricognizione delle esperienze di giustizia riparativa in atto, sentiti gli esperti di cui all’articolo 61, comma 2, il Presidente della Corte d’appello, il Procuratore generale presso la Corte d’appello e il Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati del Comune sede dell’ufficio di Corte d’appello, anche in rappresentanza degli Ordini distrettuali, individua, mediante protocollo d’intesa, uno o più enti locali cui affidare l’istituzione e la gestione dei Centri per la giustizia riparativa in base ai seguenti criteri:
  11. a) il fabbisogno di servizi sul territorio;
  12. b) le risorse e le disponibilità;
  13. c) la necessità che l’insieme dei Centri assicuri per tutto il distretto, su base territoriale o funzionale;
  14. d) l’offerta dell’intera gamma dei programmi di giustizia;
  15. e) la necessità che i Centri assicurino, nello svolgimento dei servizi, i livelli essenziali delle prestazioni, il rispetto dei principi e delle garanzie stabiliti dal presente decreto.
  16. All’attuazione delle attività di cui al presente articolo le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. La partecipazione alle attività della Conferenza locale per la giustizia riparativa non dà diritto a compensi, gettoni, emolumenti, indennità o rimborsi di spese di qualunque natura o comunque denominati.

ART. 64

(Forme di gestione)

  1. I Centri per la giustizia riparativa assicurano, nello svolgimento dei servizi, i livelli essenziali e uniformi di cui all’articolo 62.
  2. I Centri possono avvalersi di mediatori esperti dell’ente locale di riferimento. Possono, altresì, dotarsi di mediatori esperti mediante la stipula di contratti di appalto ai sensi degli articoli 140 e ss. del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 ovvero avvalendosi di enti del terzo settore, individuati mediante procedura selettiva, stipulando con essi una convenzione ai sensi degli articoli 55 e 56 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117.
  3. Nel contratto di appalto o nella convenzione sono indicati, tra l’altro, le caratteristiche e le modalità di svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, la durata, gli obblighi e le modalità di copertura assicurativa, i rapporti finanziari, le forme del controllo amministrativo dell’ente locale di riferimento, i casi di decadenza e di risoluzione per inadempimento, tra i quali il mancato rispetto dei principi e delle garanzie disciplinati nel presente decreto.
  4. In ogni caso, il personale che svolge i programmi di giustizia riparativa deve possedere la qualifica di mediatore esperto ed essere inserito nell’elenco di cui all’articolo 60.

ART. 65

(Trattamento dei dati personali)

  1. I Centri per la giustizia riparativa trattano i dati personali, anche appartenenti alle categorie di cui agli articoli 9 e 10 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, strettamente necessari all’esercizio delle competenze e al raggiungimento degli scopi di cui al presente decreto, per le finalità di rilevante interesse pubblico di cui all’articolo 2 sexies, comma 2, lettera q) del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e assumono la qualità di titolari del trattamento.
  2. Il trattamento è effettuato nel rispetto del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 e del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
  3. Le tipologie dei dati che possono essere trattati, le categorie di interessati, i soggetti cui possono essere comunicati i dati personali, le operazioni di trattamento, nonché le misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti degli interessati sono definiti con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, nel termine di un anno dall’entrata in vigore del presente decreto.

 

ART. 66

 (Vigilanza del Ministero della giustizia)

  1. La Conferenza locale presenta annualmente al Ministero della giustizia una relazione sull’attività svolta. È, in ogni caso, nella facoltà del Ministero di richiedere in qualunque momento informazioni sullo stato dei servizi per la giustizia riparativa.
  2. Le informazioni acquisite sono valutate ai fini delle determinazioni da assumersi ai sensi dell’articolo 67, comma 1.

 

ART. 67

(Finanziamento)

  1. Nello stato di previsione del Ministero della giustizia è istituito un Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, con una dotazione iniziale di euro 438.524 annui a decorrere dall’anno 2022. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è  stabilita ogni anno la quota spettante agli enti locali di cui all’articolo 63, comma 5, per il funzionamento dei Centri per la giustizia riparativa per l’organizzazione e la prestazione dei relativi servizi, nel limite delle disponibilità del fondo istituito ai sensi del presente comma.
  2. Le Regioni e le Province autonome, le Città metropolitane, le Province, i Comuni e la Cassa delle Ammende, nel quadro delle rispettive politiche e competenze, possono concorrere, nei limiti delle risorse disponibili nell’ambito dei propri bilanci, al finanziamento dei programmi di giustizia riparativa.
  3. Nel limite delle disponibilità del fondo di cui al comma 1, fermo restando il finanziamento degli interventi necessari a garantire i livelli essenziali delle prestazioni di giustizia riparativa, la determinazione degli  importi da assegnare agli enti di cui al comma 2  tiene conto, sulla base di criteri di proporzionalità, dell’ammontare delle risorse proprie annualmente impiegate dagli stessi enti per il finanziamento dei programmi di giustizia riparativa, opportunamente documentati e rendicontati alla Conferenza nazionale di cui all’articolo 61.
  4. Agli oneri di cui al comma 1, pari a euro 4.438.524 annui a decorrere dall’anno 2022, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per l’attuazione della delega per l’efficienza del processo penale di cui all’articolo 1, comma 19, della legge 27 settembre 2021, n. 134.

TITOLO V

Ulteriori interventi e modifiche alle leggi speciali

 

CAPO I

Modifiche in materia di procedimento per decreto

 

ART. 68

(Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231)

  1. All’articolo 64, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, le parole «sei mesi sono sostituite dalle seguenti: «un anno».

 

CAPO II

Modifiche in materia di giustizia digitale

 

ART. 69

 (Modifiche in materia di giustizia digitale)

  1. Al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. all’articolo 16:
  • al comma 4, il secondo periodo è sostituito dal seguente: «Allo stesso modo si procede per le notificazioni da eseguire a norma dell’articolo 148, comma 1, del codice di procedura penale.»;
  • al comma 6, dopo le parole «ai soggetti» sono inserite le seguenti: «diversi dall’imputato»;
  • dopo il comma 7, è inserito il seguente: «7- Nei procedimenti penali quando l’imputato o le altre parti private dichiarano domicilio presso un indirizzo di posta elettronica certificata non risultante da pubblici elenchi, le comunicazioni e notificazioni a cura della cancelleria o della segreteria si effettuano ai sensi del comma 4. Nelle ipotesi di mancata consegna dei messaggi di posta elettronica certificata per cause non imputabili al destinatario, si applicano per l’imputato le disposizioni di cui all’articolo 161, comma 4, del codice di procedura penale e per le altre parti private le disposizioni di cui al comma 6 del presente decreto.»;
  • il comma 8 è sostituito dal seguente: «8. Quando non è possibile procedere ai sensi del comma 4 per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili si applicano l’articolo 136, terzo comma, e gli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile e, nei procedimenti penali, le disposizioni dell’articolo 148, comma 4, del codice di procedura penale.».

 

CAPO III

Modifiche in materia di estinzione delle contravvenzioni, di pene sostitutive e di pene pecuniarie

 

ART. 70

 (Modifiche alla legge 30 aprile 1962, n. 283)

  1. Alla legge 30 aprile 1962, n. 283, dopo l’articolo 12-bis, sono inseriti i seguenti:

«Art. 12-ter

(Estinzione delle contravvenzioni per adempimento di prescrizioni impartite dall’organo accertatore)

Salvo che concorrano con uno o più delitti, alle contravvenzioni previste dalla presente legge e da altre disposizioni aventi forza di legge, in materia di igiene, produzione, tracciabilità e vendita di alimenti e bevande, che siano suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie e per le quali sia prevista la pena della sola ammenda, ovvero la pena dell’ammenda, alternativa o congiunta a quella dell’arresto, si applicano le disposizioni del presente articolo e degli articoli 12-quater, 12-quinquies, 12-sexies, 12-septies, 12-octies e 12-nonies.

Per consentire l’estinzione della contravvenzione ed eliderne le conseguenze dannose o pericolose, l’organo accertatore, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all’articolo 55 del codice di procedura penale, ovvero la polizia giudiziaria, impartisce al contravventore un’apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario e comunque non superiore a sei mesi. In presenza di specifiche e documentate circostanze non imputabili al contravventore, che determinino un ritardo nella regolarizzazione, il termine può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore, per un periodo non superiore a ulteriori sei mesi, con provvedimento motivato che è comunicato immediatamente al pubblico ministero.

Copia della prescrizione è notificata o comunicata anche al rappresentante legale dell’ente nell’ambito o al servizio del quale opera il contravventore.

Con la prescrizione l’organo accertatore può imporre, anche con riferimento al contesto produttivo, organizzativo, commerciale o comunque di lavoro, specifiche misure atte a far cessare situazioni di pericolo ovvero la prosecuzione di attività potenzialmente pericolose per la sicurezza, l’igiene alimentare e la salute pubblica.

Resta in ogni caso fermo l’obbligo dell’organo accertatore di riferire al pubblico ministero la notizia di reato relativa alla contravvenzione, ai sensi dell’articolo 347 del codice di procedura penale, e di trasmettere il verbale con cui sono state impartite le prescrizioni.

Il pubblico ministero, quando lo ritiene necessario, può disporre con decreto che l’organo che ha impartito le prescrizioni apporti modifiche alle stesse.

Art. 12-quater

(Verifica dell’adempimento e ammissione al pagamento in sede amministrativa)

Entro trenta giorni dalla scadenza del termine fissato, l’organo che ha impartito le prescrizioni verifica se la violazione è stata eliminata secondo le modalità e nel termine indicati nella prescrizione.

Quando la prescrizione è adempiuta, l’organo accertatore ammette il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari ad un sesto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa, ai fini dell’estinzione del reato, destinata all’entrata del bilancio dello Stato.

Al più tardi entro sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato per il pagamento, l’organo accertatore comunica al pubblico ministero l’adempimento della prescrizione nonché il pagamento della somma di denaro.

Quando la prescrizione non è adempiuta, o la somma di denaro non è stata pagata, l’organo accertatore ne dà comunicazione al pubblico ministero e al contravventore entro e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella stessa prescrizione.

Art. 12-quinquies

(Prestazione di lavoro di pubblica utilità in alternativa al pagamento in sede amministrativa)

Entro il termine previsto dal secondo comma dell’articolo precedente, il contravventore che, per le proprie condizioni economiche e patrimoniali, sia impossibilitato a provvedere al pagamento della somma di denaro, può richiedere al pubblico ministero, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, di svolgere in alternativa lavoro di pubblica utilità presso lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. L’impossibilità di provvedere al pagamento è comprovata con dichiarazione sostitutiva di certificazione sottoscritta dal contravventore ai sensi dell’articolo 46, comma 1, lettera o), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

La richiesta di cui al precedente comma è comunicata all’organo accertatore. Con essa è depositata la documentazione attestante la manifestazione di disponibilità dell’ente a impiegare il contravventore nello svolgimento di lavoro di pubblica utilità.

La durata e il termine per iniziare e per concludere il lavoro di pubblica utilità sono determinati dal pubblico ministero con decreto notificato al contravventore e comunicato all’organo accertatore, nonché all’autorità di pubblica sicurezza incaricata di controllare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Il ragguaglio ha luogo calcolando 250 euro per ogni giorno di lavoro di pubblica utilità. Un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro. Il lavoro di pubblica utilità non può avere durata superiore a sei mesi. L’attività viene svolta di regola nell’ambito della regione in cui risiede il contravventore e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del contravventore. Tuttavia, se il contravventore lo richiede, il pubblico ministero può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore.

Fermo quanto previsto dal presente articolo, le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

Il controllo sull’osservanza degli obblighi connessi al lavoro di pubblica utilità è effettuato dall’ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza dell’ufficio di pubblica sicurezza, dal comando dell’Arma dei carabinieri territorialmente competente.

Entro sessanta giorni dalla scadenza del termine previsto per la conclusione del lavoro di pubblica utilità, l’autorità indicata nel comma che precede comunica all’organo accertatore e al pubblico ministero l’avvenuto svolgimento o meno dell’attività lavorativa.

Il contravventore può in ogni momento interrompere la prestazione del lavoro di pubblica utilità pagando una somma di denaro pari a un sesto del massimo dell’ammenda prevista per la contravvenzione, dedotta la somma corrispondente alla durata del lavoro già prestato. In tal caso il contravventore attesta l’avvenuto pagamento all’organo accertatore e all’autorità incaricata dei controlli sullo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, che ne dà immediata comunicazione al pubblico ministero.

Art. 12-sexies

(Notizie di reato non pervenute dall’organo accertatore)

 

Se il pubblico ministero prende notizia di una contravvenzione di propria iniziativa, ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio diversi dall’organo accertatore e dalla polizia giudiziaria, ne dà comunicazione all’organo accertatore o alla polizia giudiziaria affinché provvedano agli adempimenti di cui agli articoli 12-ter e 12-quater.

Nel caso previsto dal comma 1, l’organo accertatore o la polizia giudiziaria informano il pubblico ministero della propria attività senza ritardo e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla data in cui hanno ricevuto comunicazione della notizia di reato dal pubblico ministero.

Art. 12-septies

(Sospensione del procedimento penale)

Il procedimento per la contravvenzione è sospeso dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel   registro di   cui all’articolo 335 del codice di procedura penale fino al momento in cui il pubblico ministero riceve una delle comunicazioni di cui all’articolo 12-quater, commi 3 e 4.  Nel caso in cui il contravventore abbia richiesto di svolgere il lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 12-quinquies, il procedimento è sospeso sino al momento in cui il pubblico ministero riceve una delle comunicazioni di cui all’articolo 12-quinquies, commi 6 e 7.

Nel caso previsto dall’articolo 12-sexies, comma 1, il procedimento riprende il suo corso quando l’organo accertatore con funzioni di polizia giudiziaria di cui all’art. 55 del codice di procedura penale ovvero la polizia giudiziaria informano il pubblico ministero che non ritengono di dover impartire una prescrizione, e comunque alla scadenza del termine di cui all’articolo 12-sexies,  comma  2,  se l’organo accertatore o la polizia giudiziaria omettono di informare il pubblico ministero delle proprie  determinazioni  inerenti  alla  prescrizione.  Qualora nel predetto termine l’organo accertatore o la polizia giudiziaria informino il pubblico ministero d’aver impartito una prescrizione, il procedimento rimane sospeso fino al termine indicato dal comma 1 del presente articolo.

La sospensione del procedimento non preclude la richiesta di archiviazione. Non impedisce, inoltre, l’assunzione delle prove con incidente probatorio, né gli atti urgenti di indagine preliminare, né il sequestro preventivo ai sensi degli articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale. Se è presentata richiesta di archiviazione, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità è sospesa fino alla decisione del giudice per le indagini preliminari.

Art. 12-octies

(Estinzione del reato e richiesta di archiviazione del procedimento)

La contravvenzione si estingue se il contravventore adempie alla prescrizione impartita dall’organo accertatore o dalla polizia giudiziaria nel termine ivi fissato e provvede al pagamento previsto dall’articolo 12-quater, comma 2, ovvero presta il lavoro di pubblica utilità nei modi e nei termini stabiliti dall’articolo 12-quinquies.

Il   pubblico   ministero   richiede   l’archiviazione se la contravvenzione è estinta ai sensi del comma 1.

Art. 12-nonies

(Adempimento tardivo della prescrizione)

Se la prescrizione è adempiuta in un tempo superiore a quello stabilito, la pena è diminuita.

Prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, l’adempimento di cui al comma che precede, ovvero l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione con modalità diverse da quelle indicate dall’organo accertatore, sono valutati ai fini dell’applicazione dell’articolo 162-bis del codice penale. In tal caso, la somma da versare è ridotta a un quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa.».

ART. 71

 (Modifiche alla legge 24 novembre 1981, n. 689)

  1. Alla legge 24 novembre 1981, n. 689, sono apportate le seguenti modificazioni:

 

  1. l’articolo 53 è sostituito dal seguente:

«Art. 53

(Sostituzione delle pene detentive brevi)

Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni, può sostituire tale pena con quella della semilibertà o della detenzione domiciliare; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di tre anni, può sostituirla anche con il lavoro di pubblica utilità; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente, determinata ai sensi dell’articolo 56 quater.

Con il decreto penale di condanna, il giudice, su richiesta dell’indagato o del condannato, può sostituire la pena detentiva determinata entro il limite di un anno, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità. Si applica l’articolo 459, commi 1-bis e 1-ter del codice di procedura penale.

Ai fini della determinazione dei limiti di pena detentiva, entro i quali possono essere applicate pene sostitutive, si tiene conto della pena aumentata ai sensi dell’articolo 81 del codice penale.»

  1. l’articolo 55 è sostituito dal seguente:

«Art. 55

(Semilibertà sostitutiva)

La semilibertà sostitutiva comporta l’obbligo di trascorrere almeno otto ore al giorno in un istituto di pena e di svolgere, per la restante parte del giorno, attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione ed al reinserimento sociale, secondo il programma di trattamento predisposto e approvato ai sensi dei commi seguenti.

I condannati alla semilibertà sostitutiva sono assegnati in appositi istituti o nelle apposite sezioni autonome di istituti ordinari, di cui al secondo comma dell’articolo 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, situati nel comune di residenza, di domicilio, di lavoro o di studio del condannato o in un comune vicino. Durante il periodo di permanenza negli istituti o nelle sezioni indicate nel primo periodo, il condannato è sottoposto alle norme della legge 26 luglio 1975, n. 354, e del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in quanto compatibili. Nei casi di cui all’articolo 66, il direttore riferisce al magistrato di sorveglianza e all’ufficio di esecuzione penale esterna.

Il semilibero è sottoposto a un programma di trattamento predisposto dall’ufficio di esecuzione penale esterna ed approvato dal giudice, nel quale sono indicate le ore da trascorrere in istituto e le attività da svolgere all’esterno. Si applica in quanto compatibile l’articolo 101, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000 n. 230.

L’ufficio di esecuzione penale esterna è incaricato della vigilanza e dell’assistenza del condannato in libertà, secondo le modalità previste dall’articolo 118 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000 n. 230.

Si applicano in quanto compatibili le disposizioni previste dall’articolo 101, commi 1, 6, 7 8 e 9, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. Al condannato alla pena sostitutiva della semilibertà non si applica l’articolo 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285.»;

  1. l’articolo 56 è sostituito dal seguente:

«Art. 56

(Detenzione domiciliare sostitutiva)

La detenzione domiciliare sostitutiva comporta l’obbligo di rimanere nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza ovvero in comunità o in case famiglia protette, per non meno di dodici ore al giorno, avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro, o di salute del condannato. In ogni caso, il condannato può lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita e di salute.

Il giudice dispone la detenzione domiciliare sostitutiva, tenendo conto anche del programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato e che riferisce periodicamente sulla sua condotta e sul percorso di reinserimento sociale.

Il luogo di esecuzione della pena deve assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato e non può essere un immobile occupato abusivamente. Se il condannato non ha la disponibilità di un domicilio idoneo, l’ufficio di esecuzione penale esterna predispone il programma di trattamento, individuando soluzioni abitative anche comunitarie adeguate alla detenzione domiciliare.

Il giudice, se lo ritiene necessario per prevenire il pericolo di commissione di altri reati o per tutelare la persona offesa, può prescrivere procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, conformi alle caratteristiche funzionali e operative degli apparati di cui le Forze di polizia abbiano l’effettiva disponibilità. La temporanea indisponibilità di tali mezzi non può ritardare l’inizio della esecuzione della detenzione domiciliare. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 275-bis, commi 2 e 3, del codice di procedura penale.

Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 100 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. Al condannato alla pena sostitutiva della detenzione domiciliare non si applica l’articolo 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285.»;

  1. dopo l’articolo 56, sono inseriti i seguenti:

«Art. 56-bis

(Lavoro di pubblica utilità sostitutivo)

Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato.

L’attività viene svolta di regola nell’ambito della Regione in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non meno di sei ore e non più di quindici ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore.

Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di due ore di lavoro.

Fermo quanto previsto dal presente articolo, le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate con decreto del Ministro della giustizia, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

In caso di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato.

Al condannato alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità non si applica l’articolo 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285.

Art. 56-ter

(Prescrizioni comuni)

Al fine di prevenire la commissione di ulteriori reati, la semilibertà, la detenzione domiciliare, e il lavoro di pubblica utilità comportano. in ogni caso, le seguenti prescrizioni:

1) il divieto di detenere e portare a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia;

2) il divieto di frequentare abitualmente, senza giustificato motivo, pregiudicati o persone sottoposte a misure di sicurezza, a misure di prevenzione o comunque persone che espongano concretamente il condannato al rischio di commissione di reati, salvo si tratti di familiari o di altre persone conviventi stabilmente;

3) l’obbligo di permanere nell’ambito territoriale, di regola regionale, stabilito nel provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva;

4) il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente;

5) l’obbligo di conservare, di portare con sé e di presentare ad ogni richiesta degli organi di polizia il provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva e l’eventuale provvedimento di modifica delle modalità di esecuzione della pena, adottato a norma dell’articolo 64.

Allo stesso fine, il giudice può altresì prescrivere il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Si applica l’articolo 282-ter del codice di procedura penale, in quanto compatibile.

Art. 56-quater

(Pena pecuniaria sostitutiva)

Per determinare l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 2.500 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.

Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l’articolo 133 ter del codice penale.»;

  1. l’articolo 57 è sostituito dal seguente:

«Art. 57

(Durata ed effetti delle pene sostitutive e criteri di ragguaglio)

La durata della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva è pari a quella della pena detentiva sostituita. La durata del lavoro di pubblica utilità corrisponde a quella della pena detentiva sostituita ed è determinata sulla base dei criteri di cui all’articolo 56 bis.

Per ogni effetto giuridico, la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita ed un giorno di pena detentiva equivale a un giorno di semilibertà sostitutiva, di detenzione domiciliare sostitutiva o di lavoro di pubblica utilità sostitutivo.

La pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva.»;

  1. l’articolo 58 è sostituito dal seguente:

«Art. 58

(Potere discrezionale del giudice nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive)

Il giudice, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell’articolo 133 del codice penale, se non ordina la sospensione condizionale della pena, può applicare le pene sostitutive della pena detentiva quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, anche attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati. La pena detentiva non può essere sostituita quando sussistono fondati motivi di ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato.

Tra le pene sostitutive il giudice sceglie quella più idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato con il minor sacrificio della libertà personale, indicando i motivi che giustificano l’applicazione della pena sostitutiva e la scelta del tipo.

Entro il limite di tre anni, quando applica la semilibertà o la detenzione domiciliare, il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonei nel caso concreto il lavoro di pubblica utilità o la pena pecuniaria.

In ogni caso, nella scelta tra la semilibertà, la detenzione domiciliare o il lavoro di pubblica utilità, il giudice tiene conto delle condizioni legate all’età, alla salute fisica o psichica, alla maternità, o alla paternità nei casi di cui all’articolo 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354, fermo quanto previsto dall’articolo 69, terzo e quarto comma. Il giudice tiene altresì conto delle condizioni di disturbo da uso di sostanze o di alcol ovvero da gioco d’azzardo, certificate dai servizi pubblici o privati autorizzati indicati all’articolo 94, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, nonché delle condizioni di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, a norma dell’articolo 47-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354.»;

  1. l’articolo 59 è sostituito dal seguente:

«Art. 59

 (Condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva)

La pena detentiva non può essere sostituita:

  1. a) nei confronti di chi ha commesso il reato per cui si procede entro tre anni dalla revoca della semilibertà, della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 66, ovvero nei confronti di chi ha commesso un delitto non colposo durante l’esecuzione delle medesime pene sostitutive; è fatta comunque salva la possibilità di applicare una pena sostitutiva di specie più grave di quella revocata;
  2. b) con la pena pecuniaria, nei confronti di chi, nei cinque anni precedenti, è stato condannato a pena pecuniaria, anche sostitutiva, e non l’ha pagata, salvi i casi di conversione per insolvibilità ai sensi degli articoli 71 e 103;
  3. c) nei confronti dell’imputato a cui deve essere applicata una misura di sicurezza personale, salvo i casi di parziale incapacità di intendere e di volere;
  4. d) nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’ articolo 323-bis, comma 2, del codice penale.

Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli imputati minorenni.»;

  1. l’articolo 61 è sostituito dal seguente:

«Art. 61

(Condanna a pena sostitutiva)

Il giudice, nel dispositivo della sentenza di condanna di applicazione della pena o del decreto penale, indica la specie e la durata della pena detentiva sostituita e la specie, la durata ovvero l’ammontare della pena sostitutiva.»;

  1. dopo l’articolo 61 è inserito il seguente:

«Art. 61-bis

(Esclusione della sospensione condizionale della pena)

Le disposizioni di cui agli articoli 163 e seguenti del codice penale, relative alla sospensione condizionale della pena, non si applicano alle pene sostitutive previste dal presente Capo.»;

  1. l’articolo 62 è sostituito dal seguente:

«Art. 62

(Esecuzione della semilibertà e della detenzione domiciliare sostitutive)

Quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare, il pubblico ministero trasmette la sentenza al magistrato di sorveglianza del luogo di domicilio del condannato. Il provvedimento di esecuzione è notificato altresì al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore della fase del giudizio. Il magistrato di sorveglianza procede a norma dell’articolo 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, verifica l’attualità delle prescrizioni ed entro il quarantacinquesimo giorno dalla ricezione della sentenza provvede con ordinanza con cui conferma e, ove necessario, modifica le modalità di esecuzione e le prescrizioni della pena.

L’ordinanza è immediatamente trasmessa per l’esecuzione all’ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui il condannato è domiciliato ovvero, in mancanza di questo, al comando dell’Arma dei carabinieri territorialmente competente. L’ordinanza è trasmessa anche all’ufficio di esecuzione penale esterna e, nel caso di semilibertà, al direttore dell’istituto penitenziario cui il condannato è stato assegnato.

Appena ricevuta l’ordinanza prevista al secondo comma, l’organo di polizia ne consegna copia al condannato ingiungendogli di attenersi alle prescrizioni in essa contenute e di presentarsi immediatamente all’ufficio di esecuzione penale esterna. Provvede altresì al ritiro e alla custodia delle armi, munizioni ed esplosivi e del passaporto ed alla apposizione sui documenti equipollenti dell’annotazione “documento non valido per l’espatrio”, limitatamente alla durata della pena.

Se il condannato è detenuto o internato, l’ordinanza del magistrato di sorveglianza è trasmessa anche al direttore dell’istituto penitenziario, il quale deve informare anticipatamente l’organo di polizia della dimissione del condannato. La pena sostitutiva inizia a decorrere dal giorno successivo a quello della dimissione.

Cessata l’esecuzione della pena, le cose ritirate e custodite ai sensi del comma precedente sono restituite a cura dello stesso organo di polizia; vengono inoltre annullate le annotazioni effettuate ai sensi del terzo comma. Di tutti gli adempimenti espletati è redatto processo verbale ed è data notizia al questore e agli altri uffici interessati, nonché al direttore dell’istituto presso cui si trova il condannato alla semilibertà.»;

  1. l’articolo 63 è sostituito dal seguente:

«Art. 63

(Esecuzione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo)

La sentenza penale irrevocabile o il decreto penale esecutivo che applicano il lavoro di pubblica utilità sono immediatamente trasmessi per estratto a cura della cancelleria all’ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza di questo, al comando dell’Arma dei carabinieri competenti in relazione al comune in cui il condannato risiede, nonché all’ufficio di esecuzione penale esterna che deve prendere in carico il condannato.

Appena ricevuto il provvedimento di cui al primo comma, l’organo di polizia ne consegna copia al condannato ingiungendogli di attenersi alle prescrizioni in esso contenute e di presentarsi immediatamente all’ufficio di esecuzione penale esterna. Qualora il condannato sia detenuto o internato, copia del provvedimento è comunicata altresì al direttore dell’istituto, il quale informa anticipatamente l’organo di polizia e l’ufficio di esecuzione penale esterna della dimissione del condannato. Immediatamente dopo la dimissione, il condannato si presenta all’ufficio di esecuzione penale esterna per l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità.

Con la sentenza o con il decreto penale, il giudice incarica l’ufficio di esecuzione penale esterna e gli organi di polizia indicati al primo comma di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’ufficio di esecuzione penale esterna riferisce periodicamente al giudice che ha applicato la pena sulla condotta del condannato e sul percorso di reinserimento sociale.

Al termine del lavoro di pubblica utilità, l’ufficio di esecuzione penale esterna riferisce al giudice che, fuori dai casi previsti dall’articolo 66, dichiara estinta la pena e ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue e dispone la revoca della confisca nei casi di cui all’articolo 56-bis comma 5.»;

  1. l’articolo 64 è sostituito dal seguente:

«Art. 64

(Modifica delle modalità di esecuzione delle pene sostitutive)

Le prescrizioni imposte con l’ordinanza prevista dall’articolo 62, su istanza del condannato da inoltrare tramite l’ufficio di esecuzione penale esterna, possono essere modificate per comprovati motivi dal magistrato di sorveglianza, che procede senza formalità ai sensi dell’articolo 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale.

Le prescrizioni imposte con la sentenza che applica il lavoro di pubblica utilità, su istanza del condannato da inoltrare tramite l’ufficio di esecuzione penale esterna, possono essere modificate per comprovati motivi dal giudice che ha applicato la pena sostitutiva, il quale provvede senza formalità, a norma dell’articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.

I provvedimenti di cui al primo e al secondo comma sono immediatamente trasmessi all’ufficio di esecuzione penale esterna, all’organo di polizia o al direttore dell’istituto competenti per il controllo sull’adempimento delle prescrizioni.

Non possono essere modificate le prescrizioni di cui all’articolo 56-ter, comma 1, numeri 1, 2, 4 e 5.»;

  1. all’articolo 65:
  • al primo comma, le parole: «la semidetenzione o la libertà controllata» sono sostituite dalle seguenti: «le pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità ovvero»; la parola: «verifica» è sostituita dalle seguenti: «, e il nucleo di Polizia penitenziaria presso l’ufficio di esecuzione penale esterna verificano» e la parola: «tiene» è sostituita dalla seguente: «tengono»;
  • al secondo comma, le parole: «custoditi l’estratto della» sono sostituite dalle seguenti «custodite la» e dopo la parola «condanna» il segno di interpunzione «,» è sostituito dalle seguenti parole: «che applica il lavoro di pubblica utilità sostitutivo ovvero» e dopo le parole: «modalità di esecuzione» sono inserite le seguenti: «della semilibertà sostitutiva o della detenzione domiciliare sostitutiva»; nel secondo periodo, la parola: «semidetenzione» è sostituita dalla seguente: «semilibertà» e le parole: «29 aprile 1976, n. 431» sono sostituite dalle seguenti: «30 giugno 2000, n. 230»;
  • nel terzo comma, le parole: «o della sezione ivi indicata» sono soppresse;
  • nella rubrica, le parole «imposte con la sentenza di condanna» sono soppresse;
  1. l’articolo 66 è sostituito dal seguente:

«Art. 66

(Revoca per inosservanza delle prescrizioni)

Salvo quanto previsto dall’articolo 71 per la pena pecuniaria, la mancata esecuzione della pena sostitutiva, ovvero la violazione grave o reiterata degli obblighi e delle prescrizioni ad essa inerenti, ne determina la revoca e la parte residua si converte nella pena detentiva sostituita ovvero in altra pena sostitutiva più grave.

Gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, il direttore dell’istituto a cui il condannato è assegnato o il direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna informano, senza indugio, il giudice che ha applicato il lavoro di pubblica utilità ovvero il magistrato di sorveglianza che ha emesso l’ordinanza prevista dall’articolo 62, di ogni violazione degli adempimenti sui quali gli organi medesimi esercitano i rispettivi controlli.

Il magistrato di sorveglianza compie, ove occorra, sommari accertamenti e, qualora ritenga doversi disporre la revoca della semilibertà o della detenzione domiciliare ed alla conversione previste dal primo comma, procede a norma dell’articolo 666 del codice di procedura penale. Allo stesso modo procede il giudice che ha applicato il lavoro di pubblica utilità.»;

  1. l’articolo 67 è sostituito dal seguente:

«Art. 67

(Inapplicabilità delle misure alternative alla detenzione)

Salvo quanto previsto dall’articolo 47, comma 3-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354, le misure alternative alla detenzione di cui al capo VI del titolo I della medesima legge n. 354 del 1975, non si applicano al condannato in espiazione di pena sostitutiva.

Salvo che si tratti di minori di età al momento della condanna, le misure di cui al primo comma non si applicano altresì, prima di avere espiato metà della pena residua, al condannato in espiazione di pena detentiva per conversione effettuata ai sensi dell’articolo 66 o del quarto comma dell’articolo 72.»;

  1. l’articolo 68 è sostituito dal seguente:

«Art. 68

(Sospensione dell’esecuzione delle pene sostitutive)

L’esecuzione della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva o del lavoro di pubblica utilità sostitutivo è sospesa in caso di notifica di un ordine di carcerazione o di consegna; essa è altresì sospesa in caso di arresto o di fermo del condannato o di applicazione, anche provvisoria, di una misura di sicurezza detentiva.

L’ordine di esecuzione della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva o del lavoro di pubblica utilità sostitutivo nei confronti dell’imputato detenuto o internato non sospende l’esecuzione di pene detentive o l’esecuzione, anche provvisoria, di misure di sicurezza detentive, né il corso della custodia cautelare.

Nei casi previsti dal primo comma, il giudice ovvero il magistrato di sorveglianza determinano la durata residua della pena sostitutiva e trasmettono il provvedimento al direttore dell’istituto in cui si trova il condannato; questi informa anticipatamente l’organo di polizia della data in cui riprenderà l’esecuzione della pena sostitutiva.

La pena sostitutiva riprende a decorrere dal giorno successivo a quello della cessazione della esecuzione della pena detentiva ovvero dal secondo giorno successivo, in relazione alle necessità di viaggio e alle condizioni dei trasporti.»;

  1. l’articolo 69 è sostituito dal seguente:

«Art. 69

(Licenze ai condannati alla semilibertà e alla detenzione domiciliare. Sospensione delle pene sostitutive disposta a favore del condannato)

Per giustificati motivi, attinenti alla salute, al lavoro, allo studio, alla formazione, alla famiglia o alle relazioni affettive, al condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare possono essere concesse licenze per la durata necessaria e comunque non superiore nel complesso a quarantacinque giorni all’anno. Si applica il terzo comma dell’articolo 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354. Al condannato che, allo scadere della licenza o dopo la revoca di essa, non rientra in istituto o nel luogo indicato nell’articolo 56 primo comma è applicabile l’articolo 66 primo comma.

Per gli stessi giustificati motivi di cui al primo comma ovvero per cause riconducibili all’attività dei soggetti di cui all’articolo 56-bis, la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità può essere sospesa per un periodo non superiore nel complesso a quarantacinque giorni all’anno. Al condannato che, allo scadere della sospensione, non si presenta al lavoro è applicabile l’articolo 66 secondo comma.

Al condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare sono applicabili gli articoli 146 e 147 del codice penale. Il Magistrato di sorveglianza stabilisce con ordinanza il termine del rinvio dell’esecuzione, che può essere prorogato, e adotta gli altri provvedimenti conseguenti. Al condannato alla semilibertà può essere applicata la pena sostitutiva della detenzione domiciliare, ove compatibile. In tal caso, l’esecuzione della pena prosegue durante la detenzione domiciliare.

Al condannato al lavoro di pubblica utilità sono applicabili gli articoli 146 e 147 del codice penale, quando le condizioni ivi previste non sono compatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa. Il giudice stabilisce con ordinanza il termine del rinvio dell’esecuzione, che può essere prorogato, e adotta gli altri provvedimenti conseguenti.»;

  1. l’articolo 70 è sostituito dal seguente:

«Art. 70

(Esecuzione di pene sostitutive concorrenti)

Quando contro la stessa persona sono state pronunciate, per più reati, una o più sentenze o decreti penali di condanna a pena sostitutiva, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli da 71 a 80 del codice penale e dell’articolo 663 del codice di procedura penale.

Se più reati importano pene sostitutive, anche di specie diversa, e il cumulo delle pene detentive sostituite non eccede complessivamente la durata di quattro anni, si applicano le singole pene sostitutive distintamente, anche oltre i limiti di cui all’articolo 53 per la pena pecuniaria e per il lavoro di pubblica utilità.

Se il cumulo delle pene detentive sostituite eccede complessivamente la durata di quattro anni, si applica per intero la pena sostituita, salvo che la pena residua da eseguire non sia superiore ad anni quattro.

Le pene sostitutive sono sempre eseguite dopo le pene detentive e, nell’ordine, si eseguono la semilibertà, la detenzione domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità.»;

  1. l’articolo 71 è sostituito dal seguente:

«Art. 71

(Esecuzione della pena pecuniaria sostitutiva. Revoca e conversione per mancato pagamento)

Alla pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva si applicano le disposizioni dell’articolo 660 del codice di procedura penale.

Il mancato pagamento della pena pecuniaria sostitutiva, entro il termine di cui all’articolo 660 del codice di procedura penale, ne comporta la revoca e la conversione nella semilibertà sostitutiva o nella detenzione domiciliare sostitutiva. Si applica l’articolo 58. Se è stato disposto il pagamento rateale, il mancato pagamento di una rata, nel termine stabilito, comporta la revoca della pena pecuniaria sostitutiva e la conversione ha luogo per la parte residua. In ogni caso la conversione è effettuata in base al valore giornaliero di cui all’articolo 56-quater determinato nella sentenza o nel decreto di condanna.

Quando le condizioni economiche e patrimoniali del condannato al momento dell’esecuzione rendono impossibile il pagamento entro il termine stabilito, la pena pecuniaria sostitutiva è revocata e convertita nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o, se il condannato si oppone, nella detenzione domiciliare sostitutiva. Si applicano le disposizioni del terzo e quarto periodo del secondo comma.»;

  1. v) l’articolo 72 è sostituito dal seguente:

«Art. 72

(Ipotesi di responsabilità penale e revoca)

Il condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare che per più di dodici ore, senza giustificato motivo, rimane assente dall’istituto di pena ovvero si allontana da uno dei luoghi indicati nell’articolo 56 è punito ai sensi del primo comma dell’art. 385 del codice penale. Si applica la disposizione del quarto comma dell’articolo 385 del codice penale.

Il condannato alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità che, senza giustificato motivo, non si reca nel luogo in cui deve svolgere il lavoro ovvero lo abbandona è punito ai sensi dell’articolo 56 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274.

La condanna a uno dei delitti di cui ai commi primo e secondo importa la revoca della pena sostitutiva, salvo che il fatto sia di lieve entità.

La condanna a pena detentiva per un delitto non colposo commesso durante l’esecuzione di una pena sostitutiva, diversa dalla pena pecuniaria, ne determina la revoca e la conversione per la parte residua nella pena detentiva sostituita, quando la condotta tenuta appare incompatibile con la prosecuzione della pena sostitutiva, tenuto conto dei criteri di cui all’articolo 58.

La cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza di cui al quarto comma informa senza indugio il magistrato di sorveglianza competente per la detenzione domiciliare sostitutiva o per la semilibertà sostitutiva, ovvero il giudice che ha applicato il lavoro di pubblica utilità sostitutivo.»;

  1. l’articolo 75 è sostituito dal seguente:

«Art.75

(Disposizioni relative ai minorenni)

Le disposizioni del presente Capo si applicano anche, in quanto compatibili, agli imputati minorenni. Si applica l’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448.»;

  1. dopo l’articolo 75 è inserito il seguente:

«Art. 75-bis

(Disposizioni relative ai reati militari)

Le disposizioni del presente Capo si applicano in quanto compatibili ai reati militari quando le prescrizioni risultano in concreto compatibili con la posizione soggettiva del condannato.»;

  1. l’articolo 76 è sostituito dal seguente:

«Art. 76

(Norme applicabili)

Alle pene sostitutive previste da questo Capo si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 47, commi 12-bis, 51-bis, 51-quater e 53-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354.»;

  1. alla rubrica del Capo III, le parole: «Sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi» sono sostituite dalle seguenti: «Pene sostitutive delle pene detentive brevi»;

 

  1. l’articolo 102 è sostituito dal seguente:

«Art. 102

(Conversione delle pene pecuniarie principali per mancato pagamento)

Il mancato pagamento della multa o dell’ammenda entro il termine di cui all’articolo 660 del codice di procedura penale ne comporta la conversione nella semilibertà sostitutiva.

Il ragguaglio si esegue a norma dell’articolo 135 del codice penale. In ogni caso la semilibertà sostitutiva non può avere durata superiore a quattro anni, se la pena convertita è quella della multa, e durata superiore a due anni, se la pena convertita è quella dell’ammenda.

Se è stato disposto il pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133-ter del codice penale, la conversione ha luogo per la parte residua della pena pecuniaria.

Il condannato può sempre far cessare l’esecuzione della semilibertà pagando la multa o l’ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della pena da conversione espiata. A tal fine può essere ammesso al pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133-ter del codice penale.

  1. l’articolo 103 è sostituito dal seguente:

«Art. 103

(Mancato pagamento della pena pecuniaria per insolvibilità del condannato)

Quando le condizioni economiche e patrimoniali del condannato al momento dell’esecuzione rendono impossibile il pagamento della multa o dell’ammenda entro il termine di cui all’articolo 660 del codice di procedura penale, la pena pecuniaria è convertita nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo ovvero, se il condannato si oppone, nella detenzione domiciliare sostitutiva.

Il ragguaglio si esegue in ogni caso a norma dell’articolo 135 del codice penale e un giorno di lavoro di pubblica utilità sostitutivo consiste nella prestazione di due ore di lavoro. In ogni caso il lavoro di pubblica utilità sostitutivo e la detenzione domiciliare sostitutiva non possono avere durata superiore a due anni, se la pena convertita è la multa, e durata superiore a un anno, se la pena convertita è l’ammenda.

Si applicano le disposizioni del terzo e del quarto comma dell’articolo 102.»;

  1. dopo l’articolo 103 sono inseriti i seguenti:

«Art. 103-bis

(Inapplicabilità delle misure alternative alla detenzione)

Le misure alternative alla detenzione, di cui al Capo VI del Titolo I della legge 26 luglio 1975 n. 354, non si applicano al condannato alla semilibertà sostitutiva o alla detenzione domiciliare sostitutiva, applicate a seguito della conversione della pena pecuniaria ai sensi del presente Capo.

Art. 103-ter

(Disposizioni applicabili)

Alla semilibertà sostitutiva, alla detenzione domiciliare sostitutiva e al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, quali pene da conversione della multa e dell’ammenda ai sensi del presente Capo, si applicano, in quanto compatibili e non espressamente derogate, le disposizioni del Capo III della presente legge e le ulteriori disposizioni di legge, ovunque previste, che si riferiscono alle corrispondenti pene sostitutive.

Art. 103-quater

(Disposizioni relative ai minorenni)

La pena pecuniaria, anche sostitutiva, applicata per un reato commesso da persona minore di età, in caso di mancato pagamento si converte nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo, se vi è il consenso del minore non più soggetto ad obbligo di istruzione. Diversamente si converte nella detenzione domiciliare sostitutiva.

La durata della pena da conversione non può superare un anno, se la pena convertita è la multa, ovvero sei mesi, se la pena convertita è l’arresto. Tuttavia, in caso di insolvibilità del condannato la durata massima della pena da conversione non può superare sei mesi, se la pena convertita è la multa, ovvero tre mesi, se la pena convertita è l’arresto.

Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 71, 102 e 103, nonché l’articolo 103-ter. Si applica altresì, in quanto compatibile, l’articolo 660 del codice di procedura penale. Non si applica l’articolo 103-bis e il minore, nel corso dell’esecuzione della detenzione domiciliare sostitutiva, può essere affidato in prova al servizio sociale ai sensi del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121.»;

  1. l’articolo 107 è sostituito dal seguente:

«Art. 107

(Esecuzione delle pene conseguenti alla conversione della multa o dell’ammenda)

Per l’esecuzione della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva e del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, quali pene conseguenti alla conversione della multa o dell’ammenda, si applicano gli articoli 62, 63, 64, 65, 68 e 69. Competente è il magistrato di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’articolo 678, comma 1-bis del codice di procedura penale.»;

  1. l’articolo 108 è sostituito dal seguente:

«Art. 108

(Inosservanza delle prescrizioni inerenti alle pene conseguenti alla conversione della multa o della ammenda)

La mancata esecuzione delle pene conseguenti alla conversione della pena pecuniaria, anche sostitutiva di una pena detentiva, ovvero la violazione grave o reiterata degli obblighi e delle prescrizioni ad esse inerenti, ne comporta la revoca e la parte residua si converte in uguale periodo di reclusione o di arresto, a seconda della specie della pena pecuniaria originariamente inflitta. La detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità, tuttavia, possono essere convertiti in altra pena sostitutiva più grave. Competente alla conversione è magistrato di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’articolo 678, comma 1-bis del codice di procedura penale. Si applicano, in quanto compatibili, il secondo e il terzo comma dell’articolo 66.

Si applicano le disposizioni di cui al primo e al secondo comma dell’articolo 72.»;

ART. 72

 (Modifiche al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274)

  1. Al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 sono apportate le seguenti modificazioni:

 

  1. all’articolo 29, al comma 4, le parole: «di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio» sono sostituite dalle seguenti: «dei Centri per la giustizia riparativa presenti sul territorio»;
  2. dopo l’articolo 42 è inserito il seguente:

«Art. 42-bis

(Esecuzione delle pene pecuniarie)

Le condanne a pena pecuniaria si eseguono a norma dell’articolo 660 del codice di procedura penale.»;

  1. l’articolo 55 è sostituito dal seguente:

«Art. 55

(Conversione delle pene pecuniarie)

  1. Per i reati di competenza del giudice di pace, la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato entro il termine di cui all’articolo 660 del codice di procedura penale si converte, a richiesta del condannato, in lavoro di pubblica utilità da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi con le modalità indicate nell’articolo 54.
  2. Ai fini della conversione un giorno di lavoro di pubblica utilità equivale a 250 euro di pena pecuniaria.
  3. Quando è violato l’obbligo del lavoro di pubblica utilità conseguente alla conversione della pena pecuniaria, la parte di lavoro non ancora eseguito si converte nell’obbligo di permanenza domiciliare secondo i criteri di ragguaglio indicati nel comma 5.
  4. Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro di pubblica utilità, ovvero se il mancato pagamento di cui al primo comma non è dovuto a insolvibilità, le pene pecuniarie non eseguite si convertono nell’obbligo di permanenza domiciliare con le forme e nei modi previsti dall’articolo 53, comma 1, e in questo caso non è applicabile al condannato il divieto di cui all’articolo 53, comma 3.
  5. Ai fini della conversione un giorno di permanenza domiciliare equivale a 250 euro di pena pecuniaria e la durata della permanenza non può essere superiore a quarantacinque giorni.
  6. Il condannato può sempre far cessare la pena del lavoro di pubblica utilità o della permanenza domiciliare pagando la pena pecuniaria, dedotta la somma corrispondente alla durata del lavoro prestato.».

ART. 73

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448)

  1. L’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, è sostituito dal seguente:

«Art. 30

(Pene sostitutive)

  1. Con la sentenza di condanna il giudice, quando ritiene di dover applicare una pena detentiva non superiore a quattro anni, può sostituirla con la semilibertà o con la detenzione domiciliare, previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689; quando ritiene di dover applicare una pena detentiva non superiore a tre anni, può sostituirla, se vi è il consenso del minore non più soggetto ad obbligo di istruzione, con il lavoro di pubblica utilità previsto dalla legge 24 novembre 1981, n. 689; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla, altresì, con la pena pecuniaria della specie corrispondente, determinata ai sensi dell’articolo 56-quater della legge 24 novembre 1981, n. 689. In ogni caso, nel sostituire la pena detentiva e nello scegliere la pena sostitutiva, il giudice tiene conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali.
  2. Il pubblico ministero competente per l’esecuzione trasmette l’estratto della sentenza al magistrato di sorveglianza per i minorenni del luogo di abituale dimora del condannato. Il magistrato di sorveglianza convoca, entro tre giorni dalla comunicazione, il minorenne, l’esercente la responsabilità genitoriale, l’eventuale affidatario e i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e provvede in ordine alla esecuzione della pena sostitutiva a norma delle leggi vigenti, tenuto conto anche delle esigenze.
  3. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, ad eccezione dell’articolo 59, e le funzioni attribuite all’ufficio di esecuzione penale esterna sono esercitate dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia.
  4. Al compimento del venticinquesimo anno di età, se è in corso l’esecuzione di una pena sostitutiva, il magistrato di sorveglianza per i minorenni trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza ordinario per la prosecuzione della pena, ove ne ricorrano le condizioni, con le modalità previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689.».

 

ART. 74

 (Modifiche al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272)

  1. Al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272, sono apportate le seguenti modificazioni:

 

  1. all’articolo 11, al comma 1 e nella rubrica le parole «e semidetenzione» sono soppresse;
  2. all’articolo 24, comma 1, la parola «sanzioni» è sostituita dalla parola «pene».

ART. 75

(Modifiche alla legge 28 aprile 2014, n. 67)

  1. All’articolo 7 della legge 28 aprile 2014, n. 67, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. al comma 1, dopo le parole «del presente capo» sono inserite le seguenti: «e del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134»;
  3. al comma 2, dopo le parole «alla prova» sono aggiunte le seguenti: «e di pene sostitutive delle pene detentive, nonché sullo stato generale dell’esecuzione penale esterna.».

ART. 76

 (Modifiche al codice penale militare di pace, approvato con Regio Decreto 20 febbraio 1941, n. 303)

  1. Al codice penale militare di pace, approvato con Regio Decreto 20 febbraio 1941, n. 303, sono apportate le seguenti modifiche:
  2. a) all’articolo 174, dopo il terzo comma, è aggiunto il seguente: «Nei casi del primo comma, quando il delitto è tentato, non si applica l’articolo 131-bis del codice penale.»;
  3. b) all’articolo 215, dopo il primo comma, è aggiunto il seguente: «Non si applica l’articolo 131-bis del codice penale.»;
  4. c) dopo l’articolo 261-quater è inserito il seguente:

«Art. 261-quinquies

(Malfunzionamento dei sistemi informatici degli uffici giudiziari militari)

  1. Il malfunzionamento dei sistemi informatici in uso presso gli uffici giudiziari militari è certificato dal responsabile della transizione al digitale del Ministero della difesa, attestato sul portale della Giustizia militare e comunicato dal dirigente dell’ufficio giudiziario, con modalità tali da assicurarne la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati. Il ripristino del corretto funzionamento è certificato, attestato e comunicato con le medesime modalità.
  2. Le certificazioni, attestazioni e comunicazioni di cui al comma 1 contengono l’indicazione della data dell’inizio e della fine del malfunzionamento, registrate, in relazione a ciascun settore interessato, dal responsabile della transizione al digitale del Ministero della difesa.
  3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, a decorrere dall’inizio e sino alla fine del malfunzionamento dei sistemi informatici, atti e documenti sono redatti in forma di documento analogico e depositati con modalità non telematiche, fermo quanto disposto dagli articoli 110, comma 4, e 111-ter, comma 4, del codice di procedura penale.
  4. La disposizione di cui al comma 3 si applica, altresì, nel caso di malfunzionamento del sistema non certificato ai sensi del comma 1, accertato ed attestato dal dirigente dell’ufficio giudiziario, e comunicato con modalità tali da assicurare la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati della data di inizio e della fine del malfunzionamento.
  5. Se la scadenza di un termine previsto a pena di decadenza si verifica nel periodo di

malfunzionamento certificato ai sensi dei commi 1 e 2 o accertato ai sensi del comma 4, si applicano le disposizioni dell’articolo 175».

 

ART. 77

 (Modifiche alla Legge 9 dicembre 1941, n. 1383)

  1. Alla legge 9 dicembre 1941, n. 1383 all’articolo 3, dopo il terzo comma, è aggiunto il seguente: «Non si applica l’articolo 131-bis del codice penale.».

ART. 78

(Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354)

  1. Alla legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) all’articolo 13, dopo il terzo comma è inserito il seguente: «Nei confronti dei condannati e degli internati è favorito il ricorso a programmi di giustizia riparativa.»;
  3. b) dopo l’articolo 15 è inserito il seguente:

«Art. 15-bis

(Giustizia riparativa)

  1. In qualsiasi fase dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dei condannati e degli internati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa.
  2. La partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale. Non si tiene conto in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo»;
  3. c) all’articolo 47:
  4. dopo il comma 3-bis, è inserito il seguente: «3-ter. L’affidamento in prova può altresì essere concesso al condannato alle pene sostitutive della semilibertà sostitutiva o della detenzione domiciliare sostitutiva previste dalla legge 24 novembre 1981 n. 689 quando, dopo l’espiazione di almeno metà della pena, abbia serbato un comportamento tale per cui l’affidamento in prova appaia più idoneo alla rieducazione del condannato e assicuri comunque la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 54. Il tribunale di sorveglianza procede ai sensi dell’articolo 678, comma 1-ter, del codice di procedura penale, in quanto compatibile.»;
  5. al comma 12, dopo le parole «pene accessorie perpetue.» è inserito il seguente periodo: «A tali fini è valutato anche lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo.»; dopo le parole «in disagiate condizioni economiche» sono inserite le seguenti: «e patrimoniali» e dopo le parole «già riscossa» sono aggiunte le seguenti: «ovvero la pena sostitutiva nella quale sia stata convertita la pena pecuniaria non eseguita».

 

ART. 79

 (Relazione annuale al Parlamento sullo stato dell’esecuzione delle pene pecuniarie)

  1. Entro il 31 maggio di ciascun anno, il Ministro della giustizia riferisce alle competenti Commissioni parlamentari in merito all’attuazione del presente decreto in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie. Al fine di un compiuto monitoraggio, in funzione del raggiungimento degli obiettivi di effettività ed efficienza perseguiti dal presente decreto, i dati statistici relativi alle sentenze e ai decreti di condanna a pena pecuniaria, anche sostitutiva, alla riscossione, alla rateizzazione, alla sospensione condizionale e alla conversione, per insolvenza o insolvibilità del condannato, alla estinzione per esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi dell’articolo 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e alla prescrizione ai sensi degli articoli 172 e 173 del codice penale, sono pubblicati periodicamente sul sito del Ministero della giustizia e sono trasmessi annualmente al Parlamento, unitamente alla relazione di cui al precedente comma.

 

 

CAPO IV

Modifiche in materia di spese di giustizia

 

ART. 80

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115)

  1. Al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, sono apportate le seguenti modificazioni:

 

  1. all’articolo 1, comma 1, le parole «delle pene pecuniarie,» sono soppresse;
  2. all’articolo 200, comma 1, le parole «delle pene pecuniarie,» sono soppresse;
  3. all’articolo 211, comma 1, le parole «per le pene pecuniarie,» sono soppresse;
  4. all’articolo 235:
  • al comma 1, le parole «e alle pene pecuniarie,» sono soppresse;
  • al comma 2, le parole «e delle pene pecuniarie» sono soppresse.

ART. 81

(Modifiche alla legge 24 dicembre 2007, n. 244)

  1. All’articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, le parole «e alle pene pecuniarie» sono soppresse.

CAPO V

Modifiche in materia di iscrizione nel casellario giudiziario

ART. 82

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313)

  1. All’articolo 3, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, la lettera g) è sostituita dalla seguente: «g) i provvedimenti giudiziari definitivi di condanna alle sanzioni sostitutive e i provvedimenti di conversione di cui agli articoli 66, terzo comma, e 72, quarto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689;» e dopo la lettera g) è inserita la seguente: «g-bis) i provvedimenti di conversione di cui agli articoli 71, 102, 103 e 108 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e di cui all’articolo 55 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274;».

CAPO VI

Modifiche in materia di giustizia riparativa in ambito minorile

 

ART. 83

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448)

  1. All’articolo 28, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, dopo le parole «persona offesa dal reato» sono aggiunte le seguenti: «nonché a formulare l’invito a partecipare, ove sussistano le condizioni, a un programma di giustizia riparativa».

ART. 84

(Modifiche al decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121)

  1. Al decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, sono apportate le seguenti modificazioni:
  2. a) all’articolo 1, comma 2, le parole «percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato» sono sostituite dalle seguenti: “i programmi di giustizia riparativa di cui al decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134»;
  3. b) dopo l’articolo 1 è inserito il seguente:

«Art. 1-bis

(Giustizia riparativa)

  1. In qualsiasi fase dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dei minorenni condannati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa.
  2. Il giudice, ai fini dell’adozione delle misure penali di comunità, delle altre misure alternative e della liberazione condizionale, valuta la partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo. In ogni caso, non tiene conto della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo.».

valutare da parte dell’Ufficio legislativo

 

TITOLO VI

Disposizioni transitorie, finali e abrogazioni

 

ART. 85

(Disposizioni transitorie in materia di modifica del regime di procedibilità)

  1. Per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato.
  2. Se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata.

ART. 86

 (Disposizioni transitorie in materia di notificazioni al querelante)

  1. Per le querele presentate precedentemente all’entrata in vigore del presente decreto, in caso di mancanza di dichiarazione o elezione di domicilio o di mancata nomina del difensore, non si applicano le disposizioni in materia di notificazioni al querelante previste dall’articolo 153-bis, comma 5, del codice di procedura penale e le notificazioni sono eseguite a norma dell’articolo 157, commi 1, 2, 3, 4 e 8.

ART. 87

 (Disposizioni transitorie in materia di processo penale telematico)

  1. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi entro il 31 dicembre 2023 ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definite le regole tecniche riguardanti i depositi, le comunicazioni e le notificazioni telematiche degli atti del procedimento penale, anche modificando, ove necessario, il regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, e, in ogni caso, assicurando la conformità al principio di idoneità del mezzo e a quello della certezza del compimento dell’atto.
  2. Nel rispetto delle disposizioni del presente decreto e del regolamento di cui al comma 1, ulteriori regole tecniche possono essere adottate con atto dirigenziale del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia.
  3. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi entro il 31 dicembre 2023 ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, sono individuati gli uffici giudiziari e le tipologie di atti per cui possano essere adottate anche modalità non telematiche di deposito, comunicazione o notificazione, nonché i termini di transizione al nuovo regime di deposito, comunicazione e notificazione.
  4. Sino al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti di cui ai commi 1 e 3, ovvero sino al diverso termine di transizione previsto dal regolamento di cui al comma 3 per gli uffici giudiziari e per le tipologie di atti in esso indicati, continuano ad applicarsi, nel testo vigente al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, le disposizioni di cui agli articoli 110, 111, comma 1, 116, comma 3-bis, 125, comma 5, 134, comma 2, 135, comma 2, 162, comma 1, 311, comma 3, 391-octies, comma 3, 419, comma 5, primo periodo, 447, comma 1, primo periodo, 461, comma 1, 462, comma 1, 582, comma 1, 585, comma 4, del codice di procedura penale, nonché le disposizioni di cui l’articolo 154, commi 2, 3 e 4 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
  5. Le disposizioni di cui agli articoli 111, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, 111-bis, 111- ter, 122, comma 2-bis, 172, commi 6-bis e 6-ter, 175-bis, 386, comma 1-ter, 483, comma 1-bis, 582, comma 1-bis, del codice di procedura penale, così come introdotte dal presente decreto, si applicano a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti di cui ai commi 1 e 3, ovvero a partire dal diverso termine previsto dal regolamento di cui al comma 3 per gli uffici giudiziari e per le tipologie di atti in esso indicati. Fino alle stesse date la dichiarazione e l’elezione di domicilio prevista dal comma 2 dell’articolo 153-bis del codice di procedura penale, come introdotto dall’articolo 10, comma 1, lettera e), del presente decreto, e le comunicazioni previste dal comma 3 dello stesso articolo 153-bis sono effettuate con le forme ivi previste in alternativa al deposito in via telematica.
  6. Fino al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti di cui ai commi 1 e 3, ovvero fino al diverso termine previsto dal regolamento di cui al comma 3 per gli uffici giudiziari e le tipologie di atti in esso indicati, continuano ad applicarsi le disposizioni dell’articolo 164 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e dell’articolo 24, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
  7. 7. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche in relazione agli atti del procedimento penale militare, ma i regolamenti di cui ai commi 1 e 3 sono adottati, entro il 31 dicembre 2023, con decreto del Ministro della difesa, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Consiglio della magistratura militare. Le ulteriori regole tecniche di cui al comma 2 possono essere adottate, d’intesa con il Consiglio della magistratura militare, con atto dirigenziale del responsabile della transizione al digitale del Ministero della difesa.

ART. 88

 (Disposizioni transitorie in materia di restituzione nel termine)

  1. Nei procedimenti che hanno ad oggetto reati commessi prima del 1° gennaio 2020, nel quale sia disposta la restituzione nel termine prevista dall’articolo 175, comma 2.1, del codice di procedura penale non si tiene conto, ai fini della prescrizione del reato, del tempo intercorso tra la scadenza dei termini per impugnare di cui all’articolo 585 del codice di procedura penale e la notificazione alla parte dell’avviso di deposito dell’ordinanza che concede la restituzione.

RT. 89

 (Disposizioni transitorie in materia di assenza)

  1. Salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, quando il giudice ha già effettuato il controllo sulla regolare costituzione delle parti e pronunciato ordinanza con la quale ha disposto procedersi in assenza dell’imputato, i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto proseguono con l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura penale e delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale in materia di assenza anteriormente vigenti, comprese quelle relative alle questioni di nullità in appello e alla rescissione del giudicato.
  2. Quando sono state già disposte le ricerche di cui al comma 2 dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale anteriormente vigente e l’imputato non è stato ancora rintracciato, nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, in luogo di disporre nuove ricerche ai sensi dell’articolo 420-quinquies del codice di procedura penale vigente prima dell’entrata in vigore del presente decreto, il giudice provvede ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale come modificato dal presente decreto. In questo caso si applicano l’articolo 420-quinquies del codice di procedura penale e l’articolo 420-sexies del codice di procedura penale, come modificato dal presente decreto.
  3. Le disposizioni degli articoli 581, commi 1-ter e 1-quater, e 585, comma 1-bis, del codice di procedura penale si applicano per le sole impugnazioni proposte avverso sentenze pronunciate in data successiva a quella di entrata in vigore del presente decreto. Negli stessi casi si applicano anche le disposizioni dell’articolo 175 del codice di procedura penale, come modificato dal presente decreto, nonché dell’articolo 157-ter, comma 3, del codice di procedura penale.
  4. Nei procedimenti indicati al comma 1, continua ad applicarsi la disposizione dell’articolo 159, primo comma, numero 3-bis), del codice penale nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo.
  5. Nei procedimenti di cui ai commi 1 e 2 che hanno ad oggetto reati commessi dopo il 19 settembre 2021, nel caso di sospensione del corso della prescrizione ai sensi dell’articolo 159, primo comma, numero 3-bis, del codice penale, si applica la disposizione dell’ultimo comma di detto articolo, come modificata dal presente decreto legislativo.
  6. Nei procedimenti che hanno ad oggetto reati commessi prima del 1° gennaio 2020, nel quale sia disposta la restituzione nel termine prevista dall’articolo 175, comma 2.1, del codice di procedura penale non si tiene conto, ai fini della prescrizione del reato, del tempo intercorso tra la scadenza dei termini per impugnare di cui all’articolo 585 del codice di procedura penale e la notificazione alla parte dell’avviso di deposito dell’ordinanza che concede la restituzione.

ART. 90

 (Disposizioni transitorie in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato)

  1. Le disposizioni degli articoli 1 e 32 del presente decreto legislativo che estendono la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova a ulteriori reati si applicano anche ai procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado e in grado di appello alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo.
  2. Se sono già decorsi i termini di cui all’articolo 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, può formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, a pena di decadenza, entro la prima udienza successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. Quando nei quarantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente decreto non è fissata udienza, la richiesta è depositata in cancelleria, a pena di decadenza, entro il predetto termine.
  3. Nel caso in cui sia stata disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova in forza dei commi precedenti, non si applica l’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale.

 

ART. 91

 (Disposizioni transitorie in materia di rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo)

  1. Quando, in data anteriore all’entrata in vigore del presente decreto, è divenuta definitiva la decisione con cui la Corte europea ha accertato una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dai Protocolli addizionali alla Convenzione, ovvero la Corte europea ha disposto, ai sensi dell’articolo 37 della Convenzione, la cancellazione dal ruolo del ricorso a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato, il termine indicato nell’articolo 628-ter, comma 2, del codice di procedura penale decorre dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto.
  2. Per i reati commessi in data anteriore al 1° gennaio 2020, la prescrizione riprende il suo corso in ogni caso in cui la Corte di cassazione dispone la riapertura del processo ai sensi dell’articolo 628-ter, comma 5.

 

ART. 92

 (Disposizioni transitorie in materia di giustizia riparativa. Servizi esistenti)

  1. La Conferenza locale per la giustizia riparativa, entro il termine di sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, provvede alla ricognizione dei servizi di giustizia riparativa in materia penale erogati alla stessa data da soggetti pubblici o privati specializzati convenzionati con il Ministero della giustizia ovvero che operano in virtù di protocolli di intesa con gli uffici giudiziari o altri soggetti pubblici.
  2. La Conferenza valuta i soggetti di cui al comma 1 con riferimento all’esperienza maturata almeno nell’ultimo quinquennio e il curricolo degli operatori in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, verificando altresì la coerenza delle prestazioni erogate e dei requisiti posseduti dagli operatori con quanto disposto dagli articoli 42, 64, e 93, redigendo al termine un elenco da cui attingono gli enti locali per la prima apertura dei centri di cui all’articolo 63.

ART. 93

((Disposizioni transitorie in materia di giustizia riparativa. Inserimento nell’elenco dei mediatori)

  1. Sono inseriti nell’elenco di cui all’articolo 60 coloro che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono in possesso dei requisiti previsti, alternativamente, dalle seguenti lettere:
  2. a) avere completato una formazione alla giustizia riparativa ed essere in possesso di una esperienza almeno quinquennale, anche a titolo volontario e gratuito, acquisita nel decennio precedente presso soggetti specializzati che erogano servizi di giustizia riparativa, pubblici o privati, convenzionati con il Ministero della giustizia ovvero che operano in virtù di protocolli di intesa con gli uffici giudiziari o altri enti pubblici;
  3. b) avere completato una formazione teorica e pratica, seguita da tirocinio, nell’ambito della giustizia riparativa in materia penale, equivalente o superiore a quella prevista dal presente decreto;
  4. c) prestare servizio presso i servizi minorili della giustizia o gli uffici di esecuzione penale esterna, avere completato una adeguata formazione alla giustizia riparativa ed essere in possesso di adeguata esperienza almeno quinquennale acquisita in materia nel decennio precedente.
  5. L’inserimento nell’elenco, ai sensi del comma 1, è disposto a seguito della presentazione, a cura dell’istante, di idonea documentazione comprovante il possesso dei requisiti e, nel caso di cui alla lettera b) dello stesso comma, previo superamento di una prova pratica valutativa, il cui onere finanziario è a carico dei presentanti, come da successiva regolamentazione a mezzo di decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca.
  6. Con il medesimo decreto, sono stabilite altresì le modalità di svolgimento e valutazione della prova di cui al comma 2, nonché di inserimento nell’elenco di cui ai commi 1 e 2.

ART. 94

 (Disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni)

  1. Le disposizioni di cui all’articolo 30, comma 1, lettera i), si applicano decorso un anno dall’entrata in vigore del presente decreto.  

 

ART. 95

 (Disposizioni transitorie relative alla legge 24 novembre 1981, n. 689)

  1. Le norme previste dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, se più favorevoli, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del presente decreto. Il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni, all’esito di un procedimento pendente innanzi la Corte di cassazione all’entrata in vigore del presente decreto, può presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive di cui al Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’articolo 666 del codice di procedura penale, entro trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza. Nel giudizio di esecuzione si applicano, in quanto compatibili, le norme del Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, e del codice di procedura penale relative alle pene sostitutive. In caso di annullamento con rinvio provvede il giudice del rinvio.
  2. Le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, già applicate o in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, continuano ad essere disciplinate dalle disposizioni previgenti. Tuttavia, i condannati alla semidetenzione possono chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nella semilibertà sostitutiva.
  3. Sino all’entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689, si applicano i decreti del Ministro della giustizia 26 marzo 2001, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 5 aprile 2001, n. 80 e 8 giugno 2015, n. 88, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 2 luglio 2015, n. 151, in quanto compatibili.

ART. 96

 (Disposizioni transitorie in materia di estinzione delle contravvenzioni)

  1. Le disposizioni in tema di estinzione delle contravvenzioni inserite dal presente decreto nella legge 30 aprile 1962, n. 283 non si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto nei quali sia già stata esercitata l’azione penale.
  2. Nelle more dell’adozione del decreto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 4, della legge 30 aprile 1962, n. 283 si applicano, in quanto compatibili, i decreti del Ministro della giustizia 26 marzo 2001, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 5 aprile 2001, n. 80 e 8 giugno 2015, n. 88, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 2 luglio 2015, n. 151.

 

ART. 97

(Disposizioni transitorie in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie)

  1. Salvo che non risultino più favorevoli al condannato, le disposizioni in materia di conversione delle pene pecuniarie, previste dall’articolo 71 e dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, come modificate dal presente decreto, si applicano ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore.
  2. Fermo quanto previsto dal comma precedente, ai reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’articolo 660 del codice di procedura penale e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima dell’entrata in vigore del presente decreto.
  3. Le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, abrogate o modificate dal presente decreto, nonché le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, continuano ad applicarsi in relazione alle pene pecuniarie irrogate per reati commessi prima della sua entrata in vigore.

 

ART. 98

(Abrogazioni)

  1. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate le seguenti disposizioni:
    1. gli articoli 134, comma 4, 150, 151, 157, comma 8-bis, 158, 161 comma 2, 405, comma 1, 406, commi 2-bis e 2-ter, 407, comma 3-bis, 415 comma 2-bis, 416. comma 2-bis, 420-ter, comma 3, 429, commi 2-bis e 4, 442, comma 3, 552, comma 1-bis, 555, commi 2 e 3, 582, comma 2, 583, 599-bis, comma 2, 602, comma 1-bis, del codice di procedura penale;
    2. gli articoli 64, comma 4, 125, 134,146-bis, commi 2, 3, 4, 5, 6, 147-bis, comma 4, 154, comma 3, 164 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271;
    3. gli articoli 105, 106, 111 della legge 24 novembre 1981, n. 689;
    4. gli articoli 236, 237, 238, 238-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.

ART. 99

(Disposizioni finanziarie)

  1. Salvo quanto previsto all’articolo 67, le amministrazioni interessate nell’ambito delle rispettive competenze, danno attuazione alle disposizioni del presente decreto, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

 

RELAZIONE TECNICA

Il presente provvedimento attuativo della delega legislativa della legge 134 del 2021 per la riforma del processo penale si compone di 99 articoli,  suddivisi in sei Titoli, che vengono di seguito riportati, illustrando a seconda degli interventi e delle modifiche introdotte, i profili di natura giuridica e gli eventuali riflessi di natura finanziaria.

 

TITOLO I

Modifiche al codice penale

 

ART. 1

(Modifiche al Libro I del codice penale)

 

 

 

RELAZIONE TECNICA

 

L’attuazione della legge delega (art. 1, co. 17 l. n. 134/2021) comporta una riforma organica delle “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”, di cui al Capo III della l. 24 novembre 1981, n. 689. Tale tipologia di sanzioni si inquadra come è noto tra gli istituti – il più antico dei quali è rappresentato dalla sospensione condizionale della pena – che sono espressivi della c.d. lotta alla pena detentiva breve; cioè del generale sfavore dell’ordinamento verso l’esecuzione di pene detentive di breve durata. E’ infatti da tempo diffusa e radicata, nel contesto internazionale, l’idea secondo cui una detenzione di breve durata comporta costi individuali e sociali maggiori rispetto ai possibili risultati attesi, in termini di risocializzazione dei condannati e di riduzione dei tassi di recidiva. Quando la pena detentiva ha una breve durata, rieducare e risocializzare il condannato – come impone l’articolo 27 della Costituzione – è obiettivo che può raggiungersi con maggiori probabilità attraverso pene diverse da quella carceraria, che eseguendosi nella comunità delle persone libere escludono o riducono l’effetto desocializzante della detenzione negli istituti di pena, relegando questa al ruolo di extrema ratio. La Costituzione, nel citato articolo 27, parla al terzo comma, al plurale, di “pene” che devono tendere alla rieducazione del condannato. Non menziona il carcere e, comunque, non introduce alcuna equazione tra pena e carcere. La pluralità delle pene, pertanto, è costituzionalmente imposta perché funzionale, oltre che ad altri principi (es., quello di proporzione), al finalismo rieducativo della pena.

In questo contesto, trovano spazio nel sistema le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, introdotte più di quarant’anni fa, dalla legge 689 del 1981, quale rilevante novità per l’ordinamento italiano, ispirata, appunto, alla logica delle alternative al carcere. L’area della sostituzione della pena detentiva, originariamente individuata nella misura massima di sei mesi, è stata progressivamente estesa, prima, a un anno (nel 1993) e, poi, a due anni (nel 2003). Nonostante questa progressiva valorizzazione dell’istituto, l’evoluzione del sistema sanzionatorio, nei decenni successivi, è stata tale da rendere nella prassi sempre meno rilevanti le sanzioni sostitutive. Come ha notato la dottrina, l’area della pena sostituibile, infatti, è rimasta sovrapposta a quella della pena sospendibile, rendendo così di fatto le sanzioni sostitutive soluzioni meno praticate dai giudici e meno interessanti per la difesa, anche nel contesto dei riti alternativi. Entro l’area dei due anni di pena inflitta, patteggiare l’applicazione di una sanzione sostitutiva della reclusione, ad esempio, è di gran lunga meno conveniente rispetto a un patteggiamento subordinato alla sospensione condizionale dell’esecuzione della pena stessa. Le statistiche del Ministero della Giustizia confermano d’altra parte il successo applicativo della sospensione condizionale della pena: il 50% delle condanne a pena detentiva di qualsiasi ammontare, nel decennio 2011-2021, è infatti rappresentato da condanne a pena sospesa. Per contro, la pressoché irrilevante applicazione delle pene sostitutive di cui all’art. 53 l. n. 689/1981 è testimoniata, emblematicamente, dai dati relativi alla semidetenzione – che ha interessato nel 2021 solo 11 persone – e alla libertà controllata – che ha interessato nello stesso anno solo 540 persone. Di qui la scelta del legislatore delegante di abolire tali sanzioni sostitutive di introdurre ex novo una disciplina organica.

Nel contesto di un più ampio disegno volto all’efficienza del sistema penale e al raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R., il Parlamento ha infatti delegato il Governo a rivitalizzare e rivalorizzare le sanzioni sostitutive delle pene detentive, che vengono ora concepite, sin dal nomen iuris, come vere e proprie pene sostitutive: ciò per sottolineare come si tratti di vere e proprie pene, per quanto non edittali. Invero già la legge 689/1981, nonostante il titolo del Capo III (“sanzioni sostitutive”), in alcune disposizioni parla di “pene sostitutive” (ad es., negli artt. 57 e 58), espressione presente anche nella giurisprudenza costituzionale (v., da ultimo, la sentenza n. 28/2022). La scelta del legislatore delegato, in linea con lo spirito della legge delega, è di adottare senza indugi la nuova denominazione, più coerente col sistema sanzionatorio e, per quanto si è detto, con la Costituzione. Si tratta di pene, diverse da quelle edittali (detentive e pecuniarie), irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato, così come a obiettivi di prevenzione generale e speciale.

La scelta del Parlamento è stata di ampliare notevolmente l’area della pena detentiva breve sostituibile: il limite massimo di due anni di pena detentiva, infatti, viene raddoppiato. Il concetto di pena detentiva “breve” cambia e si allinea, nel giudizio di cognizione, con quello individuato in sede di esecuzione dall’art. 656, co. 5 c.p.p. Per effetto di interventi legislativi e della Corte costituzionale, infatti, il limite di pena detentiva inflitta fino al quale, di norma, il pubblico ministero deve sospendere l’ordine di esecuzione, dando al condannato la possibilità di chiedere al tribunale di sorveglianza una misura alternativa alla detenzione, è di quattro anni. Di fatto, la pena detentiva breve, nell’esecuzione penale, è la pena fino a quattro anni, che può essere eseguita ab initio fuori dal carcere, previa concessione di una misura alternativa alla detenzione. La scelta della l. n. 134/2021 è di allineare il limite massimo della pena sospendibile con quello entro il quale, in sede di esecuzione, può applicarsi una misura alternativa alla detenzione. Questa scelta comporta due effetti positivi sul sistema:

  1. a) fa venir meno l’integrale sovrapposizione dell’area della pena sospendibile con quella della pena sostituibile, ai sensi della l. n. 689/1981, promettendo così di rivitalizzare nella prassi le pene sostitutive;
  2. b) consente al giudice di cognizione di applicare pene, diverse da quella detentiva, destinate a essere eseguite immediatamente, dopo la definitività della condanna, senza essere ‘sostituite’ con misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza, spesso a distanza di molto tempo dalla condanna stessa (come testimonia l’allarmante fenomeno dei c.d. liberi sospesi). La riforma, in altri termini, realizza una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione.

Più in generale, la riforma delle pene sostitutive promette positivi effetti di deflazione processuale e penitenziaria, inserendosi a pieno titolo tra gli interventi volti a migliorare l’efficienza complessiva del processo e della giustizia penale.

Nella prospettiva del processo, la valorizzazione delle pene sostitutive rappresenta, anzitutto, un incentivo ai riti alternativi. Basti pensare all’ampliamento dell’operatività del procedimento per decreto (per effetto del raddoppio – da sei mesi a un anno – del limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria, nonché della possibilità di applicare, con il decreto di condanna, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo), ovvero alla possibilità di patteggiare una pena sostitutiva di una pena detentiva fino a quattro anni, con la garanzia di evitare l’ingresso in carcere. In secondo luogo, la valorizzazione, tra le pene sostitutive, del lavoro di pubblica utilità, con il quale può essere sostituita la pena detentiva fino a tre anni, concorre alla riduzione delle impugnazioni, essendo prevista dalla legge delega (art. 1, co. 13, lett. e) l’inappellabilità delle sentenze di condanna al lavoro di pubblica utilità. Sempre sul terreno processuale, inoltre, la valorizzazione delle pene sostitutive, irrogabili dal giudice di cognizione, promette una riduzione dei procedimenti davanti al tribunale di sorveglianza, oggi sovraccarichi e incapaci, in molti distretti, di far fronte in tempi ragionevoli alle istanze di concessione di misure alternative, come testimonia il fenomeno dei c.d. liberi sospesi. L’efficienza della giustizia penale, cui mira la legge delega, non può ragionevolmente essere rapportata al solo processo di cognizione. Se la fase dell’esecuzione penale ha una durata irragionevole, il procedimento penale nel suo complesso non può dirsi certo efficiente. Misure alternative concesse a distanza di anni dall’istanza, e dalla sospensione dell’ordine di esecuzione rappresentano oggi una realtà non infrequente e inaccettabile, per ragioni di efficienza del sistema e, ancor prima, di difesa sociale, di ragionevolezza e di rispetto dei principi costituzionali.

Nella prospettiva del carcere, afflitto da strutturali problemi di sovraffollamento, la riforma delle pene sostitutive promette un significativo impatto, concorrendo alla riduzione del numero dei detenuti per pene brevi. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2021 i detenuti per pene inflitte in misura inferiore a quattro anni erano 11.262 su 37.631, pari cioè al 29,9%. Ciò significa che quasi un detenuto ogni tre stava scontando una pena breve. Dei citati 11.262 detenuti, 1.173 stavano scontando una pena fino a un anno; 2.244 una pena compresa tra un anno e due anni; 3.754 una pena compresa tra due anni e tre anni; 4.100 una pena compresa tra tre anni e quattro anni. Ciò significa che i detenuti per pene inflitte tra i due e i quattro anni – oggi non sostituibili né sospendibili – sono il 70% (7.854) dei detenuti condannati a pena detentiva breve e il 21% del complesso dei detenuti condannati. Tali dati – pur al netto di eventuali condizioni soggettive che possano precludere la sostituzione della pena – rendono evidente il possibile impatto della riforma sulla popolazione penitenziaria e sul problema del sovraffollamento carcerario.

Tali dati, in uno con la rivitalizzazione delle pene sostitutive ad opera della presente riforma e con la crescente dimensione applicativa della sospensione del procedimento con messa alla prova, confermano la centralità dell’esecuzione penale esterna e il ruolo fondamentale dell’UEPE. Il  numero delle persone in esecuzione penale esterna ha ormai superato il numero di quelle detenute: a un sistema che per anni ha tradizionalmente conosciuto la centralità del carcere si sta gradualmente sostituendo, in linea con un trend osservabile in altri ordinamenti europei e non, un sistema che assegna un ruolo centrale a misure da eseguirsi nella comunità, con minor sacrificio della libertà personale e dei diritti fondamentali, nonché con maggiori possibilità di rieducazione, reinserimento sociale e riduzione della recidiva, nonché del sovraffollamento carcerario. L’efficienza e l’effettività di un simile sistema sanzionatorio richiede opportuni investimenti sull’esecuzione penale esterna. In previsione dell’attuazione della legge delega, il Governo ha già provveduto a stanziare risorse necessarie per il raddoppio dell’organico dell’UEPE (art. 17 d.l. 30 aprile 2022, n. 36, recante “Misure di potenziamento dell’esecuzione penale esterna e rideterminazione della dotazione organica dell’Amministrazione per la giustizia minorile e di comunità, nonché autorizzazione all’assunzione”).

La valorizzazione delle pene sostitutive all’interno del sistema sanzionatorio penale, operata della legge delega, rende opportuna l’introduzione nel codice penale di una disposizione di raccordo con l’articolata disciplina delle pene stesse, che continua a essere prevista nella legge 689 del 1981. Per ragioni di economia e di tecnica legislativa, oltre che di rispetto della legge delega, la disciplina delle pene sostitutive non viene inserita nel codice penale, dove nondimeno è opportuno, per ragioni sistematiche, che alla disciplina stessa venga operato un rinvio nella parte generale, trattandosi di pene applicabili alla generalità dei reati. Per tale ragione si introduce un nuovo art. 20 bis c.p. (“Pene sostitutive delle pene detentive brevi”) – inserito nel Titolo II (Delle pene), Capo I (Delle specie di pene, in generale), dopo la disciplina generale delle pene principali e delle pene accessorie. Scopo della nuova disposizione è di includere espressamente le pene sostitutive nel sistema delle pene, delineato dalla parte generale del codice, richiamando la disciplina della legge 689 del 1981.

Si prevede, in particolare, che “salvo quanto previsto da particolari disposizioni di legge” – come ad es. nel caso degli artt. 16 t.u. immigrazione o 186, co. 9 bis c. strada –, le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto sono disciplinate dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689. Si stabilisce espressamente, in linea con il riformato art. 53 della stessa legge, attuativo della legge delega (art. 1, co. 17, lett. b) ed e), che le pene sostitutive sono le seguenti: la semilibertà sostitutiva; la detenzione domiciliare sostitutiva; il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; la pena pecuniaria sostitutiva. In particolare, la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva possono essere applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni. Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo può essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni. La pena pecuniaria sostitutiva può essere applicata dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno.

Si è ritenuto opportuno denominare le nuove pene sostitutive aggiungendo l’aggettivo “sostitutivo/”: semilibertà “sostitutiva”, detenzione domiciliare “sostitutiva”, lavoro di pubblica utilità “sostitutivo”, pena pecuniaria “sostitutiva”. Tale denominazione è funzionale a rendere immediatamente distinguibili le predette pene sostitutive da istituti analoghi che, nell’ordinamento, hanno una diversa natura giuridica e disciplina. E’ il caso delle misure alternative alla detenzione della semilibertà e della detenzione domiciliare, del lavoro di pubblica utilità previsto come pena principale irrogabile dal giudice di pace o disposto nell’ambito della sospensione condizionale della pena o della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, ovvero, infine, è il caso della pena pecuniaria, prevista come pena principale (multa/ammenda).

La disposizione in esame è di natura ordinamentale e procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, realizzando invece attraverso il processo di riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi una serie di effetti positivi per il sistema giudiziario in termini di deflazione processuale e penitenziaria, che si traduce in un miglioramento dell’efficienza complessiva del processo penale.

Si segnalano, inoltre, riflessi positivi sull’economia sociale del paese, ravvisabili in termini di minori costi individuali e sociali, realizzando i criteri e principi direttivi declinati nella legge delega 134/2021, che pone al centro del cambiamento culturale penale la rivitalizzazione e rivalorizzazione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi quale cardine di una moderna concezione di detenzione, funzionale al processo di reinserimento sociale del condannato e a un calo del tasso di recidiva. Per quanto riguarda l’eventuale impatto finanziario delle disposizioni previste dal presente provvedimento, si rimanda ai successivi articoli relativi alle richiamate pene sostitutive, come elencate nel presente articolo (comma 1 lett. a).

 Si prevedono, poi, alla lettera b) stesso comma, opportune modifiche al codice penale in attuazione dell’articolo 1, comma 18, lett. e) della legge delega con cui si prevede «che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena; prevedere che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa o il suo fallimento non producano effetti negativi a carico della vittima del reato o dell’autore del reato nel procedimento penale o in sede esecutiva».

Nello specifico si interviene sull’articolo 62 n. 6, ultima parte c.p., inserendo nel novero delle circostanze attenuanti comuni la partecipazione dell’imputato a un programma di giustizia riparativa conclusosi con esito riparativo. Si tratta di norma ordinamentale che è dettata per armonizzare la disciplina delle circostanze attenuanti al sistema di giustizia riparativa al di là di qualsiasi forma di indennizzo o di risarcimento del danno. La disposizione, pertanto, non determina effetti negativi per la finanza pubblica.

Il comma 1, lett. c), prevede l’attuazione del principio di cui all’art. 1, comma 21, della legge delega n. 134 del 2021, che contempla la modifica dell’art. 131-bis del codice penale attraverso quattro interventi, di cui due al primo comma e  due al secondo comma della disposizione appena citata. Si espongono, successivamente, il contenuto e la natura degli interventi:

 

  • generale estensione dell’ambito di applicabilità dell’istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (primo comma);
  • attribuzione di rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa (primo comma);
  • esclusione del carattere di particolare tenuità dell’offesa – e, pertanto, dell’applicazione dell’istituto – in relazione ad alcuni reati e, in particolare, a quelli riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 (secondo comma).

 

Si analizzano, qui di seguito, gli aspetti giuridici ed i profili di rilievo finanziario degli interventi sopra menzionati così da valutare l’impatto in termini sostanziali e di efficienza e produttività delle modifiche al regime dell’esclusione della punibilità per speciale tenuità del fatto.

Il primo intervento, attuativo dell’art. 1, co. 21, lett. a) l. n. 134/2021, è realizzato sostituendo nel primo comma dell’art. 131 bis c.p. le parole “pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni” con le parole “pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”. Sulle ragioni che hanno ispirato la legge delega nell’ancorare l’ambito di applicazione dell’istituto al minimo edittale della pena detentiva, e non più al massimo, come suggerito dalla dottrina e da precedenti commissioni di studio, si rinvia a quanto illustrato nella relazione finale della Commissione Lattanzi (§ 4.3.).

Per effetto dell’intervento di riforma, la causa di non punibilità vedrà significativamente esteso il proprio ambito di applicazione, con positivi effetti deflativi sul sistema processuale e sulla sua complessiva efficienza. Oggi la causa di non punibilità riguarda i reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, nonché, per effetto di una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 156/2020), i reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva, anche quando il massimo edittale di quella pena è superiore a cinque anni (è il caso della ricettazione di particolare tenuità, ex art. 648, co. 2 c.p., oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, in un caso relativo alla ricettazione di alcune confezioni di rasoi e lamette da barba). Con la modifica normativa la causa di non punibilità potrà applicarsi in relazione ai reati puniti con pena detentiva edittale determinata nel minimo in misura non superiore a due anni, indipendentemente dall’entità del massimo edittale della stessa pena detentiva. L’ampliamento riguarda cioè reati puniti con pena detentiva superiore nel massimo a cinque anni e non superiore, nel minimo, a due anni, oggi esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 131 bis c.p.: è ad esempio il caso del furto aggravato ex art. 625 c.p., co. 1 c.p., punito con la reclusione da due a sei anni, della ricettazione ex art. 648, co. 1 c.p., punita con la reclusione da due a otto anni, o della falsità materiale del pubblico ufficiale in atti pubblici, ex art. 476 c.p., punita con la reclusione da uno a sei anni. Si tratta, in questi e in altri casi, di reati oggetto di procedimenti penali con elevata incidenza statistica nei ruoli d’udienza, che non di rado hanno ad oggetto fatti di particolare tenuità e per i quali – non essendo possibile disporre nel corso delle indagini l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ovvero il proscioglimento in primo grado, possono addirittura essere celebrati tre gradi di giudizio, impegnando complessivamente nove giudici (uno in primo grado, tre in appello e cinque in cassazione). Basti pensare ad esempio, nella vasta casistica giurisprudenziale in tema di delitti contro il patrimonio, a casi emblematici nei quali – all’esito del giudizio – è oggi applicabile l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità (art. 62, n. 4 c.p.), ma, per il limite edittale di pena, non la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.

Oltre a quelli processuali, non trascurabili sono d’altra parte gli effetti di deflazione sul sistema dell’esecuzione penale, conseguenti alla riforma dell’art. 131 bis c.p.

Il maggior numero di procedimenti definiti con l’applicazione della causa di esclusione della punibilità contribuirà alla riduzione del numero delle condanne a pena detentiva di breve durata (tale è, in un significativo numero di casi, la pena irrogata in presenza di fatti di particolare tenuità, ai quali l’art. 131 bis c.p. non è oggi applicabile in ragione dei limiti edittali di pena prevista per il reato per cui si procede). Ciò promette anche un positivo impatto sulle riformate pene sostitutive delle pene detentive brevi e sull’attività dei giudici in sede di esecuzione, dei magistrati e dei tribunali di sorveglianza, nonché dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna.

Il secondo intervento, attuativo dell’art. 1, co. 21, lett. b) l. n. 134/2021, è realizzato inserendo la “condotta susseguente al reato” tra i criteri di valutazione della particolare tenuità dell’offesa. Anche tale modifica normativa consente di ulteriormente ampliare l’ambito di applicazione della causa di non punibilità, superando in particolare l’orientamento della giurisprudenza che, sulla base del diritto vigente, ha dovuto necessariamente affermare che “ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, non rileva il comportamento tenuto dall’agente “post delictum”, atteso che la norma di cui all’art. 131-bis c.p. correla l’esiguità del disvalore ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile, dell’entità del danno o del pericolo, da apprezzare in relazione ai soli profili di cui all’art. 133, co. 1 c.p., e non invece con riguardo a quelli, indicativi di capacità a delinquere, di cui al secondo comma, includenti la condotta susseguente al reato” .

In piena adesione alla legge delega, si è dato rilievo, con formula generale, alla “condotta susseguente al reato”, senza specificare tipologie di condotte riconducibili a quella formula (es., restituzioni, risarcimento del danno, condotte riparatorie, accesso a programmi di giustizia riparativa, ecc.). Si è così inteso non limitare la discrezionalità del giudice che, nel valorizzare le condotte post delictum, potrà d’altra parte fare affidamento su una locuzione elastica – “condotta susseguente al reato” – ben nota alla prassi giurisprudenziale, figurando tra i criteri di commisurazione della pena di cui all’art. 133, co. 2, n. 3 c.p.

Si è peraltro intenzionalmente omesso di operare un rinvio a tale disposizione codicistica perché nel contesto della disciplina sulla commisurazione della pena la condotta susseguente al reato – come ha sottolineato la Corte di cassazione nella citata sentenza – è uno degli indici da cui desumere la capacità a delinquere del colpevole. Nel diverso contesto della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., la condotta susseguente al reato non viene in considerazione come indice della capacità a delinquere dell’agente, bensì, secondo l’intenzione della legge delega, quale criterio che, nell’ambito di una valutazione complessiva, può incidere sulla valutazione del grado dell’offesa al bene giuridico tutelato, concorrendo a delineare un’offesa di particolare tenuità. Ciò comporta, tra l’altro, che la condotta susseguente al reato è apprezzabile, rispetto all’art. 131 bis c.p., solo quando concorre alla tenuità dell’offesa e non anche quando, al contrario, aggrava l’offesa stessa. Anche per questo è apparso opportuno evitare un espresso richiamo all’art. 133, co. 2, n. 3 c.p.

Va poi precisato che la condotta susseguente al reato acquista rilievo, nella disciplina dell’art. 131 bis c.p., non come autonomo (autosufficiente) indice-requisito di tenuità dell’offesa, bensì come ulteriore criterio, accanto a quelli di cui all’art. 133, co. 1 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell’azione; gravità del danno o del pericolo; intensità del dolo o della colpa), da impiegare, nell’ambito di un complessivo giudizio, per valutare le modalità della condotta (contemporanea al reato) e l’esiguità del danno o del pericolo. In altri termini, la congiunzione “anche”, che apre l’inciso immediatamente successivo al rinvio all’art. 133, co. 1 c.p., sottolinea come la condotta susseguente al reato rilevi, al pari e in aggiunta ai criteri di cui alla citata disposizione codicistica, come criterio di valutazione dell’esiguità del danno o del pericolo e delle modalità della condotta, cioè degli indici o requisiti dai quali, congiuntamente, continua a dipendere la tenuità dell’offesa. Ciò significa che condotte post delictum, come quelle riparatorie o ripristinatorie, non potranno di per sé sole rendere l’offesa di particolare tenuità – dando luogo a una esiguità sopravvenuta di un’offesa in precedenza non tenue – ma potranno essere valorizzate nel complessivo giudizio di tenuità dell’offesa, che, dovendo tener conto delle modalità della condotta (contemporanea al reato), ha come necessario e fondamentale termine di relazione il momento della commissione del fatto: la condotta contemporanea al reato e il danno o il pericolo con essa posto in essere. Potrà ad esempio essere senz’altro valorizzata una condotta riparatoria realizzata nell’immediatezza o comunque in prossimità del fatto, come nel caso – tratto dalla citata sentenza della Corte di cassazione – di chi, dopo aver cagionato delle lesioni personali dolose, si preoccupi di accompagnare la persona offesa al pronto soccorso. Una simile condotta post delittuosa non potrà di per sé rendere tenue un’offesa che tale non è – in ragione della gravità delle lesioni (ad es. la frattura dello zigomo e della mascella, come nel caso tratto dalla citata sentenza) – ma potrà essere valorizzata per valutare/confermare la tenuità di un’offesa che già appare tale – ad es., in ragione del carattere lieve o lievissimo delle lesioni.

Il terzo intervento di riforma, attuativo dell’art. 1, co. 21, lett. a) l. n. 134/2021, limita l’ampliamento dell’ambito di applicazione della causa di esclusione della punibilità, conseguente alla modifica del limite edittale di pena detentiva di cui al primo comma dell’art. 131 bis c.p., come anche il quarto intervento, inserito alla lettera b) del punto 2 lett. c) qui esaminata, in cui sono elencate le tipologie di reato (consumato o tentato) per le quali non si configura, nonostante il limite di pena, l’attenuante della speciale tenuità del fatto, che in sostanza, non riguarda i delitti contro le pubbliche amministrazioni ed alcuni delitti di particolare rilevanza per la fede pubblica e per la circolazione dei beni, nonché in tema di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti.

La citata disposizione della legge n. 134/2021 fornisce al legislatore delegato due diversi criteri di attuazione.

Un primo criterio, specifico, mira a evitare che l’ampliamento dell’ambito di applicazione della causa di non punibilità possa interessare reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77. Un secondo criterio, generico, rimette poi al legislatore delegato la valutazione circa l’opportunità di “ampliare conseguentemente, se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica, il novero delle ipotesi in cui, ai sensi del secondo comma dell’articolo 131 bis del codice penale, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità”.

Per attuare entrambi i criteri di delega si è ritenuto opportuno intervenire sul secondo comma dell’art. 131 bis c.p. che, riferendosi a determinate modalità della condotta e a diverse figure di reato, delimita l’applicazione della causa di non punibilità elencando una serie di ipotesi in cui, nella valutazione del legislatore, “l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità”. Si tratta, pertanto, di ampliare il novero di quelle ipotesi, secondo le indicazioni della legge delega.

Quanto ai reati riconducibili alla Convenzione di Istanbul, in materia di violenza contro le donne e di violenza domestica, si è ritenuto opportuno, per esigenze di rispetto dei principi di legalità e di precisione che devono informare la legislazione in materia penale (art. 25, co. 2 Cost.), non fare generico riferimento alla Convenzione, richiamata dalla legge delega – dando luogo a possibili incertezze interpretative – bensì individuare le singole figure di reato previste nell’ordinamento italiano che sono, appunto, riconducibili alla predetta convenzione internazionale. Tale soluzione, oltre che più aderente alla legge delega e ai principi del sistema, è parsa preferibile anche rispetto alla generica indicazione di modalità della condotta di violenza contro le donne, o domestica, che avrebbe potuto comportare irragionevoli disparità di trattamento (si pensi, ad esempio, all’esclusione dell’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. quando la vittima di una violenza sessuale è una donna e alla possibile applicazione della causa di non punibilità quando la vittima dello stesso reato è un uomo).

Va sottolineato che le figure di reato espressamente escluse, secondo l’indicazione della legge delega, sono quelle che, in assenza di un’esclusione espressa, sarebbero rientrate nell’ampliato ambito di applicazione dell’art. 131 bis c.p. E’ il caso dei reati, riconducibili alla Convenzione di Istanbul, che, nella forma consumata, anche per effetto dell’applicazione di circostanze attenuanti autonome o ad effetto speciale (cfr. art. 131 bis, co. 4 c.p.), ovvero nella forma tentata (cfr. art. 56, co. 2 c.p.), sono puniti con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni. I reati riconducibili alla Convenzione che, invece, sono puniti con pena detentiva superiore a due anni, nella forma consumata, circostanziata o tentata (come nel caso dell’omicidio doloso, di cui all’art. 575 c.p., o della deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, di cui all’art. 583 quinquies c.p., o della riduzione o mantenimento in schiavitù, di cui all’art. 600 c.p., o, ancora, della violenza sessuale di gruppo, di cui all’art. 609 octies c.p.), non sono richiamati nel secondo comma dell’art. 131 bis c.p. perché già esclusi dall’ambito di applicazione dell’istituto in ragione del limite di pena edittale.

Ciò detto, le disposizioni della Convenzione di Istanbul che vengono in rilievo, ai fini dell’individuazione delle figure di reato ad essa riconducibili, previste nell’ordinamento italiano, sono quelle di cui agli artt. 33-41, previste nel Capitolo V (“Diritto sostanziale”). Se ne ha conferma dal Baseline Evaluation Report sull’attuazione della Convenzione da parte dell’Italia, adottato nel novembre del 2019 dal GREVIO (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence, istituito presso il Consiglio d’Europa), che riserva le considerazioni in tema di diritto penale sostanziale (Criminal law) alla parte del rapporto relativa al Capitolo V della Convenzione. Considerato poi che l’art. 41 della Convenzione dà rilievo anche alla realizzazione in forma tentata dei reati di cui si tratta, nell’individuazione dei medesimi, ai fini dell’attuazione del criterio di delega, occorre tenere presente il limite di pena detentiva minima per le forme consumate e anche. Inoltre, in considerazione di quanto previsto dall’art. 131 bis, co. 4 c.p., per l’attuazione del criterio di delega occorre tenere presente altresì eventuali circostanze autonome o ad effetto speciale che possano comportare l’applicazione di una pena detentiva non superiore nel minimo a due anni.

Tanto premesso, la Convenzione di Istanbul menziona tipologie di reato o di condotte che trovano corrispondenza in fattispecie delittuose presenti nell’ordinamento italiano e che, essendo punite con pena non superiore nel minimo a due anni, nella forma consumata o tentata, in assenza di un’espressa esclusione sarebbero riconducibili alla previsione dell’art. 131 bis c.p.

Tali figure di reato, in attuazione del criterio di delega, vengono pertanto incluse nel catalogo di cui all’art. 131 bis, co. 2 c.p. e pertanto espressamente escluse dall’ambito di applicazione della causa di non punibilità. Si tratta delle seguenti fattispecie.

  • “Atti persecutori (Stalking)”;
  • “Violenza fisica” ;
  • “Violenza sessuale, compreso lo stupro” ;
  • “Matrimonio forzato”;
  • “Mutilazioni genitali femminili”;
  • “Aborto forzato” ;
  • “Sterilizzazione forzata”;
  • “Molestie sessuali” ;

Considerata l’ampia diffusione delle sopra citate tipologie di reato, il rilievo che assumono nel panorama sociale odierno e l’eco mediatica che le accompagna, si è reputato di esercitare in modo limitato la possibilità di ampliare ulteriormente il novero delle ipotesi in cui, ai sensi del secondo comma dell’art. 131 bis c.p., l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, sebbene la direzione tracciata sia quella di giungere ad un ampliamento il più esteso possibile della causa di non punibilità, funzionale ad obiettivi di deflazione ed efficienza del sistema processuale (fatte salve le specifiche indicazioni della legge delega quanto ai reati riconducibili alla Convenzione di Istanbul) nella consapevolezza del ruolo centrale che, rispetto all’istituto, assume la valutazione del giudice nel caso concreto. Tale possibilità, rimessa all’apprezzamento del legislatore delegato se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica, è stata esercitata come si è detto in rapporto esclusivamente a talune figure di reato poste a tutela di vittime vulnerabili e prossime a quelle riconducibili alla Convenzione di Istanbul: la prostituzione minorile, la corruzione di minorenne, l’adescamento di minorenni, e l’interruzione volontaria della gravidanza su donna minore o interdetta.

Gli interventi di modifica dell’articolo 131-bis c.p., poi, non hanno disposto riguardo ad una disciplina transitoria in quanto, trattandosi di un istituto sostanziale, inquadrabile tra le cause di non punibilità è pacifica l’applicabilità dell’art. 2 c.p.; con la conseguenza che l’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 131 bis c.p. a nuove figure di reato ha effetto retroattivo, come anche il parametro di valutazione della tenuità dell’offesa alla luce della condotta susseguente al reato. Viceversa, alla luce del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole all’agente (art. 25, co. 2 Cost.), le modifiche alla disciplina dell’art. 131 bis c.p., che escludono dall’ambito di applicazione dell’istituto talune figure di reato, in quanto sfavorevoli all’agente, avranno effetto solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della riforma.

Le potenzialità dell’ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto, introdotto nel 2015 in un sistema caratterizzato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale e, pertanto, particolarmente bisognoso di temperamenti, anche e proprio per ragioni di efficienza del sistema processuale, sono testimoniate dai dati statistici forniti dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli Affari di Giustizia, attraverso il Casellario giudiziale. Dal 2015 l’istituto è stato applicato in oltre 150.000 procedimenti penali, con una media di oltre 25.000 applicazioni per anno, tra il 2019 e il 2021. Nel 55% dei casi, tra il 2015 e il 2022, la causa di non punibilità è stata applicata dal giudice per le indagini preliminari e ha portato a oltre 84.000 provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto (16.885 nel 2021), evitando la celebrazione di altrettanti processi penali, magari fino al terzo grado di giudizio. Nel 38% dei casi l’applicazione è avvenuta invece da parte del tribunale (oltre 50.000 provvedimenti di proscioglimento per assoluzione e 9.000 per non doversi procedere); nel 5% dei casi da parte della corte d’appello (oltre 6.000 sentenze di proscioglimento per assoluzione e oltre 1.000 sentenze di proscioglimento per non doversi procedere). Questi dati promettono di crescere sensibilmente, per effetto della riforma, in conseguenza dell’ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto e, in particolare, della possibilità di escludere la punibilità di parecchie tipologie di reato che attualmente si annoverano tra le più diffuse, quali, a livello esemplificativo, i furti aggravati ai sensi dell’art. 625, co. 1 c.p. Basti infatti considerare come il furto semplice (art. 624 c.p.) rappresenti oggi di gran lunga il primo reato tra quelli per i quali, secondo i dati del Casellario giudiziale, trova applicazione l’art. 131 bis c.p.: oltre 31.000 provvedimenti dal 2015 ad oggi (pari al 17% delle applicazioni complessive dell’istituto, dalla sua introduzione).

Pertanto, dai dati analizzati è possibile ritenere che il risultato principale che sarà conseguito con le modifiche previste al presente intervento della riforma, è il taglio del 25% della durata dei giudizi, attraverso una semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, sempre nel rispetto delle garanzie di difesa del soggetto indagato/imputato, nonché una rilevante contrazione dei carichi di lavoro dei magistrati e dei tribunali di sorveglianza – attesa l’immediata entrata in vigore delle norme che ai sensi dell’art. 2 c.p. è tale da ricomprendere anche le condanne di reati con pene già in esecuzione – ed effetti positivi anche sugli adempimenti e le attività degli Uffici di esecuzione penale esterna, i quali, sebbene oggetto di recente potenziamento attraverso il decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2022, n. 79, verranno sgravati da adempimenti connessi a fattispecie illecite i cui autori hanno dato già prova di un indole incline al recupero sociale della persona, con distribuzione delle risorse umane, strumentali e finanziarie verso ambienti criminali necessitanti di maggiore cura per predisporre i programmi di reinserimento dei soggetti interessati.

Con il comma 1 lett. d), punto 1, si prevede la commisurazione della pena pecuniaria alle effettive condizioni economiche e patrimoniali del condannato quale presupposto essenziale dell’applicazione della pena giusta, in quanto proporzionata alle reali capacità del condannato e funzionale agli obiettivi di prevenzione speciale. Il giudice di cognizione è chiamato a un compito di importanza ancor più fondamentale in un sistema che irrigidisce la disciplina della conversione della pena pecuniaria, estendendola al caso dell’insolvenza. La base di calcolo della durata delle pene limitative della libertà personale, applicate in caso di conversione della pena pecuniaria, dipende anche e proprio dall’ammontare della pena pecuniaria, sulla base dei criteri di cui all’art. 133 bis c.p. Di qui, anche per eventuali esigenze di proporzione, che dalla pena pecuniaria possono estendersi a pene da conversione più afflittive, la necessità di una adeguata commisurazione e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, sorretta da adeguata motivazione  e corroborata dall’acquisizione di elementi di prova. Non va dimenticato, infatti, che ai sensi dell’art. 187, co.1 c.p.p. sono oggetto di prova anche i fatti che si riferiscono alla determinazione della pena.

In dottrina e in giurisprudenza è risultata dubbia la rilevanza del patrimonio, rispetto alle condizioni economiche del reo. È allora opportuno, anche per esigenze di coerenza sistematica con la disciplina dell’insolvibilità ex artt. 71 e 103 l. n. 689/1981, dare espresso rilievo, accanto alle condizioni economiche e reddituali, a quelle patrimoniali, allargando così la valutazione del giudice al complesso dell’intera posizione patrimoniale (ad es., beni mobili e immobili).

Si rappresenta, sotto il profilo finanziario, che la disponibilità di tutte le risorse afferenti al patrimonio del reo è di notevole ausilio per il giudice, che potrà meglio calibrare l’importo della pena pecuniaria alle reali condizioni finanziarie della persona, coadiuvato anche dall’ausilio di organi finanziari (G.d.F., Agenzia delle entrate, registri di conservatoria etc.) che istituzionalmente espletano mansioni di accertamento riguardo la reale situazione economica dei soggetti interessati. Pertanto, la disposizione è suscettibile di determinare effetti positivi senza aggravio di oneri per la finanza pubblica.

In relazione al punto 2 della stessa lettera, con l’intervento all’art. 133-ter c.p.,si mira a favorire la riscossione della pena pecuniaria, garantendone l’effettività, e ad agevolare il pagamento dei condannati in funzione delle rispettive condizioni economiche. L’ammissione al pagamento rateale mira ad aumentare i tassi di pagamento e la riduzione dei casi di insolvibilità e del complesso delle conversioni, a beneficio della magistratura di sorveglianza a ciò competente.

In particolare, vengo apportate tre diverse modifiche alla disposizione codicistica, introdotta con la l. n. 689/1981.

Una prima modifica, relativa ai criteri per la rateizzazione, mira a dare rilevo, accanto alle condizioni economiche, a quelle patrimoniali del condannato. La modifica è in linea con i parametri che il giudice deve considerare ai fini della commisurazione della pena (art. 133 bis c.p.) e della condizione di insolvibilità (artt. 103 e 71 l. n. 689/1981): non dovrà guardare solo alle condizioni reddituali (alla quota di reddito mensile impiegabile per il pagamento a rate della pena pecuniaria), ma anche alle complessive disponibilità patrimoniali (es. beni mobili e immobili).

Una seconda modifica riguarda il numero minimo e massimo delle rate in cui il pagamento può essere dilazionato. Per incentivare il ricorso alla rateizzazione, viene raddoppiato il numero massimo delle rate, che viene elevato da trenta a sessanta. Parallelamente, viene raddoppiato anche il numero minimo, che da tre rate passa a sei. Viene invece mantenuta la previsione del valore minimo di ciascuna rata, pari a 15 euro: un valore basso, funzionale a consentire il pagamento rateale della pena pecuniaria ai meno abbienti. Per effetto del raddoppio del numero minimo delle rate, l’ammissione al pagamento rateale riguarda pene pecuniarie inflitte in misura pari ad almeno 90 euro. L’aumento del numero di rate consente di dilazionare il pagamento delle pene pecuniarie fino a 5 anni (pari a 60 mesi/rate): la pena minima edittale di 25.822 euro prevista in materia di stupefacenti dall’art. 73, co. 1 d.P.R. n. 309/1990, ad esempio, può oggi essere pagata in 30 rate da 860 euro; potrà esserlo, in futuro, attraverso 60 rate da 430 euro.

Una terza modifica, infine, è dettata da esigenze di coordinamento con le modifiche, in materia di pene pecuniarie, apportate al t.u. spese di giustizia (d.P.R. n. 115 del 2002). Ci si limita a riprodurre – in quanto ragionevole e compatibile con i criteri di delega – la disposizione prevista dall’art. 236, comma 3 di quel t.u., contestualmente abrogato, secondo cui non sono dovuti interessi per la rateizzazione.

La disposizione in esame contiene in sé lo spirito della riforma, cioè di rendere effettiva l’esecuzione della pena pecuniaria, agevolando in ogni modo la riscossione delle somme anche ingenti irrogate a titolo sanzionatorio. Infatti, l’aumento del numero delle possibili rate in cui suddividere il debito è tale da consentire ai condannati, secondo le proprie esigenze e le proprie condizioni patrimoniali di modulare un piano di riparto che permetterà loro di meglio dilazionare i pagamenti, con risvolti positivi sotto il profilo finanziario, atteso l’aumento della platea di coloro che si renderanno solvibili nei confronti del credito vantato dallo Stato per gli illeciti dagli stessi compiuti. La norma, pertanto, consentirà di colmare, in parte, l’enorme divario attualmente esistente tra l’importo delle pene pecuniarie (sole o congiunte) risultanti dalle condanne irrogate e dai decreti penali di condanna emessi e l’importo che risulterà effettivamente riscosso, determinando un maggiore gettito d’entrata nelle casse dell’Erario, allo stato, non quantificabile.

Per quanto riguarda la lettera e), in tema di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive, non si interviene sul predetto criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 c.p., modificandone l’entità. Tuttavia, si inserisce la clausola di riserva, in apertura della disposizione, con la quale ci si limita a sottolineare il carattere generale della stessa, che può essere derogata allorché specifiche disposizioni di legge prevedano criteri di ragguaglio diversi. È ad esempio il caso del criterio previsto dal nuovo art. 56 quater della legge 24 novembre 1981, n. 689 e (in caso di decreto penale di condanna) dal novellato art. 459, co. 1 bis c.p.p. per la sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria.

Si evidenzia, pertanto, che il criterio di commisurazione tra pena pecuniaria e pena detentiva è rimasto inalterato e, in tale ottica la norma conserva il suo carattere ordinamentale. L’aggiunta dell’inciso all’inizio della disposizione, serve ad introdurre la possibilità di casistiche diverse, le quali, tuttavia, oltre a non essere suscettibili di determinare effetti onerosi per la finanza pubblica, comporteranno effetti positivi di entrata nelle casse dell’erario, atteso che la previsione dei nuovi limiti di conversione tra pena detentiva e pena pecuniaria permetterà di coinvolgere una platea di soggetti, più estesa rispetto a quella odierna, interessati a richiedere l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, ivi incluse quelle di conversione in pene pecuniarie, sebbene, allo stato attuale, di difficile quantificazione.

Al riguardo, per i profili specifici di applicabilità delle deroghe in materia di ragguaglio tra le pene, si rimanda alle considerazioni effettuate sull’introducendo articolo 56 quater nonché riguardo al comma 1 bis dell’art. 459 c.p.p.

L’intervento introdotto dalla lettera f) riguarda l’art. 136 c.p. e si rende necessario per esigenze di coordinamento con la nuova disciplina della conversione della pena pecuniaria non eseguita, prevista dalle riformate disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689. Viene meno, anzitutto, il riferimento alla sola conversione per insolvibilità, ciò in quanto il nuovo sistema di conversione riguarda anche la condizione di insolvenza. Si provvede poi a una maggiore precisione del rinvio normativo alle disposizioni di legge che regolano la materia, in modo da realizzare un opportuno coordinamento tra il Codice penale e la l. n. 689/1981. Vengono richiamati gli artt. 102 e 103 di detta legge, per la conversione della pena principale della multa e dell’ammenda non eseguita, rispettivamente, per insolvenza e per insolvibilità; l’art. 71, invece, viene richiamato per l’ipotesi della conversione della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva breve (art. 56 quater l. cit.), inflitta entro il limite di un anno.

Il riferimento al “termine stabilito” per il pagamento della pena pecuniaria richiama l’art. 660 c.p.p., che prevede un termine di 90 giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione con ingiunzione di pagamento (30 per il pagamento della prima rata, in caso di ammissione al pagamento rateale).

La disposizione ha importanti risvolti sotto il profilo finanziario, in quanto si prevede, che la conversione delle pene pecuniarie principali, grazie all’esercizio del criterio di delega previsto dalla legge 134/2021, possa avvenire non solo in caso di insolvenza ma anche il caso d’insolvibilità. Tale disciplina, tra l’altro, potrà essere spesso superata dal riferimento alle condizioni patrimoniali e non solo più a quelle economiche del reo, con importanti novità riguardo sia alla conversione totale che a quella per la parte residua di pena pecuniaria da pagare, secondo il nuovo regime introdotto con gli articoli 102 e 103 della legge 689/1981. Stessa possibilità è applicabile anche per le pene pecuniarie sostitutive dell’arresto e dell’ammenda, ai sensi dell’art. 71 della legge appena citata. Il regime di nuova introduzione è suscettibile di determinare effetti positivi per la finanza pubblica, anche se allo stato non quantificabili, atteso che realizza nuove forme e modalità di recupero dei crediti da parte dello Stato, inducendo il condannato al pagamento del suo debito al fine di evitare conseguenze peggiori, sollecitando a reperire le risorse economiche nel patrimonio disponibile e, presumibilmente all’interno dei beni del nucleo familiare.

La lettera g) realizza molteplici interventi sull’art. 152, a proposito dell’esercizio del diritto di querela.

Innanzitutto, si ha una modifica terminologica, ma importante dal punto di vista sostanziale, in quanto la parola “delitti” è sostituita da quella “reati” rendendo procedibili a istanza di parte anche le contravvenzioni e non solo i delitti, mentre il secondo intervento è quello sul comma 2 in materia di remissione di querela prevedendo che, in caso di partecipazione del querelante al programma di giustizia riparativa concluso con esito riparativo, venga considerata a tutti gli effetti giuridici rimessa la querela in forma tacita, e nel caso in cui l’esito riparativo comporti l’assunzione di impegni comportamentali da parte della persona considerata autore del reato la querela si intende rimessa solo a seguito dell’assolvimento dei predetti impegni. Si è ritenuto opportuno chiarire, introducendo un ulteriore comma dopo il secondo, che le previsioni che fanno conseguire l’effetto della remissione tacita di querela alla mancata comparizione del querelante all’udienza in cui questi sia citato a comparire come testimone non possono trovare applicazione in caso di persone offese minorenni, incapaci o in condizioni di particolare vulnerabilità (ai sensi dell’art. 90 quater c.p.p.) e in tutte le situazioni in cui il querelante non comparso sia persona che ha proposto querela agendo in luogo della persona offesa e nell’assolvimento di un dovere di carattere pubblicistico: si pensi alle querele presentate dagli esercenti la responsabilità genitoriale, dai tutori, dagli amministratori di sostegno (allorché ne abbiano il potere), dai curatori speciali. In tali casi, sembra opportuno limitare gli effetti dell’automatismo che annette alla mancata comparizione il valore di remissione di querela; in tal modo si scongiura il rischio che eventuali negligenze del rappresentante non comparso come testimone possano risolversi in una diminuzione di tutele per gli interessi sostanziali del rappresentato.

Il fatto che la mancata comparizione del querelante all’udienza ove deve essere esaminato come teste – ove l’assenza sia consapevole (all’esito di un rituale procedimento di notificazione) e ingiustificata – abbia come conseguenza tipica la remissione tacita di querela, suggerisce l’opportunità di introdurre ulteriori modifiche al codice di rito. Si ritiene opportuno che si provveda alla modifica dell’art. 133 del codice di procedura penale (ossia la disposizione relativa all’accompagnamento coattivo di un testimone non comparso), prevedendo che – nei casi in cui la mancata comparizione del querelante determini l’estinzione del reato per remissione tacita di querela – non si debba disporre relative l’accompagnamento coattivo. Le disposizioni in esame, completano il naturale corollario inerente la responsabilizzazione del soggetto che presenta la querela. Si rappresenta che, come per le precedenti, le norme prevedono uno snellimento di adempimenti ed una sensibile accelerazione dei tempi procedurali a favore dell’efficienza processuale. Riguardo agli adempimenti connessi all’attuazione, si rileva una diminuzione delle incombenze a carico degli uffici giudiziari, le quali risultano di natura istituzionale e già ampiamente collaudate per il personale deputato ad espletarle, senza che vi sia alcun aggravio di oneri per la finanza pubblica.

La lettera h) interviene sull’articolo 159 c.p., prevedendo al comma 3-bis la sostituzione della sospensione del procedimento penale dell’art. 420-quater del c.p.p., con quella relativa alla  pronuncia della sentenza di cui al medesimo articolo, modificando, quindi la dizione letterale e prevedendo un istituto favor rei. Al secondo comma, si dispone, infatti che, la pronuncia di cui all’art. 420-quater definisce il procedimento, sicché il destinatario della medesima non è più imputato e il fascicolo va specificamente archiviato per un più agevole recupero. Con la pronuncia della sentenza si apre un periodo di ricerca del prosciolto, che è stato determinato, sulla base della legge delega, nella misura del doppio dei termini stabiliti dall’art. 157 cp ai fini della prescrizione. Si tratta, invero, di un periodo di tempo che può essere anche molto lungo, durante il quale sono previste ricerche del prosciolto, ai fini della revoca della sentenza di non doversi procedere e della riapertura del processo.  Tuttavia, la delega prevede che mentre le ricerche sono in corso, il giudice che ha pronunciato la sentenza debba assumere, a richiesta di parte, eventuali prove non rinviabili. A tal fine si è previsto di fare rinvio alla disciplina ‘operativa’ dell’incidente probatorio. Decorso tale periodo, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata, ponendo fine alle ricerche che, altrimenti, sarebbero infinite. Per questo motivo, si prevede che la sentenza debba dare indicazione della data di prescrizione di ciascun reato, per l’effetto previsto dal comma 2.

Per questa ragione si è effettuato un connesso intervento sulle norme sostanziali in materia di prescrizione, per chiarire che per il tempo necessario alle ricerche, e in ogni caso con il limite massimo del doppio dei termini previsti dall’art. 157 c.p., la prescrizione resta sospesa. Le previsioni indicate hanno natura ordinamentale e procedurale e volte a contribuire allo snellimento delle attività degli organi requirenti e giudicanti, eliminando adempimenti che rallentano i tempi processuali, evitando l’insorgere di procedure di infrazione a livello unionale a garanzia del diritto al giusto processo e realizzando il contenimento dei tempi di definizione del processo: si consegue, pertanto, il deflazionamento di un’attività giurisdizionale che, per assenza di elementi probatori “ab origine”, è tale da determinare una pronuncia di proscioglimento nei confronti del prevenuto. Peraltro, come già sostenuto precedentemente, riguardo agli adempimenti di notifica degli atti processuali si osserva che altro punto della delega favorisce un maggiore utilizzo delle comunicazioni telematiche – per le quali i software applicativi della giustizia sono da tempo collaudati ed implementati – e che le attività delegate alla polizia giudiziaria sono di natura istituzionale e potranno essere fronteggiate attraverso le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera i) si modifica l’articolo 163 c.p. in materia di sospensione condizionale della pena, inserendo nell’ultimo comma, di un ulteriore caso di sospensione condizionale della pena derivante dallo svolgimento di condotte riparatorie nell’eventualità in cui il colpevole abbia partecipato a un programma di giustizia riparativa conclusosi con esito riparativo.

La disposizione ha natura ordinamentale e procedimentale e non determina effetti negativi per la finanza pubblica.

La lettera l) inserisce con un primo intervento, la possibilità che il p.m. sia in accordo sulla richiesta della messa alla prova esperita dall’imputato e anzi avanzi lui stesso la proposta, in un’ottica costi-benefici, è ragionevole consentire al giudice, caso per caso, di valutare l’opportunità di evitare il processo (e la conseguente pena detentiva, in caso di condanna) in favore di un’anticipazione della risposta della Stato, con contenuti di trattamento terapeutico, efficace tutela degli interessi sottesi all’incriminazione, e notevole risparmio di risorse per l’attività giudiziaria. La disposizione, di naturale ordinamentale, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in quanto l’applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato consente di definire il procedimento penale con uno strumento alternativo alla celebrazione di un processo, con risparmio di tempo e risorse nella prospettiva della riduzione dei tempi complessivi dei procedimenti penali.

Si segnala, inoltre, che il presente intervento normativo consentirà l’attivazione di processi nei quali, attraverso una maggiore responsabilizzazione del reo, si assisterà all’effettiva diminuzione del rischio di recidiva dei condannati con una pregressa esperienza carceraria.

Agli adempimenti collegati alle attività così come determinati dalla presente modifica all’art. 168-bis c.p. che comporta un ampliamento dell’ambito di applicazione della citata misura di comunità, si potrà provvedere mediante l’impiego delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, atteso quanto già riportato sopra per il potenziamento dell’organico del UEPE.

Il secondo intervento, è diretto ad aggiungere un altro comma all’art. 175 c.p. per estendere espressamente alle pene sostitutive delle pene detentive il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati. L’iscrizione nel casellario giudiziale delle sentenze definitive di condanna alle sanzioni sostitutive delle pene detentive è prevista dall’art. 3, co. 1 lett., g) D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313. Fermi restando i limiti di pena inflitta previsti dall’art. 175 c.p., e gli ulteriori presupposti, l’intervento si limita a consentire l’applicabilità del beneficio in caso di condanna a pena detentiva (non superiore a due anni) sostituita con una pena sostitutiva. Con ciò si intende incentivare le potenzialità di risocializzazione del condannato a pena sostitutiva, concedendo l’opportunità di attenuare gli effetti negativi e di stigmatizzazione sociale conseguenti alla condanna penale. Sarebbe d’altra parte irragionevole concedere il beneficio in caso di condanna a pena detentiva e non anche allorché, all’esito di una positiva valutazione, tale pena sia stata sostituita. In assenza di una delega legislativa, non si ritiene possibile, per quanto limitatamente alla condanna a pena sostitutiva, intervenire sul limite massimo della pena detentiva richiamato dall’art. 175 c.p.

La disposizione ha natura ordinamentale e pertanto non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, comportando da un punto di vista sociale positive ricadute sul sistema derivanti dall’allineamento normativo realizzato.

 

ART. 2

(Modifiche al Libro II del codice penale)

 

La riforma della disciplina in tema di esecuzione e conversione della pena pecuniaria rende opportuno, in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 1, co. 3 l. n. 134/2021, un coordinamento con l’art. 388 ter c.p., inserito dalla l. n. 689/1981 (comma 1, lettera a).

L’intervento è realizzato in una duplice direzione. Quanto alla rubrica, sostituendo la parola dolosa con la parola fraudolenta si intende rimarcare il nucleo di disvalore della fattispecie delittuosa, che risiedeva e continua a risiedere non tanto nel mancato pagamento volontario – che dà luogo ora a conversione in pena limitativa della libertà personale –, quando nel mancato pagamento fraudolento. Si esplicita, in altri termini, che il dolo richiamato in rubrica è il dolo di una vera e propria frode, che non solo elude la condanna al pagamento e frustra l’interesse pubblico alla riscossione della pena pecuniaria, ma reca altresì pregiudizio all’amministrazione della giustizia, costretta ad attivare un procedimento di conversione della pena pecuniaria e a valutare – sulla base di una condizione alterata – le condizioni di insolvibilità del condannato. Applicare una pena da conversione, quando il mancato pagamento dipende da un atto fraudolento del condannato, che ha sottratto beni utilizzabili per saldare il debito con lo Stato, non costituisce un raddoppio di punizione, rispetto alla pena irrogata per il delitto di cui all’art. 388 ter. Il compimento di atti e fatti fraudolenti, per sottrarsi al pagamento della multa e dell’ammenda, è un fatto diverso dal mancato pagamento della pena pecuniaria, autonomamente sanzionato per rafforzare l’effettiva esecuzione delle pene pecuniarie. Chi non paga la pena pecuniaria è consapevole di andare incontro a una pena da conversione e che, inoltre, se compie atti fraudolenti per sottrarsi al pagamento, incorre in una nuova e autonoma responsabilità penale.

La disposizione, d’altra parte, si riferisce anche al mancato pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie. Considerato che la disciplina della riscossione delle pene pecuniarie e delle sanzioni amministrative pecuniarie cambia, continuando l’iscrizione a ruolo a essere prevista solo per queste ultime, è necessario intervenire sul testo della disposizione per eliminare il riferimento all’ingiunzione di pagamento “contenuta nel precetto”. Potrebbe infatti risultare dubbia la riferibilità di tale concetto all’ordine di esecuzione della pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 660 c.p.p., emesso dal pubblico ministero, con contestuale ingiunzione di pagamento. Di qui l’opportunità di fugare ogni possibile dubbio con un limitato intervento di coordinamento, rispondente alla legge delega.

La disposizione serve a chiarire il concetto che l’ordine di pagamento contiene in sé anche l’ingiunzione al pagamento della pena pecuniaria nel termine di 90 giorni dalla notifica del medesimo atto, per far comprendere quanto sia perentoria l’intimazione in esso contenuta ai fini dell’immediata applicabilità della pena detentiva. La norma ha, pertanto, carattere precettivo ed ordinamentale e non determina un aggravio di oneri per la finanza pubblica.

L’intervento sulla lettera b) mira ad ampliare il regime di procedibilità a querela del delitto di lesioni personali senza più condizionare tale regime alla durata della malattia non superiore ai venti giorni (c.d. lesioni lievissime). Ne consegue che la procedibilità a querela viene estesa alle c.d. lesioni lievi (malattia compresa tra 21 e 40 giorni), mentre restano procedibili d’ufficio le lesioni gravi (comprensive dell’ipotesi in cui la malattia abbia durata superiore a 40 giorni) e le lesioni gravissime, di cui all’art. 583 c.p. E’ fatta salva la procedibilità d’ufficio anche in tutte le altre ipotesi in cui attualmente essa è prevista in presenza di concorrenti circostanze aggravanti. Secondo quanto stabilito dalla legge delega, si fa salva la procedibilità d’ufficio quando la malattia ha durata superiore a venti giorni e il fatto è commesso contro persona incapace per età o per infermità.

L’intervento, limitato a ipotesi che presentano un disvalore ridotto, incentiva condotte riparatorie o risarcitorie, che favoriscono la remissione della querela o l’estinzione del reato per condotte riparatorie, ai sensi dell’art. 162 ter c.p. Trattandosi di una fattispecie di frequente contestazione, l’effetto deflattivo sul carico del tribunale si annuncia significativo, ancor più in considerazione del fatto che l’intervento di riforma comporta altresì un ampliamento della competenza del giudice di pace in virtù della disciplina di cui all’art. 4, co. 1, lett. a) d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, che attribuisce al giudice di pace la competenza per le lesioni personali perseguibili a querela di parte. Tuttavia, in tali casi, si rappresenta che la riforma della magistratura onoraria, è finalizzata ad un maggiore impiego dei giudici onorari che si occuperanno, alla luce dell’ampliamento delle competenze sia in ambito civile che in ambito penale, di questioni e controversie che sono attualmente di spettanza dei tribunali.

La modifica legislativa si pone, altresì, come obbiettivo, quello di far emergere l’interesse dei soggetti privati alla repressione della condotta illecita del reo in un ambito in cui è dato particolare valore all’offesa di beni ritenuti, ex lege, di interesse strettamente individuale e considerati come tali dalla collettività. La valutazione dell’offensività del fatto illecito è, pertanto, rimessa al singolo individuo e all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato. Sotto il profilo finanziario, si assicura una distribuzione più equilibrata dei carichi di lavoro e l’assenza di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

L’intervento sulla lettera c) introduce il regime di procedibilità a querela della persona offesa per il delitto di lesioni personali stradali gravi o gravissime previsto dall’articolo 590 bis, primo comma, del codice penale, recependo così il monito contenuto nella sentenza n. 248/2020 della Corte costituzionale, che ha sollecitato al legislatore “una complessiva rimeditazione sulla congruità dell’attuale regime di procedibilità per le diverse ipotesi di reato contemplate dall’art. 590 bis c.p.”. La Corte costituzionale ha infatti sottolineato come non possa negarsi “che quanto meno le ipotesi base del delitto di lesioni stradali colpose, previste dal primo comma dell’art. 590-bis c.p., appaiono normalmente connotate da un minor disvalore sul piano della condotta e del grado della colpa”. Ha osservato infatti la Corte che “le fattispecie ivi disciplinate hanno come possibile soggetto attivo non solo il conducente di un veicolo a motore ma anche, ad esempio, chi circoli sulla strada a bordo di una bicicletta. Inoltre, pur concernendo condotte produttive di gravi danni all’integrità fisica delle persone offese, tali fattispecie hanno per presupposto la violazione di qualsiasi norma relativa alla circolazione stradale diversa da quelle previste specificamente nei commi successivi e nelle quali possono incorrere anche gli utenti della strada più esperti. Simili violazioni sono connotate da un disvalore inferiore a quello proprio delle assai più gravi ipotesi di colpa cui si riferiscono i commi successivi dell’art. 590-bis c.p., le quali sono caratterizzate in gran parte dalla consapevole (o addirittura temeraria) assunzione di rischi irragionevoli: ad esempio da parte di chi si ponga alla guida di un veicolo avendo assunto sostanze stupefacenti o significative quantità di alcool, ovvero superi del doppio la velocità massima consentita, circoli contromano o, ancora, inverta il senso di marcia in prossimità di una curva o di un dosso”. Inoltre, osserva conclusivamente la Corte costituzionale, “a fronte di condotte consistenti in occasionali disattenzioni, pur se produttive di danni significativi a terzi, potrebbe discutersi dell’opportunità dell’indefettibile celebrazione del processo penale a prescindere dalla volontà della persona offesa, specie laddove a quest’ultima sia stato assicurato l’integrale risarcimento del danno subito; e ciò anche a fronte dell’esigenza – di grande rilievo per la complessiva efficienza della giustizia penale – di non sovraccaricare quest’ultima dell’onere di celebrare processi penali non funzionali alle istanze di tutela della vittima”. Quest’ultima considerazione è di particolare rilievo nella prospettiva di un più ampio disegno riformatore – come quello della l. n. 134/2021 – volto a ridurre i tempi del processo penale e a favorirne forme di definizione anticipata, anche attraverso la riparazione dell’offesa. Nei procedimenti per il delitto di cui all’art. 590 bis, co. 1 c.p. spesso la persona offesa è disinteressata alla punizione del responsabile, perché già risarcita dalle compagnie di assicurazione. Quei procedimenti riguardano fatti frequentissimi (ricorrenti nel ruolo del giudice monocratico) e talvolta di difficile e complesso accertamento, avviati per applicare pene del tutto modeste e per lo più non eseguibili (ad es. perché sospese). L’introduzione della procedibilità a querela rappresenta un fondamentale filtro in grado di portare il giudice penale a confrontarsi con quelle rare ipotesi (ad es., lesioni di particolare gravità, risarcimento non riconosciuto) in cui è realmente richiesto il suo intervento.

Sotto il profilo della tecnica legislativa, si propone di adottare una disposizione che, analogamente a quanto prevede per le lesioni personali colpose l’art. 590, ultimo comma, del codice penale, stabilisce di regola la procedibilità a querela per il delitto, salvo eccettuare espressamente le ipotesi, aggravate, che restano procedibili d’ufficio. La legge delega, nel limitare la procedibilità a querela all’ipotesi del primo comma dell’art. 590 bis, infatti, ha inteso evidentemente riferirsi all’ipotesi-base, escludendo le ipotesi aggravate di cui ai successivi commi secondo, terzo, quarto, quinto e sesto, caratterizzate da un maggiore disvalore e che rimangono procedibili d’ufficio (per l’espressa qualificazione di dette ipotesi come circostanze aggravanti cfr. l’art. 590 quater c.p.). A fortiori, invece, per evitare censure di irragionevolezza, deve prevedersi la procedibilità a querela anche nell’ipotesi attenuata prevista dal settimo comma (qualora l’evento non sia di esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole). La procedibilità a querela, in assenza di una o più delle sopramenzionate circostanze aggravanti, va infine tenuta ferma anche nell’ipotesi di pluralità di eventi lesivi, prevista dall’ultimo comma dell’art. 590 bis c.p. Tale disposizione riproduce analoghe previsioni contenute negli artt. 589, ult. co., 589 bis, ult. co. e 590, co. 4 c.p., che non configurano circostanze aggravanti bensì ipotesi speciali di concorso formale di reati, caratterizzate secondo la giurisprudenza, da una mera unificazione quoad poenam dei singoli reati, i quali devono essere separatamente considerati, anche ai fini del regime di procedibilità a querela, che pertanto non viene meno in caso di pluralità di eventi lesivi, sempre che non ricorra una o più delle predette circostanze aggravanti. La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e trova la sua ratio nella circostanza che solamente i procedimenti che presentano maggiore carattere di conflittualità e con aspetti controversi, in cui si impone un’approfondita valutazione delle fonti di prova o sia necessario reperirne alcune più pregnanti, devono trovare una risoluzione giudiziale. Tutti gli altri, che non presentino alcuna aggravante e nei quali le circostanze di fatto e di diritto siano evidenti e risultino accertate e per molti dei quali vi sia già un accordo tra le parti in relazione alla forma di riparazione e/o al risarcimento del danno subito, possono essere risolti in via stragiudiziale, esonerando i ruoli processuali da carichi eccessivi. Le disposizioni qui esaminate permettono, quindi, di conseguire effetti deflattivi del contenzioso giudiziario di notevole rilievo e sono di sostanziale impatto in termini di efficacia ed efficienza sulla mole e sui tempi dei giudizi. Le stesse, pertanto, determinano effetti positivi per la finanza pubblica, sebbene, allo stato, non quantificabili.

L’intervento sulla lettera d) introduce la procedibilità a querela limitatamente all’ipotesi meno grave di sequestro di persona, prevista dal primo comma dell’art. 605 c.p., facendo tuttavia salva la procedibilità d’ufficio quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità. La dimensione personale del bene giuridico tutelato suggerisce di prevedere la procedibilità a querela rispetto a ipotesi non aggravate che – come manifesta il basso limite minimo edittale della pena detentiva comminata (sei mesi) – possono presentare e non di rado presentano nella prassi una ridotta offensività. E’ questo ad esempio il caso in cui si tratti di limitazioni della libertà di durata assai breve.  La giurisprudenza ritiene infatti configurabile il reato anche in ipotesi in cui la privazione della libertà personale è durata pochi minuti. In simili casi il fatto può presentare un disvalore assai ridotto o essere comunque oggetto di condotte riparatorie o risarcitorie, che favoriscano la remissione della querela o l’estinzione del reato per condotte riparatorie, ai sensi dell’art. 162 ter c.p. La modifica legislativa si pone come obbiettivo quello di far emergere l’interesse dei soggetti privati alla repressione della condotta illecita del reo in un ambito in cui è dato particolare valore all’offesa di beni ritenuti, ex lege, di interesse strettamente individuale e considerati come tali dalla collettività. La valutazione dell’offensività del fatto illecito è, pertanto, rimessa al singolo individuo e all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato. La disposizione ha natura procedurale e non determina effetti negativi per la finanza pubblica.

La modifica prevista alla lettera e) introduce la procedibilità a querela per il delitto di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., facendo salva la procedibilità d’ufficio quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità, ovvero quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma, che richiama a sua volta le condizioni previste dall’art. 339 c.p. nell’ambito dei delitti contro la p.a. In tale ultima ipotesi, la dimensione pubblicistica delle aggravanti rende opportuno conservare il regime di procedibilità d’ufficio.

La procedibilità a querela per il delitto di violenza privata è coerente con la natura personale del bene giuridico tutelato ed è suggerita dalla circostanza che, come risulta nella prassi ed è ancor prima testimoniato dal ridotto minimo edittale (15 giorni di reclusione, ex art. 23 c.p.), il fatto può presentare un disvalore assai ridotto o essere comunque oggetto di condotte riparatorie o risarcitorie, che favoriscano la remissione della querela o l’estinzione del reato per condotte riparatorie, ai sensi dell’art. 162 ter c.p. L’effetto deflattivo sul carico giudiziario, trattandosi di fattispecie di frequente contestazione, si preannuncia significativo, in quanto  molte fattispecie di minore rilievo  e che possono trovare un equo contemperamento degli interessi tra le parti non perverranno in sede giudiziaria. Solamente chi avrà interesse alla repressione della condotta illecita del reo, perché ha percepito la lesione ad un bene giuridico particolarmente tutelato, intraprenderà l’azione per le vie legali. La valutazione dell’offensività del fatto illecito è, dunque, rimessa al singolo individuo e all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato, pertanto la disposizione esaminata non comporta effetti negativi per la finanza pubblica.

La lettera f) concerne la modifica all’art. 612 c.p., il quale va letto insieme a quello relativo all’art. 623 ter c.p. e mira ad ampliare i casi in cui il delitto di minaccia è procedibile a querela.

La procedibilità d’ufficio è oggi prevista dall’ultimo comma quando la minaccia è fatta in uno dei modi previsti dall’art. 339 c.p. In attuazione della legge delega a tale ipotesi si aggiunge quella in cui persona offesa sia incapace per età o per infermità. Si è preferito utilizzare questa espressione nel testo del novellato quarto comma – in luogo di “persona contro la quale è rivolta o diretta la minaccia” – per evitare possibili equivoci, posto che il “bersaglio” della minaccia (la persona oggetto del male ingiusto minacciato) può non coincidere con la persona che percepisce la minaccia.

Un’ulteriore ipotesi di procedibilità d’ufficio è prevista nell’art. 623-ter c.p., inserito dall’art. 7 d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, per l’ipotesi in cui la minaccia sia grave (art. 612, co. 2 c.p.) e ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale. Tale ipotesi può verificarsi con frequenza, per la numerosità delle aggravanti a effetto speciale previste nell’ordinamento, nelle quali la giurisprudenza inquadra anche la recidiva, nelle ipotesi di cui all’art. 99, co. 2, 3 e 4. Per realizzare un significativo ampliamento della sfera della procedibilità a querela della minaccia, si ritiene opportuno escludere che la recidiva possa determinare la procedibilità d’ufficio del delitto di minaccia. L’intervento è realizzato modificando il terzo comma dell’art. 612 c.p. e l’art. 623-ter c.p. La dimensione personale del bene giuridico tutelato può giustificare la procedibilità a querela – rendendo possibili definizioni alternative del procedimento attraverso condotte riparatore o risarcitorie (remissione della querela o applicabilità della causa estintiva di cui all’art. 162 ter c.p. – a prescindere dalla condizione soggettiva dell’autore del reato, determinando effetti deflattivi del contenzioso giudiziario in termini di efficienza ed efficacia dei procedimenti penali. Solamente chi avrà interesse alla repressione della condotta illecita del reo, perché ha percepito la lesione ad un bene giuridico particolarmente tutelato, intraprenderà l’azione per le vie legali. La valutazione dell’offensività del fatto illecito è, dunque, rimessa al singolo individuo e all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato, pertanto la disposizione esaminata non comporta effetti negativi per la finanza pubblica.

Riguardo alla lettera g) si prevede l’intervento sull’art. 614 c.p., che estende la procedibilità a querela del delitto di violazione di domicilio all’ipotesi, oggi procedibile d’ufficio, in cui il fatto sia aggravato per essere stato commesso con violenza sulle cose. Si tratta, nella prassi, di un’ipotesi che spesso ricorre, essendo configurabile, come riconosce la giurisprudenza quando – come nel caso del danneggiamento di una serratura, di una porta o di una finestra – la violenza sulle cose rappresenta il mezzo per introdursi (o trattenersi) nel domicilio altrui. La condotta presenta indubbiamente una minore offensività e disvalore rispetto a quelle realizzate con violenza alla persona o con armi; il che rende ragionevole limitare a queste ultime il regime di procedibilità d’ufficio. Mancando una condotta violenta diretta verso la persona, anche attraverso l’intimidazione connessa all’uso di armi, è ragionevole rimettere la procedibilità all’iniziativa della persona offesa. Si procede peraltro d’ufficio se il fatto è commesso contro una persona incapace per età o per infermità. Va precisato che la proposta modifica del regime di procedibilità non fa venir meno la possibilità di effettuare l’arresto facoltativo in flagranza, previsto anche per le ipotesi procedibili a querela dall’art. 381, co. 2, lett. f-bis) c.p.p.

Pertanto, pur aumentando la pena in caso di danneggiamenti di beni, si tratta di rimettere la valutazione dell’offensività del fatto illecito al singolo individuo, che potrà decidere secondo il valore dal medesimo attribuito alle cose se ricorrere in giudizio o risolvere la vicenda attraverso condotte riparative ex art. 162-ter c.p. nonché all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato. La disposizione esaminata, comportando un significativo effetto deflattivo sul contenzioso giudiziario, comporta effetti positivi per la finanza pubblica anche se, allo stato, di difficile quantificazione.

La lettera h) interviene sull’art. 623-ter c.p., da leggersi insieme a quello sul delitto ex art. 612 c.p., conferma i sopra esposti effetti positivi per la finanza pubblica, in quanto ribadisce l’introduzione della querela ad istanza di parte anche se la minaccia è grave.

Con la lettera i) si interviene, in linea con la ratio della l. n. 134/2021, per ampliare notevolmente le ipotesi di procedibilità a querela del furto. Si tratta di un reato contro il patrimonio che di norma è procedibile a querela e per il quale è oggi prevista la procedibilità d’ufficio in presenza di circostanze aggravanti che sono spesso contestate, precludendo così in molti casi la possibilità di definire il procedimento penale con la remissione della querela o la dichiarazione di estinzione del reato ex art. 162 ter c.p., a seguito di condotte risarcitorie e riparatorie dell’offesa patrimoniale. Obiettivi di maggiore efficienza del processo penale rendono opportuno consentire una definizione alternativa e anticipata – con riduzione del carico giudiziario ed effetti positivi sulla durata complessiva dei procedimenti – in tutti i non pochi casi in cui offese patrimoniali siano state riparate. Il furto è, tradizionalmente, un reato ad alto tasso di denuncia. Lo confermano i dati ISTAT: i furti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria sono stati 1.346.630 nel 2016, 1.265.678 nel 2017, 1.192.592 nel 2018, 1.071.776 nel 2019 e 721.680 nel 2020 (dato, quest’ultimo, verosimilmente influenzato al ribasso dalla pandemia e dei provvedimenti che hanno limitato la circolazione delle persone, con conseguente riduzione dei reati comuni e “da strada”, come il furto). Ciò significa che in cinque anni, tra il 2016 e il 2020, sono stati avviati 5.598.356 procedimenti penali per furto, nella gran parte dei casi procedibili d’ufficio, stante l’ampia sfera della procedibilità d’ufficio prevista oggi dal codice penale. Un significativo effetto deflativo può pertanto prodursi riducendo il più possibile i casi di procedibilità d’ufficio, attraverso una riformulazione dell’ultimo comma dell’art. 624, introdotto con la l’art. 12 l. 25 giugno 1999, n. 205.

L’intervento proposto mira, in primo luogo, a escludere la procedibilità d’ufficio in presenza dell’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 7 c.p., relativa al danno patrimoniale di rilevante gravità. La rilevante gravità del danno non rende inopportuno, di per sé, il regime di procedibilità a querela. Nulla impedisce infatti che anche tale danno possa essere risarcito o riparato, con conseguente remissione della querela ed estinzione del reato, anche ai sensi dell’articolo 162 ter c.p.

In secondo luogo, la modifica limita la procedibilità d’ufficio – oggi prevista in tutti i casi in cui ricorre una o più delle circostanze aggravanti speciali di cui all’art. 625 c.p., a quelle sole previste dai numeri 7 (esclusa l’ipotesi dell’esposizione della res alla fede pubblica) e 7 bis. Si è ritenuto opportuno conservare la procedibilità d’ufficio, rispetto all’ampio catalogo di circostanze previsto dall’art. 625 c.p., solo in relazione a quelle che connettono il maggior disvalore penale del fatto all’offesa al patrimonio pubblico e, comunque, a una dimensione pubblicistica dell’oggetto materiale della condotta. Il furto resta procedibile d’ufficio, pertanto, se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza (art. 625, n. 7 c.p.); ovvero se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica (art. 625, n. 7 bis). Una dimensione pubblicistica dell’oggetto materiale della condotta e dell’offesa patrimoniale non è necessariamente propria della mera esposizione della res alla pubblica fede – situazione per la quale si prevede la procedibilità a querela: basti pensare al caso da manuale, ricorrente nella prassi, del furto di una bicicletta lasciata nella pubblica via.

Al riguardo, dunque, si osserva che in ambito dei delitti contro il patrimonio e, soprattutto per le casistiche legate ai furti, la dimensione personale del bene giuridico tutelato può giustificare la procedibilità a querela – rendendo possibili definizioni alternative del procedimento attraverso condotte riparatore o risarcitorie (remissione della querela o applicabilità della causa estintiva di cui all’art. 162 ter c.p. – a prescindere dalla condizione soggettiva dell’autore del reato, determinando effetti deflattivi del contenzioso giudiziario in termini di efficienza ed efficacia dei procedimenti penali. La valutazione dell’offensività del fatto illecito è, dunque, rimessa al singolo individuo e all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato, pertanto la disposizione esaminata non comporta effetti negativi per la finanza pubblica.

L’intervento all’art. 626 c.p.(lettera l) modifica la rubrica della norma, mentre per quanto riguarda la lettera m), l’intervento rende procedibile a querela di parte il delitto di cui all’art. 634 c.p., facendo salva la procedibilità d’ufficio se la persona offesa è incapace per età o per infermità. Si tratta di un delitto punito meno severamente di quello previsto dal precedente art. 633, che è normalmente procedibile a querela. Equiparare il regime di procedibilità tra le due ipotesi delittuose è opportuno anche in ragione della problematica distinzione tra di esse – resa necessaria anche dalla clausola di apertura dell’art. 634 c.p.-,

riconosciuta da dottrina e giurisprudenza e per lo più ricondotta all’elemento soggettivo del reato (dolo specifico vs. dolo generico). Pertanto, si rinvia alle valutazione effettuate riguardo all’articolo 633 c.p.,  trattandosi di rimettere la valutazione dell’offensività del fatto illecito al singolo individuo, che potrà decidere secondo il valore dal medesimo attribuito alle cose nonché all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato. La disposizione esaminata, comporta un significativo effetto deflattivo sul contenzioso giudiziario e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La lettera n) interviene sull’art. 635 c.p. rendendo procedibile a querela di parte il delitto di danneggiamento, limitatamente all’ipotesi prevista dal primo comma dell’art. 635 (fatto commesso con violenza alla persona o con minaccia). Mentre nel primo comma viene in rilievo un’offesa di natura spiccatamente patrimoniale e privatistica, oltre che personale (violenza/minaccia), nei successivi commi dell’art. 635 c.p. vengono in rilievo ipotesi di danneggiamento di beni pubblici o, comunque, di interesse o utilità pubblica. Di qui l’opportunità di conservare la procedibilità d’ufficio in tali casi. La procedibilità d’ufficio resta altresì ferma, nei casi previsti dal primo comma, quando la persona offesa è incapace per età o per infermità, nonché nell’ipotesi in cui il fatto sia commesso in occasione del delitto previsto dall’art. 331 c.p. (interruzione di un pubblico servizio). In tale ultima ipotesi il fatto di reato si colloca nel contesto di una dimensione pubblicistica che giustifica la procedibilità d’ufficio, prevista anche per il concorrente delitto di interruzione di pubblico servizio. Al riguardo, dunque, si osserva che in ambito dei delitti contro il patrimonio di privati, come nel caso del danneggiamento  di cose mobili o immobili, seppure attuato con minaccia o violenza alla persona, la dimensione personale del bene giuridico tutelato può giustificare la procedibilità a querela – rendendo possibili definizioni alternative del procedimento attraverso condotte riparatore o risarcitorie (remissione della querela o applicabilità della causa estintiva di cui all’art. 162 ter c.p. – a prescindere dalla condizione soggettiva dell’autore del reato, determinando effetti deflattivi del contenzioso giudiziario in termini di efficienza ed efficacia dei procedimenti penali. La valutazione dell’offensività del fatto illecito è, dunque, rimessa al singolo individuo e all’interesse del medesimo alla perseguibilità del reato, pertanto la disposizione esaminata non comporta effetti negativi per la finanza pubblica.

La lettera o) si occupa delle modifiche all’art. 640 c.p. ed è da leggersi unitamente a quello relativo all’art. 649 bis c.p., ampliando i casi di procedibilità a querela del delitto di truffa. Viene in particolare eliminata la previsione della procedibilità d’ufficio quando il danno patrimoniale cagionato è di rilevante gravità e ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, n. 7 c.p. La soluzione è coerente con quella in proposta in tema di furto (art. 624, ult. co. c.p.). Invero, la rilevante gravità del danno patrimoniale non preclude la possibilità di un integrale risarcimento, consentendo la definizione anticipata del procedimento penale attraverso la remissione della querela o l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 162 ter c.p., istituto che conseguentemente vede ampliata la propria sfera applicativa, con positivi effetti di deflazione processuale. La modifica apportata, pertanto, comporta effetti positivi per la finanza pubblica, sebbene, allo stato, non quantificabili.

L’intervento sulla lettera p) riguardo l’art. 640-ter c.p. ed è da leggersi unitamente a quello relativo all’articolo 649 bis c.p., esclude la procedibilità d’ufficio della frode informatica quando ricorra l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61 n. 7 c.p.). La soluzione è coerente con quella adottata in tema di furto e di truffa. Si rappresenta, infatti, che la rilevante gravità del danno patrimoniale non preclude la possibilità di un integrale risarcimento, consentendo la definizione anticipata del procedimento penale attraverso la remissione

della querela o l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 162 ter c.p., istituto che conseguentemente vede ampliata la propria sfera applicativa, con positivi effetti di deflazione processuale. La modifica apportata, pertanto, comporta effetti positivi per la finanza pubblica, sebbene, allo stato, non quantificabili.

L’intervento sulla lettera q) amplia le ipotesi di procedibilità a querela dei delitti di truffa, frode informatica e appropriazione indebita.

In primo luogo, coerentemente a quanto è stato previsto in tema di furto, si esclude che il danno patrimoniale di rilevante gravità determini la procedibilità a querela della truffa, della frode informatica e dell’appropriazione indebita, nelle ipotesi considerate dalla norma. Va ribadito che un danno di rilevante gravità non preclude condotte risarcitorie o riparatorie nell’interesse della persona offesa, con rimessione della querela – o applicabilità della causa estintiva di cui all’art. 162 ter c.p. – con effetti deflativi sul carico giudiziario considerevoli se si considera che le figure di reato richiamate dall’art. 649 bis c.p. sono oggetto di numerosi procedimenti penali.

In secondo luogo, per ragioni analoghe a quelle che hanno indotto ad analoga modifica dell’art. 612, co. 3 c.p., si esclude il rilievo della recidiva dal novero delle circostanze ad effetto speciale che, concorrendo con quelle richiamate dalla disposizione, comportano la procedibilità d’ufficio. Anche tale intervento promette significativi effetti deflativi. La dimensione personale del bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici di cui si tratta giustifica la procedibilità a querela a prescindere dalla condizione soggettiva dell’autore del reato, che non potrà impedire più la remissione della querela o l’applicabilità della causa estintiva di cui all’art. 162 ter c.p., in presenza di condotte risarcitorie o riparatorie. La disposizione ha carattere procedurale e fissa le casistiche in cui permane la procedibilità d’ufficio per i reati contro il patrimonio legati a condotte fraudolente e profittatrici della fiducia altrui, tenendola legata al verificarsi di circostanze particolari, ad effetto speciale ed escludendo dal novero delle aggravanti anche la recidiva. Per il resto, rimangono confermate le valutazioni effettuate, sotto il profilo finanziario, agli articoli precedenti. Infatti, la rilevante gravità del danno patrimoniale non preclude la possibilità di un integrale risarcimento, consentendo la definizione anticipata del procedimento penale attraverso la remissione della querela o l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 162 ter c.p., istituto che conseguentemente vede ampliata la propria sfera applicativa, con positivi effetti di deflazione processuale. La modifica apportata, pertanto, comporta effetti positivi per la finanza pubblica, sebbene, allo stato, non quantificabili.

 

ART. 3

(Modifiche al Libro III del codice penale)

 

L’intervento normativo, alla lettera a) rende procedibile a querela della persona offesa la contravvenzione di disturbo del riposo o delle occupazioni delle persone (art. 659 c.p.), nella sole ipotesi, previste dal primo comma, in cui la contravvenzione costituisce un reato contro la persona, essendo l’offesa diretta verso “le persone” e, in particolari, verso beni personali facenti capo a individui determinati: le loro occupazioni (intellettuali o manuali) e il loro riposo (ad esempio nelle ore notturne). La procedibilità d’ufficio è fatta salva, in conformità alla legge delega, quando la persona offesa è incapace per età o per infermità. Restano inoltre procedibili d’ufficio i casi di disturbo di spettacoli, ritrovi o intrattenimenti pubblici. Rimane inoltre procedibile d’ufficio, in quanto del tutto  eterogenea, la fattispecie di esercizio irregolare di professioni o mestieri rumorosi cui al secondo comma, che descrive un’offesa spiccatamente pubblicistica.

La scelta di rendere procedibile a querela una contravvenzione è innovativa, nel sistema italiano, essendo le contravvenzioni sempre procedibili d’ufficio (cfr. l’art. 11 disp. att. c.p.). Senonché la procedibilità a querela delle contravvenzioni è frutto di una scelta del legislatore ordinario e può subire eccezioni, non essendo imposta da principi costituzionali o di sistema. La disciplina sostanziale e processuale della querela è compatibile con la procedibilità a querela delle contravvenzioni. L’art. 120, co. 1 c.p., in particolare, stabilisce che ha diritto di querela ogni persona offesa da un “reato” – non, si noti, da un delitto, per cui non debba procedersi d’ufficio o dietro richiesta o istanza. La dottrina è da tempo e tradizionalmente concorde, d’altra parte, nell’escludere un criterio ontologico di distinzione tra delitti e contravvenzioni. La trasformazione di un reato da contravvenzione in delitto, e viceversa, è d’altra parte possibile e rimessa alla discrezionalità del legislatore, sulla base di scelte orientate a connotare il reato in termini di maggiore o minore gravità. Riguardo alla circostanza che la presente disposizione è suscettibile di determinare effetti positivi per il sistema processuale, si rileva che quando una contravvenzione tutela interessi individuali e concreti, come quelli che fanno capo alla persona, non vi è ragione per escludere la procedibilità a querela, aprendo il sistema alla possibilità di condotte risarcitorie e riparatorie, con effetti deflattivi sul carico giudiziario in caso di remissione della querela o di applicazione dell’istituto di cui all’art. 162 ter c.p., che non si riferisce ai delitti ma ai reati in genere. Gli obiettivi di efficienza del sistema processuale, perseguiti dalla legge delega, rendono opportuno condizionare l’azione penale alla presentazione di una querela quando, in casi ricorrenti nella prassi, si è altrimenti costretti a celebrare d’ufficio un lungo procedimento penale, magari attraverso tre gradi di giudizio. Le minori incombenze a carico del personale degli uffici giudiziari nonché lo snellimento processuale che la norma è suscettibile di realizzare, con effetti positivi in termini di minor esborso in spese di giustizia, sono tali da determinare una compensazione tra le entrate del numero dei procedimenti contravvenzionali avviati d’ufficio e il numero di quelli avviati su istanza di parte (querela), pertanto, dalle disposizioni in esame non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Riguardo alla lettera b), l’intervento introduce la procedibilità a querela per la contravvenzione di molestie o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p. Non si ignora che la contravvenzione, al pari di quella prevista dall’art. 659 c.p., è collocata tra quelle contro l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica. Va tuttavia considerato, come riconosce la dottrina, che la collocazione sistematica non è decisiva, quanto a individuazione del bene giuridico tutelato – nel caso di specie notoriamente controverso –, e, soprattutto, che la disposizione richiama, quale destinatario della condotta, una persona determinata (“taluno”), facendo così luce sulla direzione offensiva della condotta. Si tratta d’altra parte di un reato meno grave rispetto a ipotesi più gravi di molestie personali, inquadrabili tra i delitti e procedibili a querela. E’ ad esempio il caso delle molestie che integrano gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p. Ed è il caso, quanto alle molestie sessuali, di un nuovo delitto che il Disegno di legge n. 1597 (Sen. Valente e altri), attualmente all’esame del Senato, intende introdurre in un nuovo art. 609 ter.1. c.p. E’ irragionevole che la procedibilità d’ufficio sia prevista per l’ipotesi meno grave di molestie, e sia invece esclusa, anche nell’interesse della persona offesa, per le ipotesi più gravi.

La legge delega non consente la trasformazione della contravvenzione in delitto ma consente di trasformare il regime di procedibilità, rimuovendo così, sotto il profilo delle condizioni di procedibilità, la disparità di trattamento con le più gravi ipotesi di molestie inquadrabili tra i delitti.  Come rappresentato per l’art. 659 c.p., anche per l’ipotesi qui considerata le minori incombenze a carico del personale degli uffici giudiziari nonché lo snellimento processuale che la norma è suscettibile di realizzare, con effetti positivi in termini di minor esborso in spese di giustizia, sono tali da determinare una compensazione tra le entrate del numero dei procedimenti contravvenzionali avviati d’ufficio e il numero di quelli avviati su istanza di parte (querela), pertanto, dalle disposizioni in esame non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

TITOLO II

Modifiche al codice di procedura penale

 

CAPO I

Modifiche al Libro I del codice di procedura penale

 

ART. 4

(Modifiche al Titolo I del Libro I del codice di procedura penale)

 

Il criterio di delega trova puntuale attuazione nel nuovo art. 24-bis c.p.p., introdotto dal presente articolo. La disciplina del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, per la decisione sulla questione di competenza territoriale, è costruita sul modello della proposizione e della risoluzione dei conflitti di giurisdizione e competenza (artt. 30-32 c.p.p.), con i necessari adattamenti, propri della disciplina della incompetenza per territorio, in tema di termini per la proposizione della relativa eccezione e di provvedimenti conseguenti alla dichiarazione di incompetenza. A tale ultimo riguardo, il discostamento dal dato testuale del criterio di delega («prevedere che la Corte di cassazione, nel caso in cui dichiari l’incompetenza del giudice, ordini la trasmissione degli atti al giudice competente»), con la previsione di una trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente, è reso necessario per rispettare il dettato delle pronunzie della Corte costituzionale intervenute sulla materia.

Si tratta di disposizioni di natura precettiva e procedurale non suscettibili di determinare effetti finanziari negativi sulla finanza pubblica. Si assicura, infatti, che gli adempimenti giudiziari previsti potranno essere garantiti nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 5

(Modifiche al Titolo IV del Libro I del codice di procedura penale)

 

La prima parte della norma della legge delega è finalizzata ad introdurre uno sbarramento temporale alla costituzione di parte civile nei procedimenti con udienza preliminare. Per questo la relativa disciplina è stata inserita nell’art. 79, di cui sono stati modificati il primo e il secondo comma.

La seconda parte della norma è finalizzata, invece, a facilitare la costituzione di parte civile, concentrando sul difensore munito di procura il potere di gestire attraverso altre persone la fase di sottoscrivere l’atto relativo. Il legislatore delegante ha previsto, in particolare, che la procura rilasciata ai sensi dell’articolo 122 c.p.p. – la quale legittima all’esercizio del diritto sostanziale di reclamare le restituzioni e il risarcimento del danno generati dal reato – conferisce al difensore, che sia anche munito di procura speciale ex art. 100 c.p.p. (e sia, quindi, legittimato a stare in giudizio), la facoltà di trasferire ad altri il potere di sottoscrivere l’atto di costituzione della parte civile, salva la diversa volontà della parte.

La nuova previsione è stata inserita nell’art. 78 c.p.p., che disciplina le forme della costituzione di parte civile.

Si è, comunque, rilevato che la delega sembra dar vita ad una situazione complessa e particolare.

L’ulteriore persona «coinvolta» nella procedura riceve solo il «potere» di sottoscrivere in luogo del difensore-procuratore, senza che per questo cambi l’identificazione del procuratore, e men che meno quella della parte costituita. In proposito, si è ritenuto che, anche se la norma si esprime in termini più generali, consentendo di attribuire «ad altri» il potere di sottoscrizione dell’atto, l’unica persona legittimata a stare in udienza in luogo del difensore, e, quindi, a sottoscrivere e depositare l’atto, sia il suo sostituto ex art. 102 c.p.p. In questo senso è stato precisato, quindi, il generico riferimento contenuto nella delega. La possibilità di affidare il compito concorrente della costituzione in udienza al proprio sostituto è negata, allo stato della legislazione, dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 12213 del 2018). La delega vale dunque ad introdurre un criterio diverso: conferendo al difensore, che rivesta anche la qualifica di procuratore sostanziale, la possibilità di trasferire ad altri il diritto di sottoscrivere l’atto di costituzione, si consente in pratica al professionista di valersi del sostituto anche per il deposito del medesimo atto, così risolvendo le questioni che attualmente si pongono nei casi in cui il procuratore non possa presenziare personalmente all’udienza.

La disposizione ha carattere procedurale e, pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica essendo tesa ad una più efficace regolamentazione della costituzione di parte civile.

L’attuazione della legge delega  introduce, poi,  significative novità: sulla dichiarazione o elezione di domicilio da parte del querelante; sulle conseguenze che si determinano in materia di notificazioni degli atti al querelante in caso di domicilio non dichiarato o eletto (o di dichiarazione insufficiente o inidonea); sulle conseguenze che si danno in caso di mancata comparizione del querelante all’udienza in cui sia citato a comparire come testimone (che, ove ingiustificata, comporta remissione tacita di querela). Si introduce l’obbligo del querelante di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento, con l’avviso che la dichiarazione di domicilio può essere effettuata anche dichiarando un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato

Dato il rilievo degli interventi normativi, si è ritenuto necessario intervenire sul testo dell’art. 90 bis c.p.p. (Informazioni alla persona offesa), in modo tale da arricchire il corredo di informazioni che intendono assicurare alla persona offesa di partecipare in modo informato, consapevole e attivo al procedimento. Si tratta di un ampliamento del catalogo di informazioni dovute alla persona offesa che si rende opportuno, onde assicurare la coerenza tra le modifiche qui proposte e lo statuto di garanzie informative che l’ordinamento ha assegnato alla persona offesa, recependo la «Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI» (di seguito: Direttiva vittime).

Gli interventi sull’art. 90 bis c.p.p. sono funzionali, in particolare, ad adeguare l’ordinamento al dettato dell’art. 4 §1, lett. B) della Direttiva vittime (che prevede che gli Stati membri abbiano il dovere di dare informazioni in merito alle “procedure per la presentazione di una denuncia relativa ad un reato e il ruolo svolto dalla vittima in tali procedure£) e degli artt. 5 e 6 della medesima direttiva (art. 5, Diritti della vittima al momento della denuncia; art. 6, Diritto di ottenere informazioni sul proprio caso).

Le ulteriori informazioni che – con la modifica dell’art. 90 bis e l’introduzione dell’art. 90 bis.1 c.p.p. – debbono essere indirizzate alla persona offesa sono infatti funzionali: a) a rendere il querelante edotto delle possibili conseguenze derivanti dalla mancata dichiarazione o elezione di domicilio, esplicitando così la volontà del legislatore di rendere la persona offesa attivamente responsabile rispetto alla propria partecipazione al procedimento penale; b) a rendere il querelante edotto delle conseguenze derivanti dalla ingiustificata mancata comparizione del querela. Inoltre, è previsto che la persona offesa sia informata sulla facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa in una lingua chiara e comprensibile (lett. p-bis) e che l’ammissione a programmi di giustizia riparativa con esito positivo per l’imputato, comporta la remissione tacita di querela. L’intervento sulle norme in esame è di natura ordinamentale e procedurale e le modifiche mirano a rendere edotto il querelante sulle sue prerogative nonché sulle conseguenze della sua condotta inerte o incompleta. Gli adempimenti connessi alla loro attuazione sono di carattere istituzionale e già espletati dal personale a ciò deputato, senza che vi siano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

CAPO II

Modifiche al Libro II del codice di procedura penale

 

Con il comma 5 dell’art. 1 della legge n. 134 del 2021 il legislatore delegante ha inteso delineare un unico e organico contesto normativo di riferimento, idoneo ad istituire un ambiente (o ecosistema) digitale per il procedimento penale, ovvero un insieme, anche limitato sul piano quantitativo, di previsioni normative che siano tali da favorire la transizione digitale sia direttamente, per la portata precettiva esplicita delle proprie previsioni, sia indirettamente, favorendo una interpretazione delle diverse disposizioni del codice, nei casi critici, orientata alla transizione digitale.

In tale ottica, l’opzione prescelta è consistita nella introduzione di alcune previsioni nuove nel Libro II del codice di procedura penale, dedicato agli atti del procedimento; la funzione di queste nuove disposizioni è precisamente quella di costituire quell’ambiente digitale capace di favorire una ermeneutica coerente, per tutte le fasi del procedimento penale; di conseguenza, l’intervento sulle disposizioni dei libri successivi del codice processuale è stato limitato a quegli snodi normativi nei quali i temi del processo penale telematico risultassero coinvolti.

Si è altresì ritenuto di non dover introdurre nuove previsioni in materia di invalidità degli atti, ma di adattare, semmai, quelle esistenti alla transizione digitale, sulla base della considerazione che un sistema, già denso di previsioni invalidanti, non necessitasse di disposizioni ulteriori (quanto piuttosto di un adeguamento di quelle vigenti). La scelta, si auspica, dovrebbe favorire una maggiore facilità di attuazione della riforma, evitando le tensioni e le pressioni che l’introduzione di nuove ipotesi di invalidità degli atti possono cagionare. Le forme di invalidità di fatto sono dunque rimaste pressoché le stesse.

 

ART. 6

(Modifiche al Titolo I del Libro II del codice di procedura penale)

 

Nel contesto delineato in premessa, il novellato art. 110 c.p.p. (lettera a) individua, quale modalità generale di formazione di ogni atto del procedimento penale, quella digitale: si è inteso, in coerenza con quanto previsto dalla legge delega, consacrare un nuovo modello di atto processuale, i cui presupposti di legittimazione nel processo penale sono legati ad alcuni requisiti imprescindibili, ovvero quelli idonei ad assicurarne l’autenticità, l’integrità, la leggibilità, la reperibilità, l’interoperabilità e, ove previsto dalla legge, la segretezza. Vale, in questa ottica, una condizionata libertà di forme: ogni soluzione digitale percorribile è accettata, purché assicuri i requisiti prescritti dalla disposizione. Si prevede, infatti, il rispetto della normativa, in primo luogo sovranazionale (in particolare adottata a livello UE, quale il regolamento eIDAS 2014/910/UE), nonché nazionale, anche di rango regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, l’accesso, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici. Si è inoltre previsto esplicitamente l’ulteriore requisito, strettamente legato alle dinamiche del processo penale, della idoneità dell’atto redatto come documento informatico a garantire la segretezza, per tutti i casi in cui questa sia prevista dalla legge.

Quanto all’incipit della nuova disposizione (“quando è richiesta la forma scritta gli atti del procedimento penale sono redatti e conservati in forma di documento informatico”) si è ritenuto che il termine “possono” utilizzato dal legislatore delegante sia semanticamente inteso a positivizzare tale legittimazione nel processo penale e che non equivalga, invece, ad introdurre una mera facoltatività del ricorso alla modalità digitale per la redazione degli atti processuali, alla luce dello stretto collegamento esistente tra tale indicazione e quella, contenuta nel medesimo criterio di delega, inerente l’obbligatorietà del deposito telematico, che trova attuazione nel nuovo articolo 111-bis c.p.p.

L’inserimento nella presente disposizione vale ad “anticipare” al momento della formazione la medesima deroga prevista all’art. 111-bis quanto al deposito telematico (lettera c).

Si è, comunque, previsto, al comma 4, che gli atti redatti in forma di documento analogico, siano convertiti, senza ritardo, in copia informatica ad opera dell’ufficio che li ha formati o ricevuti, sempre nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici, così da assicurare in ogni caso la completezza del fascicolo informatico. Si è ritenuto preferibile non indicare un termine rigido di conversione in copia informatica dell’originale analogico, che, in coerenza con quanto si è detto circa la scelta di non inserire nuove ipotesi di invalidità, sarebbe stato comunque di natura ordinatoria. In questo senso, il riferimento alla locuzione “senza ritardo”, ben nota nella terminologia del codice, è parsa offrire quelle caratteristiche di coerenza e di sufficiente chiarezza, alla luce della elaborazione giurisprudenziale, tali da assicurare effettività in concreto alla previsione.

Si tratta di disposizione generale applicabile, dunque, a tutti gli atti del procedimento penale, ivi compresi, ovviamente, i provvedimenti del giudice disciplinati all’articolo 125 c.p.p. che, pur nella specifica regolamentazione delle forme, costituiscono, una sottocategoria di atti, come risulta evidente dalla collocazione sistematica nel codice processuale (la relativa disciplina è inserita nel titolo II del Libro secondo del codice di procedura penale “Atti”).

Quanto alla scelta del binomio di atto o documento “redatto in forma di documento informatico” ovvero “redatto in forma di documento analogico” si precisa quanto segue.

La terminologia utilizzata nella legge delega (redatti e conservati in formato digitale) non è esattamente corrispondente a quella finora diffusa e utilizzata nella normativa vigente, (sia primaria che secondaria), laddove l’aggettivo “digitale” viene riferito in modo pressoché esclusivo al “domicilio digitale” o alla “firma digitale”.

L’alternativa “documento informatico” / “documento analogico” è invece patrimonio acquisito.

Ed invero, l’articolo 34, comma 1 del decreto del Ministro della giustizia in data 21 febbraio 2011 n. 44, (“Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione, nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2 del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010, n. 24”), che detta le specifiche tecniche, comuni al processo civile e penale, utilizza la seguente espressione: “L’atto del processo in forma di documento informatico, da depositare telematicamente all’ufficio giudiziario, rispetta i seguenti requisiti (Omissis)”

La definizione di documento informatico e di documento analogico si rinviene poi nel CAD (d.lgs n. 82/2005) nei seguenti termini:

– “documento informatico” è il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti

– “documento analogico” è la rappresentazione non informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti.

Gli artt. i-bis e ss. del CAD disciplinano, poi, il passaggio dall’uno all’altro, delineando i concetti di copia e di duplicato:

i-bis) copia informatica di documento analogico: il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento analogico da cui è tratto;

i-ter) copia per immagine su supporto informatico di documento analogico: il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto;

i-quater) copia informatica di documento informatico: il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari;

i-quinquies) duplicato informatico: il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario

Si è dunque ritenuto che, in un momento di transizione digitale di particolare rilievo in un contesto, quale quello che processo penale, che impone un punto di incontro tra linguaggio giuridico e tecnico, la soluzione di fare riferimento alle comuni definizioni presenti nella normativa primaria e secondaria, cui peraltro le nuove disposizioni del codice di procedura penale fanno espresso rinvio, fosse l’unica strada percorribile al fine di evitare sovrapposizioni terminologiche tali da creare il rischio di dubbi interpretativi.

L’art. 111 c.p.p. (lettera b), anch’esso modificato in maniera significativa, adatta il tema della data e della sottoscrizione degli atti alla nuova modalità digitale, che diviene, come già evidenziato, quella di base per la formazione e presentazione degli atti nel procedimento penale. In tale ottica, si è ritenuto necessario modificare la rubrica della norma, sì da dedicare una specifica regolamentazione alla sottoscrizione dell’atto informatico.

Il comma 1, che si occupa della data dell’atto, ripropone la regola generale già prevista dal vigente comma 1 dell’articolo 111 c.p.p. (“Quando la legge richiede la data di un atto sono indicati il giorno, il mese, l’anno e il luogo in cui l’atto è compiuto. L’indicazione dell’ora è necessaria solo se espressamente prescritta”), da ritenersi operante sia per l’atto analogico che per quello informatico (ed in questo senso è la interpolazione). Resta immutata anche la regola, già dettata dal comma 2 dell’articolo 111 c.p.p. nel testo vigente, secondo la quale “Se l’indicazione della data di un atto è prescritta a pena di nullità, questa sussiste soltanto nel caso in cui la data non possa stabilirsi con certezza, in base ad elementi contenuti nell’atto medesimo o in atti a questo connessi”.

Il comma 2-bis, invece, dedicato al tema della sottoscrizione, introduce la nuova disciplina della sottoscrizione dell’atto informatico, con firma digitale o altra firma elettronica qualificata, anche qui (come nell’articolo 110 c.p.p.) con la tecnica del richiamo alla normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici, tecnica prescelta per la formulazione di tutte le disposizioni cardine del nuovo processo telematico in luogo del recepimento nel testo di specifiche regole tecniche, che avrebbe invece imposto una inammissibile necessità di continuo adeguamento delle disposizioni del codice processuale al mutamento delle predette regole conseguenti alla evoluzione tecnologica.

I commi 2-ter e 2-quater della disposizione provvedono, poi, per i casi già disciplinati dall’articolo 110 c.p.p. testo vigente ovvero:

– la sottoscrizione dell’atto redatto in forma di documento analogico, caso per il quale si ripropone la previsione già contenuta nel comma 1 dell’articolo 110, ovvero che “se la legge non dispone altrimenti, è sufficiente la scrittura di propria mano, in fine dell’atto, del nome e cognome di chi deve firmare” (comma 2-quater primo periodo dell’art. 111 c.p.p.);

– la ricezione di un atto orale per il quale, in coerenza con la nuova formulazione dall’art. 110 c.p., si prevede la trascrizione in forma di documento informatico, che deve contenere l’attestazione da parte dell’autorità procedente, che sottoscrive il documento a norma del comma 2-bis, della identità della persona che lo ha reso;

– la previsione, per il caso in cui chi deve firmare non sia in grado di scrivere, dell’attestazione, da parte del pubblico ufficiale al quale è presentato l’atto scritto o che riceve l’atto orale, della identità della persona.

Le disposizioni contenute agli articoli 110 e 111 c.p.p., che sono quasi interamente novellati, dettano i criteri e i principi cui si ispira il processo penale telematico, con riferimento alla formazione ed al deposito degli atti e dei documenti con modalità informatiche stabilendo quali devono essere i requisiti, nel rispetto della normativa europea e nazionale.

Poiché la formazione di atti e documenti digitali è già previsto ordinariamente per altri ambiti e materie, soprattutto se si considerano quelle contenute nel CAD (D.Lgvo 7 marzo 2005, n. 82) le stesse regole sono estese anche al processo penale che si attiene alle modalità previste in quelle disposizioni.

Pertanto, sotto il profilo finanziario, si rappresenta la natura ordinamentale e precettiva degli articoli in esame, che non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Le nuove disposizioni di cui agli artt. 111-bis e 111-ter c.p.p. (lettera c) concorrono, con le disposizioni già analizzate, a costruire l’architrave del nuovo processo telematico.

La prima delle due disposizioni prevede, al comma 1, l’obbligatorietà e la esclusività del deposito telematico di atti, documenti, richieste e memorie, in coerenza con quanto stabilito dal legislatore delegante. Si prevede che debbano essere adottate modalità tecniche tali da assicurare la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione degli atti, nonché l’identità del mittente e del destinatario. A tal fine, occorrerà operare nel rispetto della normativa, sovranazionale e nazionale, anche di rango regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.

La regola generale viene derogata solo in due specifiche ipotesi, previste ai commi 3 e 4 dell’art. 111-bis c.p.p.

Il comma 2 precisa che la previsione dell’obbligatorietà del deposito telematico “non si applica per gli atti e documenti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere acquisiti in copia informatica”. Si pensi a documenti aventi contenuto dichiarativo preformati rispetto al processo penale (una scrittura privata, un testamento olografo) di cui si contesti l’autenticità o documenti, quali ad esempio planimetrie, estratti di mappa, fotografie aeree e satellitari, per i quali appare indispensabile il deposito in forma di documento analogico, posto che l’acquisizione in forma di documento informatico priverebbe di nitidezza e precisione i relativi dati, incidendo sul loro valore dimostrativo in sede processuale.

Il comma 2, in coerenza con la legge delega, prevede poi che gli atti che le parti compiono personalmente possono essere depositati anche con modalità non telematiche. Si tratta di previsione – che non necessita di specifici commenti – che, evidentemente fa salva la facoltà per le parti private, che intendano farlo, di ricorrere alle modalità telematiche.

L’art. 111-ter c.p.p. concerne la formazione e la tenuta dei fascicoli informatici. La norma prevede che i fascicoli informatici del procedimento penale siano formati, conservati, aggiornati e trasmessi in modalità digitale, tale da assicurarne l’autenticità, l’integrità, la accessibilità, la leggibilità, l’interoperabilità nonché un’efficace e agevole consultazione telematica. Con questa ultima previsione, in particolare, si pretende una modalità che faciliti, per il lettore, l’orientamento tra gli atti inseriti nel fascicolo informatico (funzione che, nell’analogico, è svolta, in maniera più rudimentale, dall’indice). Il beneficio della transizione al digitale, evidentemente, è, da un lato, quello di garantire integrità, accessibilità e facile leggibilità del fascicolo; dall’altro, quello di dare maggiore effettività al diritto di difesa delle parti, rendendo più spedita la acquisizione di copia.

La riforma, a regime, dovrebbe dunque garantire una maggiore effettività del diritto di difendersi, attraverso un accesso alle informazioni nel fascicolo veloce, completa, di facile lettura.

Si è posta specifica attenzione alla fase della trasmissione, prevedendo esplicitamente al comma 2 (a scongiurare possibili dubbi interpretativi) che la disposizione generale di cui al comma 1 vale anche quando la legge preveda la trasmissione di singoli atti e documenti, disgiunti dal fascicolo processuale.

Per gli atti depositati in modalità analogica (modalità che, come detto, è sempre possibile per il deposito operato personalmente dalle parti), si prescrive, al comma 3, una pronta conversione in copia informatica ai fini del loro inserimento nel fascicolo informatico, con la stessa clausola di salvezza (questa volta ai fini specifici dell’inserimento nel fascicolo) prevista per gli atti e i documenti formati e depositati in forma di documento analogico che per loro natura o per specifiche esigenze processuali non possano essere acquisiti o convertiti in copia informatica. Tale disposizione vale, tra l’altro, ad estendere la clausola di salvezza a tutte le ipotesi e le forme di acquisizione di originali di scritti e documenti di cui all’art. 234 c.p.p. Si è comunque precisato che nel fascicolo informatico debba essere inserito un elenco dettagliato di tutti gli atti e documenti che, per qualsiasi ragione, siano acquisiti in forma di documento analogico e non siano stati convertiti in copia informatica. Tale disposizione vale a preservare completezza e continuità del fascicolo processuale anche laddove parte dello stesso fascicolo sia in forma di document analogico, al contempo offrendo alle parti uno strumento utile per comprendere, consultando telematicamente il fascicolo, quali e quanti degli atti e documenti che compongono quel fascicolo siano presenti solo in cartaceo.

Al comma 4 si è, infine, precisato che le copie informatiche, anche per immagine, degli atti e documenti processuali, redatti in forma di documento analogico, presenti nei fascicoli informatici, equivalgono all’originale anche se prive della firma digitale di attestazione di conformità all’originale.

La norma appena citata, corrispondente all’art. 16-bis, comma 9-bis del d.l. 179/2012, ha costituito nell’impianto civilistico, la cerniera indispensabile, per consentire agli atti nati analogici di essere acquisiti al fascicolo senza la firma del cancelliere/addetto alla segreteria e di divenire originali informatici, così da poter essere estratti in modalità di duplicati o copie. La ragione della sua introduzione risiedeva nella necessità di acquisire al fascicolo analogico tali atti in deroga al disposto delle regole tecniche DM 44/2011 (che avevano previsto all’art. 15 che “Se il provvedimento del magistrato è in formato cartaceo, il cancelliere o il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia informatica nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e provvede a depositarlo nel fascicolo informatico, apponendovi la propria firma digitale” ).

Tale previsione nel sistema processuale civilistico, in cui agli avvocati è consentito l’accesso al fascicolo informatico, ed estrazione di copie o duplicati, ha reso possibile (come esplicitamente previsto dall’art. 16-bis comma 9-bis, seconda parte, d.l. 179/2012) per l’avvocato estrarre duplicati e copie dal fascicolo informatico o ricevere via PEC dalla cancelleria gli “originali” da utilizzare come duplicati o copie per successive attività processuali (originali/duplicati informatici, come definiti dal CAD, o copie informatiche di atti redatti come documento informatico ovvero atti che, redatti in forma di documento analogico, divengono documenti informatici in seguito all’acquisizione del cancelliere, senza firma di attestazione di conformità.).

Nel sistema processuale penale, a prescindere dalla circostanza che l’estrazione degli atti dal fascicolo informatico possa avvenire in autonomia o tramite la mediazione del cancelliere, la norma è parsa utile per le ipotesi di atti che, pur nel regime di obbligatorietà del deposito telematico, siano redatti, per ragioni processuali o contingenti (quali, ad esempio, il malfunzionamento) in formato analogico.

Quanto alla conversione degli atti e documenti formati come documento analogico in documento informatico, pare utile richiamare in questa sede la normativa tecnica, che spiega anche la scelta di non prevedere una disciplina parallela e concorrente per fascicolo informatico e fascicolo cartaceo, ma solo di disciplinare, in coerenza con la normativa, anche regolamentare, la formazione, la conservazione, l’aggiornamento e la trasmissione dei fascicoli informatici. In altri termini, il fascicolo processuale è e rimane, ovviamente, unico, quand’anche fosse costituito in parte da documenti informatici ed in parte di documenti analogici, essendo volte le nuove regole a disciplinare le fondamentali regole di formazione, conservazione, gestione e trasmissione del fascicolo creato in modalità digitale. Ciò che, evidentemente, lascia impregiudicate tutte le regole dettate dal codice processuale (e dalle relative disposizioni di attuazione) che si riferiscono ai fascicoli – del pubblico ministero o del giudice – nelle diverse fasi processuali.

Va, sul punto, richiamato l’art. 9 d.m. 44/2011, che prevede:

«1. Il Ministero della giustizia gestisce i procedimenti utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, raccogliendo in un fascicolo informatico gli atti, i documenti, gli allegati, le ricevute di posta elettronica certificata e i dati del procedimento medesimo da chiunque formati, ovvero le copie informatiche dei medesimi atti quando siano stati depositati su supporto cartaceo.

  1. Il sistema di gestione del fascicolo informatico è la parte del sistema documentale del Ministero della giustizia dedicata all’archiviazione e al reperimento di tutti i documenti informatici, prodotti sia all’interno che all’esterno, secondo le specifiche tecniche di cui all’articolo 34.
  2. La tenuta e conservazione del fascicolo informatico equivale alla tenuta e conservazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo, fermi restando gli obblighi di conservazione dei documenti originali unici su supporto cartaceo previsti dal codice dell’amministrazione digitale e dalla disciplina processuale vigente.
  3. Il fascicolo informatico reca l’indicazione:
  4. a) dell’ufficio titolare del procedimento, che cura la costituzione e la gestione del fascicolo medesimo;
  5. b) dell’oggetto del procedimento;
  6. c) dell’elenco dei documenti contenuti.
  7. Il fascicolo informatico è formato in modo da garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti in relazione alla data di deposito, al loro contenuto, ed alle finalità dei singoli documenti.
  8. Con le specifiche tecniche di cui all’articolo 34 sono definite le modalità per il salvataggio dei log relativi alle operazioni di accesso al fascicolo informatico.»

E, ancora, gli artt. 14 e 15 del d.m. 44/2011, che di seguito si riportano:

Art. 14

Documenti probatori e allegati non informatici

«1. I documenti probatori e gli allegati depositati in formato non elettronico sono identificati e descritti in una apposita sezione delle informazioni strutturate di cui all’articolo 11, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34. 2. La cancelleria o la segreteria dell’ufficio giudiziario provvede ad effettuare copia informatica dei documenti probatori e degli allegati su supporto cartaceo e ad inserirla nel fascicolo informatico, apponendo la firma digitale ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 22, comma 3 del codice dell’amministrazione digitale».

Art. 15 dm 44/2011

Deposito dell’atto del processo da parte dei soggetti abilitati interni

«1. L’atto del processo, redatto in formato elettronico da un soggetto abilitato interno e sottoscritto con firma digitale, è depositato telematicamente nel fascicolo informatico.

  1. In caso di atto formato da organo collegiale l’originale del provvedimento è sottoscritto con firma digitale anche dal presidente.
  2. Quando l’atto è redatto dal cancelliere o dal segretario dell’ufficio giudiziario questi vi appone la propria firma digitale e ne effettua il deposito nel fascicolo informatico.
  3. Se il provvedimento del magistrato è in formato cartaceo, il cancelliere o il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia informatica nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e provvede a depositarlo nel fascicolo informatico, apponendovi la propria firma digitale. »

Per quanto concerne gli aspetti di natura finanziaria, si osserva il risvolto positivo degli effetti del nuovo regime di formazione, deposito e archiviazione/conservazione dei documenti, che consentirà di catalogare atti e provvedimenti in maniera più sistematica e organizzata, snellendo i carichi di lavoro del personale degli uffici giudiziari che, in progressione temporale, risulterà esonerato da incombenze richiedenti tempi eccessivi sottratti al lavoro di cancelleria e di segreteria, di assistenza al magistrato. 

In sostanza, le analizzate disposizioni, prevedono che gli atti e i documenti processuali siano formati, come regola generale, digitalmente in formato leggibile e, quindi, tenuti in un archivio digitale, favorendone la reperibilità e prevedendo misure che oltre a garantirne l’autenticità, li conservino nel loro stato iniziale senza che vengano deteriorati, con l’inserimento, infine, accanto ai già menzionati criteri che devono connotare gli atti processuali in formato digitale, del criterio della segretezza, qualora la legge lo preveda.

In generale, si stabilisce che tanto il deposito di atti e documenti che l’espletamento di comunicazioni e notificazioni sia effettuato obbligatoriamente con modalità telematiche in ogni ordine e grado dei procedimenti penali, garantendo la certezza dell’avvenuta trasmissione e della correlata ricezione, dell’identità del mittente e di quella del destinatario. Ad ogni modo, al fine di dettare una disciplina organica per la materia, si prevede, secondo la normativa di riferimento per l’organizzazione governativa (art. 17, comma 3, della legge 400/1988), l’emanazione di un regolamento da parte del Ministro della giustizia che contempli i vari aspetti citati e che intervenga sulle norme del regolamento 21 febbraio 2012, n. 44 attualmente in vigore e le disposizioni in tema di disciplina transitoria e delle eccezioni alle regole generali, attraverso ulteriori prescrizioni da adottarsi con atto dirigenziale. E’, tuttavia, ammessa la facoltà di deposito anche con modalità non telematiche per quegli atti che le parti possono compiere personalmente senza assistenza del difensore legale, individuando gli uffici e le tipologie di atti in cui le modalità citate siano consentite con decreto del Ministro della giustizia, emanato ai sensi dell’art. 17 comma 3 della legge 400/1988, sentiti il CSM ed CNF. Vengono, comunque, stabilite idonee garanzie in caso di malfunzionamento dei sistemi informatici del dominio giustizia con comunicazione agli interessati della problematica e predisposizione di soluzioni alternative che consentano lo svolgimento delle attività processuali e registrazione dell’inizio e della fine delle disfunzioni. Si prevede, infine, che nei procedimenti di ogni ordine e grado, il deposito telematico di atti e documenti possa avvenire anche mediante soluzioni tecnologiche diverse dalla posta elettronica certificata che attraverso la generazione di un messaggio assicurino il perfezionamento del deposito.

Ad ogni modo, per gli aspetti di natura finanziaria relativi al pagamento dei diritti di copia informatica, si fa riferimento alle modalità presenti nel D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, che il pagamento telematico dei diritti di copia attraverso la piattaforma pagoPA. Nella specie, l’originale del documento è memorizzato nei sistemi informatici di Giustizia mentre una copia, in formato pdf, viene fornita al soggetto pagatore attraverso la modalità sopra indicata che, attualmente, è estesa a tutte le pubbliche amministrazioni e che rende efficaci e tracciabili tutti i versamenti. La funzionalità è disponibile sul Portale dei Servizi Telematici (htpps://pst.giustizia.it) ed è accessibile a tutti gli utenti, anche a coloro che non hanno eseguito la procedura di login (tramite SPID o smart card) all’area riservata.

Si rinvia alla dettagliata analisi e ripartizione di spesa riguardante la realizzazione del Piano di transizione digitale effettuata in relazione all’art. 1, comma  18 della legge 134/2021, nell’ambito della quale sono descritti gli interventi effettuati e programmati per l’adozione del portale delle notizie di reato (Portale NDR) e del portale del processo penale telematico (PPPT), per la dematerializzazione degli atti analogici, per addivenire, in attesa del processo penale interamente digitale, alla creazione del fascicolo digitale dematerializzato che consente, tra le altre cose, di operare da remoto attraverso l’upload dei documenti. Si anticipa, tuttavia in questa sede, con riferimento al profilo delle risorse finanziarie, che l’elemento determinante nella strategia per la digitalizzazione dei sistemi della giustizia è costituito dai fondi infrastrutturali, fra i quali il Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese istituito con l’art. 1, comma 140, della legge di bilancio 2017, rifinanziato ai sensi dell’art. 1, comma 1072, della legge di  bilancio 2018 e previsto dall’art.1, comma 95, della legge di bilancio 2019, che ha finanziato le principali linee progettuali.

La dotazione prevista dal Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, previsto dall’art. 1, co. 140, L. 232/2016, ammonta ad euro 1.246.603.932 (DPCM di riparto del 21.7.2017) da erogarsi, nel periodo 2017-2032, e al quale attingono progetti differenti: in particolare, per quanto riguarda il processo penale telematico si segnala che le somme destinate al progetto ammontano ad euro 225.037.273 delle quali risultano impegnate finora euro 140.077.155.

In tale prospettiva, non si è ritenuto necessario intervenire per eliminare i tradizionali riferimenti alla cancelleria del giudice o alla segreteria del pubblico ministero, che, evidentemente, con la riforma a regime, non andranno intesi più (o non più soltanto) come luoghi fisici, ma come punto di riferimento virtuale dove far convergere il deposito delle richieste, degli atti e dei documenti, in modalità esclusivamente telematica, tali da renderne più immediata, semplice e razionale la circolazione. Peraltro, il residuo ambito di operatività del deposito non telematico conferma la ragionevolezza di tale scelta.

Gli interventi consequenziali rispondono a due criteri di fondo.

Da un lato si è intervenuti su specifiche disposizioni concernenti le modalità di redazione di atti e documenti ed il loro deposito nel fascicolo informatico, nei soli casi in cui la specificità della situazione disciplinata dalla norma ha imposto un coordinamento con le disposizioni generali di nuova introduzione.

Dall’altro è stato necessario il raccordo con la disposizione generale sul deposito telematico di cui all’art. 111-bis per escludere ogni dubbio interpretativo circa la necessità del ricorso alle modalità previste dalla norma per quelle disposizioni il cui tenore letterale ha imposto un collegamento diretto alle nuove modalità di deposito.

Quanto al primo dei profili considerati, un primo intervento ha riguardato l’art. 116 c.p.p. (lettera d): si è modificato il comma 3-bis del citato art. 116 c.p.p., prevedendo che il diritto del difensore al rilascio di attestazione di deposito di atti o documenti all’autorità giudiziaria sia limitato al solo caso di deposito di documenti redatti in forma di documento analogico, non essendo ovviamente necessaria alcuna attestazione in caso di deposito telematico effettuati ai sensi dell’art. 111-ter c.p.p.

All’articolo 122 c.p.p. – lettera e – (Procura speciale per determinati atti) si è inserito il comma 2-bis al fine di rendere coerenti le modalità di deposito della procura speciale con il nuovo sistema dei depositi telematici, richiamando anche per lo specifico caso, il rispetto della normativa tecnica, sia primaria che secondaria (con ciò allineando la disposizione anche a quanto previsto, per il processo civile, dall’art. 83 c.p.c.). Si è così previsto che la procura speciale è depositata, in copia informatica autenticata con firma digitale o altra firma elettronica qualificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica, salvo l’obbligo di conservare l’originale analogico da esibire a richiesta dell’autorità giudiziaria.

Gli interventi sulle disposizioni richiamate si rendono necessari per adeguare sia in termini lessicali gli articoli del codice di procedura penale e le disposizioni di attuazione del medesimo in relazione alla produzione di atti e documenti sia da parte delle cancellerie e segreterie giudiziarie che da parte degli interessati (indagato, imputato, parte civile, appellante etc.) e naturalmente dei loro difensori.

Pertanto, si tratta di norme che vengono adeguate alle nuove esigenze ed armonizzate con le nuove modalità introdotte dalla riforma e specificate nel presente decreto. Dalle stesse non derivano effetti negativi per la finanza pubblica, potendosi fronteggiare gli adempimenti ad esse collegate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 7

(Modifiche al Titolo II del Libro II del codice di procedura penale)

In linea con gli interventi realizzati per consentire la formazione e conservazione degli atti in formato digitale oppure analogico, dipendente dalla natura e dallo scopo dell’atto, è innanzitutto la previsione di cui alla lettera a) che riguarda le modifiche apportate all’art. 125 c.p.p. che esprimendo la deroga alla norma generale di cui agli artt. 110 e 111 c.p.p., comunque conferma la tendenza dell’orientamento a favore del formato digitale degli atti processuali compresi, ovviamente, i provvedimenti del giudice disciplinati che, pur nella specifica regolamentazione delle forme, costituiscono, una sottocategoria di atti, come risulta evidente dalla collocazione sistematica nel codice processuale.

Un ulteriore rilevante intervento (di cui alla lettera b), attuato sulla falsariga di quanto già previsto per il procedimento di sorveglianza (art. 678, co. 3.2), è stato eseguito sulle regole generali del rito camerale e del procedimento di esecuzione (art. 666, co. 4), per prevedere la possibilità di audizione a distanza della persona che richieda di essere sentita e risulti detenuta o internata in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, per la quale è attualmente prevista l’audizione unicamente ad opera del magistrato di sorveglianza del luogo (art. 127, co. 3).

Con la lettera c) si introduce il nuovo articolo 129-bis “Accesso ai programmi di giustizia riparativa”,

importante intervento che dispone che, in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria debba, su richiesta o anche di propria iniziativa, inviare i soggetti interessati – ossia l’imputato o l’indagato e la vittima del reato, ove individuata – al Centro per la giustizia riparativa di riferimento (cioè quello del luogo o altro indicato dal giudice stesso).

La disposizione intende dare attuazione al principio di delega contenuto nell’articolo 1, comma 18, lettera c), che prevede che, quando è in corso un procedimento penale, deve essere l’autorità giudiziaria ad aprire le porte allo svolgimento di un programma di giustizia riparativa alle parti che ne abbiano interesse: si è disegnata pertanto un’apposita norma di portata generale, che disciplina tale vaglio, quale che sia il momento nel quale matura la possibilità dell’invio al Centro per la giustizia riparativa.

La sede naturale per collocare la disciplina è parsa dunque il libro secondo e, in particolare, il capo dedicato ai provvedimenti del giudice: se l’articolo 129 prescrive al giudice di attivarsi, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, per il proscioglimento dell’imputato, il nuovo articolo 129-bis stabilisce che il giudice debba, su richiesta o anche di propria iniziativa, inviare i soggetti interessati – ossia l’imputato o l’indagato e la vittima del reato, ove individuata – al Centro per la giustizia riparativa di riferimento (cioè quello del luogo o altro indicato dal giudice stesso). Per la verità, in coerenza con quanto stabilito dalla delega, l’invio può essere disposto anche nel corso delle indagini preliminari: in questa fase, la valutazione viene affidata al pubblico ministero, che è l’unico a disporre del fascicolo e a poter attivarsi d’ufficio; dopo l’esercizio dell’azione penale, la competenza funzionale viene invece affidata al giudice procedente, ossia a quello che dispone del fascicolo. Proprio per evitare qualsiasi dubbio interpretativo con riguardo ai momenti di passaggio, si è introdotta apposita previsione – l’art. 45-ter – nelle disposizioni di attuazione che individua il giudice competente in ordine all’accesso alla giustizia riparativa.

Con riguardo al procedimento, la norma prevede che il giudice, in seguito all’emissione dell’avviso di cui all’articolo 415 bis  o dell’avviso di deposito di cui all’art. 415 ter – e, durante le indagini, il pubblico ministero – senta necessariamente le parti e i difensori nominati e, solo ove lo ritenga necessario, la vittima del reato definita nella disciplina organica. La scelta si giustifica con la necessità di non appesantire eccessivamente il procedimento onerando il giudice della ricerca della vittima e della sua audizione.

L’autorità giudiziaria dovrà disporre l’invio – con provvedimento motivato – al Centro per la giustizia riparativa quando reputi che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto, sia per gli interessati, che per l’accertamento dei fatti.

Il primo presupposto è volto a dare attuazione al criterio di utilità contenuto espressamente nella delega, mentre la condizione negativa risponde alla necessità di salvaguardare, per un verso, i soggetti interessati rispetto a pericoli derivanti dalla partecipazione al programma e, per l’altro, la stessa funzione cognitiva del procedimento penale, desumibile da plurime norme costituzionali (artt. 27, comma 2, 111, 112 Cost.).  In quest’ottica, andrà escluso l’accesso alla giustizia riparativa quando la prova non sia stata ancora cristallizzata, ad esempio perché la vittima del reato è una fonte di prova dichiarativa decisiva, che rischierebbe di essere alterata proprio dal confronto con l’imputato.

Nei soli casi in cui il procedimento abbia ad oggetto un reato perseguibile a querela soggetta a remissione si prevede un meccanismo sospensivo a richiesta dell’imputato. La scelta si spiega con la considerazione che il blocco ex lege del procedimento penale in attesa dell’esito del programma di giustizia riparativa si può giustificare – alla luce del canone costituzionale della ragionevole durata – solo quando il raggiungimento di un esito riparativo si traduce nell’estinzione del reato: in questo caso, il ritardo è ampiamente compensato dalla definizione extragiudiziale del conflitto e dal conseguente risparmio di attività processuale.

Non si prevede invece un’ipotesi sospensiva nei casi in cui la partecipazione a un programma di giustizia riparativa non possa tradursi in una deflazione; resta in questi casi comunque salva la possibilità di valorizzare l’istituto – già impiegato nella prassi – del rinvio su richiesta dell’imputato, per consentire di concludere il programma e quindi di permettere al giudice di tenerne conto in sede di definizione del trattamento sanzionatorio.

La sospensione del procedimento ex articolo 129 bis comma 4 c.p.p. deve essere comunque richiesta dall’imputato – anche perché determina la sospensione del decorso del termine di prescrizione – e potrà essere disposta quando il giudice accerti che vi sono effettivamente le condizioni per uno svolgimento proficuo del programma di giustizia riparativa. Viene peraltro fissato un termine massimo di sospensione pari a centottanta giorni.

All’esito del programma, l’autorità giudiziaria deve acquisire la relazione redatta dal mediatore di cui dovrà tener conto in ambito processuale, nei limiti di utilizzabilità stabiliti nella disciplina organica.

La disposizione ha natura ordinamentale, atteso che stabilisce i principi e criteri per l’accesso ai programmi di giustizia riparativa e, pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

La lettera d) prevede un’ulteriore modifica relativa alla conseguenza della mancata comparizione del querelante all’udienza in relazione all’art. 133 del codice di procedura penale (ossia la disposizione relativa all’accompagnamento coattivo di un testimone non comparso), prevedendo che – nei casi in cui la mancata comparizione del querelante determini l’estinzione del reato per remissione tacita di querela – non si debba disporre relative l’accompagnamento coattivo. Le disposizioni in esame, completano il naturale corollario inerente la responsabilizzazione del soggetto che presenta la querela. Si rappresenta che, come per le precedenti, le norme prevedono uno snellimento di adempimenti ed una sensibile accelerazione dei tempi procedurali a favore dell’efficienza processuale. Riguardo agli adempimenti connessi all’attuazione, si rileva una diminuzione delle incombenze a carico degli uffici giudiziari, le quali risultano di natura istituzionale e già ampiamente collaudate per il personale deputato ad espletarle, senza che vi sia alcun aggravio di oneri per la finanza pubblica

 

ART. 8

(Inserimento del Titolo II bis del Libro II del codice di procedura penale)

 

Venendo alla disciplina generale uniforme, il nuovo titolo II-bis, interpolato – come s’è innanzi detto – nel libro II del codice di procedura penale, si compone di due sole disposizioni.

La prima di esse definisce l’ambito di applicazione e il carattere sussidiario della disciplina, la quale trova infatti trova applicazione «[s]alvo che sia diversamente previsto» (art. 133-bis).

Più ampio il contenuto della disposizione di cui all’art. 133-ter, intitolata alle Modalità e garanzie della partecipazione a distanza, in cui sono state sostanzialmente “trasferite” (con circoscritte modifiche di adattamento e coordinamento) talune regole procedurali già attualmente vigenti, contenute negli articoli 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p., dedicati – rispettivamente – alla partecipazione al dibattimento a distanza e all’esame degli operatori sotto copertura, delle persone che collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso, che sono state dunque conseguentemente soppresse.

Le persone che compiono l’atto o che partecipano all’udienza a distanza si collegano da altro ufficio giudiziario o da un ufficio di polizia giudiziaria  individuato dall’autorità giudiziaria, previa verifica della disponibilità di dotazioni tecniche e condizioni logistiche idonee per il collegamento audiovisivo.

Le specifiche misure introdotte sono dirette ad assicurare il compiuto svolgimento dei processi penali mediante la più ampia estensione possibile della modalità di partecipazione agli atti e alle udienze nella fase delle indagini preliminari, anche quelle camerali e del processo di esecuzione, attraverso collegamenti audiovisivi a distanza, idonei a salvaguardare il principio del contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti coinvolte.

Si realizzano in tal modo obiettivi di snellimento ed efficientamento delle procedure tali da agevolare la funzionalità degli uffici giudiziari e l’operatività degli organi di polizia giudiziaria nella fase di indagini preliminari, attraverso la gestione delle attività valorizzando istituti collaudati nel processo telematico, e nelle diverse fasi emergenziali pandemiche, già attuati con un considerevole sforzo organizzativo e di adeguamento dei sistemi informativi dell’amministrazione giudiziaria.

Si segnala che le disposizioni non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica considerato che gli adempimenti connessi, con riferimento alle attività di competenza degli uffici giudiziari, di natura istituzionale, saranno fronteggiati nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente tenuto conto delle modalità di svolgimento dell’attività giudiziaria ormai consolidate.

Si rappresenta che i collegamenti da remoto che la partecipazione a qualsiasi udienza degli imputati in stato di custodia cautelare in carcere e di persona sottoposta a misura coercitiva potranno essere effettuati mediante l’utilizzo dei sistemi tecnologici e strumentali già in uso presso l’amministrazione giudiziaria, penitenziaria e minorile, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, attraverso l’impiego delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente nello stato di previsione del Ministero della giustizia per l’anno 2022, alla Missione Giustizia- UdV 1.2 giustizia civile e penale – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi-Azione “Attività di verbalizzazione atti processuali e videoconferenza nell’ambito dei procedimenti giudiziari” Capitolo 1462 P.g. 14, che reca uno stanziamento di euro che reca uno stanziamento di euro 12.661.419 per l’anno 2022, e di euro 8.661.419 per gli anni  2023 e 2024; UdV 1.1 amministrazione penitenziaria – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Azione “Supporto per l’erogazione dei servizi penitenziari”, Capitolo 1751 “Spese per la gestione e il funzionamento del sistema informativo” che reca uno stanziamento di euro 572.338 per ciascuno degli anni del triennio 2022-2024 e Capitolo 2121 “Spese per il funzionamento del sistema informativo”, che reca uno stanziamento di euro 892.491 per l’anno  2022 e di euro 442.491 per gli anni 2023 e 2024; nonché UdV 1.2 giustizia civile e penale – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria  del personale e dei servizi – Azione “Sviluppo degli strumenti di innovazione tecnologica in materia info1matica e telematica per l’erogazione dei servizi di giustizia” Capitoli 1501 e 7203, nell’ambito dei vari piani gestionali a seconda della tipologia di spese da sostenere, che recano uno stanziamento complessivo di euro 293.815.609 per l’anno 2022, euro 255.104.462 per l’anno 2023 e euro 197.344.216 per l’anno 2024 e riguardano spese di funzionamento e di investimento per l’innovazione tecnologica in materia informatica e telematica dell’intera amministrazione della giustizia.

Si evidenzia che le attività previste non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, dal momento che il ricorso alle modalità di deposito digitalizzato mediante collegamenti da remoto si inserisce nell’ambito del programma di informatizzazione dei processi in atto, che ha già sviluppato tutta una serie di applicativi funzionali alla gestione informatica delle diverse attività giudiziarie.

 

ART. 9

(Modifiche al Titolo III del Libro II del codice di procedura penale)

 

Con le lettere a) e b) del comma 8 dell’art. 1 della legge n. 134 del 2021 il legislatore delegante ha inteso porre mano al sistema di documentazione degli atti processuali, tenendo conto per un verso delle risorse tecniche oggi disponibili per una riproduzione non solo cartacea del relativo andamento, e per l’altro degli sviluppi della giurisprudenza e della stessa legislazione circa il minimo valore euristico esigibile per la valutazione di determinate prove (a partire da quelle dichiarative).

Si è preso atto, nella predisposizione dell’articolato, della diversa scansione stabilita in base alla funzione ed alle caratteristiche dei diversi adempimenti: massimo livello per le prove dichiarative e per gli interrogatori tenuti fuori udienza (quindi senza compresenza delle parti in contraddittorio), e dunque ricorso alla videoregistrazione, facendo salva la possibilità di eccettuare situazioni di indisponibilità dei mezzi necessari; livello intermedio per le sommarie informazioni (audioregistrazione), con possibilità di eccettuare determinate situazioni, pur con la previsione che non debba necessariamente trascriversi il discorso registrato.

In questo contesto si è ritenuto, al comma 1 lett. a) del presente articolo, in primo luogo di adeguare la previsione generale sulla documentazione degli atti (art. 134), includendo la registrazione audio e la registrazione video come forme ordinarie di documentazione, al fianco di quelle già previste. Nel nuovo comma 1 si compie un mero richiamo alle norme speciali che, per singoli atti, prevedono nel seguito del codice il ricorso alle registrazioni, norme che costituiranno specifica attuazione del precetto generale. Nel nuovo comma 3 si autorizza il magistrato all’uso dei mezzi in questione per qualunque atto, in aggiunta alla verbalizzazione parziale (secondo quanto già attualmente disposto) o come integrazione della stessa verbalizzazione completa, quando quest’ultima sembri comunque insufficiente, per le caratteristiche del caso concreto, rispetto allo scopo di fedele rappresentazione dell’atto. Il comma 1, lett. b) modifica la terminologia dell’art. 135 comma 2, sostituendo la parola “meccanico” con la parola “idoneo”, lessicalmente ritenuta più opportuna, mentre, per quanto riguarda il comma 1, lett. c), con riferimento all’interrogatorio di persona detenuta che si svolga fuori udienza (art. 141-bis) la delega ha imposto il passaggio dall’attuale equivalenza tra audio e video registrazione alla necessità di impiego in via prioritaria della seconda, sempre facendo salva  l’eventualità che manchino i mezzi necessari, ma imponendo in questo caso il ricorso alla perizia od alla consulenza tecnica, data la particolare delicatezza di un atto compiuto fuori udienza e nei confronti di persona in condizioni di particolare soggezione.

L’intervento in esame, diretto a enucleare i principi e criteri che sottendono alla formazione delle c.d. prove dichiarative ed alla loro corretta utilizzazione in ambito processuale, non determina effetti onerosi per la finanza pubblica, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo.

Con particolare riferimento alla modifica della disciplina speciale dell’art. 141 bis c.p.p., in tema di interrogatorio della persona in stato di detenzione, qualora lo stesso non si svolga in udienza, come già illustrato, si segnala che l’intervento realizzato permette di disattendere ad attività ed incombenze del personale ausiliario e di cancelleria e di velocizzare i tempi dei procedimenti in relazione alla compiuta formazione degli elementi utilizzabili in sede dibattimentale ai fini della formazione della prova dichiarativa. Sotto il profilo finanziario, pertanto, l’intervento stesso non determina effetti onerosi, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo.

Con riguardo alle attività già previste che possono garantire la funzionalità dei servizi richiamati occorre fare riferimento all’insieme dei sistemi tecnologici e strumentali già in uso presso l’amministrazione giudiziaria, penitenziaria e minorile e che vengono assicurate mediante l’impiego delle  risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente nello stato di previsione del Ministero della giustizia per l’anno 2022, alla Missione Giustizia- UdV 1.2 giustizia civile e penale – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi -Azione “Attività di verbalizzazione atti processuali e videoconferenza nell’ambito dei procedimenti giudiziari”, Capitolo 1462 P.g. 14, che reca uno stanziamento di euro 12.661.419 per l’anno 2022, e di euro 8.661.419 per gli anni  2023 e 2024 e  Capitolo 1462 P.g. 28  che reca uno stanziamento di euro 35.600.000 per ciascuno degli anni del triennio 2022-2024; UdV 1.1 amministrazione penitenziaria – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Azione “Supporto per l’erogazione dei servizi penitenziari”, Capitolo 1751 “Spese per la gestione e il funzionamento del sistema informativo” che reca uno stanziamento di euro 572.338 per ciascuno degli anni del triennio 2022-2024 e Capitolo 2121 “Spese per il funzionamento del sistema informativo”, che reca uno stanziamento di euro 842.491 per l’anno  2022 e di euro 442.491 per gli anni 2023 e 2024; nonché UdV 1.2 Giustizia civile e penale- Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria  del personale e dei servizi – Azione: “Sviluppo degli strumenti di innovazione tecnologica in materia informatica e telematica per l’erogazione dei servizi di giustizia”, nel capitolo di bilancio 1501 “Spese per la gestione ed il funzionamento del sistema informativo, nonché funzionamento e manutenzione delle attrezzature per la microfilmatura di atti”, pari ad euro 45.993.808 per ciascun anno del triennio 2022-2024, nonché nel capitolo di bilancio 7203, “Spese per lo sviluppo del sistema informativo nonché per il finanziamento del progetto intersettoriale –Rete unitaria – della Pubblica Amministrazione nonché dei progetti intersettoriali e di infrastruttura informatica e telematica ad esso connessi”, p.g. 8 “Informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria”, pari ad euro 247.821.801 per l’anno 2022, ad euro 209.110.654 per l’anno 2023 e ad euro 151.350.408 per l’anno 2024 e riguardano spese di funzionamento e di investimento per l’innovazione tecnologica in materia informatica e telematica dell’intera amministrazione della giustizia.

 

ART. 10

(Modifiche al Titolo V del Libro II del codice di procedura penale)

 

In attuazione dei principi e criteri previsti dall’art. 1, comma 5, lett. a) della legge delega, vi è la necessità di introdurre una norma di carattere generale che sostituisca quella dell’attuale art. 148 c.p.p. (lettera a); diviene pertanto regola generale quella della notifica con modalità telematiche. Del resto, la stessa lett. a) della citata legge delega, nel prevedere, all’ultimo periodo, che, per gli atti che le parti compiono personalmente, il deposito può avvenire anche con modalità non telematica, pare configurare questa come eccezione rispetto alla regola generale che sarebbe tale non solo per il deposito ma anche per le notificazioni.

Essenziale è però che, sempre in attuazione del criterio di cui alla lett. a) suddetta, le modalità telematiche assicurino la identità del mittente e del destinatario, l’immodificabilità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione.

Tale generale modalità di notifica non è stata tuttavia contemplata come esclusiva, essendosi ritenuto di prevedere modalità sussidiarie discendenti dalla impossibilità di utilizzo di quella telematica e rappresentate, al comma 2, dall’impiego di mezzi tecnici alternativi (come ad esempio il telefax) purché idonei ad assicurare i medesimi requisiti di cui al comma 1, ovvero, al comma 3, dalla consegna di copia ad opera dell’ufficiale giudiziario o della polizia giudiziaria o, ancora, al comma 3-bis, dall’impiego della posta.

A ciò è peraltro conseguita la scelta di proporre l’abrogazione dell’art.150 dedicato a forme particolari di notificazione disposte dal giudice in quanto norma resa superflua dalle nuove disposizioni.

Si è ritenuto, inoltre, non opportuno individuare specificamente quali siano le modalità telematiche utilizzabili perché le possibili evoluzioni tecnologiche suggeriscono di evitare di introdurre, all’interno del codice, specificazioni che vanno invece più opportunamente riservate a normazione tecnica attuativa.

Peraltro, i connessi interventi effettuati sul decreto legge n. 179 del 2012 consentono di individuare nella procedura disciplinata in quella sede la modalità telematica oggi praticabile.

Nell’art. 148 c.p.p, inoltre, sono state assorbite tutte le notifica effettuate dall’autorità giudiziaria, senza distinzione tra giudice o pubblico ministero: da qui, la conseguente abrogazione dell’art. 151 c.p.p.

Alle modifiche apportate all’art. 148 e alle abrogazioni degli artt. 150 e 151 del codice conseguono gli adattamenti apportati all’art. 64 disp. att. c.p.p.

Riguardo agli aspetti di natura finanziaria, si rappresenta che le modifiche sanciscono la regola ordinaria che le notificazioni avvengono ordinariamente attraverso la riformulazione dell’art. 148 c.p.p. che, pertanto, diviene norma generale, comprensiva di tutte le casistiche che vengono ad essere prospettate e alla quale fare riferimento per qualsiasi dubbio e incertezza. La stessa, peraltro, che riunisce le disposizioni riguardo alle notificazioni richieste dal giudice e quelle richieste dal pubblico ministero (con abrogazione degli articoli 150 e 151 c.p.p.) è da leggersi insieme ad altre disposizioni sistematiche, vale a dire con quelle riformulate dell’art. 149 c.p.p., che disciplina le modalità di notifica a mezzo posta, nel caso di urgenza nonché con quelle degli articoli 55 e 64 delle disp. att. c.p.p. con legittimazione anche alle comunicazioni di conferma all’indirizzo di posta elettronica indicato dal destinatario. Si è altresì eliminato il riferimento al desueto strumento del telegrafo, sia nella norma codicistica che nelle disposizioni di attuazione del codice.

Si tratta di un insieme di disposizioni dirette a velocizzare l’iter processuale puntando allo snellimento degli adempimenti anche degli organi e degli uffici deputati alle notificazioni giudiziarie (ufficiali giudiziari, gestori di servizi postali), nonché delle cancellerie penali, che in maniera più chiara, diretta e celere acquisiranno la prova dell’avvenuta ricezione dell’atto da parte dell’imputato sia esso detenuto o meno o della persona sottoposta alle indagini. Le notificazioni per via telematica, infatti, renderanno possibile un più razionale impiego delle risorse umane che svolgevano tali incombenze, con migliore distribuzione della quantità e della qualità dei carichi di lavoro e efficientamento dei servizi della giustizia.  Per tali motivazioni le norme in esame non sono suscettibili di determinare oneri a carico della finanza pubblica, ma al contrario sono idonee a realizzare cospicui risparmi di spesa, allo stato non quantificabili legati al venir meno delle spese di notifica che gravano sul capitolo 1360 delle spese di giustizia. Ad ogni modo, si assicura che eventuali adeguamenti sui sistemi non daranno luogo a nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, potendosi provvedere ai relativi adempimenti con le risorse umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, nonché con le risorse finanziarie già iscritte nel bilancio dell’Amministrazione della giustizia alla Missione 6 – Programma 1.2 – Giustizia civile e penale: “Sviluppo degli strumenti di innovazione tecnologica in materia informatica e telematica per l’erogazione dei servizi di giustizia”, capitolo di bilancio 1501, per la parte corrente, che reca uno stanziamento di euro 45.993.808 per ciascuno degli anni dal 2022 al 2024, nonché capitolo di bilancio 7203, per la parte capitale, che reca uno stanziamento di euro 247.821.801 per l’anno 2022, di euro 209.110.654 per l’anno 2023 e di euro 151.350.408 per l’anno 2024.

In ultimo, si evidenzia la disposizione del comma 7, che attribuisce il compito di effettuare le notifiche all’imputato detenuto – nei casi di urgenza e davanti al tribunale del riesame per le misure cautelari restrittive – agli agenti di polizia penitenziaria del luogo in cui il prevenuto si trovi ristretto. Si rappresentano gli effetti positivi della disposizione dal punto di vista di accelerazione e snellimento procedurale con assenza di oneri a carico della finanza pubblica. Considerato che le predette notifiche possono evadersi attraverso il personale di polizia che abitualmente si trova insediato presso gli istituti penitenziari, ogni adempimento correlato alla notifica di atti alle persone ristrette in tali luoghi, potrà essere espletato attraverso le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Alla lettera b) del comma 1 del presente articolo si apportano modifiche all’articolo 149 c.p.p., mediante un mero adeguamento al riconoscimento del mezzo telematico per le notificazioni, con legittimazione anche alle comunicazioni di conferma all’indirizzo di posta elettronica indicato dal destinatario. Si è altresì eliminato il riferimento al desueto strumento del telegrafo, sia nella norma codicistica che nelle disposizioni di attuazione del codice.

Per quanto riguarda le persone diverse dall’imputato, le presenti norme prevedono forme di comunicazione e di convocazione più celeri (a mezzo del telefono o tramite telegramma), agevolando i compiti degli uffici di segreteria e cancelleria e esonerandoli da adempimenti quantitativamente elevati. In tale ottica, pertanto, si rileva che le disposizioni hanno natura ordinamentale e procedurale e servono a coordinare l’insieme del sistema delle notificazioni, armonizzandolo con i nuovi mezzi e le nuove strumentazioni previste, abrogando il riferimento a quelli desueti, non comportando alcun aggravio di oneri per la finanza pubblica.

La disposizione di cui all’art. 152 c.p.p. viene adeguata al riconoscimento del mezzo telematico per le notificazioni, con legittimazione del difensore anche all’utilizzo di un indirizzo di posta elettronica o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato nel caso in cui sia già consentito il ricorso alla raccomandata (lettera c). Viene conseguentemente introdotta una apposita disposizione di attuazione del codice, modellata, con i necessari adeguamenti, sulle collaudate formalità dettate dall’art. 3-bis della l. n. 53 del 1994, al fine di disciplinare la possibilità per i difensori di ricorrere alle modalità telematiche per la notificazione degli atti che altrimenti dovrebbero essere richiesti alla cancelleria (che è appunto, il predetto articolo 56-bis disp. att. c.p.p.). Finora, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della L. 53/94, l’avvocato può eseguire la notificazione di atti in materia: civile amministrativa stragiudiziale, ma non quelli relativi alla materia penale che, invece, sono resi ammissibili attraverso l’introducenda disposizione. Sotto il profilo finanziario si segnala lo snellimento di adempimenti sia procedurali che relativi a formazione di copie analogiche dei documenti, rimandando alle norme in tema di copie informatiche e digitali per i risvolti finanziari relativi alla riscossione dei diritti di copia e di notifica. Ad ogni modo, atteso l’esito positivo che si è verificato, su larga scala, dall’emanazione della legge 53 del 1994 riguardo alla diffusione delle notifiche civili da parte degli avvocati, è da presumere che anche per l’ambito qui esaminato sarà possibile raggiungere risultati ottimali per i tempi processuali e per l’effettività e certezza della consegna e conoscenza degli atti del processo. Gli enunciati interessi, infine, si riflettono anche in ambito finanziario considerato che i costi di rilascio/estrazione copia degli atti e i costi di notifica graveranno sugli avvocati e, pertanto, sulle parti private da questi rappresentate. Pertanto, le disposizioni in esame non determinano un aggravio di oneri, ma realizzano effetti positivi per la finanza pubblica, sebbene ancora non quantificabili, legati in particolare ai riflessi di risparmio per il venir meno delle spese di notifica.

Le modifiche operate agli artt. 151, 152 e 153 sono conseguenza necessitata delle regole principali e sussidiarie introdotte all’art. 148. Per i profili di natura finanziaria si rinvia a quanto sostenuto riguardo al predetto articolo, segnalando, ad ogni modo, che la norma contenuta nell’art. 153 c.p.p. è di natura ordinamentale e procedurale e che, rimanendo il costo della consegna dei copia dell’atto o del deposito della relazione di notifica a carico delle parti e dei loro difensori, non si determinano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (lettera d).

L’art. 1, co., 15, lett. c) della legge delega prevede alla lettera e) l’obbligo, quanto ai reati perseguibili a querela, che con l’atto di querela sia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni e che sia possibile indicare, a tal fine, un idoneo recapito telematico. A tal fine viene introdotto nel codice di procedura penale un nuovo art. 153 bis c.p.p. (Domicilio del querelante. Notificazioni al querelante).

Il primo comma stabilisce che la persona offesa che abbia proposto querela ha l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento all’atto della presentazione della querela. Per assolvere all’obbligo di dichiarazione di domicilio, il querelante può indicare una PEC o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

La previsione che il querelante abbia non la facoltà, bensì l’obbligo imposto dalla legge di dichiarare o eleggere domicilio, è funzionale ad agevolare le comunicazioni tra autorità giudiziaria e persona offesa dal reato, imponendo a quest’ultima un obbligo non particolarmente oneroso; tale obbligo, da un lato, indubbiamente snellisce i meccanismi di comunicazione e ha intuitive ricadute sull’efficienza del sistema processuale; l’obbligo in questione, dall’altro lato, rende esplicita la volontà del legislatore di responsabilizzare la persona offesa che abbia sporto querela, nella prospettiva di renderla parte realmente attiva in un procedimento penale in cui l’ordinamento condiziona alla sussistenza e persistenza di un interesse della persona offesa la procedibilità dell’azione penale e la stessa punibilità dell’illecito.

È in questa prospettiva che la previsione dell’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio da parte del querelante può essere posta in collegamento funzionale con le conseguenze che la legge delega fa discendere dalla mancata partecipazione della persona offesa querelante a determinati passaggi processuali. Il criterio di delega dettato dall’art. 1, co. 15, lett. c), impone l’obbligo per il querelante di dichiarare o eleggere domicilio, senza però stabilire quali siano le conseguenze in caso di mancato assolvimento di tale obbligo di legge. Si ritiene che, a fronte di un obbligo che trova la sua fonte direttamente nella legge, la mancata dichiarazione o elezione di domicilio (o l’indicazione di un domicilio inidoneo) non possa essere priva di conseguenze giuridicamente apprezzabili. Il mancato assolvimento dell’obbligo di legge – non incluso tra le formalità della querela ex art. 337 c.p.p. – non investe tuttavia il piano della validità o dell’ammissibilità della querela. Si è scelto di non condizionare l’ammissibilità della querela all’assolvimento dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio per evitare il rischio – non privo di elementi di discriminazione – di non assicurare tutela a persone che, magari anche solo in via transitoria, non sono in grado di dichiarare o eleggere domicilio. D’altra parte, non si può escludere che una persona che – al momento di proposizione della querela non sia in grado di dichiarare o eleggere domicilio – riesca successivamente a comunicare all’autorità giudiziaria una adeguata domiciliazione. Nel secondo comma, in tal senso, si è ritenuto opportuno chiarire che la dichiarazione o elezione di domicilio può avvenire anche in momento successivo alla presentazione della querela; d’altra parte, il querelante può nominare – dopo la proposizione della querela – un difensore di persona offesa, che diventa legale domiciliatario (ex art. 33 disp. att. c.p.p.).

Condizionare la ammissibilità della querela – che ha anche natura di notizia di reato – all’assolvimento dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio comporterebbe d’altra parte il rischio di rendere impossibili approfondimenti investigativi da parte degli organi inquirenti (non potendosi escludere che una persona offesa presenti una querela sul presupposto di essere vittima di un reato non procedibile d’ufficio e che, viceversa, il Pubblico ministero – dopo opportune indagini, svolte proprio “a partire dalla querela” – ravvisi l’esistenza di reati procedibili d’ufficio).

Ancora, si è ritenuto che la mancata dichiarazione o elezione di domicilio non dovesse condizionare l’ammissibilità (o la validità) della querela in ragione del fatto che essa è atto che ha natura e valenza non solo processuale, ma anche sostanziale (la richiesta di procedere per l’accertamento di fatti penalmente rilevanti e correlate responsabilità e il diritto ad ottenere tutela dall’ordinamento); sicché potrebbe risultare eccessivamente penalizzante condizionare l’esercizio di un diritto della persona offesa (il cui ruolo deve invece essere valorizzato, secondo il disegno complessivo della riforma) all’assolvimento di un obbligo legale che è principalmente funzionale al perseguimento di un obiettivo di semplificazione procedimentale (e non strettamente inerente al contenuto sostanziale intrinseco dell’atto di querela).

Si è inoltre rilevato che la legge delega non prevede che dal mancato assolvimento dell’obbligo discendano sanzioni processuali (registrando che, invece, altre disposizioni della legge delega fanno conseguire al mancato assolvimento dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio la sanzione di inammissibilità di determinati atti; cfr. art. 1, comma 13, lett. a), l. n. 134 del 2021).

Il mancato assolvimento dell’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio, dunque, non condiziona l’ammissibilità della querela, né incide sulla sua validità. Conseguentemente, il mancato assolvimento dell’obbligo imposto al querelante di dichiarare o eleggere domicilio ha effetto sul piano della notificazione degli atti (ossia l’attività cui è funzionale l’obbligo imposto al querelante). In tale prospettiva, si è ritenuto necessario intervenire sulla disciplina delle notificazioni da effettuare in favore del querelante, al fine di garantire che la previsione legale dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio produca gli auspicati effetti di semplificazione procedurale e di responsabilizzazione della persona offesa che ha proposto querela. L’attuale sistema di notificazioni alla persona offesa è disciplinato dall’art. 154 c.p.p. e non distingue la posizione della persona offesa che abbia proposto querela da quella della persona offesa che non l’abbia proposta. L’introduzione dell’obbligo legale di dichiarare o eleggere domicilio all’atto della proposizione della querela rende per l’appunto necessario introdurre tale distinzione, con l’introduzione di uno specifico articolo – l’art. 153 bis del codice di procedura penale – dedicato al domicilio del querelante e alle notificazioni in suo favore.

I primi tre commi dell’art. 153 bis del codice di procedura penale sono dedicati alle modalità di individuazione e aggiornamento del domicilio del querelante.

I successivi commi dell’art. 153 bis dettano invece regole relative alle modalità di notificazione degli atti in favore del querelante, esplicitando una gerarchia tra i vari luoghi ove deve perfezionarsi la notificazione degli atti.  È comunque previsto che – ai sensi dell’art. 166 c.p.p. – gli atti debbano essere notificati al tutore o al curatore speciale di un querelante interdetto o infermo (anche in caso di dichiarazione o elezione di domicilio in luoghi diversi).

L’art. 153 bis c.p.p., ai commi 5 e 6, intende stabilire una gerarchia di criteri per individuare le modalità mediante le quali si deve perfezionare la notificazione degli atti: la notificazione dovrà essere effettuata anzitutto presso il domicilio dichiarato o eletto (o presso il domicilio successivamente comunicato con dichiarazione depositata presso la segreteria del pubblico ministero o la cancelleria del giudice); in assenza di dichiarazione o elezione di domicilio, la notifica dovrà essere effettuata presso il difensore; nel caso in cui il querelante – pur avendone l’obbligo legale – non abbia dichiarato o eletto domicilio e non abbia nominato un difensore, le notificazioni in suo favore avverranno mediante deposito dell’atto da notificare presso la segreteria o la cancelleria dell’autorità giudiziaria procedente.

Il criterio residuale del deposito dell’atto da notificare al querelante presso la segreteria o la cancelleria dell’autorità giudiziaria procedente si determina anche nelle ipotesi in cui la dichiarazione o l’elezione di domicilio sia insufficiente o inidonea.

Tale modalità “semplificata” di perfezionamento delle notificazioni rappresenta il coerente sviluppo dell’imposizione di un obbligo legale di dichiarare o eleggere domicilio e determina conseguenze proporzionate rispetto al mancato assolvimento dell’obbligo legale da parte del querelante (che, nell’attivare lo strumento penale, ha il dovere di farsi parte diligente).

La modalità “semplificata” di perfezionamento delle notificazioni con deposito in cancelleria dell’atto da notificare è modellata sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 161 c.p.p. per l’imputato: tale disposizione, come è noto, impone all’imputato l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio e prevede che – in caso di mancata dichiarazione o elezione di domicilio o in caso di dichiarazioni insufficienti o inidonee – le notificazioni possano avvenire con modalità semplificate (mediante consegna al difensore), che, comunque, non pregiudicano la possibilità di conoscenza del soggetto processuale che informi la propria condotta ad un minimo di diligenza.

La modalità “semplificata” di perfezionamento delle notificazioni è, inoltre, coerente con quanto oggi previsto dall’art. 154, comma 4, c.p.p. con riferimento alle modalità di notificazione degli atti in favore del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (in relazione ai quali, il codice di rito prevede che: ove costituiti in giudizio, essi siano legalmente domiciliati presso il difensore; ove non costituiti in giudizio, abbiano l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio; ove manchi la dichiarazione o elezione di domicilio – ovvero essa risulti inidonea – si prevede che le notificazioni avvengano mediante deposito in cancelleria).

In definitiva: la previsione delle conseguenze al mancato assolvimento dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio (o l’assolvimento di tale obbligo in modo insufficiente o inidoneo) sopra prospettata appare: (a) una conseguenza discendente dall’imposizione di un obbligo per via legislativa; (b) una conseguenza proporzionata rispetto al mancato assolvimento dell’obbligo; (c) una conseguenza formulata in modo coerente ad altre soluzioni previste dal legislatore per altri soggetto del procedimento (v. art. 161 e 154, comma 4, c.p.p.). Si rappresenta che la norma prevede uno snellimento di adempimenti, nell’ottica di allineare le disposizioni inerenti la procedibilità a quelle già in vigore e ritenute più celeri a favore dell’efficienza processuale. In tale ottica, responsabilizzare il querelante significa anche ponderare l’interesse effettivo che questi ha verso la tutela del suo interesse o il ripristino delle situazioni oggetto di lesione. Riguardo agli adempimenti connessi all’attuazione, si rileva una diminuzione delle incombenze a carico degli uffici giudiziari, le quali risultano di natura istituzionale e già ampiamente collaudate per il personale deputato ad espletarle, senza che vi sia alcun aggravio di oneri per la finanza pubblica.

Anche la modifica dell’art. 154 c.p.p. rappresenta un necessario adattamento, con riguardo alle parti private diverse dall’imputato, alle regole introdotte nell’art. 148. Per i profili di natura finanziaria si rinvia a quanto sostenuto riguardo al predetto articolo, applicandosi le regole generali in esso già esposte (lettera f).

La lettera g) contiene modifiche all’art. 155 c.p.p, prevedendo la possibilità di ricorrere, per la notificazione alle persone offese, a pubblici annunci, con modalità semplificata dalla previsione della pubblicazione solo su sito Internet del Ministero della Giustizia, che pare potere accentuare le possibilità di una effettiva conoscenza dell’atto da notificare e, al tempo stesso, è suggerita dall’evoluzione tecnologica ad oggi intervenuta. Il tutto considerando che la medesima modalità è oggi prevista per la pubblicazione delle sentenze. La norma, pertanto, ha carattere ordinamentale atteso che si tratta di allineare e uniformare le modalità previste per la pubblicazione di atti e provvedimenti che devono essere conosciuti da un numero indeterminato di soggetti. Si osserva al riguardo che il sito internet del Ministero della giustizia dispone di una piattaforma di pubblicazione reperibile a: “Home/Strumenti/Pubblicità legale/Sentenze e provvedimenti” in cui vengono inserite le richieste da parte degli Uffici giudiziari o di altri uffici delle pubbliche amministrazioni, preventivamente registrati al servizio, che dunque inseriscono i dati in loro possesso direttamente tramite il sistema. Si consideri, infatti, che può essere elaborata anche per le notifiche, per pubblici proclami, una apposita cartella nella sezione sopra descritta, consultabile da chiunque, in quanto sempre nella stessa sezione è già disponibile il servizio di “Richiesta informazioni “ da parte degli studi legali, che registrandosi e collegandosi alla piattaforma possono prendere visione degli atti e provvedimenti pubblicati e, quindi, nel caso di successiva organizzazione del sistema già collaudato, anche delle notifiche. La disposizione, pertanto, non determina nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

In attuazione del criterio di delega di cui alla lett. e) del comma 6 alla lettera h) si è anzitutto ritenuto di dovere recepire il principio affermato da Sez. U, n. 12778 del 27/02/2020, mediante la modifica all’articolo 156 c.p.p., che ha richiesto che le notificazioni all’imputato detenuto vanno sempre eseguite, mediante consegna di copia alla persona, nel luogo di detenzione, anche in presenza di dichiarazione od elezione di domicilio.

Ciò coerentemente con quanto previsto dall’art. 164, che individua, quali eccezioni alla regola della validità in ogni stato e grado del procedimento della determinazione del domicilio dichiarato o eletto, le ipotesi previste dagli artt. 156 e 613, comma 2.

Con riguardo alla detenzione in luoghi diversi da quelli penitenziari, si è inoltre esclusa (anche al di là delle regole sussidiarie dell’art. 148) la possibilità del ricorso a modalità telematiche soprattutto in considerazioni delle problematiche derivanti dal possibile, variegato contenuto delle prescrizioni (tra cui ad esempio il divieto di comunicazione con terze persone) imposte con le misure restrittive diverse da quelle da eseguirsi in ambiente penitenziario.

Si è infine inteso prevedere che il regime di notifica esclusivamente caratterizzato, già nell’impianto originario della norma, dalla consegna alla persona, operi anche con riguardo alle notifiche successive alla prima, in ragione di una maggiore garanzia per l’interessato a fronte, al contempo, di un pressoché sicuro esito positivo, sin da subito, della notifica, tale da non rendere necessario il ricorso, per l’amministrazione, alle procedure sussidiarie di cui ai commi 2 e ss. dell’art. 157.

Si tratta di una norma chiarificatrice, che appresta tutte le garanzie per un’utile difesa dell’imputato detenuto attesa la sua immediata reperibilità per la notifica degli atti processuali e, pertanto, rientra nel meccanismo di accelerazione processuale a cui è improntata la riforma della delega legislativa non determinando alcun onere aggiuntivo per la finanza pubblica.

Le proposte di modifica, recependo le prescrizioni contenute all’art. 2, comma 6 della legge delega, mirano a ridisegnare la disciplina, non solo della prima notifica, ma dell’intero sistema delle notifiche all’imputato non detenuto. Da qui, per cominciare, il mutamento della rubrica dell’art. 157 c.p.p. in “Prima notificazione all’imputato non detenuto” e l’innesto di due ulteriori disposizioni.

L’art. 157, infatti, è oggi destinato a disciplinare solo la notifica del primo atto all’imputato, al quale non sia applicabile la notifica telematica, mentre le norme ulteriori ora aggiunte disciplinano le notifiche successive alla prima e la notifica degli atti introduttivi del giudizio.

Le innovazioni apportate all’art. 157 riguardano il fatto che proprio in quanto si tratta della prima notificazione, dalla quale discendono effetti rilevanti per le successive (che dovranno sempre essere effettuate al difensore), si è esclusa la possibilità che sia effettuata al domicilio eletto o dichiarato.

Sul piano delle ulteriori innovazioni operative, invece, in connessione con la rilevanza che si è detta della notifica del primo atto, si è previsto che con essa l’autorità giudiziaria avverte l’imputato che le successive notificazioni, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio.

Conseguente è la previsione, parimenti imposta dalla delega, che l’omessa o ritardata comunicazione del difensore al proprio assistito dell’atto notificato, imputabile al fatto di quest’ultimo, non costituisce inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale.

Connessa è la previsione dell’art. 157-bis c.p.p., che si occupa della notifiche successive alla prima e che precisa che tutte le notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, sono eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio.

Peraltro, in applicazione della delega se l’imputato è assistito da un difensore di ufficio, nel caso in cui la prima notificazione sia avvenuta con consegna di copia dell’atto a persona diversa da quelle indicate al comma 1 dell’articolo 157 c.p.p. e l’imputato non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 1, le notificazioni successive non potranno essere effettuate al difensore. In questo caso anche le notificazioni successive alla prima saranno, quindi, effettuate con le modalità di cui all’articolo 157.

Le notifiche dell’art. 157-ter c.p.p. degli atti introduttivi del giudizio sono, invece, effettuate al domicilio, anche di posta elettronica certificata, dichiarato o eletto ai sensi dell’articolo 161, comma 1. In mancanza di un domicilio dichiarato o eletto la notificazione è eseguita nei luoghi e con le modalità di cui all’articolo 157, con esclusione delle modalità di cui all’articolo 148, comma 1: ossia con modalità non telematiche.

Nei casi in cui sia imminente la scadenza del termine di prescrizione del reato o il decorso del termine di improcedibilità di cui all’articolo 344-bis c.p.p. oppure sia in corso di applicazione una misura cautelare, l’autorità giudiziaria può disporre che la notificazione all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione a giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601 c.p.p., nonché del decreto penale di condanna sia eseguita dalla polizia giudiziaria.

Peraltro, si è chiarito che in caso di impugnazione proposta dall’imputato o nel suo interesse, la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti è sempre eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto, ai sensi dell’articolo 581, commi 1-ter e 1-quater c.p.p..

Per quanto riguarda gli aspetti di carattere finanziario, le modifiche intervenute all’articolo in esame comportano effetti positivi per la finanza pubblica, atteso che – fatte salve le eccezioni degli atti introduttivi del giudizio, cioè per l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione a giudizio e del decreto penale di condanna – la regola generale è che le notificazioni successive alla prima vengono fatte al difensore nominato di fiducia o d’ufficio, quindi in forma telematica secondo quanto previsto dalle disposizione di cui al comma 1 dell’art. 148 c.p.p. come sopra riformulato. Le disposizioni relative ad altre modalità di notifica (a mano o a mezzo posta o tramite polizia giudiziaria) interverranno soltanto in caso di mancanza degli avvisi effettuati ai sensi del novellato art. 161 c.p.p e qualora all’imputato sia stato assegnato un difensore d’ufficio. Pertanto, viene confermato l’onere a carico del destinatario dell’atto di indicare al difensore ogni recapito telefonico o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché di informarlo di ogni loro successivo mutamento. Si tratta di un insieme di disposizioni dirette a velocizzare l’iter processuale puntando allo snellimento degli adempimenti anche degli organi e degli uffici deputati alle notificazioni giudiziarie (ufficiali giudiziari, gestori di servizi postali), nonché delle cancellerie penali, che in maniera più chiara, diretta e celere acquisiranno la prova dell’avvenuta ricezione dell’atto da parte dell’imputato non detenuto attraverso il filtro del difensore, che assume un ruolo centrale nel nuovo sistema delle notifiche penali delineato dalla legge delega. Assicurando che dalle presenti disposizioni non emerge alcun aggravio di oneri, bensì un risparmio di spesa per la finanza pubblica, anche se non quantificabile, si rinvia alle considerazioni effettuate riguardo all’art. 148 c.p.p.

Con l’abrogazione dell’articolo 158 c.p.p. si è ritenuto di escludere una disciplina specifica per notificazioni all’imputato in servizio militare in quanto essendo venuto meno il servizio militare obbligatorio si tratta di notifiche presso il luogo di lavoro. La norma ha natura ordinamentale e non determina effetti negativi per la finanza pubblica.

La modifica dell’art. 160 c.p.p. si è resa necessaria per coordinare la disciplina dell’irreperibilità con le proposte di modifica del processo in assenza attuative del criterio direttivo di cui alla legge delega, art. 1, comma 7 in tema di processo di assenza (lettera n).

Si è quindi previsto che l’efficacia del decreto di irreperibilità non cessi più con la pronuncia del provvedimento che definisce l’udienza preliminare, bensì con la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Ciò in quanto si reputa che il meccanismo di notificazione previsto in caso di dichiarazione di irreperibilità non sia idoneo ad assicurare all’imputato la conoscenza dell’accusa e della pendenza del processo a suo carico, unici presupposti che consentono la celebrazione del processo di primo grado in sua assenza. Pertanto, una volta cessata la fase delle indagini preliminari, la notificazione all’imputato dell’atto introduttivo del giudizio, o dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, dovrà essere effettuata secondo le regole ordinarie e, in caso di mancato rintraccio dello stesso e di assenza di alcun indice di conoscenza della vocatio in ius e della pendenza del processo, secondo la disciplina dettata dall’art. 420-bis, il giudice dovrà pronunciare la sentenza di non doversi procedere prevista dall’art. 420-quater.

Diversamente, quanto ai successivi gradi di giudizio, rispetto ai quali attualmente operano sia la cessazione del corso della prescrizione che la disciplina dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione, si è reputato di mantenere l’attuale disciplina  prevista dai commi 2, 3 e 4, in quanto, anche in presenza della notificazione dell’atto introduttivo eseguita ai sensi dell’art. 159 c.p.p., il giudice dell’impugnazione potrà, comunque, valutare, alla luce di tutti gli elementi agli atti, se, nonostante l’irreperibilità dell’imputato, sussistano o meno i presupposti per celebrare il processo in sua assenza (lettera m). Le disposizioni sono di carattere ordinamentale e procedurale e contemperano sia l’interesse a tutelare i diritti dell’imputato ad un’effettiva conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico che le esigenze di celerità e speditezza processuali. Le stesse, pertanto, non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Con la lettera o) s’interviene sull’articolo 161 c.p.p., innanzi tutto, recependo quanto prescritto dalla legge delega, prevedendo la possibilità che l’imputato possa dichiarare, ai fini delle notificazioni, anche un proprio indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato. Ai fini di una valida dichiarazione di domicilio telematico si richiede, infatti, che si tratti di un domicilio “proprio”, di cui l’imputato ha la esclusiva disponibilità.

Peraltro, in conformità alla delega si è coordinata questa norma con il meccanismo di elezione ex lege che oggi è previsto per le notifiche successive alla prima e si è espressamente previsto a questi fini che la polizia giudiziaria nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato lo avverte che le successive notificazioni, diverse da quelle riguardanti l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, la citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601 e il decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio.

Il tutto purché in questo momento si sia in grado di indicare all’imputato anche le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto e l’autorità giudiziaria procedente, in quanto si deve trattare di un avviso identico a quello che l’imputato riceverebbe con la prima notifica.

Contestualmente la persona sottoposta alle indagini o l’imputato è avvertito che è suo onere indicare al difensore ogni recapito, anche telefonico, o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché informarlo di ogni loro successivo mutamento.

Per il resto la norma, pur in un contesto di complessiva semplificazione, non ha subito modifiche se non funzionali ad accertare l’effettiva consapevolezza dell’imputato del proprio difensore.  Sempre per favorire il rapporto effettivo tra imputato e difensore nei casi di cui ai commi 1 e 3 si è previsto che l’elezione di domicilio presso il difensore sia immediatamente comunicata allo stesso (cosa che per vero già accade per l’imputato detenuto) Con la modifica all’art. 28 disp. att., allo stesso fine di agevolare l’instaurazione di un rapporto effettivo fra l’imputato e il difensore a lui nominato d’ufficio, si è imposta la tempestiva comunicazione all’interessato dei recapiti, anche telefonici e telematici, del difensore. Si tratta di una disposizione centrale nel sistema delle notificazioni, in considerazione del fatto che dalle attività espletate dalla polizia giudiziaria nel primo atto compiuto con l’intervento dell’indagato, dipendono le successive modalità di notifica, se telematica ovvero attraverso consegna a mani proprie o attraverso altre persone. Inoltre, è nuovamente affermata la centralità del ruolo del difensore presso il quale, nella maggior parte dei casi, sarà possibile effettuare le notifiche successive alla prima e che deve essere munito di strumentazione e indirizzo digitali ed essere in grado di effettuare telematicamente le comunicazioni. Pertanto, sia il difensore che l’indagato/imputato/condannato, sono responsabilizzati riguardo alle attività notificatorie, atteso che, sarà onere dei medesimi dimostrare di non aver avuto conoscenza degli atti loro destinati per evitare le conseguenze di celebrazione del processo dovute alla contumacia. Per quanto concerne, poi, le operazioni della polizia giudiziaria, si rappresenta che la collaborazione continua con l’organo inquirente e la delega da parte del p.m. a compiere atti propri del suo ufficio nell’urgenza ed immediatezza dei fatti, rende edotti e preparati gli ufficiali ed agenti di p.g. sulle norme violate e sulla successione degli eventi che hanno prodotto gli illeciti, anche perché secondo i loro compiti istituzionali è demandato a costoro di effettuare i rilievi, le annotazioni e i referti in prossimità del verificarsi dei fatti. E’, quindi, consequenziale che la polizia giudiziaria intervenuta sul posto sia in grado di dare una chiara esposizione dei fatti e delle violazioni contestate all’indagato, peraltro riassunte, sinteticamente, nell’atto notificatogli. Al riguardo, si assicura che le citate incombenze vengono ordinariamente svolte dagli operatori di polizia giudiziaria, rientrando tali adempimenti nei loro compiti istituzionali e nelle attività di indagine preliminare di cui ordinariamente sono investiti. Pertanto, la disposizione ha carattere di neutralità potendosi fronteggiare le citate attività attraverso le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Per gli altri profili finanziari valgono le stesse considerazioni effettuate riguardo all’art. 148 c.p.p., cui si rinvia.

In attuazione del principio generale ispiratore di tutta la disciplina delle notificazioni, volto ad accordare preminenza alla esecuzione con modalità telematica,  alla lettera p) si è ritenuto di introdurre al comma 1 dell’articolo 162 c.p.p., tra le modalità alternative attraverso le quali l’imputato può comunicare all’autorità procedente la dichiarazione o elezione di domicilio ovvero il loro mutamento, anche quella telematica mediante il deposito di cui al nuovo art. 111-bis c.p.p.

Il comma 4-bis del predetto articolo, in linea generale, ribadisce l’attuale disposizione codicistica che prevede l’assenso del domiciliatario quale condizione di efficacia dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio.  E’ stato tuttavia aggiunto che il difensore deve attestare l’avvenuta comunicazione da parte sua all’imputato della mancata accettazione della domiciliazione o le cause che hanno impedito tale comunicazione.

La disposizione è di natura ordinamentale e procedurale e non presenta risvolti negativi sotto il profilo finanziario. Si rinvia, comunque, alle considerazioni effettuate riguardo agli articoli precedenti.

L’innovazione prevista alla lettera q) intevenendo sull’articolo 163 c.p.p.,mira esclusivamente ad integrare la norma con il riferimento alle notifiche telematiche.

Si rinvia alle valutazioni di cui agi menzionati articoli 148 e 157 c.p.p., rappresentando, ad ogni modo, il carattere precettivo della norma che non determina nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Con la lettera r) si modifica l’articolo 164 c.p.p. introducendo due specifiche eccezioni alla validità generalizzata, per la notificazione degli atti introduttivi del giudizio, della indicazione fornita in tema di domicilio dichiarato o eletto: la prima riguarda l’imputato detenuto, per il quale la notificazione dovrà comunque avvenire mediante consegna di copia alla persona (art. 156, comma 1). La disposizione ha carattere precettivo e procedurale e non determina un aggravio di oneri per la finanza pubblica.

L’intervento alla lettera s) aull’articolo 165 c.p.p. si coordina alle modifiche operate per la notificazione degli atti introduttivi del giudizio ai fini della possibilità di procedere nell’assenza dell’imputato (art. 1, comma 7, della legge di delega) e risponde alla necessità di superare la mancata ricerca del soggetto latitante da parte delle autorità pubbliche ai fini della vocatio in ius che il sistema sinora prevedeva, consentendo che anche per gli atti introduttivi al giudizio nei confronti di tale soggetto (al quale è equiparato l’evaso) si procedesse direttamente con la notificazione al difensore.

Per meglio garantire la dimensione convenzionale del processo in absentia, dimostrando la diligenza apprestata dalle autorità pubblica per portare a conoscenza anche del latitante l’esistenza del processo a suo carico, si è dunque disposto che alla notificazione al difensore degli atti introduttivi del giudizio a carico della persona latitante possa farsi ricorso solo dopo l’infruttuoso esperimento delle modalità indicate dall’art. 157, opportunamente distinte a seconda che la latitanza riguardi persona evasa o sottrattasi a misure cautelari detentive o riguardi persona sottrattasi alla misura cautelare dell’obbligo di dimora o del divieto di espatrio. La disposizione ha natura procedurale e si armonizza con il contemperamento degli interessi di snellimento e celerità dei tempi processuali e con la garanzia di conoscenza degli atti da parte del prevenuto, anche se questi si sia scientemente e intenzionalmente sottratto alle comunicazioni non rendendosi reperibile. Sono da ripetere le considerazioni effettuate, anche sotto il profilo finanziario, agli articoli 148 e 157 c.p.p. alle quali si rinvia.

La modifica inserita alla lettera t) innova la disposizione dell’art. 167 c.p.p., che rappresenta la norma di chiusura del sistema delle notificazioni con cui si disciplinano le modalità con cui devono essere effettuate le notificazioni degli atti a quelle persone che, pur partecipi del processo penale, non sono state indicate in modo espresso in nessun’altra disposizione normativa, specificando, in conformità con il principio della legge delega, che anche per le suddette persone dovrà, ove possibile, essere previamente esperita la via telematica. La norma ha carattere ordinamentale e precettivo e non determina nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La modifica all’articolo 168 c.p.p. è volta esclusivamente ad adeguare la fase di documentazione del procedimento di notificazione all’ipotesi che sia la notificazione avvenga per via telematica (lettera u). La disposizione è posta a conferma del meccanismo di consegna e ricezione digitale ordinario, non disponendo nulla di diverso per il perfezionamento delle notifiche telematiche. Per quanto riguarda la parte successiva, invece, le disposizioni vigenti delle notifiche tramite ufficiale giudiziario restano confermate. La norma ha carattere ordinamentale e procedurale e non determina un aggravio di oneri per la finanza pubblica.

Le modifiche apportate all’articolo 169 c.p.p., rispondono, innanzitutto, all’esigenza di ampliare i presupposti che legittimano l’invio della comunicazione prevista dalla norma, con riferimento, non solo alla condizione di residenza e dimora all’estero della persona nei cui confronti si deve procedere, ma anche all’ipotesi in cui questa svolga abitualmente all’estero un’attività lavorativa (lettera v). La modifica, muovendosi su un piano simmetrico a quanto previsto per la notificazione all’imputato dall’art. 157, mira ad ampliare i canali di rintraccio all’estero dell’imputato nel caso in cui non sia possibile a notificare l’atto con modalità telematiche, secondo la regola generale prevista dall’art. 148, comma 1.

Tali canali, infatti, ove limitati alla sola residenza o dimora, in taluni casi, possono paralizzare il procedimento di notificazione, impedendo il “primo contatto” tra la persona interessata e l’autorità giudiziaria con la comunicazione dei dati concernenti il procedimento a suo carico e con l’invito a procedere alla dichiarazione o elezione di domicilio. Ciò rileva soprattutto allorché l’imputato si trovi o lavori abitualmente in uno Stato con il quale l’Italia non ha stipulato alcun accordo di cooperazione o che non ha aderito a specifiche convenzioni internazionali.  L’ampliamento dei canali di rintraccio consente di realizzare un duplice obiettivo, di informazione dell’interessato e, al contempo, di efficienza, in quanto consente di completare il procedimento di notificazione o presso il domicilio dichiarato o eletto ovvero, quando questo manchi, presso il difensore, con tutte le conseguenze correlabili ad un comportamento omissivo o di rifiuto, soprattutto sul piano della successiva celebrazione del processo in assenza.

Con riguardo alle notificazioni all’imputato – che risieda, dimori o svolga abitualmente la propria attività lavorativa all’estero – l’inclusione, quale modalità alternativa rispetto a quella attualmente vigente, sia della prodromica comunicazione per via telematica, ove risulti che l’imputato sia munito di un idoneo domicilio telematico, della indicazione  della autorità che procede, del titolo del reato e della data e del luogo in cui è stato commesso, e dell’invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato ovvero a dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata, rappresenta un ulteriore necessario adattamento alla regola principale indicata dall’art. 148; e ciò sia con riguardo appunto al necessario “prodromo” della comunicazione, oggi affidata al solo mezzo epistolare, sia con riguardo al procedimento di notifica, necessariamente inclusivo appunto, secondo le nuove regole generali, delle modalità telematiche, ma solo qualora ricorra l’espressa dichiarazione in tal senso dell’imputato, non bastando le risultanze oggettive circa la sua esistenza di cui all’incipit della norma, sufficienti ai soli fini dell’invio della preliminare comunicazione ma non ai fini della notificazione. Sotto il profilo finanziario si rileva la natura precettiva e procedimentale della norma che riafferma il principio generale di cui all’art. 148 c.p.p., vale a dire la priorità accordata alle notifiche per via telematica, invitando l’interessato a indicare un indirizzo o domicilio digitale ove effettuare le comunicazioni per renderlo edotto della pendenza e dell’iter processuale, in caso contrario le notifiche verranno effettuate al difensore che lo rappresenta. Pertanto, si rinvia alle considerazioni relative all’art. 148 c.p.p., assicurando l’assenza di oneri aggiuntivi per la finanza pubblica.

Con la lettera z) si modifica l’articolo 170 c.p.p. primo comma.Trattasi di modifica volta a chiarire come la notificazione col mezzo della posta possa essere utilizzata, quando non sia possibile effettuare la notificazione con modalità telematiche, anche ai fini degli atti introduttivi del giudizio. La disposizione ha natura ordinamentale e non determina effetti negativi per la finanza pubblica, confermando le norme del sistema vigente qualora non sia possibile effettuare per via telematica le notifiche richieste.

La lettera aa) interviene sull’articolo 171 c.p.p., coerentemente con l’introduzione delle modalità telematiche, quale modalità principale e generalizzata di esecuzione delle notificazioni, introducendo una specifica causa di nullità con riferimento all’ipotesi in cui il mezzo adottato non possieda i requisiti tecnici indicati all’art. 148, comma 1, idonei ad assicurare certezza anche temporale dell’avvenuta trasmissione e ricezione, l’identità del mittente e del destinatario dell’atto e l’integrità dell’atto, e si modifica la causa di nullità prevista dalla lettera b) del comma 1 della disposizione, includendovi anche il caso che l’incertezza assoluta attenga all’identità della parte privata mittente.

Inoltre, in conseguenza delle modifiche apportate con riguardo agli avvisi da fornire all’imputato connessi all’introduzione generalizzata della sua domiciliazione ex lege dell’imputato presso il difensore, si adegua la causa di nullità prevista dalla lettera e).

Infine, in conseguenza della abrogazione dell’art. 150, si è prevista l’abrogazione della causa di nullità contemplata dalla lettera h) della norma. Trattasi di disposizione con carattere precettivo che non presenta alcun risvolto sotto il profilo finanziario.

 

ART. 11

(Modifiche al Titolo VI del Libro II del codice di procedura penale)

 

Ulteriori due interventi, concernenti la modifica dell’art. 172 cp.p. e l’introduzione del nuovo art. 175-bis c.p.p., fanno da necessario corollario al nuovo sistema, e allo stesso tempo rispondono a precise indicazioni del legislatore delegante in materia di processo penale telematico.

L’articolo 172 c.p.p., che detta le regole generali in materia di termini, è stato interpolato attraverso l’aggiunta di due commi, i quali prevedono, da un lato, che, il termine per fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere altri atti in un ufficio giudiziario con modalità telematiche si considera rispettato se l’accettazione dello stesso da parte del sistema informatico avviene entro le ore 24 dell’ultimo giorno utile; dall’altro che, salvo sia diversamente stabilito (relativamente alla specifica tipologia di atto processuale), i termini decorrenti dal deposito telematico degli atti al di fuori degli orari d’ufficio stabilito dal regolamento si computano dalla data della prima apertura immediatamente successiva dell’ufficio (lettera a). In tal modo, si è favorito l’esercizio del diritto di difesa, in quanto la parte può far uso dell’intera giornata nella quale è in scadenza il lasso temporale previsto dalla legge per depositare telematicamente l’atto (occorrerà solo verificare che l’accettazione sia rilasciata dal sistema entro le ore 24 dell’ultimo giorno utile). Allo stesso tempo, tuttavia, la soluzione non compromette l’organizzazione giudiziaria, consentendosi (al comma 6-ter) che il termine per provvedere sulla domanda, depositata telematicamente fuori orario d’ufficio, decorra dalla prima apertura successiva dell’ufficio competente.

L’articolo 175-bis c.p.p., infine, regola i casi di malfunzionamento dei sistemi informatici (lettera c).

In coerenza con quanto specificamente stabilito dal legislatore delegante, la disposizione da un lato positivizza la necessità di “sistemi di accertamento effettivo” e di “registrazione dell’inizio e della fine del malfunzionamento, in relazione a ciascun settore interessato” del malfunzionamento e, dall’altro, mira a garantire, per il caso di malfunzionamento, l’accesso a “soluzioni alternative ed effettive alle modalità telematiche che consentano il tempestivo svolgimento delle attività processuali”.

Si è ritenuto necessario provvedere in relazione alle due diverse ipotesi di malfunzionamento che, in concreto possono verificarsi.

La prima ipotesi (disciplinata ai commi 1 e 2 della nuova disposizione), riguarda il malfunzionamento c.d. certificato, ovvero le ipotesi di malfunzionamento generalizzato dei domini del Ministero della Giustizia: in tal caso il malfunzionamento è certificato dal Direttore Generale per i Servizi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia, attestato sul portale dei servizi telematici del Ministero della Giustizia e comunicato dal dirigente dell’ufficio giudiziario, con modalità tali da assicurarne la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati; con le medesime modalità viene accertato, attestato e comunicato il ripristino del corretto funzionamento.

È indispensabile, in ogni caso che, (secondo quanto precisato al comma 3) vengano registrati e quindi attestati tanto la data di inizio e quanto quella della fine del malfunzionamento.

La seconda ipotesi (disciplinata al comma 4) riguarda il malfunzionamento “non certificato”, ovvero quello che può verificarsi in relazione ad uno specifico ufficio giudiziario e/o in ambito locale e che comunque sia tale da impedire, per un tempo più o meno consistente, l’accesso alla modalità telematica: in tal caso il malfunzionamento è accertato e attestato dal dirigente dell’ufficio ed anche in questo caso è previsto che siano verificate e attestate la data di inizio e quella della fine del malfunzionamento.

In relazione ad entrambe le ipotesi si è comunque previsto un onere di comunicazione da parte del dirigente con modalità che si è ritenuto di definire solo con riferimento all’obiettivo perseguito, ovvero quello di assicurare la tempestiva conoscibilità (e non conoscenza effettiva) da parte dei soggetti interessati.

Quanto alle soluzioni per “garantire soluzioni alternative ed effettive alle modalità telematiche che consentano il tempestivo svolgimento delle attività processuali”, al comma 3, con una previsione che (attraverso il richiamo operato nel comma 4) vale per entrambi i casi di malfunzionamento, si è previsto che durante tutto il periodo del malfunzionamento, gli atti e i documenti vengano redatti in forma di documento analogico e depositati con modalità non telematiche: in tal modo si eviteranno stalli nell’attività processuale, allo stesso tempo garantendosi, anche per questa ipotesi, la completezza e la continuità del fascicolo informatico, stante il richiamo all’obbligo di conversione in copia informatica e conseguente inserimento nel fascicolo informatico previsti dagli artt. 110, comma 4, e 111-ter, comma 4.

La disposizione di cui al comma 5 dell’art. 175-bis c.p.p., relativa alle ipotesi in cui la scadenza di un termine stabilito a pena di decadenza sia intervenuto nel corso del malfunzionamento, intende provvedere per i casi in cui la parte sia incorsa nella decadenza, senza fare ricorso alla tradizionale modalità analogica. Il richiamo alla disposizione di cui all’articolo 175 c.p.p. vuole chiarire che sarà, in tali casi, onere della parte dimostrare che ciò è avvenuto per caso fortuito o forza maggiore (si pensi, per esempio, al caso in cui non vi sia stata tempestiva comunicazione del malfunzionamento o al caso in cui, nonostante la tempestività delle comunicazioni, siano intervenuti altri fattori estranei che tuttavia rivestono la natura e le caratteristiche del caso fortuito o della forza maggiore previsti dall’articolo 175 c.p.p.). La disciplina operante sarà, dunque, in tali casi, quella prevista dal richiamato articolo 175 c.p.p. (lettera b).

La nuova disciplina, dunque, si muove secondo precise direttrici fondamentali.

In primo luogo, il malfunzionamento del sistema non può incidere sulla normale prosecuzione dell’attività processuale, sebbene ciò richieda una rinuncia – ma solo temporanea – alla opzione digitale ed un – altrettanto temporaneo – “ritorno” all’analogico: l’obiettivo di realizzare una maggiore efficienza del processo penale (che è, d’altro canto, uno degli obiettivi perseguiti con il processo telematico) non può essere disgiunto, per sua stessa natura, dalla celerità nello svolgimento delle attività processuali.

Peraltro, la previsione, quale regola generale, del ricorso, in tali casi, alla modalità analogica per la formazione ed il deposito degli atti processuali supera l’ulteriore problema creatosi nella vigenza della normativa emergenziale che, nel subordinare l’accesso al deposito analogico ad una specifica autorizzazione del dirigente del singolo ufficio (cfr. art. 24 comma 2-ter d.l. 28 ottobre 2020, n. 137: 2-ter. L’autorita’ giudiziaria puo’ autorizzare il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico per ragioni specifiche), ha costituito fonte di disomogeneità di soluzioni nella pratica nei diversi uffici giudiziari.

La seconda direttrice di fondo è nel senso di escludere che i casi di malfunzionamento possano costituire causa di proroga o sospensione di diritto di termini processuali (anche qui, a differenza di quanto previsto dalla normativa emergenziale che, all’articolo 24 comma 2 bis stabilisce, per il caso di malfunzionamento, che “il termine di scadenza per il deposito degli atti di cui ai commi 1 e 2 e’ prorogato di diritto fino al giorno successivo al ripristino della funzionalita’ del Portale”).

Sotto tale profilo, si è ben consci del fatto che una ipotesi di malfunzionamento del sistema possa impedire, in concreto, anche l’accesso al fascicolo informatico, con inevitabili riflessi anche sull’attività da svolgere in analogico: basti pensare al giudice del Tribunale del Riesame che deve adottare una decisione sulla libertà personale dell’indagato e che disponga del solo fascicolo informatico, o del difensore che deve depositare un’istanza de libertate o comunque urgente per la cui predisposizione necessita dell’accesso al fascicolo informatico o, ancora, del pubblico ministero che debba procedere alla convalida di un arresto e che disponga solo di atti depositati per via telematica e contenuti nel fascicolo informatico.

E tuttavia, si è ritenuto che, in una riforma di sistema (che è, evidentemente, qualcosa di ben diverso da una normativa emergenziale) il necessario bilanciamento dei valori in gioco imponesse una soluzione che non consenta eccezioni al rispetto dei termini perentori stabiliti dal codice processuale che, nel sistema del codice, attengono, direttamente o indirettamente, alla tutela dei diritti fondamentali (fermo restando, come si è già evidenziato, la persistente operatività del meccanismo di rimessione in termini di cui all’articolo 175 c.p.p.)

E se è vero che una tale soluzione necessariamente implica oneri aggiuntivi di diligenza da parte di tutti gli operatori della giustizia (che dovranno, per esempio, attrezzarsi per continuo e tempestivo back up dei dati necessari allo svolgimento delle attività processuali), è anche vero che tali oneri non sono di certo dissimili – seppur trasposti nel mondo digitale – da quelli inerenti la tenuta e conservazione dei fascicoli cartacei, la cui eventuale distruzione o perdita, anche accidentale e imprevista, certamente non ha e non può avere alcun riflesso sulla prosecuzione del processo, salvo l’obbligo di procedere alla relativa ricostruzione.

D’altro canto, la tempistica graduale dell’operatività a regime della riforma consentirà, ed allo stesso tempo imporrà, l’adozione di misure tecniche sempre più efficaci che limitino le ipotesi di malfunzionamento e che offrano al contempo soluzioni tempestive nonché l’adozione di misure organizzative negli uffici giudiziari idonee a fronteggiare situazioni di difficoltà legate a problemi di natura tecnica.

Per quanto concerne gli aspetti di natura finanziaria, si osserva il risvolto positivo degli effetti del nuovo regime di formazione, deposito e archiviazione/conservazione dei documenti, che consentirà di catalogare atti e provvedimenti in maniera più sistematica e organizzata, snellendo i carichi di lavoro del personale degli uffici giudiziari che, in progressione temporale, risulterà esonerato da incombenze richiedenti tempi eccessivi sottratti al lavoro di cancelleria e di segreteria, di assistenza al magistrato. 

In sostanza, le analizzate disposizioni, prevedono che gli atti e i documenti processuali siano formati, come regola generale, digitalmente in formato leggibile e, quindi, tenuti in un archivio digitale, favorendone la reperibilità e prevedendo misure che oltre a garantirne l’autenticità, li conservino nel loro stato iniziale senza che vengano deteriorati, con l’inserimento, infine, accanto ai già menzionati criteri che devono connotare gli atti processuali in formato digitale, del criterio della segretezza, qualora la legge lo preveda.

In generale, si stabilisce che tanto il deposito di atti e documenti che l’espletamento di comunicazioni e notificazioni sia effettuato obbligatoriamente con modalità telematiche in ogni ordine e grado dei procedimenti penali, garantendo la certezza dell’avvenuta trasmissione e della correlata ricezione, dell’identità del mittente e di quella del destinatario. Ad ogni modo, al fine di dettare una disciplina organica per la materia, si prevede, secondo la normativa di riferimento per l’organizzazione governativa (art. 17, comma 3, della legge 400/1988), l’emanazione di un regolamento da parte del Ministro della giustizia che contempli i vari aspetti citati e che intervenga sulle norme del regolamento 21 febbraio 2012, n. 44 attualmente in vigore e le disposizioni in tema di disciplina transitoria e delle eccezioni alle regole generali, attraverso ulteriori prescrizioni da adottarsi con atto dirigenziale. E’, tuttavia, ammessa la facoltà di deposito anche con modalità non telematiche per quegli atti che le parti possono compiere personalmente senza assistenza del difensore legale, individuando gli uffici e le tipologie di atti in cui le modalità citate siano consentite con decreto del Ministro della giustizia, emanato ai sensi dell’art. 17 comma 3 della legge 400/1988, sentiti il CSM ed CNF. Vengono, comunque, stabilite idonee garanzie in caso di malfunzionamento dei sistemi informatici del dominio giustizia con comunicazione agli interessati della problematica e predisposizione di soluzioni alternative che consentano lo svolgimento delle attività processuali e registrazione dell’inizio e della fine delle disfunzioni. Si prevede, infine, che nei procedimenti di ogni ordine e grado, il deposito telematico di atti e documenti possa avvenire anche mediante soluzioni tecnologiche diverse dalla posta elettronica certificata che attraverso la generazione di un messaggio assicurino il perfezionamento del deposito.

Ad ogni modo, per gli aspetti di natura finanziaria relativi al pagamento dei diritti di copia informatica, si fa riferimento alle modalità presenti nel D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e in particolare la piattaforma pagoPA. Nella specie, l’originale del documento è memorizzato nei sistemi informatici di Giustizia mentre una copia, in formato pdf, viene fornita al soggetto pagatore attraverso la modalità sopra indicata che, attualmente, è estesa a tutte le pubbliche amministrazioni e che rende efficaci e tracciabili tutti i versamenti. La funzionalità è disponibile sul Portale dei Servizi Telematici (htpps://pst.giustizia.it) ed è accessibile a tutti gli utenti, anche a coloro che non hanno eseguito la procedura di login (tramite SPID o smart card) all’area riservata.

Si rinvia alla dettagliata analisi e ripartizione di spesa riguardante la realizzazione del Piano di transizione digitale effettuata in relazione all’art. 1, comma  18 della legge 134/2021, nell’ambito della quale sono descritti gli interventi effettuati e programmati per l’adozione del portale delle notizie di reato (Portale NDR) e del portale del processo penale telematico (PPPT), per la dematerializzazione degli atti analogici, per addivenire, in attesa del processo penale interamente digitale, alla creazione del fascicolo digitale dematerializzato che consente, tra le altre cose, di operare da remoto attraverso l’upload dei documenti. Si anticipa, tuttavia in questa sede, con riferimento al profilo delle risorse finanziarie, che l’elemento determinante nella strategia per la digitalizzazione dei sistemi della giustizia è costituito dai fondi infrastrutturali, fra i quali il Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese istituito con l’art. 1, comma 140, della legge di bilancio 2017, rifinanziato ai sensi dell’art. 1, comma 1072, della legge di  bilancio 2018 e previsto dall’art.1, comma 95, della legge di bilancio 2019, che ha finanziato le principali linee progettuali.

La dotazione prevista dal Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, previsto dall’art. 1, co. 140, L. 232/2016, ammonta ad euro 1.246.603.932 (DPCM di riparto del 21.7.2017) da erogarsi, nel periodo 2017-2032, e al quale attingono progetti differenti: in particolare, per quanto riguarda il processo penale telematico si segnala che le somme destinate al progetto ammontano ad euro 225.037.273 delle quali risultano impegnate finora euro 140.077.155.

 

ART. 12

(Modifiche al Titolo III del Libro III del codice di procedura penale)

 

Il criterio di delega in questione è volto «a colmare un vuoto di tutela dell’ordinamento processuale penale italiano messo in luce dalla Corte di Strasburgo (Corte edu, sez. I, 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia), la quale ha ritenuto l’Italia responsabile per aver violato l’art. 8, par. 2 CEDU, in una fattispecie in cui il ricorrente si era lamentato di non aver potuto beneficiare di alcun controllo giurisdizionale preventivo o a posteriori nei confronti di una perquisizione disposta in indagini a seguito della quale non era stato sequestrato alcun bene».

La previsione di uno specifico rimedio è stata circoscritta alla sola ipotesi interessata dalla pronuncia della Corte di Strasburgo, posto che, nei casi nei quali alla perquisizione segua un sequestro, è già disponibile il ricorso per riesame.

Al criterio di delega è stata quindi data attuazione intervenendo con tre distinte disposizioni modificative.

Il rimedio avverso il decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero è stato inserito in un nuovo articolo 252-bis c.p.p., collocato in chiusura del capo III del Titolo III del Libro III del codice e intitolato “Opposizione al decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero”.

La clausola di riserva che apre la disposizione («Fuori dei casi di cui all’articolo 252»), circoscrive l’operatività del rimedio ai soli casi in cui alla perquisizione non sia conseguito un sequestro.

Conformemente al criterio di delega, i soggetti legittimati alla proposizione del rimedio sono stati individuati nella persona sottoposta a indagini e in quella nei cui confronti la perquisizione sia stata disposta o eseguita.

Al riguardo, va notato che, in considerazione della natura impugnatoria del rimedio, ad esso potrà fare ricorso la persona sottoposta a indagini, che non sia stata al contempo destinataria diretta della perquisizione (o delle relative attività esecutive), solo allorquando sussista un suo concreto interesse a far valere l’illegittimità della perquisizione. Tuttavia, trattandosi di un requisito di natura generale (art. 568, co. 4, c.p.p.), è parso superfluo farne espressa menzione nel testo della norma.

Quanto ai motivi per i quali l’opposizione può essere proposta, pur rilevandosi che essi non risultano esplicitamente indicati in alcuna delle norme del codice che al rimedio in questione fanno riferimento (oltre all’art. 263, co. 5, si vedano gli artt. 233, co. 1-bis, 366, co. 2, 408, co. 3, 461, co. 1, 667, co. 4, 678, co. 1-ter, c.p.p.), è parso comunque opportuno precisare che – coerentemente con la ratio della sua introduzione – i vizi deducibili sono esclusivamente quelli che attengono ai presupposti sostanziali previsti dalla legge per l’effettuazione della perquisizione, solo in assenza dei quali l’ingerenza nelle libertà del singolo può definirsi “arbitraria”.

A tal fine, al comma 3 della nuova norma s’è previsto che il giudice debba «accoglie[re] l’opposizione quando accert[i] che la perquisizione è stata disposta fuori dei casi previsti dalla legge».

Con il comma 2 della norma, infine, l’esperibilità del rimedio è stata subordinata al rispetto di un termine di dieci giorni, mutuato dalle disposizioni in tema di riesame reale (art. 324), cui si è fatto riferimento anche per il dies a quo di decorrenza, che è stato individuato nel momento dell’esecuzione del provvedimento, ovvero nella diversa e successiva data in cui l’interessato abbia avuto conoscenza dell’avvenuta perquisizione.

Per i residui profili procedurali è stata testualmente riprodotta la formula impiegata nell’articolo 263, co. 5, del codice («possono proporre opposizione, sulla quale il giudice provvede a norma dell’articolo 127»), espressamente richiamato – come visto – nella Relazione della Commissione Lattanzi.

Con il presente intervento si inserisce, tra i temi assegnati alla delega, quello del necessario adeguamento dell’ordinamento interno ai principi del diritto internazionale in tema di perquisizione domiciliare disposta dal pubblico ministero, non seguita da sequestro, conformemente al contenuto della citata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 27 settembre 2018. A tal fine, è stata inserita la possibilità di impugnare il decreto di perquisizione o di convalida della perquisizione realizzato nell’espletamento di indagini preliminari e nell’acquisizione degli elementi probatori, quando tali operazioni non siano seguite da un provvedimento di sequestro. La norma, di natura precettiva ed ordinamentale, è diretta a fungere da strumento preventivo e deflattivo di perquisizioni illegittime o al limite della legittimità: l’organo inquirente e lo stesso G.I.P. saranno più attenti a tutelare le garanzie difensive del prevenuto e ridurranno, così, sensibilmente il ricorso ad uno strumento istruttorio implicante un certo dispendio di risorse umane e finanziarie, con contenimento, per alcune casistiche o tipologie di reati, dei costi processuali ed effetti di risparmi di spesa al momento non quantificabili.

Per tutto quanto indicato si rappresenta che la presente disposizione non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, stante la natura ordinamentale e procedimentale degli adempimenti connessi che potranno essere sostenuti con l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Art. 13

(Modifiche al Titolo I del Libro IV del codice di procedura penale)

 

Con la lettera a) si prevede l’inserimento della lettera i-bis al comma 1 dell’articolo 293 c.p.p., con la prospettiva di intervenire affinchè sempre nel’ambito dell’accesso ai programmi di giustizia riparativa l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria informino della possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa, il soggetto destinatario dell’esecuzione di una misura cautelare.

La lettera b) modifica l’articolo 294 c.p.p. intervendo sulle disposizioni relative all’interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare che si svolga fuori udienza (art. 141-bis), mettendo in atto i principi della delega che hanno imposto il passaggio dall’attuale equivalenza tra audio e video registrazione alla necessità di impiego in via prioritaria della seconda, sempre facendo salva  l’eventualità che manchino i mezzi necessari, ma imponendo in questo caso il ricorso alla perizia od alla consulenza tecnica, data la particolare delicatezza di un atto compiuto fuori udienza e nei confronti di persona in condizioni di particolare soggezione

Sul presupposto che la norma citata valga per ogni tipo di interrogatorio, compreso quello cd. di garanzia (art. 294 c.p.p.), quando condotto nei confronti di persona detenuta, si è ritenuto di innalzare la qualità della documentazione anche nei casi in cui sia applicata una misura non coercitiva, e sia ugualmente necessario procedere, appunto, all’interrogatorio di garanzia. Il testo proposto per il comma 6-bis della norma vale appunto in tal senso, pur escludendo l’indefettibilità della videoregistrazione alla luce del minor grado della costrizione subita dall’interessato in punto di libertà personale, e dunque lasciando, ove manchino le risorse, che si ricorra alla “garanzia minima” della fonoregistrazione, come tale introdotta dalla legge delega.

Con particolare riferimento in tema di interrogatorio della persona in stato di detenzione, qualora lo stesso non si svolga in udienza, come già illustrato, si segnala che l’intervento realizzato permette di disattendere ad attività ed incombenze del personale ausiliario e di cancelleria e di velocizzare i tempi dei procedimenti in relazione alla compiuta formazione degli elementi utilizzabili in sede dibattimentale ai fini della formazione della prova dichiarativa. Sotto il profilo finanziario, pertanto, l’intervento stesso non determina effetti onerosi, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo. Per maggior dettaglio si rinvia all’analisi finanziaria proposta per la modifica della disciplina speciale dell’art. 141 bis c.p.p.

Per quanto riguarda, invece, l’intervento richiesto dalla delega, diretto a “rivedere la disciplina della latitanza, di cui agli articoli 295 e 296 del codice di procedura penale, al fine di assicurare che la dichiarazione di latitanza sia sorretta da specifica motivazione circa l’effettiva conoscenza della misura cautelare e la volontà del destinatario di sottrarvisi”, si è proceduto sotto tre diversi aspetti.

Con la lettera c) si modifica per primo l’articolo 295 c.p.p. con un intervento che esplicita l’onere del giudice di valutare il verbale di vane ricerche e di disporre la prosecuzione delle ricerche quando quelle compiute non siano soddisfacenti.

Il secondo intervento sull’articolo  296 c.p.p. che, oltre ad imporre la necessità che il decreto di latitanza sia motivato, espressamente collega la dichiarazione di latitanza che consegue alla mancata esecuzione di un’ordinanza applicativa di misure cautelari, al fatto che siano indicati gli elementi che provano l’effettiva conoscenza della misura e la volontà di sottrarvisi (lettera d).

Infine, con un intervento che chiarisce il necessario raccordo tra esecuzione del provvedimento cautelare che ha dato causa alla dichiarazione di latitanza e il processo in corso, si è specificamente previsto che all’imputato nel caso in cui venga rintracciato dovrà avere notizia della data dell’udienza.

Per quanto concerne i profili di natura finanziaria, è opportuno evidenziare la neutralità della revisione della disciplina della latitanza evidenziando, anche in questa sede, la priorità assunta dal criterio dell’effettiva conoscenza sia per quanto attiene la citazione a giudizio che per ciò che riguarda la misura cautelare al fine di verificare rispettivamente la rinuncia dell’imputato al suo diritto a comparire al dibattimento, che la volontà del destinatario di sottrarvisi. Per il resto, le modifiche intervenute agli articoli 295 e 296 c.p.p. sono di natura procedurale e non determinano oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, in quanto nel caso dell’art. 295 c.p.p., qualora il giudice rinnovi l’ordine ad eseguire ulteriori ricerche per reperire la persona, tali attività rientrano nei compiti istituzioni della polizia giudiziaria e delle altre forze dell’ordine investite dell’ottemperanza, le quali già svolgono ordinariamente tali incombenze che, pertanto, saranno fronteggiate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Riguardo, infine, all’art. 296 c.p.p., la notifica della data di udienza al latitante nei cui confronti sia in esecuzione il provvedimento da cui è scaturito il suo status processuale, risponde al principio costituzionalmente garantito del diritto di difesa e è attuata secondo le forme previste dalle nuove o modificate disposizioni attuative del principio di delega di cui all’art. 1, comma 6 della L. 134/2021 (art. 148 e artt. 156 e ss. c.p.p.) con modalità che sono già ampiamente in uso nel vigente sistema.    

L’intervento inserito alla lettera e) apporta modifiche all’articolo 300 c.p.p., dettando una nuova definizione di pena detentiva breve – e quindi sostituibile ai sensi della novellata l. n. 689/1981 – determinata dalla estensione dei suoi confini fino a quattro anni di pena inflitta in concreto, imponendo, altresì, la previsione di norme di coordinamento con il sistema delle misure cautelari. Si può infatti frequentemente verificare il caso in cui venga condannato a pena sostitutiva un imputato sottoposto a una di tali misure, anche detentive. Inoltre, anche la condanna a pena sostitutiva è compatibile con una quota residua di pericolo di reiterazione di condotte delittuose, ai sensi dell’art. 274, co. 1 lett. c) c.p.p., posto che la stessa legge delega prevede che il giudice detti “opportune prescrizioni” che assicurino la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati (art. 1, co. 1 17, lett. c) l. n. 134/2021). Tuttavia, tali prescrizioni potranno operare solo con l’esecuzione della condanna definitiva e la sottoposizione agli obblighi, lasciando potenzialmente privo di cautela specifica l’arco di tempo intermedio tra la condanna non definitiva e la sua esecuzione, nel caso in cui si prevedesse l’immediata ed automatica caducazione delle misure cautelari.

La condanna a pena sostitutiva della pena detentiva non osta inoltre alla prosecuzione di una misura cautelare, poiché lo stesso art. 57 l. n. 689/1981 dispone che “per ogni effetto giuridico, la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita”, replicando nel contenuto la corrispondente norma previgente. Inoltre, la pena detentiva edittale può sempre riemergere, sia nel corso del processo in caso di riforma in pejus in appello, sia successivamente in corso di esecuzione, nei casi di revoca previsti dai novellati artt. 66 e 72 l. n. 689/1981.

In primo luogo, in ossequio al principio di proporzione tra pena irroganda o irrogata e regime cautelare, si pone il problema della compatibilità della prosecuzione di misure cautelari, soprattutto se custodiali, con la condanna a pena sostitutiva, considerando che solo la pena sostitutiva maggiormente afflittiva della semilibertà comporta una quota di esecuzione carceraria; la pena della detenzione domiciliare comporta un momento restrittivo della libertà personale extra carcerario; mentre nelle altre pene sostitutive non vi è alcuna restrizione della libertà personale di natura detentiva.

In secondo luogo, si pone il problema della collocazione sistematica della nuova disciplina, poiché il tema non afferisce direttamente alle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., né ai criteri di scelta delle misure nella fase genetica, di cui all’art. 275 c.p.p.; a ben vedere, inoltre, non sono esattamente pertinenti nemmeno gli istituti della revoca o della sostituzione delle misure cautelari, di cui all’articolo 299 c.p.p., legati al venir meno dei presupposti di merito che sostengono il provvedimento restrittivo.

Si è ritenuto, invece, che l’estinzione delle misure per effetto della pronuncia di determinate sentenze, di cui all’art. 300 c.p.p., sia l’istituto più adeguato a contenere la nuova disciplina che si va delineando, poiché anche nel caso in esame si ha la pronuncia di una condanna che per la sua specificità è o può essere incompatibile con la prosecuzione della misura cautelare in corso di esecuzione.

La diversità di natura delle pene sostitutive, con riguardo alla modulazione della restrizione della libertà, e l’articolazione delle misure cautelari generano tuttavia problematiche più complesse di quelle affrontate e risolte dagli schemi fissi di incompatibilità e quindi di inefficacia contemplati dall’art. 300 c.p.p.; si è pertanto reso necessario prevedere un assetto di regole specifiche e sufficientemente elastiche per disciplinare in modo semplice una materia molto complessa. La mera estinzione delle misure cautelari incompatibili con la condanna a pena sostitutiva – come sopra anticipato – avrebbe potuto lasciare un vuoto di tutela cautelare anche in casi di residua pericolosità sociale, se non si fossero previste regole di graduazione dei provvedimenti cautelari.

Con l’introduzione del nuovo comma 4 bis dell’articolo 300 c.p.p., si è pertanto siglata l’incompatibilità della prosecuzione delle misure cautelari custodiali, in caso di condanna a pena sostitutiva non detentiva prevedendo che quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna o sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444, ancorché sottoposta a impugnazione, alla pena pecuniaria sostitutiva o al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, di cui alla l. n. 689/1981, non può essere mantenuta la custodia cautelare.

Si è previsto che la condanna alla pena della detenzione domiciliare sostitutiva sia incompatibile solo con la misura della custodia cautelare in carcere, disponendo che “negli stessi casi, quando è pronunciata sentenza di condanna o sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 alla pena della detenzione domiciliare sostitutiva, non può essere mantenuta la custodia cautelare in carcere.

In tal modo, si è voluto risolvere il problema delle esigenze cautelari residue, da un lato, non prevedendo l’estinzione della misura tout court, ma soltanto il divieto di prosecuzione delle misure radicalmente incompatibili; dall’altro, e in tutti i casi, si è ribadita la possibilità di graduare il regime cautelare alla condanna in concreto, richiamando per intero tutti i poteri e le condizioni di sostituzione della misura in corso, di cui all’art. 299 c.p.p., chiudendo la nuova norma con il seguente richiamo: In ogni caso, il giudice può sostituire la misura in essere con un’altra meno grave di cui ricorrono i presupposti, ai sensi dell’articolo 299.

Le scelte dettate dalla complessità del problema, e soprattutto dalla sua peculiarità rispetto agli istituti già esistenti, hanno imposto anche l’integrazione della rubrica dell’articolo 300 c.p.p. con l’inserimento dell’espressione “o sostituzione”, che rappresenta esattamente gli interventi sostitutivi di cui all’articolo 299 da ultimo citato.

La disposizione in esame ha natura procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, essendo volta a prevedere un sistema di coordinamento normativo con le disposizioni relative alle misure cautelari.

L’introduzione di una udienza successiva a quella in cui il giudice dà lettura del dispositivo di condanna a pena detentiva entro i quattro anni, e quindi sostituibile ai sensi della legge 24 novembre 1981 n. 689, per le ragioni e gli scopi dettagliati nella apposita relazione all’articolo 545 bis c.p.p., a cui si rinvia, impone la necessità di stabilire una nuova causa di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, prevista dall’articolo 304 c.p.p. (lettera f).

La norma che disciplina la condanna a pena sostitutiva (art. 545 bis c.p.p.) prevede la sospensione del processo, se l’imputato o il suo difensore manifestano la volontà di non opporsi alla sostituzione e non è possibile decidere immediatamente. In tal caso, il giudice fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni. Tale termine è necessitato dall’esigenza di verificare la possibilità concreta di sostituire la pena e di consentire alla parte stessa e all’Ufficio esecuzione penale esterna di intervenire per definire i contorni e i contenuti della pena sostitutiva da sottoporre al giudice.

La nuova causa di sospensione si inserisce pertanto a pieno titolo nel novero delle necessità processuali dettate dalla complessità dei fatti o da oggettive cause impeditive della prosecuzione del processo, che il giudice non può governare discrezionalmente, e deve essere espressamente prevista dalla legge per il suo carattere eccezionale e incidente sulla libertà personale. Da qui, la necessità di una norma ad hoc ad integrazione del catalogo di cui all’art. 304, co. 1 c.p.p. attraverso l’introduzione della nuova lettera c ter).

Quanto alla durata della sospensione, pur essendo previsti termini elastici commisurati all’esigenza concreta per le altre cause di sospensione, si è ritenuto opportuno limitare detta sospensione alla durata del termine ordinatorio di sessanta giorni, per non fare gravare sull’imputato in custodia cautelare eventuali ed incontrollabili ritardi nella definizione della pena sostitutiva derivanti dall’intervento dell’Ufficio di esecuzione penale esterna.

La disposizione in esame ha natura procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, volta ad integrare la disciplina della sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare (art. 303 c.p.p.), con l’ulteriore casistica relativa all’eventuale sostituzione della pena detentiva con una pena sostitutiva ai sensi del modificato articolo 53 della legge 689/1981.

Con la lettera g) solo apparentemente analoga risulta la modifica apportata alla procedura di riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva, per la quale all’imputato che ne faccia richiesta è riconosciuto «il diritto di comparire personalmente» (art. 309, co. 8-bis, c.p.p., previsione che è stata adattata anche all’ipotesi in cui la legge imponga la partecipazione a distanza dell’imputato).

La lettera h) modifica il comma 3 dell’articolo 311 c.p.p. in materia di ricorso per cassazione, stabilendo che si osservano le disposizioni relativamente alla forma per presentare l’impugnazione prevista dall’articolo 582 c.p.p.

Le specifiche misure introdotte sono dirette ad assicurare il compiuto svolgimento dei processi penali mediante la più ampia estensione possibile della modalità di partecipazione agli atti e alle udienze nella fase delle indagini preliminari, anche quelle camerali e del processo di esecuzione, attraverso collegamenti audiovisivi a distanza, idonei a salvaguardare il principio del contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti coinvolte.

Si realizzano in tal modo obiettivi di snellimento ed efficientamento delle procedure tali da agevolare la funzionalità degli uffici giudiziari e l’operatività degli organi di polizia giudiziaria nella fase di indagini preliminari, attraverso la gestione delle attività valorizzando istituti collaudati nel processo telematico, e nelle diverse fasi emergenziali pandemiche, già attuati con un considerevole sforzo organizzativo e di adeguamento dei sistemi informativi dell’amministrazione giudiziaria.Per maggiori dettagli si rinvia alle valutazioni d’impatto finanziario relative alle disposizioni in materia di partecipazione a distanza.

Art. 14

(Modifiche al Titolo II del Libro IV del codice di procedura penale)

 

L’articolo 14 interviene alla lettera a) sul comma 1 dell’articolo 316, partendo dal presupposto che l’abbandono del modello civilistico di esecuzione della pena pecuniaria non pagata induce, coerentemente, ad escludere l’applicabilità del sequestro preventivo a garanzia del pagamento della pena pecuniaria. Si spiega così l’intervento soppressivo realizzato nel primo comma. Le statistiche sull’esecuzione della pena pecuniaria, d’altra parte, mostrano come tale strumento, funzionale al pignoramento di beni e all’esecuzione forzata, non abbia verosimilmente prodotto risultati particolarmente apprezzabili. Si tratta di una disposizione che è diretta a preservare, innanzitutto, la garanzia dello Stato del pagamento delle spese processuali che sono a carico dell’imputato per congelare, con provvedimento di natura cautelare, somme di denaro o beni mobili o immobili nella sua disponibilità fino alla concorrenza del credito privilegiato vantato dall’erario, che è separato e svincolato da condanne al pagamento di eventuali pene pecuniarie. La norma realizza effetti positivi per la finanza pubblica, in quanto assicura che vengano, in primis, soddisfatti sempre i crediti dello Stato per le spese procedurali, mentre induce il condannato al pagamento della pena pecuniarie con le altre modalità previste dal presente decreto attuativo.

Con la lettera b) si interviene sull’articolo 317 c.p.p. al comma 4, inserendo una precisazione sul fatto che gli effetti del sequestro cessano quando la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere non è più soggetta a impugnazione, salvo quanto previsto dall’articolo 578, comma 1-ter.

La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto si tratta di necessari interventi di coordinamento normativo.

Con la lettera c) si apportano modifiche ai commi 2 e 3 dell’articolo 320 c.p.p. ricalcando lo stesso principio sancito per l’articolo 316 c.p.p.  secondo il quale l’abbandono del modello civilistico di esecuzione della pena pecuniaria non pagata induce, coerentemente, ad escludere l’applicabilità del sequestro preventivo a garanzia del pagamento della pena pecuniaria. Si spiega così l’intervento soppressivo realizzato nel primo e nel secondo comma. Si tratta di una disposizione che è diretta a preservare, innanzitutto, la garanzia dello Stato e della parte civile al pagamento delle spese processuali e procedurali che sono a carico dell’imputato una volta emessa la sentenza di condanna. Ciò al fine di congelare, con provvedimento di natura cautelare, somme di denaro o beni mobili o immobili nella sua disponibilità fino alla concorrenza del credito privilegiato vantato dall’erario e dalla predetta parte civile, che è separato e svincolato da condanne al pagamento di eventuali pene pecuniarie. Parimenti a quanto sostenuto riguardo all’intervento sull’articolo 316, si rappresenta che la norma realizza effetti positivi per la finanza pubblica, in quanto assicura che vengano, in primis, soddisfatti sempre i crediti dello Stato per le spese procedurali, mentre induce il condannato al pagamento della pena pecuniarie con le altre modalità previste dal presente decreto attuativo.

ART. 15

(Modifiche al Titolo II del Libro V del codice di procedura penale)

 

L’art. 1 comma 9 lett. p) della legge delega affida al legislatore delegato il compito di definire la nozione di notizia di reato, stabilendo i criteri in base ai quali il pubblico ministero è tenuto a provvedere alla relativa iscrizione nel registro.

Tale definizione assume particolare importanza al duplice fine di assicurare certezza e omogeneità a un atto che segna la decorrenza del termine delle indagini preliminari e di offrire parametri oggettivi di riferimento al giudice che – come previsto dalle successive lettere q) e r) della delega – viene ora chiamato a valutare la tempestività dell’iscrizione.

Come già osservato nella relazione al testo della legge delega, nella generale prospettiva di introdurre efficaci forme di controllo sulla gestione dei tempi delle indagini, viene altresì perseguito l’obiettivo di sottrarre il momento delicato di iscrizione della notizia di reato – intesa nella sua componente oggettiva e soggettiva – a un duplice rischio: da un lato, quello di considerare tale atto un mero adempimento formale, con conseguente possibile iscrizione di notizie di reato generiche (che dunque propriamente tali non sono) e di soggetti raggiunti da meri sospetti, con possibili effetti pregiudizievoli nei loro confronti; dall’altro, il rischio speculare di richiedere, ai fini dell’iscrizione, requisiti troppo stringenti, con la conseguenza di ritardare sia il termine di decorrenza delle indagini, sia l’attivazione delle garanzie riconosciute alla persona sottoposta alle indagini. A tale riguardo, in particolare, va rilevato che il più generale diritto alla conoscenza attiva di indagini a proprio carico dovrebbe essere inteso in senso funzionale al diritto di difesa ed al diritto di essere informato in termini brevi circa la natura ed i motivi dell’accusa, coerentemente con l’art. 6 par. 3, lett. a) CEDU e art. 14 n. 3 lett. a) del patto internazionale sui diritti civili e politici, così come in ambito nazionale debba valere l’art. 111, co. 3, Cost., anche al fine di assicurare “le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni” nel corretto allineamento con l’art. 1 lett. b) d. lgs. 1° luglio 2014 n. 101, recante attuazione della Direttiva 2012/13/UE sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, con specifico richiamo al considerando 28. Pertanto, considerato che l’iscrizione è atto a struttura complessa, nel quale convivono una componente “oggettiva” – qual è la configurazione di un determinato fatto (“notizia”) come sussumibile nell’ambito di una determinata fattispecie criminosa – e una componente “soggettiva”, rappresentata dal nominativo dell’indagato, dalla cui individuazione soltanto i termini cominciano a decorrere, si sono individuati, per un verso, i presupposti per l’iscrizione nel registro delle notizie di reato e, per altro verso, i requisiti necessari per l’iscrizione del nominativo della persona – se identificata – alla quale la notizia stessa debba essere attribuita.

Quanto al profilo oggettivo, la notizia di reato è stata definita – nel comma 1 del novellato art. 335 c.p.p. – come la rappresentazione di un fatto caratterizzato da determinatezza e non inverosimiglianza e riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice. Le circostanze di tempo e di luogo del fatto non sono indispensabili a integrare il requisito della determinatezza: dunque, esse sono indicate solo ove risultino; ovviamente, ove dovessero essere individuate in epoca successiva, l’iscrizione andrà in tal senso integrata (lettera a).

Quanto all’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito (attualmente disciplinata all’interno del vigente comma 1), i requisiti sono precisati nel nuovo comma 1-bis dell’art. 335 c.p.p.: il nominativo va iscritto quando, contestualmente all’iscrizione della notizia di reato o in epoca successiva, risultino “indizi a suo carico”. Tale espressione, mutuata per coerenza sistematica dall’art. 63 c.p.p., vale ad escludere sia la sufficienza di meri sospetti, sia la necessità che sia raggiunto il livello di gravità indiziaria.

Da ultimo, con il nuovo comma 1-ter, è stato attribuito al pubblico ministero, ove non si sia provveduto tempestivamente alle iscrizioni previste dai due commi precedenti, il potere di indicare la data anteriore a partire dalla quale l’iscrizione deve intendersi effettuata. Tale previsione, che traduce in norma di legge una prassi già attualmente seguita da alcune Procure, ha l’obiettivo di consentire al pubblico ministero, ove riconosca un ritardo delle iscrizioni, di porvi rimedio senza la necessità di attendere l’attivazione del meccanismo giurisdizionale previsto dalle successive lettere q) e r) della delega.

Il presente intervento – in ordine al registro della notizia di reato –  reso necessario, al fine di soddisfare pienamente le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni, realizza effetti di focalizzazione nell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, senza determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.  

Nel perseguire l’intento del criterio di delega, la lettera b) inserisce i nuovi articoli 335-bis, 335-ter e 335-quater finalizzati a circoscrivere all’ambito del procedimento penale la rilevanza della valutazione compiuta dal P.M. al momento dell’iscrizione della persona sottoposta a indagini nel registro di cui all’articolo 335 del codice.

Si tratta, senz’alcun dubbio, di uno dei profili più importanti e innovativi della riforma.

Proprio in ragione di ciò, si è ritenuto che il principio enunciato nella delega meritasse d’essere riprodotto in un apposito articolo del codice di rito. La disposizione è stata così inserita all’articolo 335-bis c.p.p., sotto la rubrica “Limiti all’efficacia dell’iscrizione ai fini civili e amministrativi”.

Allo stesso tempo, è parso tuttavia necessario accordare analogo rilievo alla definizione dell’esatto ambito di operatività di detto principio, che la norma di delega individua ricollegando il divieto di effetti extrapenali pregiudizievoli alla «mera iscrizione» del nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato.

Essenzialmente alla medesima finalità di esatta individuazione della portata del nuovo precetto normativo risponde, altresì, l’ulteriore intervento operato attraverso l’inserimento dell’articolo 110-quater disp. att. che, come si evince testualmente già dalla rubrica, è volto a regolare i «[r]iferimenti alla persona iscritta nel registro delle notizie di reato contenuti nelle disposizioni civili e amministrative».

In proposito, giova premettere che, il legislatore delegato avrebbe dovuto «rived[ere], rimuovendole, le ipotesi normative in cui dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato discenda un effetto pregiudizievole per l’interessato».

In fase di attuazione del criterio di delega si è, tuttavia, dovuto prendere atto di come, in realtà, la dichiarata intenzione “soppressiva” non si sia tradotta in una direttiva di delega volta ad autorizzare interventi di tipo abrogativo sulle norme in questione.

Tali norme, d’altro canto, oltre che non esaustivamente censibili ed analizzabili nei ristretti termini disponibili, risultano talora strutturate in modo da accordare rilievo alla sola posizione dell’«indagato» o della «persona sottoposta a procedimento penale» (v., rispettivamente, artt. 463-bis cod. civ. e 12, legge 7 luglio 2016, n. 122, in tema di indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti), senza menzionare quella dell’«imputato», e cioè del soggetto nei cui confronti il P.M. si sia determinato ad esercitare l’azione penale: sicché, in questi casi, l’intervento “ablativo” (peraltro solo incidentalmente) ipotizzato nel citato passo della Relazione, interdicendo effetti pregiudizievoli in relazione a valutazioni ben più pregnanti (e, addirittura, espresse da un giudice: si pensi all’applicazione di una misura cautelare personale), avrebbe finito per esorbitare lo stesso ambito di operatività delineato in via generale per il principio di garanzia introdotto dalla delega.

Ebbene, è alla stregua di tali considerazioni che il nuovo articolo 110-ter disp. att., nel suo inciso iniziale, oltre a riprendere la possibilità di «autonoma valutazione degli indizi che hanno determinato l’iscrizione», nonché «delle ulteriori circostanze rilevanti» (già contemplata dal secondo periodo dell’articolo 335-bis), opera una sorta di generale “conversione” del riferimento alla mera sottoposizione ad indagini, cui vengono sostituiti snodi procedimentali più pregnanti, quali l’applicazione di una misura cautelare personale o l’avvenuto esercizio dell’azione penale: al ricorrere di tali evenienze, quindi, gli effetti pregiudizievoli si produrranno – secondo il disposto della norma – «comunque», a significare che, in tal caso, non occorre alcuna (ulteriore) valutazione di “indizi” o di altre circostanze rilevanti.

Le presenti disposizioni hanno natura ordinamentale e procedurale in quanto stabiliscono la neutralizzazione degli effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo prodotti dalla mera iscrizione nel registro di cui articolo 335 c.p.p. e, pertanto, dalla loro attuazione non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Per sviluppare poi i principi indicati dall’art. 1 comma 9 lettera r) della legge delega, l’articolo 335-ter c.p.p. riprende e allarga un meccanismo che il codice già conosceva. L’art. 415, commi 2, secondo periodo, e 2-bis (dei quali si propone l’abrogazione) prevedeva infatti che, nel procedimento a carico d’ignoti, il giudice per le indagini preliminari a cui fosse chiesta l’archiviazione ovvero l’autorizzazione a proseguire le indagini, qualora avesse ritenuto che il reato fosse ascrivibile ad una persona già individuata, ordinasse d’iscriverne il nome nell’apposito registro. Il precetto viene esteso lungo due direzioni: da un lato, il giudice potrà emettere l’ordine non soltanto in quelle due circostanze, ma tutte le volte che il suo intervento sia sollecitato (si pensi, a esempio, a una richiesta d’intercettazione); dall’altro, la disposizione diventa applicabile anche nei procedimenti contro indagati noti, consentendo al giudice di individuare ulteriori persone da iscrivere nel registro, oltre a quelle che già vi figurano.

Conviene precisare che la prerogativa giudiziale riguarda, in questo caso, unicamente soggetti a cui venga addebitato quello stesso fatto che forma oggetto della richiesta indirizzata al giudice; ove si trattasse di fatti illeciti diversi, potrebbe semmai venire in gioco la disciplina sull’obbligo di denuncia.

Il giudice per le indagini preliminari, peraltro, non sempre è informato dei soggetti iscritti nel registro di cui all’art. 335 e, quindi, potrebbe trovarsi in difficoltà nell’esercitare il potere. Per questa ragione s’è previsto che, ogni qual volta avanzi una richiesta, il pubblico ministero debba anche indicargli la notizia di reato ed i soggetti ai quali è ascritta (art. 110-ter n. att. c.p.p.); dovrebbe quindi venir meno la prassi di indicare un unico responsabile, seguito dalla dicitura «ed altri». L’ordine è adottato «sentito il pubblico ministero»; ciò dovrebbe prevenire l’eventualità di iscrizioni che, alla luce di atti di cui il giudice non abbia avuto conoscenza, non appaiano realmente necessitate.

Sebbene sia teoricamente possibile che il giudice emetta l’ordine nel momento stesso in cui emergono gli indizi a carico del soggetto da iscrivere (si pensi al caso in cui un testimone renda dichiarazioni accusatorie nel corso d’un incidente probatorio), in concreto – di regola – la decisione si baserà sulla valutazione di atti anteriori al provvedimento giudiziale, cosicché bisognerà anche stabilire il momento a partire dal quale decorrono i termini delle indagini. Quanto al soggetto cui attribuire questo compito, si è ritenuto di affidarlo non al giudice ma al pubblico ministero. La soluzione è parsa coerente con l’impianto codicistico, che riserva appunto al pubblico ministero la prima decisione sulla data in cui è emersa la notitia criminis, lasciando al giudice solo un potere di controllo postumo. D’altra parte, almeno se si ritiene che si tratti sostanzialmente d’una retrodatazione, l’assetto opposto sarebbe entrato in attrito con la legge delega, secondo cui la retrodatazione può essere disposta soltanto su domanda.

Il decreto motivato del giudice avrà dunque riguardo al nominativo della persona da iscrivere (e, nel caso d’una pluralità di fatti investigati, al reato che gli si attribuisce), ma non alla data in cui l’iscrizione sarebbe dovuta avvenire. Naturalmente, qualora l’interessato ritenesse che la data individuata dal pubblico ministero non fosse corretta, potrebbe innescare il meccanismo di controllo disegnato dall’art. 335-quater.

Si rappresenta che il presente intervento si pone in linea con gli intenti di miglioramento e semplificazione procedurale perseguiti dalla legge delega in termini di necessaria individuazione delle persone sottoposte ad indagine, superando le criticità riscontrate nell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. La disposizione ha carattere definitorio e procedurale e, pertanto, non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica.

Nel costruire l’istituto in materia di accertamento della tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, si è partiti dalla constatazione che la legge delega non consente di costringere sempre all’interno del procedimento principale il nuovo strumento di garanzia. Lo si desume dal fatto che la richiesta difensiva dev’essere avanzata entro un termine che decorre «dalla data in cui l’interessato ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l’anticipazione dell’iscrizione» (art. 1 comma 9 lettera q)  della legge 27 settembre 2021, n. 134): un dies a quo individuato in questo modo potrebbe anche trovarsi nel bel mezzo dell’indagine (si pensi, per limitarsi ad un unico esempio, all’ipotesi in cui l’interessato venga a conoscenza dell’atto che può fondare l’istanza a seguito di un deposito disposto in base all’art. 366), ossia in un momento  in cui mancherebbe lo “spazio” per avanzare la domanda. È stato perciò indispensabile introdurre un procedimento incidentale ad hoc.

Il nuovo incidente è regolato nel comma 6 dell’art. 335-quater secondo linee che puntano a non appesantire: in questa chiave si spiegano il mancato coinvolgimento della persona offesa e le cadenze del contraddittorio, che per regola sarà meramente cartolare; è stata tuttavia fatta salva l’eventualità in cui il giudice senta il bisogno d’approfondire alcuni aspetti fissando un’udienza camerale.

L’introduzione d’un procedimento incidentale di sindacato sulla tempestività dell’iscrizione, potenzialmente idoneo a produrre effetti di rilievo sulla base cognitiva del giudizio, ha posto problemi di coordinamento con il procedimento principale e con altri procedimenti incidentali che siano aperti o imminenti: un coordinamento necessario per ragioni di economia ed anche di razionalità, dovendosi evitare che la valutazione sia sottratta al giudice competente a decidere sul merito e, al tempo stesso, prevenire il rischio di decisioni distoniche.

Anche in questo caso, la questione è stata affrontata in un’ottica di semplificazione: se i presupposti della domanda maturano quando è in corso l’udienza preliminare o il dibattimento, non c’è bisogno d’innescare l’incidente ad hoc; si può e si deve discutere tutto all’interno dell’udienza aperta; in tal senso provvede il comma 7.

È possibile, per altro verso, che sorgano esigenze di raccordo tra lo specifico procedimento incidentale (soggetto a termini piuttosto serrati) ed altri incidenti. S’è dunque deciso di lasciare all’interessato la scelta della sede più opportuna (comma 5), vietando tuttavia che la domanda possa essere avanzata in entrambe: salvi fatti sopravvenuti, l’istanza può infatti essere presentata una volta sola (comma 3, ultimo periodo).

A pena d’inammissibilità, la domanda deve indicare le ragioni che la sorreggono e gli atti del procedimento da cui è desunto il ritardo (comma 1); il primo requisito era imposto dalla legge delega; il secondo serve a semplificare il controllo del giudice (che troverà già segnalati gli atti da esaminare) e ad evitare uno stillicidio di istanze: come già s’è accennato, nuove domande sono ammesse, ma solo se fondate su atti diversi, in precedenza non conoscibili (comma 3 ultimo periodo).

L’istanza dev’essere avanzata entro venti giorni dal momento in cui l’interessato ha avuto facoltà di prendere conoscenza dell’atto che giustifica la retrodatazione; è prevedibile che, nella maggior parte dei casi, il dies a quo coinciderà con l’avviso di conclusione delle indagini, ma potrebbe anche scattare prima o dopo (per esempio qualora, durante il dibattimento, il pubblico ministero “travasasse” un atto proveniente da un diverso procedimento, e proprio da quell’atto l’imputato scoprisse d’aver diritto alla retrodatazione).

Secondo la legge delega, la retrodatazione viene disposta quando il ritardo è «inequivocabile» e «ingiustificato». Il primo termine è netto ed è perciò rimasto com’era; il secondo è invece generico; lasciarlo avrebbe consegnato alla giurisprudenza un ambito di discrezionalità troppo ampio nell’individuazione delle cause che giustificano il ritardo. In proposito, si è ritenuto di limitare quest’ambito, facendo riferimento (comma 2) alla complessità della diagnosi della notitia criminis (si pensi ad esposti molto lunghi, oppure a complicati collegamenti fra varie comunicazioni, intercettate a mesi di distanza l’una dall’altra) ed escludendo invece altre cause, quali, in particolare, il sovraccarico dell’ufficio inquirente.

I commi finali della disposizione regolano il sindacato sulla decisione del giudice: esso può essere sollecitato sia dall’imputato (nel caso l’istanza sia stata rigettata), sia dal pubblico ministero (nel caso sia stata accolta). Per entrambe le ipotesi – pur ritenendosi necessario, appunto, che la parola finale sul tema sia riservata al giudice chiamato a definire la regiudicanda – si è avvertita l’esigenza concorrente di semplificare la procedura e di stabilizzare al più presto la base cognitiva del giudizio. Di qui la regola (comma 8) secondo cui la parte interessata deve sollecitare il sindacato sulla prima decisione entro determinati termini, stabiliti a pena di decadenza.

Al riguardo, si segnala, che con le presenti disposizioni si intende perseguire obiettivi di accelerazione e controllo degli adempimenti connessi all’iscrizione nel registro degli indagati in un’ottica di semplificazione dell’attività d’indagine e di garanzia della parte sottoposta alle indagini. Attesa la natura procedurale e ordinamentale dell’intervento si segnala che dallo stesso non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

ART. 16

(Modifiche al Titolo III del Libro V del codice di procedura penale)

 

 

Nell’ottica dei profili economico-finanziari, si rileva che le modifiche intervenute sull’articolo 344-bis c.p.p. a seguito della delega contenuta nella legge 134/2021 sulla materia del processo in assenza dell’imputato sono dettate dalla necessità di rendere più efficace e aderente ai principi di garanzia di effettiva conoscenza da parte del prevenuto della pendenza del giudizio a suo carico, comunque garantendo – in ogni modo – la partecipazione dell’interessato nel caso in cui questi sia incolpevolmente impossibilitato a presenziare all’udienza nel rispetto della volontà del medesimo e  del diritto di difesa costituzionalmente garantito.

La disposizione in esame ha natura procedurale e pertanto non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

 

 

ART. 17

(Modifiche al Titolo IV del Libro V del codice di procedura penale)

 

La legge delega impone che l’imputato abbia l’obbligo di indicare non solo il domicilio dichiarato o eletto, ma anche i recapiti telefonici o telematici al fine di agevolare lo svolgimento del procedimento giudiziario, ma non appare chiarire se il recapito telefonico e telematico debba essere “proprio” e quindi oggetto di titolarità formale da parte dell’imputato (come invece previsto ai fini della dichiarazione o elezione di domicilio, nel periodo successivo) o nella mera disponibilità dell’indagato/imputato; inoltre, non si fa cenno, per l’indirizzo telematico, all’aggettivo “idoneo”.

Raffrontando detto obbligo con quanto previsto nel periodo successivo, in relazione alla “facoltà di dichiarare domicilio ai fini delle notificazioni anche presso un proprio idoneo recapito telematico”, si è quindi ritenuto che l’interpretazione corretta e più aderente al dettato della legge delega, fosse quella di ritenere che l’obbligo di tale indicazione sia cosa distinta dalla facoltà di indicare un proprio idoneo indirizzo telematico ai fini delle notificazioni e che, pertanto, tale obbligo consista nell’indicare un riferimento telefonico o telematico (non necessariamente propri, ma anche di terzi di cui si abbia la mera disponibilità), che  dovrebbero servire ai fini del rintraccio dell’indagato/imputato in caso di urgenza.

Ove il recapito telematico risponda ai requisiti di cui al novellando art. 148, comma 1 (proprio e idoneo), lo stesso potrebbe anche rilevare ai fini delle notificazioni ordinarie, ma solo nel caso della indicazione volontaria (come dichiarazione di domicilio) del recapito telematico da parte dell’imputato. Per questa ragione si è ritenuto di non inserire l’obbligo dell’imputato di “indicare anche i recapiti telefonici e telematici di cui ha la disponibilità” nelle norme strettamente riguardanti le notifiche, al fine di non creare sovrapposizione con le disposizioni che attengono invece alla dichiarazione o elezione di domicilio, alla sua valenza prioritaria nella scelta del luogo dove eseguire le notificazioni, ed alle conseguenze previste dall’art. 161, comma 4.

Al fine di dare attuazione a questa parte della legge delega, contenuta all’art. 1, numero 6, lett. a), primo periodo, detto obbligo è stato pertanto inserito nel comma 3 dell’articolo 349 c.p.p..

Il citato comma 6 dell’articolo 1 in esame, raccoglie, come anticipato, i criteri e i principi cui devono ispirarsi i decreti attuativi della presente delega in materia di notificazioni degli atti del processo penale telematico in modo da garantire la più celere e snella circolazione delle comunicazioni giudiziarie. In tale ottica, pertanto, il principio cardine cui ispirare l’intera normativa è quello della “reperibilità”: vale a dire che l’imputato a piede libero deve, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, fornire i propri recapiti telefonici e telematici. In tal senso con la lettera a) è proposta la modifica dell’articolo 349 c.p.p., in quanto è previsto che il soggetto interessato ha l’obbligo di dichiarare, ai fini di qualsivoglia notificazione degli atti processuali, “il recapito della casa di abitazione, del luogo in cui esercita abitualmente l’attività lavorativa e dei luoghi in cui ha temporanea dimora o domicilio, oltre che ad indicare i propri recapiti telefonici o indirizzi di posta elettronica”.

Si tratta di una disposizione diretta a velocizzare l’iter processuale puntando allo snellimento degli adempimenti degli organi e degli uffici deputati alle notificazioni giudiziarie (ufficiali giudiziari, gestori di servizi postali), nonché delle cancellerie penali, che potranno evadere le notifiche reperendo l’imputato nei luoghi indicati e avvertendolo dell’avvenuta notifica a persona diversa, attraverso avviso di cortesia effettuato anche a mezzo telefono o per posta elettronica certificata. Per tale motivazione la presente disposizione, completando i richiami del luogo di rinvenimento del destinatario non è suscettibile di determinare oneri a carico della finanza pubblica, ma al contrario sono idonee a realizzare possibili risparmi di spesa, allo stato non quantificabili.

La lettera b) del comma 1 del presente articolo, inserendo all’articolo 350 c.p.p. il nuovo comma 4-bis,  prevede che per l’attività della polizia giudiziaria, in aggiunta all’ipotesi appena ricordata, si è prevista la possibilità di partecipazione a distanza per l’assunzione delle sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini.

Come ricordato nella Relazione della Commissione Lattanzi, il criterio di delega in questione è volto «a colmare un vuoto di tutela dell’ordinamento processuale penale italiano messo in luce dalla Corte di Strasburgo (Corte edu, sez. I, 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia), la quale ha ritenuto l’Italia responsabile per aver violato l’art. 8, par. 2 CEDU, in una fattispecie in cui il ricorrente si era lamentato di non aver potuto beneficiare di alcun controllo giurisdizionale preventivo o a posteriori nei confronti di una perquisizione disposta in indagini a seguito della quale non era stato sequestrato alcun bene».

La previsione di uno specifico rimedio è stata circoscritta alla sola ipotesi interessata dalla pronuncia della Corte di Strasburgo, posto che, nei casi nei quali alla perquisizione segua un sequestro, è già disponibile il ricorso per riesame.

In fase attuativa s’è ritenuto che, per quanto il criterio di delega faccia espressamente riferimento al solo caso di perquisizione disposta sulla base di un «decreto», il rimedio dovesse essere riconosciuto anche per le perquisizioni eseguite dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’articolo 352 c.p.p., seppur nella sola ipotesi in cui sia intervenuta convalida da parte del P.M.

L’intervento della lettera d) di modifica ha interessato, come anticipato, l’articolo 352 c.p.p., dedicato alle perquisizioni eseguite “di iniziativa” eseguite dalla PG.

Al comma 4, per le ragioni viste, è stato aggiunto un inciso finale in cui si conferma che il pubblico ministero debba comunque provvedere sulla convalida con un decreto motivato.

L’opposizione al decreto di convalida della perquisizione eseguita di iniziativa dalla PG è stata modellata sulla falsariga della disciplina già illustrata e inserita al nuovo comma 4-bis.

Con il presente intervento si inserisce, tra i temi assegnati alla delega, quello del necessario adeguamento dell’ordinamento interno ai principi del diritto internazionale in tema di perquisizione domiciliare disposta dal pubblico ministero, non seguita da sequestro, conformemente al contenuto della citata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 27 settembre 2018. A tal fine, è stata inserita la possibilità di impugnare il decreto di perquisizione o di convalida della perquisizione realizzato nell’espletamento di indagini preliminari e nell’acquisizione degli elementi probatori, quando tali operazioni non siano seguite da un provvedimento di sequestro. La norma, di natura precettiva ed ordinamentale, è diretta a fungere da strumento preventivo e deflattivo di perquisizioni illegittime o al limite della legittimità: l’organo inquirente e lo stesso G.I.P. saranno più attenti a tutelare le garanzie difensive del prevenuto e ridurranno, così, sensibilmente il ricorso ad uno strumento istruttorio implicante un certo dispendio di risorse umane e finanziarie, con contenimento, per alcune casistiche o tipologie di reati, dei costi processuali ed effetti di risparmi di spesa al momento non quantificabili.

Per tutto quanto indicato si rappresenta che la presente disposizione non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, stante la natura ordinamentale e procedimentale degli adempimenti connessi che potranno essere sostenuti con l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera c) ed e) si è valorizzata l’esigenza di assicurare una verbalizzazione attendibile e puntuale, esigenza avvertita specialmente nei casi in cui le informazioni assunte assumano valore probatorio e, comunque, tutte le volte in cui il giudice sia chiamato a valutarne a qualche fine l’attendibilità.

Con l’articolo 351 c.p.p. si prevede infatti  che alla persona chiamata a rendere sommarie informazioni è sempre dato avviso che, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione, ha diritto di ottenere, ove ne faccia richiesta, che le dichiarazioni rese siano documentate mediante riproduzione fonografica.

Si è scelto quindi – nonostante la prescrizione non assoluta del delegante ed anzitutto con riguardo agli atti della polizia giudiziaria (art. 357 c.p.p) – di prevedere almeno l’audioregistrazione, di regola, per tutti i casi di assunzione di informazioni, salvo che non vi sia la disponibilità di strumenti di riproduzione o – nel caso di informazioni assunte dal pubblico ministero (art. 373, comma 2-bis) – di personale tecnico. L’esigenza di dare attuazione in forma compiuta e, soprattutto, coerente alla previsione di delega ha suggerito estendere la documentazione a mezzo di riproduzione fonografica anche alle sommarie informazioni e alle dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta a indagini alla polizia giudiziaria.

Si è ritenuta non praticabile l’alternativa di limitare il ricorso all’audioregistrazione a situazioni specifiche, eventualmente individuate con riferimento al titolo del reato o alle caratteristiche dell’indagine o alla complessità delle informazioni assunte o alla qualità del soggetto esaminato; infatti, se è vero che il ricorso all’audioregistrazione potrebbe, in concreto, risultare in qualche caso sovrabbondante, tuttavia nessun criterio di selezione potrebbe risultare soddisfacente, né sarebbe possibile affidare la scelta se ricorrere o meno a tale forma di documentazione in base a valutazioni soggettive effettuate caso per caso dall’organo procedente, le quali potrebbero risultare non adeguate anche in relazione a sviluppi imprevisti delle indagini.

Anche al fine di evitare inutili aggravi, si è stabilito, comunque, che si provveda alla trascrizione solo ove essa risulti assolutamente indispensabile e che a ciò possa provvedere anche la polizia giudiziaria, in caso di atto assunto dal pubblico ministero o dalla stessa polizia giudiziaria.

L’intervento in esame, diretto a enucleare i principi e criteri che sottendono alla formazione delle c.d. prove dichiarative ed alla loro corretta utilizzazione in ambito processuale, non determina effetti onerosi per la finanza pubblica, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo

Con riguardo alle attività già previste che possono garantire la funzionalità dei servizi richiamati occorre fare riferimento all’insieme dei sistemi tecnologici e strumentali già in uso presso l’amministrazione giudiziaria, penitenziaria e minorile e che vengono assicurate mediante l’impiego delle  risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente nello stato di previsione del Ministero della giustizia per l’anno 2022, alla Missione Giustizia- UdV 1.2 giustizia civile e penale – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi -Azione “Attività di verbalizzazione atti processuali e videoconferenza nell’ambito dei procedimenti giudiziari”, Capitolo 1462 P.g. 14, che reca uno stanziamento di euro 12.661.419 per l’anno 2022, e di euro 8.661.419 per gli anni  2023 e 2024 e  Capitolo 1462 P.g. 28  che reca uno stanziamento di euro 35.600.000 per ciascuno degli anni del triennio 2022-2024; UdV 1.1 amministrazione penitenziaria – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Azione “Supporto per l’erogazione dei servizi penitenziari”, Capitolo 1751 “Spese per la gestione e il funzionamento del sistema informativo” che reca uno stanziamento di euro 572.338 per ciascuno degli anni del triennio 2022-2024 e Capitolo 2121 “Spese per il funzionamento del sistema informativo”, che reca uno stanziamento di euro 842.491 per l’anno  2022 e di euro 442.491 per gli anni 2023 e 2024; nonché UdV 1.2 Giustizia civile e penale- Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria  del personale e dei servizi – Azione: “Sviluppo degli strumenti di innovazione tecnologica in materia informatica e telematica per l’erogazione dei servizi di giustizia”, nel capitolo di bilancio 1501 “Spese per la gestione ed il funzionamento del sistema informativo, nonché funzionamento e manutenzione delle attrezzature per la microfilmatura di atti”, pari ad euro 45.993.808 per ciascun anno del triennio 2022-2024, nonché nel capitolo di bilancio 7203, “Spese per lo sviluppo del sistema informativo nonché per il finanziamento del progetto intersettoriale –Rete unitaria – della Pubblica Amministrazione nonché dei progetti intersettoriali e di infrastruttura informatica e telematica ad esso connessi”, p.g. 8 “Informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria”, pari ad euro 247.821.801 per l’anno 2022, ad euro 209.110.654 per l’anno 2023 e ad euro 151.350.408 per l’anno 2024 e riguardano spese di funzionamento e di investimento per l’innovazione tecnologica in materia informatica e telematica dell’intera amministrazione della giustizia.

           

ART. 18

(Modifiche al Titolo V del Libro V del codice di procedura penale)

 

Con le lettere a) e  b) si interviene in relazione agli atti di indagine del pubblico ministero, in particolare sulla disciplina degli accertamenti tecnici non ripetibili (art. 360, co. 3-bis c.p.p.)  e in materia di diritto della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini di ottenere le sommarie informazioni anche mediante riproduzione fonografica.

Si segnala che le disposizioni non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica considerato che gli adempimenti connessi, con riferimento alle attività di competenza degli uffici giudiziari, di natura istituzionale, saranno fronteggiati nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente tenuto conto delle modalità di svolgimento dell’attività giudiziaria ormai consolidate

L’intervento previsto alla lettera c) sull’articolo 369 c.p.p., da un lato, risponde allo scopo di coordinare il testo con le innovazioni apportate in materia di notificazioni, che hanno indotto a far confluire la disciplina dell’art. 151 in quella dell’art. 148, dall’altro, è diretto ad attribuire al momento in cui viene inviata alla persona sottoposta alle indagini l’informazione di garanzia la valenza propria di una prima notificazione ai sensi dell’art. 157, proprio in considerazione del fatto che l’informazione di garanzia è usualmente il primo atto con cui si stabilisce un contatto tra indagato e autorità. Peraltro, la previsione, certamente anomala, per cui in questo caso la comunicazione dovrebbe d’ordinario (fuori dei casi indicati al comma 2) essere effettuata solo a mezzo posta, deve essere superata, anche per evitare il rischio che non si intenda se quella resti (seppure con quelle modalità) una prima notifica oppure no.

Altrettanto significativa è l’introduzione del comma 1-ter all’articolo 369 che stabilisce che il pubblico ministero inserisca all’interno dell’informazione di garanzia, anche l’avviso per la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa

Per quanto detto sopra, si rinvia alle considerazioni di cui agli articoli che hanno trattato precedentemente in materia di notificazioni, soprattutto per quanto concerne la notifica del primo atto del processo, che contemplano le varie casistiche secondo la reperibilità dell’imputato e la possibilità di avere effettiva conoscenza dell’atto processuale.

In relazione agli atti di indagine del pubblico ministero, con la lettera c) si è intervenuti sulla disciplina dell’interrogatorio dell’indagato, anche delegato (art. 370, co. 1-bis c.p.p.).

Premesso che la disposizione si applica anche nelle (pur limitatissime) ipotesi di atti a distanza compiuti dalla polizia giudiziaria ex artt. 350, co. 4-bis e 370, co. 1-bis, si stabilisce, innanzitutto, che la decisione di autorizzare il compimento di un atto a distanza o la partecipazione di una o più parti a distanza debba essere assunta dall’autorità giudiziaria procedente con decreto motivato e che quest’ultimo, allorquando non venga emesso in udienza, sia notificato alle parti unitamente al provvedimento che fissa la data per il compimento dell’atto o la celebrazione dell’udienza e, in ogni caso, almeno tre giorni prima della data suddetta.  Il decreto, inoltre, andrà comunicato alle «autorità interessate», tra le quali – in primo luogo – i dirigenti degli uffici giudiziari o degli uffici di polizia giudiziaria con cui andrà, di regola, disposto il collegamento (comma 1).

Con la lettera d) si prevede di procedere con la stessa logica che è stata adottata in relazione agli interrogatori (di persone non detenute: supra) condotti dal pubblico ministero (art. 373, comma 1, lettere b e d-bis), per i quali, a norma del nuovo comma 2-bis della stessa disposizione, si procede anche con mezzi di riproduzione audiovisiva e, ove ciò non sia possibile a causa della contingente indisponibilità di mezzi di riproduzione audiovisiva o di personale tecnico, con mezzi di riproduzione fonografica.

Anche per quanto attiene alla documentazione di dichiarazioni prive di valenza difensiva che si svolgano nella fase delle indagini preliminari (e presentino dunque i noti limiti di utilizzabilità fisiologica), si è valorizzata l’esigenza di assicurare una verbalizzazione attendibile e puntuale, esigenza avvertita specialmente nei casi in cui le informazioni assunte assumano valore probatorio e, comunque, tutte le volte in cui il giudice sia chiamato a valutarne a qualche fine l’attendibilità.

Si è scelto quindi – nonostante la prescrizione non assoluta del delegante ed anzitutto con riguardo agli atti della polizia giudiziaria (art. 357) – di prevedere almeno l’audioregistrazione, di regola, per tutti i casi di assunzione di informazioni, salvo che non vi sia la disponibilità di strumenti di riproduzione o – nel caso di informazioni assunte dal pubblico ministero (art. 373, comma 2-bis) – di personale tecnico. L’esigenza di dare attuazione in forma compiuta e, soprattutto, coerente alla previsione di delega ha suggerito estendere la documentazione a mezzo di riproduzione fonografica anche alle sommarie informazioni e alle dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta a indagini alla polizia giudiziaria.

Anche al fine di evitare inutili aggravi, si è stabilito, comunque, che si provveda alla trascrizione solo ove essa risulti assolutamente indispensabile e che a ciò possa provvedere anche la polizia giudiziaria, in caso di atto assunto dal pubblico ministero o dalla stessa polizia giudiziaria.

In alcuni casi di particolare delicatezza (in particolare quando la persona esaminata è di età minore, è inferma di mente o versa in condizioni di particolare vulnerabilità), è stabilito che la riproduzione audiovisiva o fonografica (la prima utile soprattutto nei casi in cui vi sia l’esigenza di documentare anche i tratti non verbali della comunicazione) sia eseguita a pena di inutilizzabilità dell’atto, salvo che all’indisponibilità dello strumento o del personale tecnico si uniscano particolari ragioni di urgenza. Lo stesso criterio è stato adottato, mutatis mutandis, per le sommarie informazioni assunte dal pubblico ministero (art. 373, commi 2-ter e seguenti).

Sotto il profilo finanziario, pertanto, l’intervento stesso non determina effetti onerosi, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo, rimandando per un maggior dettaglio in merito ai profili finanziari alle valutazioni formulate nelle norme relative alle materie trattate nel presente articolo.

 

ART. 19

(Modifiche al Titolo VI del Libro V del codice di procedura penale)

 

Nella stessa prospettiva degli interventi che prevedono che l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria informino della possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa il soggetto destinatario dell’esecuzione di una misura cautelare (inserimento della lettera i-bis al comma 1, dell’articolo 293 c.p.p.) si pone l’inserimento della lettera i-bis al comma 1, dell’articolo 386 c.p.p. relativamente al soggetto arrestato o sottoposto a fermo (lettera a).

Sempre con riferimento all’art. 386 c.p.p. (Doveri della polizia giudiziaria in caso di arresto o di fermo). si è ritenuto necessario inserire il comma 1–ter, specificamente dedicato alla comunicazione scritta disciplinata al comma 1: se la previsione generale è che la stessa venga redatta in forma di documento informatico, si è voluto tuttavia dare maggiore elasticità alla regola in situazioni, quali quelle dell’arresto o del fermo da parte della polizia giudiziaria, connotate da precipue caratteristiche di urgenza e strettamente legate alla dinamica operativa della polizia giudiziaria. Ciò rende assai verosimile che, in tale contesto, la polizia giudiziaria non disponga nell’immediatezza di strumenti idonei alla redazione della comunicazione scritta in forma di documento informatico, fermo restando che se l’originale è redatto in forma di documento analogico, si osservano le disposizioni degli artt. 110, comma 4 e 111-ter, comma 3 ed in particolare la conversione in documento informatico strumentale al deposito telematico ed il conseguente inserimento nel fascicolo informatico. In linea con i criteri e principi di snellezza del procedimento inserito nella legge delega, sono gli interventi che prevedono la partecipazione a distanza quali l’interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a misura cautelare (art. 294, co. 4), nonché l’udienza di convalida dell’arresto o del fermo (art. 391, co. 1). Entrambe le ipotesi risultano già previste dal d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modificazioni dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176 (v., rispettivamente, i commi 2, ult. periodo, e 4 dell’art. 23). Vi sono infatti situazioni processuali nelle quali la possibilità di eliminare la distanza fisica attraverso la tecnologia del collegamento a distanza si traduce in un compimento più accurato dell’atto processuale: si pensi, solo per fare un esempio, al collegamento in videoconferenza dell’interrogatorio di garanzia del soggetto detenuto in un istituto fuori dalla circoscrizione del Tribunale dove opera il giudice per le indagini preliminari che ha emesso l’ordinanza: nell’ottica dell’indagato in vinculis appare preferibile che a svolgere l’interrogatorio sia il giudice per le indagini preliminari che ha studiato il fascicolo, piuttosto che un giudice che non ne ha mai avuto conoscenza.

Si rappresenta che la disposizione in esame, di natura ordinamentale e procedurale, con la quale si prevede, al fine di limitare il coinvolgimento del tribunale in composizione collegiale, l’estensione del catalogo dei reati da trattare avanti ad un giudice monocratico, non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica.

 

ART. 20

(Modifiche al Titolo VI bis del Libro V del codice di procedura penale)

 

Con la lettera a) si inseriscono dopo il comma 3 dell’articolo 391-ter i commi 3-bis, 3-ter e 3-quater.

In alcuni casi di particolare delicatezza (in particolare quando la persona esaminata è di età minore, è inferma di mente o versa in condizioni di particolare vulnerabilità), è stabilito che la riproduzione audiovisiva o fonografica (la prima utile soprattutto nei casi in cui vi sia l’esigenza di documentare anche i tratti non verbali della comunicazione) sia eseguita a pena di inutilizzabilità dell’atto, salvo che all’indisponibilità dello strumento o del personale tecnico si uniscano particolari ragioni di urgenza. Lo stesso criterio è stato adottato, mutatis mutandis, per le sommarie informazioni assunte dal pubblico ministero (art. 373, commi 2-ter e seguenti) e per quelle assunte dal professionista nell’ambito delle indagini difensive (art. 391-ter, commi 3-bis e seguenti).

Il secondo intervento di cui alla lettera b) riguarda il fascicolo del difensore, disciplinato all’art. 391-octies c.p.p.: si è infatti esplicitamente previsto (in tal senso interpolando il comma 3 vigente) che la documentazione di cui ai commi 1 e 2 della citata norma è inserita nella parte del fascicolo informatico riservata al difensore e che i documenti redatti e depositati in forma di documento analogico siano comunque conservati presso l’ufficio delle indagini preliminari (fatto salvo, ovviamente, anche in questo caso l’applicabilità della regola generale che dispone, con le salvezze di cui si è detto, la conversione in forma di documento informatico) sino al successivo inserimento, dopo la chiusura delle indagini preliminari, nel fascicolo di cui all’art. 433 c.p.p.

Quanto agli interventi che rispondono all’esigenza di creare (quando non sia già di immediata percezione per l’interprete) un collegamento con le nuove disposizioni, il comune denominatore delle varie modifiche operate è consistito nella esplicitazione del rinvio alle norme sul deposito telematico; sempre in coerenza con le disposizioni generali, si sono esclusi gli atti compiuti personalmente dalle parti private.

Il riferimento ad “atti, documenti, richieste, memorie” contenuto nell’articolo 111-bis c.p.p. è sufficientemente ampio da rendere consequenziale l’applicazione delle nuove modalità di deposito a tutte le disposizioni del codice processuale che, pur non esprimendosi in termini di “deposito”, disciplinano le diverse ipotesi di presentazione o trasmissione di richieste, istanze, memorie di parte.

Gli interventi, dunque, sono stati limitati a specifiche disposizioni che hanno imposto di esplicitare l’alternativa – prevista dalle nuove disposizioni – per gli atti compiuti personalmente dalle parti, che possono ricorrere – a differenza del difensore e del pubblico ministero – anche a modalità di deposito non telematico.

Sotto il profilo finanziario, pertanto, l’intervento stesso non determina effetti onerosi, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo.

Con riguardo alle attività già previste che possono garantire la funzionalità dei servizi richiamati occorre fare riferimento all’insieme dei sistemi tecnologici e strumentali già in uso presso l’amministrazione giudiziaria, penitenziaria e minorile e che vengono assicurate mediante l’impiego delle  risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente nello stato di previsione del Ministero della giustizia  già citate in riferimento aglii articoli che riguardano collegamenti da remoto, partecipazione a distanza e verbalizzazione di atti e dichiarazioni.

 

ART. 21

(Modifiche al Titolo VII del Libro V del codice di procedura penale)

 

L’uniformità dei criteri di documentazione è poi ottenuta, riguardo all’incidente probatorio, mediante semplici norme di rinvio inserite rispettivamente all’art. 401 (comma 5 come modificato).

L’intervento in esame, diretto a enucleare i principi e criteri che sottendono alla formazione delle c.d. prove dichiarative ed alla loro corretta utilizzazione in ambito processuale, non determina effetti onerosi per la finanza pubblica, atteso la natura ordinamentale e procedurale della diposizione in esame.

ART. 22

(Modifiche al Titolo VIII del Libro V del codice di procedura penale)

 

Con le lettere a), b) e c) del comma 1 del presente articolo sono state apportate modifiche agli articoli 405, 406 e 407 c.p.p.

In particolare, l’articolo 405, comma 2 c.p.p., è stato modificato conformemente a quanto indicato nel criterio di delega di cui alla lettera c).

Può sin d’ora notarsi che la disposizione, in conseguenza della nuova disciplina dei termini di esercizio dell’azione penale, ha subìto modifiche sia nella rubrica, ora intitolata unicamente ai termini per la conclusione delle indagini preliminari, sia nel comma 1, che è parso opportuno sopprimere e ricollocare nel nuovo art. 407-bis, anch’esso rubricato Forme e termini per l’esercizio dell’azione penale.

Quanto al criterio di delega di cui alla lettera d), si è intervenuti sugli articoli 406 e 407 c.p.p., rispettivamente dedicati alla proroga dei termini di indagine e alla loro durata massima.

La prima disposizione, direttamente investita dalle novità introdotte dalla delega, è stata modificata nel comma 1, al fine di sostituire la complessità delle indagini alla «giusta causa» attualmente prevista quale presupposto per la richiesta di proroga formulata dal P.M.

La possibilità di richiedere solo una volta la proroga del termine ha inoltre comportato la sostituzione del comma 2, la soppressione dei commi 2-bis e 2-ter, nonché un intervento di adattamento della previsione dell’art. 407, comma 1. Tale ultima modifica, in quanto maggiormente “conservativa” e di più semplice attuazione, è stata considerata preferibile rispetto alla soppressione dell’intero art. 407, che avrebbe tra l’altro comportato la necessità di modificare le numerose norme – anche extracodicistiche – che rinviano al catalogo di cui al comma 2 e di individuare una diversa collocazione delle disposizioni non immediatamente caducate in conseguenza dell’introduzione delle nuove regole.

Anche l’ulteriore intervento che ha interessato il comma 3 dell’art. 407 trova giustificazione nell’esigenza di un miglior coordinamento (anche lessicale) con le modifiche apportate alla disciplina dei termini di esercizio dell’azione penale, per la cui illustrazione può – anche in questo caso – rinviarsi al paragrafo successivo.

Le disposizioni inserite, dirette a riformulare i termini di durata delle indagini preliminari modulando gli stessi in funzione della differente natura dei reati per cui si procede, e la richiesta di proroga da parte del PM della durata delle indagini, contingentando la durata degli adempimenti indagatori, senza compromettere l’osservanza dei principi del contraddittorio, sono dirette a realizzare uno snellimento delle attività giudiziarie, impedendo che si compiano attività di indagine non indispensabili o non pertinenti. Al riguardo, si segnala la conseguente produzione di effetti positivi per la finanza pubblica in termini di un minor dispendio di risorse umane, strumentali e finanziarie, sebbene, allo stato, non quantificabili.

In conseguenza della nuova disciplina dei termini di esercizio dell’azione penale,  è modificata la rubrica, ora intitolata unicamente ai termini delle indagini preliminari.

In attuazione delle direttive di delega, quanto al criterio di delega sub e), relativo all’individuazione di un termine entro cui il P.M. deve determinarsi circa l’esercizio dell’azione penale, si è ritenuto opportuno collocare la relativa previsione nell’ambito di un’apposita disposizione di nuovo conio (art. 407-bis c.p.p.) che, oltre a riprodurre testualmente rubrica dell’originario articolo 405 (“Inizio dell’azione penale. Forme e termini”) e il suo comma 1 (aggiornandolo nel solo richiamo anche al Titolo V-bis del Libro VI, in tema di messa alla prova), prevede al comma 2 che «[…] il pubblico ministero esercita l’azione penale o richiede l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine di cui all’articolo 405, comma 2 o, se ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, entro tre mesi dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415-bis, comma 3 e 4».

Il secondo periodo della disposizione novellata, conformemente alla necessità di modulare la durata del termine «in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari» (come richiesto dal criterio di delega), la prolunga a sei mesi quando ricorra taluno dei casi di cui all’art. 407, co. 2. Fermo quanto di seguito sarà rilevato in merito alle possibilità di differire la discovery, l’intervento apporta una significativa modifica a quanto attualmente previsto dal comma 3-bis dell’art. 407, che – seppur solo per i reati di cui al comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4) – prevede un termine pari a 15 mesi.

Oltre al comma 1 dell’articolo 405, vengono consequenzialmente abrogati anche l’appena citato comma 3-bis dell’articolo 407 (in parte sostanzialmente “assorbito” nella nuova disposizione, in parte superato dall’attuazione dei criteri di delega in esame), nonché il comma 2-bis dell’art. 416.

La delega si articola, dunque, su due fronti contrapposti, il secondo dei quali funge da limite o comunque condiziona l’operatività dei meccanismi di discovery.

Va subito detto che l’intervento di novella mantiene l’ipotesi di avocazione per inerzia da parte del procuratore generale ex art. 412 cod. proc. pen., che viene peraltro realisticamente riconfigurata in termini di “discrezionalità”.

Viene altresì mantenuto e, anzi, ulteriormente valorizzato il ruolo del procuratore generale nell’apprezzamento dei fattori ostativi all’immediata discovery.

Ove, infatti, non riceva la suddetta comunicazione nei dieci giorni successivi alla scadenza del termine di riflessione, il procuratore generale sarà tenuto a intervenire disponendo l’avocazione del procedimento ex art. 412 oppure ordinando al procuratore della Repubblica di provvedere al deposito e alla notifica dell’avviso di deposito di cui al comma 1 entro e non oltre venti giorni.

Un ultimo intervento di adattamento si è reso necessario sul co. 5 dell’art. 415-bis c.p.p, relativo alle attività di indagine eventualmente svolte dal P.M. a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini, disposizione tuttora riferita alla scadenza del «termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice per l’esercizio dell’azione penale o per la richiesta di archiviazione», e da riconnettersi invece alla scadenza del «termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice per la conclusione delle indagini preliminari».

I più complessi e articolati interventi di modifica operati in attuazione dei criteri di cui alle lettere f) e g), da un lato, e di cui alla lettera h), dall’altro lato, si comprendono agevolmente ove si considerino, innanzitutto, gli ulteriori profili di differenziazione – per così dire – “sostanziale” delle situazioni che si verificano a seconda che l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sia stato o meno notificato.

In quest’ultima evenienza, come accennato, esiste un preliminare problema di discovery dell’attività di indagine prim’ancora che di esercizio dell’azione penale, non potendo quest’ultima essere intrapresa nella forma della richiesta di rinvio a giudizio o della citazione diretta a giudizio in assenza dell’avviso e della conseguente ostensione degli atti (v., rispettivamente, artt. 416, co. 1, e 552, co. 2). Nel primo caso, invece, ad avviso di conclusione indagini già notificato, l’eventuale inerzia del pubblico ministero riguarda (ormai) solo ed esclusivamente le determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale o l’archiviazione, e non (più) la discovery. Può dirsi che, in questo caso, si è di fronte a un’inerzia solo decisionale.

Anche in tal caso, per le medesime ragioni in precedenza viste a proposito dei meccanismi di differimento della discovery, la disciplina del rimedio di “sblocco della stasi” è stata collocata – in attuazione del parallelo criterio di delega sub h) – nell’art. 415-bis, ai commi 5-quater e 5-quinquies, che nell’art. 415-ter c.p.p. formano quindi oggetto di richiamo.

La prima di dette disposizioni, riferita in quella sede senz’altro alla scadenza del termine di riflessione (e, in particolare, com’è ovvio, dai commi 4 e 5 dell’art. 415-bis), stabilisce:

–          che sull’istanza formulata dalla persona sottoposta alle indagini o alla p.o. il giudice provveda, nei venti giorni successivi, con decreto motivato;

–          che, in caso di accoglimento, il giudice ordini al procuratore della Repubblica di assumere le determinazioni sull’azione penale entro un termine non superiore a venti giorni;

–          che, infine, copia del decreto sia comunicata al pubblico ministero e al procuratore generale presso la corte d’appello e notificato alla persona che ha formulato la richiesta.

La successiva disposizione di cui al comma 5-quinquies stabilisce, inoltre, che il pubblico ministero debba trasmettere al giudice e al procuratore generale copia dei provvedimenti assunti in conseguenza dell’ordine emesso dal primo ai sensi del comma 5-quater e che, quando abbia notificato l’avviso di conclusione indagini – similmente a quanto accade nell’ipotesi di cui all’art. 415-ter, comma 3 – «i termini di cui all’articolo 407-bis, comma 2, [siano] ridotti di due terzi»: ciò, naturalmente, in quanto nelle circostanze considerate non è parso ragionevole riconoscere al pubblico ministero la possibilità di fruire dell’intero termine di riflessione.

Merita infine menzione la disposizione di cui all’art. 415bis, comma 5-sexies, che – a completamento del meccanismo di discovery forzosa di cui criterio di delega sub f) – stabilendo che, nel caso di infruttuoso decorso del periodo di riflessione post 415-bis, alla persona offesa che non abbia già ricevuto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, sia notificato l’avviso di deposito previsto dall’art. 415-ter, co. 1, e che operino in suo favore le disposizioni di cui al comma 2 del medesimo articolo 415-ter.

Come anticipato, a tali disposizioni rinvia anche il nuovo art. 415-ter c.p.p. che, sotto la rubrica Diritti e facoltà dell’indagato e della persona offesa in caso di inosservanza dei termini per la conclusione delle indagini preliminari, riconosce all’indagato e alla p.o. la facoltà di accedere agli atti di indagine nel caso in cui il P.M. non rispetti il cd. termine di riflessione.

In particolare, al comma 1, la nuova disposizione stabilisce che, salvo il tempestivo ottenimento di un’autorizzazione al differimento secondo una procedura essenzialmente analoga a quella – sopra vista – di cui ai co. 5-bis e 5-ter dell’art. 415-bis c.p.p. (e preclusa laddove quest’ultima sia stata già esperita: v. comma 4), una volta scaduto il termine di riflessione senza aver esercitato l’azione penale, o aver richiesto l’archiviazione, la documentazione relativa alle indagini espletate debba essere depositata in segreteria, con riconoscimento della facoltà di esaminarla e di estrarne copia alla persona sottoposta a indagini e alla persona offesa (purché quest’ultima, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volere essere informata della conclusione delle indagini).

È altresì previsto che alla persona sottoposta a indagini e alla persona offesa sia fatto notificare apposito avviso di deposito, con cui dovranno essere edotti delle facoltà di cui sopra, nonché dell’ulteriore facoltà di rivolgersi al giudice di caso di «stasi del procedimento», introdotta al comma 3 e della quale a breve si dirà.

Dell’avviso di deposito in questione, inoltre, l’ultimo periodo del comma 1 prevede la comunicazione al procuratore generale presso la Corte di appello.

Su comunicazione si impernia il meccanismo di controllo sull’effettività della discovery forzosa, anch’esso affidato al procuratore generale, delineato dal comma 2.

Le disposizioni in esame, di natura procedurale e ordinamentale, sono volte a garantire la fluidità della fase di indagini, ponendo un freno al dilatarsi dell’attività di indagine del pubblico ministero,  rafforzando il principio per il quale il pubblico ministero deve decidere senza ritardo se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione, predisponendo idonei meccanismi procedurali volti a permettere  alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che abbia dichiarato di voler essere informata delle indagini e di conoscere la documentazione relativa alle indagini espletate, nonché consentendo al giudice per le indagini preliminari di porre rimedio alla stasi del procedimento dovuta alla mancata tempestività dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, e, infine, prevedendo che il giudice adotti analoghi provvedimenti quando a seguito della comunicazione di chiusura delle indagini di cui all’articolo 415-bis c.p.p. non ci siano ulteriori sviluppi procedurali.

Pertanto, agli adempimenti connessi alle attività sopraindicate, si potrà provvedere mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente confermando l’assenza di onerosità a carico della finanza pubblica.

ART. 23

(Modifiche al Titolo IX del Libro V del codice di procedura penale)

 

In attuazione della delega, la nuova formulazione della norma cardine che disciplina l’assenza (art. 420-bis) supera il sistema di presunzioni oggi vigente.

Peraltro, fondamentale resta la distinzione tra il momento della regolarità della notifica e quello relativo alle valutazioni relative alla procedibilità in assenza, perché se la notifica non è regolare, la verifica della costituzione delle parti non si può concludere, per cui la possibilità di procedere in assenza non può essere verificata e non possono, quindi, avere inizio le attività che potrebbero portare alla sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo.

In questa logica, quindi, assolutamente interconnessa alla disciplina dell’assenza è quella dettata in materia di notificazioni, rispetto alla quale l’intervento di attuazione della delega 134/2021 si connotata per il tentativo di recuperare una conoscenza reale e certa e non solo formale degli atti introduttivi del giudizio.

Posto ciò, gli interventi effettuati sull’articolo 420 c.p.p., per prima cosa, rispondono, dunque, allo scopo di rendere evidente la sequenza che si è indicata, introducendo il comma 2-bis, per il quale solo in caso di regolarità delle notificazioni, se l’imputato non è presente e non è impedito (“non ricorrono i presupposti di cui all’articolo 420-ter”), si procede ai sensi dell’articolo 420-bis: ossia alla verifica della sua assenza.

Con il nuovo comma 2-ter dell’art. 420, invece, vengono ridefiniti, come imposto dalla delega, i casi in cui l’imputato si deve ritenere presente, aggiungendo ai casi tradizionali dell’imputato che, dopo essere comparso, si allontana dall’aula di udienza o che, presente ad una udienza, non compare alle successive, i casi, nuovi, dell’imputato che ha richiesto per iscritto, nel rispetto delle forme di legge, di essere ammesso ad un procedimento speciale o che è rappresentato in udienza da un procuratore speciale nominato per la scelta di un procedimento speciale.

Due situazioni, queste ultime, nelle quali non solo è certo che l’imputato ha avuto conoscenza del processo e della sua imputazione, ma risulta che ha addirittura deciso di avvalersi del diritto (riconosciutogli dalla legge in relazione alla scelta dei riti speciali) di partecipare con una istanza scritta o con un procuratore speciale.

A latere di questo intervento, come appunto imposto dalla delega, nell’articolo 420-bis c.p.p. si è, invece, rimodulata l’intera disciplina dell’assenza, riformulata sulla base della indicazione chiave della lettera a) dell’art. 1 co. 7 l.134/2021, che valorizza, ai fini della possibilità di procedere senza la presenza dell’imputato, da un lato, l’effettiva conoscenza della pendenza del processo e non già del mero procedimento o della accusa: un parametro che sottende la consapevolezza dell’imputato della fissazione di un’udienza (nel caso in esame, preliminare, ma come si vedrà, anche dibattimentale o d’appello).

A questo scopo, nel testo dell’articolo 420-bis c.p.p. sono state distinte due situazioni idonee a dare certezza della conoscenza: quella in cui l’imputato è stato citato a comparire a mani proprie o con notifica avvenuta a mani di un persona espressamente delegata dall’imputato al ritiro dell’atto e quella in cui l’imputato ha espressamente rinunciato a comparire o, sussistendo un impedimento ai sensi dell’articolo 420 ter, ha rinunciato espressamente a farlo valere. Le ultime due situazioni confinano addirittura con la presenza, in quanto è l’imputato a comunicare di voler rinunciare a comparire oppure che consente a che si proceda anche se egli sarebbe impedito e potrebbe, quindi, avvalersi dei diritti che gli riconosce l’articolo 420-ter c.p.p..

Accanto a queste situazioni, qualificabili come a conoscenza certa (comma 1), la nuova disciplina, in conformità alla delega e alla direttiva della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016 (che costituisce l’altro punto di riferimento decisivo nella predisposizione delle norme in esame), aggiunge quelle situazioni nelle quali non vi è la certezza che l’imputato abbia conoscenza della pendenza del processo, ma quella conoscenza si può, però, ritenere effettivamente sussistente, perché accertata in base ad un complesso di elementi rimessi alla valutazione del giudice (comma 2).

In questo caso, per offrire al giudice un criterio di valutazione sono stati indicati alcuni elementi sintomatici, idonei a far desumere l’effettiva conoscenza della pendenza del processo: la formula utilizzata esalta le indicazioni della legge di delega che invitano il giudice a dare rilevo, oltre che alle modalità di notifica, a ogni altra circostanza del caso concreto, avvalorando la valutazione giudiziale caso per caso, in netta contrapposizione con il sistema di indici presuntivi attualmente previsti. L’indicazione nel testo di elementi valutativi è meramente esemplificativa, come dimostrato dalla locuzione per cui il giudice può tenere conto «di ogni altra circostanza rilevante».

Nel comma 3 sono, invece, collocati i casi di volontaria sottrazione alla conoscenza della pendenza processo, situazione che include certamente la latitanza, ritenuta, anche dalla citata direttiva (UE) 2016/343, caso tipico di sottrazione volontaria alla conoscenza del procedimento e in questa logica, come si vedrà, ridisciplinata.

Laddove i predetti presupposti per procedere in assenza risultino non sussistere, prima di avviare la procedura prevista dell’articolo 420-quater c.p.p., il giudice dell’udienza preliminare deve disporre ulteriori ricerche finalizzate alla notificazione a mezzo della polizia giudiziaria dell’avviso di fissazione della medesima e del verbale d’udienza, dal quale risulta la data del rinvio, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 1 co. 7 lett. b l. 134/2021.

Una procedura che porterà o al rintraccio effettivo dell’imputato oppure ad acclarare una sua concreta impossibilità di reperimento.

Peraltro, con previsione generale è previsto che nello stesso modo il giudice deve sempre procedere se si avvede, anche successivamente, di aver proceduto in assenza pur in difetto dei presupposti indicati nei primi tre commi dell’articolo in esame. Il giudice rileva il difetto e, in questo caso, procede a disporre la notifica a mezzo di p.g., per avviare eventualmente la procedura dell’art.  420 quater. Questa previsione esprime il più generale indirizzo che informa tutta la materia in esame e che distingue sempre chiaramente tra casi in cui si è erroneamente proceduto in assenza pur quando mancavano i presupposti normativi, e le ipotesi nelle quali, invece, in ragione dei dati a disposizione del giudice, la declaratoria di assenza ha pienamente rispettato i parametri di legge, ma la prova successivamente fornita dall’imputato ha introdotto elementi che rovesciano la valutazione giudiziale.

In questa logica, infatti, secondo un modulo che si ripeterà in tutto il corso del processo, e che rappresenta la spina dorsale portante del sistema dei rimedi, se, prima della decisione, l’imputato compare il giudice revoca sempre, anche d’ufficio, l’ordinanza che dichiara l’assenza, ma restituisce l’imputato nei termini per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto solo in presenza di precisi presupposti. Infatti, proprio perché l’assenza risulta ben dichiarata, (nel caso a) l’imputato, in tutti i casi di assenza, è rimesso nei termini solo se dimostra che si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa.

Parimenti (ed è il caso b), nei soli casi di assenza previsti dall’art. 420- bis, commi 2 e 3 c.p.p. (ossia quando l’assenza è stasa ritenuta provata ma non era certa oppure l’assenza è stata dedotta dal comportamento elusivo dell’imputato), l’imputato è parimenti rimesso nei termini se prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto.

Gli interventi sull’articolo 420-ter c.p.p. sono, invece, diretti ad uniformare la disciplina per il caso di assenza alla prima udienza o alle successive, sull’assunto che l’impedimento viene in considerazione solo dopo che si è verificata la regolarità della notifica. In conseguenza di ciò, si è escluso che ove l’impedimento sussista in sede di prima udienza debba essere disposta una nuova notificazione dell’avviso di cui all’articolo 419, comma 1, c.p.p.(già utilmente notificato), mentre quel che deve essere certamente effettuato è dare un formale avviso all’imputato della nuova udienza.

In realtà, l’opzione è imposta dalla delega, la quale al punto d) prevede che il giudice verifica la rinuncia a comparire dell’imputato o, in mancanza, l’effettiva conoscenza dell’atto introduttivo oppure della sussistenza delle altre condizioni che consentono di procedere in assenza “all’udienza preliminare o, quando questa manca, alla prima udienza fissata per il giudizio”.

Questa scelta muove dall’assunto che il momento in cui si incardina il rapporto processuale con l’imputato e si valuta, quindi, la sua piena consapevolezza di essere sottoposto ad un processo è, nei riti con udienza preliminare, proprio l’udienza preliminare. E’ rispetto a quel momento, infatti, che si pretende un livello qualitativo più elevato della notifica dell’atto introduttivo ed è in quella sede che si debbono compiere le accurate verifiche di cui si è detto circa la effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato, per cui è del tutto logico che a quel momento si colleghi la posizione processuale dell’imputato, senza alcuna necessità di rinnovarla in una fase successiva che ne è la mera prosecuzione.

In ragione di ciò, la verifica dell’assenza in sede di dibattimento (salva sempre la verifica dell’esistenza di impedimenti) è compiuta solo nei casi in cui manca l’udienza preliminare. Nel qual caso soltanto trovano applicazioni le disposizioni di cui agli articoli 420, 420-bis, 420-quater, 420-quinquies e 420-sexies.

In relazione alla fase dibattimentale, invece, secondo la logica su indicata, di sviluppo dei rimedi secondo l’intera ossatura portante del processo, si è superato il disposto dell’art. 489, il quale, in via principale, riconosceva all’imputato contro il quale si è proceduto in assenza nel corso dell’udienza preliminare la sola facoltà di “chiedere di rendere le dichiarazioni previste dall’articolo 494”, con previsione del tutto inutile, visto che quella facoltà non incontra mai limiti e, in aggiunta, prevedeva il solo diritto di formulare le richieste di cui agli articoli 438 e 444,  ove avesse provato che l’assenza nel corso dell’udienza preliminare era riconducibile alle situazioni previste dall’articolo 420-bis, comma 4. Con soluzione anomala, visto che lo stesso art. 420-bis, comma 4, con riferimento al giudizio di primo grado, riconoscenza all’imputato il diritto di formulare richiesta di prove ai sensi dell’articolo 493 e la rinnovazione di prove già assunte, se forniva la prova che l’assenza era dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo o che vi era una impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che la prova dell’impedimento era pervenuta con ritardo senza sua colpa.

Per mettere ordine in questa situazione si è, quindi, previsto, per prima cosa, che se l’imputato è stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità del decreto di rinvio a giudizio e restituisce gli atti al giudice dell’udienza preliminare. Soluzione derogata nel caso in cui la nullità non sia eccepita dall’imputato presente (nel qual caso, però, all’imputato – per incentivarlo a quella scelta- è data sempre la facoltà di essere restituito nel termine per formulare le richieste di procedimenti speciali e di esercitare le ulteriori facoltà dalle quali sia decaduto) e nel caso in cui l’imputato fosse nelle condizioni di comparire in udienza preliminare.

Per quest’ultimo profilo, infatti, si ritiene che anche l’errata dichiarazione di assenza non dà diritto ad una retrocessione del procedimento se l’imputato era nelle condizioni di comparire in udienza preliminare e, quindi, di far valere già in quel momento il vizio e di esercitare tutte le facoltà che ora chiede di esercitare con azzeramento del procedimento.

Accanto al rimedio per il caso in cui l’assenza fosse stata mal dichiarata, si aggiunge sempre il rimedio ulteriore per i due casi già visti, in cui invece risulta che mancava una effettiva conoscenza della pendenza del processo. In questi casi, però, per prima cosa, resta ferma la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza, proprio in ragione del fatto che si è correttamente proceduto in assenza.

L’imputato è, invece, sempre restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto:

  1. a) se (in qualsiasi caso di assenza) dimostra che si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare la facoltà dalla quale è decaduto per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa; oppure
  2. b) se (nei casi di assenza provata o colpevole) prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto.

In ambedue i casi, il rimedio non è riconosciuto se l’imputato era nelle condizioni di comparire (o far valere l’impedimento) in udienza preliminare e, quindi, di esercitare tutte le facoltà che ora chiede di esercitare con azzeramento del procedimento e non lo ha fatto per sua colpa.

Per quanto riguarda la disciplina dell’assenza in appello, si è distinto il caso dell’imputato assente appellante e quello dell’imputato non appellante, in ragione del fatto che per l’appellante la delega gli ha imposto l’onere di depositare procura speciale e elezione di domicilio successivi alla sentenza, in tal modo dando certezza circa la conoscenza del processo e della sentenza.

Per questo motivo, rispetto all’imputato appellante non presente alle udienze che si svolgono in presenza (di cui agli articoli 599 e 602) in caso di regolarità delle notificazioni (che devono avvenire con le forme garantite) si procede in assenza anche fuori dei casi di cui all’articolo 420-bis, proprio perché, come detto, è certa la sua conoscenza del processo e della sentenza da lui impugnata.

Invece, per l’imputato non appellante, non presente alle udienze che si svolgono in presenza (di cui agli articoli 599 e 602), ferma sempre la verifica della regolarità delle notificazioni, la corte procede solo se sussistono le condizioni previste dall’articolo 420-bis, commi 1 2 e 3, per procedere in assenza, altrimenti dispone, con ordinanza, la sospensione del processo e ordina le ricerche dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione.

Non è, infatti, applicabile la disciplina di cui all’articolo 420-quater c.p.p. (nonché gli articoli 420-quinquies e 420-sexies c.p.p.), perché in questo caso c’è una sentenza di primo grado, che sarebbe revocata ove intervenisse un sentenza di non luogo a procedere.

Una specifica disciplina è stata dettata anche per le udienze scritte (legittimate dalla direttiva in materia di assenza, che le contempla). Al riguardo si è stabilito che, anche in quel caso, la corte accerti la regolarità della notificazione e verifichi, nei confronti dell’imputato non appellante, la sussistenza delle condizioni previste dall’articolo 420-bis commi 1, 2 e 3 per procedere in assenza, disponendo altrimenti le sue ricerche: anche a fronte di udienze “non partecipate”, infatti, sussiste la necessità di garantire l’effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato non appellante.

Connessa agli interventi in esame è la modifica che si è apportata all’articolo 429 c.p.p. con la soppressione del 4 e, quindi, l’eliminazione di ogni necessità di notifica del decreto, prima prevista per l’imputato “contumace” e per l’imputato e la persona offesa comunque non presenti alla lettura del provvedimento. Altra novità relativa al citato articolo 429 c.p.p. è quella relativa all’informativa della facoltà, per la persona sottoposta alle indagini, di accedere ai programmi di giustizia riparativa, come disciplinati nel sistema finora illustrato, deve essere inclusa nel decreto di fissazione dell’udienza in seguito alla richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari (modifica del comma 1 dell’articolo 447 c.p.p.), nell’atto di citazione che instaura il giudizio direttissimo (richiamo alla lettera g-bis del comma 1 dell’articolo 429 c.p.p.), e nel decreto penale di condanna (inserimento lettera  h- bis al comma 1 dell’articolo 460 c.p.p.).

Nell’ottica dei profili economico-finanziari, si rileva che le modifiche intervenute a seguito della delega contenuta nella legge 134/2021 sulla materia del processo in assenza dell’imputato sono dettate dalla necessità di rendere più efficace e aderente ai principi di garanzia di effettiva conoscenza da parte del prevenuto della pendenza del giudizio a suo carico, comunque garantendo – in ogni modo – la partecipazione dell’interessato nel caso in cui questi sia incolpevolmente impossibilitato a presenziare all’udienza nel rispetto della volontà del medesimo e  del diritto di difesa costituzionalmente garantito. A tal fine, è previsto che il giudice si avvalga per le ricerche e la notifica degli atti anche della polizia giudiziaria. Parimenti, invece, le introducende disposizioni sono dirette a eliminare qualsiasi forma di ostacolo alla tempestiva celebrazione delle udienze (in ogni grado di giudizio) quando è palese la volontà dell’imputato di assentarsi scientemente e intenzionalmente dalle aule processuali. Stessa conclusione è prevista per il difensore che cerchi di procrastinare i tempi del processo ai fini del decorso del termine di prescrizione, per il quale sono previsti meccanismi sostitutivi a quelli classici di notifica degli atti e per il quale sono dettate norme di pari livello a quelle previste per gli assistiti per far desistere da tentativi di slittamento delle cause. L’insieme delle previsioni indicate ha natura ordinamentale e procedurale e volte a contribuire allo snellimento delle attività degli organi requirenti e giudicanti, eliminando adempimenti che rallentano i tempi processuali, evitando l’insorgere di procedure di infrazione a livello unionale a garanzia del diritto al giusto processo e realizzando il contenimento dei tempi di definizione del processo: si consegue, pertanto, il deflazionamento di un’attività giurisdizionale che, per assenza di elementi probatori “ab origine”, è tale da determinare una pronuncia di proscioglimento nei confronti del prevenuto. Per gli enunciati motivi, pertanto, si rappresenta che la norma in esame è suscettibile di determinare risparmi di spesa allo stato non quantificabili. Peraltro, riguardo agli adempimenti di notifica degli atti processuali si osserva che altro punto della delega favorisce un maggiore utilizzo delle comunicazioni telematiche – per le quali i software applicativi della giustizia sono da tempo collaudati ed implementati – e che le attività delegate alla polizia giudiziaria sono di natura istituzionale e potranno essere fronteggiate attraverso le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 24

(Modifiche al Titolo I del Libro VI del codice di procedura penale)

 

Si propongono due modifiche all’aricolo 438 c.p.p. e una, consequenziale, all’art. 458 c.p.p.

Al comma 5 dell’art. 438 c.p.p. la modifica proposta recepisce il criterio prognostico e relazionale della delega, che impone di mettere in rapporto il supplemento probatorio richiesto in abbreviato con l’istruzione dibattimentale da svolgersi in dibattimento.

Al comma 6-ter il nuovo secondo periodo disciplina in modo esplicito la possibilità di rinnovo, in limine al dibattimento, della richiesta di abbreviato illegittimamente rigettata o dichiarata inammissibile (salvo che si tratti di inammissibilità dichiarata ai sensi del comma 1-bis dell’art. 438 c.p.p., nel caso di delitti puniti con l’ergastolo, per cui il rimedio specifico è dettato dal comma 6-ter), in modo da consentire la massima deflazione.

Per coerenza sistematica, analogo e consequenziale allineamento si propone per l’art. 458, comma 2, c.p.p. Anche in questo caso, infatti, si tratta di disposizione su cui era intervenuta la declaratoria di incostituzionalità della Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 169 del 2003 e che, tuttavia, era stata formalmente “sostituita” dall’ art. 1, comma 47, della L. 23 giugno 2017, n. 103 senza recepire l’intervento additivo della Corte costituzionale. Si intende offrire, in tal senso, una soluzione “maggiormente funzionale a garantire la certezza del diritto”, raccogliendo una esortazione contenuta nella sentenza della Corte costituzionale n. 127/2021.

Le disposizioni in esame che realizzano effetti di snellimento processuale nell’ambito del giudizio abbreviato, come quello relativo all’integrazione probatoria richiesta dall’imputato può essere accolta solo nel caso in cui risulti necessaria  per l’accoglimento della istanza di giudizio (modifica del comma 5 dell’articolo 438 c.p.p.) e il giudizio abbreviato realizzi comunque un’economia processuale rispetto allo svolgimento del giudizio dibattimentale, hanno carattere ordinamentale e procedurale e pertanto, non comportano effetti negativi per la finanza pubblica.

La fedele attuazione della delega alla lettera c) interviene sull’articolo 442 c.p.p. con l’inserimento del comma 2-bis che porta a ritenere applicabile la nuova “diminuente esecutiva” in ogni caso di mancata impugnazione, senza alcun sindacato circa le ragioni di tale omissione.

Le norme esaminate che hanno l’obiettivo di incentivare la definitiva del processo in tempi brevi con la previsione di un’ulteriore riduzione della pena di un sesto da parte del giudice dell’esecuzione, qualora non sia stata promossa impugnazione avverso una sentenza di giudizio abbreviato, stante il carattere ordinamentale e procedurale non determinano impatti negativi per la finanza pubblica.

 

 

ART. 25

(Modifiche al Titolo II del Libro VI del codice di procedura penale)

 

Alla lettera a) del comma 1 del presete articolo si prevede che per estendere, come richiesto dalla legge delega, i poteri negoziali delle parti alla confisca facoltativa (in ogni caso di patteggiamento) e alle pene accessorie (in caso di patteggiamento allargato), si interviene:

– in primo luogo, sull’articolo 444, comma 1 c.p.p., enunciando detti nuovi poteri delle parti, connotati da facoltatività (le parti “possono”, non sono obbligate). Nell’ambito di questo intervento e con riguardo specifico alle pene accessorie, viene fatto salvo il peculiare assetto voluto dall’art. 444, comma 3-bis, c.p.p. nella sfera dei reati contro la P.A.;

– in secondo luogo (e di conseguenza), all’art. 444, comma 2 c.p.p., estendendo la verifica del giudice ai due nuovi oggetti, la confisca e le pene accessorie. In particolare, si ritiene che passare dall’attuale singolare (“congrua la pena indicata”) al plurale (“congrue le pene indicate”) sia idoneo a ricomprendere le pene accessorie.

Ulteriori modifiche al rito patteggiato verranno illustrate a commento delle innovazioni introdotte in attuazione dei criteri di delega di cui all’art. 1, comma 17, lett. e) e lett. i), in materia di pene sostitutive.

Si segnala che il presente intervento normativo consentirà di estendere la definizione  con sentenza pronunciata dal giudice sulla base dell’accordo transattivo delle parti anche all’applicazione su richiesta delle parti di pene accessorie e alla confisca facoltativa, oggetti che a legislazione vigente abbisognano di essere stralciati e trattati separatamente dal procedimento principale la cui definizione richiede di procedere senza i vantaggi di contenimento delle udienze specie se dibattimentali e l’abbreviazione dei tempi di definizione del processo realizzati con il ricorso all’istituto del cd. Patteggiamento.

Agli adempimenti collegati alle attività così come determinati dal presente articolo trattandosi di adempimenti afferenti ai compiti istituzionali si potrà provvedere mediante l’impiego delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera b )si segnala che la volontà della legge delega di incentivare il ricorso ai procedimenti speciali non si è tradotta, per il patteggiamento, in un allargamento degli ambiti oggettivi di accesso al rito. La ricerca di un maggior stimolo a patteggiare risulta pertanto affidata al criterio in materia di confisca e pene accessorie, i cui margini di manovra sono comunque ben delimitati, e al presente criterio in materia di riduzione degli effetti extra-penali.

In particolare, il presente criterio contiene una indicazione precisa (prevedere che la sentenza di patteggiamento «non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare») ed una dai contorni più sfumati (prevedere che la sentenza di patteggiamento «non abbia efficacia di giudicato (…) in altri casi»).

La prima direttiva è assolta mediante la proposta abrogazione dell’inciso «salvo quanto previsto dall’articolo 653» in apertura dell’art. 445, comma 1-bis c.p.p., senza che vi sia necessità di intervenire sull’art. 653 c.p.p., che continua a riferirsi alle sole sentenze di assoluzione e di condanna.

Per la realizzazione del secondo obiettivo si propone una formulazione normativa articolata su due livelli.

A un primo livello (art. 445, comma 1-bis, primo periodo c.p.p.), si intende sancire l’irrilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in ogni procedimento giurisdizionale diverso da quello penale e, quindi, innanzi al giudice civile, a quello amministrativo, a quello tributario e a quello della responsabilità erariale, quando il fatto storico oggetto della sentenza di patteggiamento possa avere una qualche rilevanza in quelle sedi.

A un secondo livello (art. 445, comma 1-bis, secondo periodo c.p.p.), ricordando la formulazione dell’art. 20 c.p. («le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa»), si propone di stabilire che, ogni qual volta, per effetto della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie (ciò già avviene ex lege sino ai due anni ed avverrà in base ad eventuale accordo di parte sopra i due anni, per effetto del nuovo art. 444, comma 1 c.p.p.), vengono meno anche tutti gli altri effetti penali. Per effetti penali si intendono dunque tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali. La formulazione proposta ha il vantaggio per cui non vi è necessità di intervenire su tali leggi speciali, che restano in vigore e continuano ad applicarsi ogni volta che alla sentenza di patteggiamento verranno ricollegate pene accessorie.

Le disposizioni in esame di natura ordinamentale e procedurale sono volte ad evitare che la sentenza di applicazione della pena sulla base di un accordo negoziale tra le parti abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in ogni altro procedimento giurisdizionale diverso da quello penale e, quindi, innanzi al giudice civile, a quello amministrativo, a quello tributario e a quello della responsabilità erariale. Si segnala, pertanto, la mancanza di effetti negativi per la finanza pubblica. 

L’articolo 446 c.p.p. non richiede interventi di adattamento a seguito della disciplina adottata in attuazione dell’articolo 1, comma 12, della legge delega, in materia di rito monocratico a citazione diretta. Le necessarie modifiche, riguardo al termine per la formulazione della richiesta di patteggiamento nei procedimenti a citazione diretta, sono apportate, infatti, in attuazione del criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 12, lett. a), attraverso l’interpolazione dell’art. 552, comma 1, lett. f) e la nuova formulazione dell’art. 555, comma 8, c.p.p.

La lettera d) interviene modificando il comma 1 dell’articolo 447 c.p.p.), per il quale l’informativa della facoltà, per la persona sottoposta alle indagini, di accedere ai programmi di giustizia riparativa, come disciplinati nel sistema finora illustrato, deve essere inclusa nel decreto di fissazione dell’udienza in seguito alla richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari.

La disposizione, con obiettivi di raccordo normativo ha carattere procedurale e precettivo e non comportano effetti negativi per la finanza pubblica.

Con la lettera e )  si prevede di disciplinare tutti i casi di applicazione della pena su richiesta delle parti previsti dall’articolo 448 c.p.p. In essi, già oggi è possibile richiedere l’applicazione di una “sanzione sostitutiva” (ora pena sostitutiva), ai sensi dell’art. 444, co. 1 c.p.p., ma non sono regolati i casi in cui le parti davanti al giudice abbiano necessità di un tempo e quindi di un termine per gli stessi scopi previsti dall’art. 545 bis c.p.p. per il giudizio ordinario e il giudizio abbreviato.

La norma si inserisce nel novero di tutte le ipotesi di richiesta di applicazione pena, siano esse tipiche, ossia formulate in udienza già in corso, ovvero atipiche, quando l’udienza debba essere fissata appositamente. Sono questi i casi di giudizio immediato e di richiesta di applicazione pena nel corso delle indagini preliminari, ai sensi dell’articolo 447 c.p.p., posto che la delibazione sulla richiesta di applicazione pena deve essere sempre pronunciata in udienza.

Nei casi previsti dall’art. 448, co. 1 c.p.p., la norma di nuovo conio prevede che, quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. Poiché l’applicazione della pena concordata dalle parti può essere richiesta all’esito di una previa interlocuzione tra pubblico ministero e difesa dell’indagato o imputato, le parti possono presentarsi al giudice con una proposta già delineata e solo da delibare. Questa dovrebbe essere l’ipotesi fisiologica, quando l’iniziativa diligente della difesa e la disponibilità del pubblico ministero si incontrano tempestivamente.

La norma che si introduce, invece, ha due presupposti:

  1. a) che le parti si trovino già davanti al giudice e non abbiano potuto o voluto per qualsiasi causa raggiungere un consenso sull’applicazione di una pena sostitutiva;
  2. b) che sia raggiunto almeno un accordo sulla pena e sulla sua applicazione ai sensi dell’articolo 444 c.p.p.

Si propone questa interpretazione dell’espressione quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva, intendendo che l’accordo almeno generale deve essere già raggiunto e deve precedere la richiesta di differimento dell’udienza, di cui costituisce il presupposto. Si vuole, infatti, scongiurare richieste esplorative o peggio dilatorie, oltre che impegnare invano l’Ufficio esecuzione penale esterna in attività preparatorie che poi non hanno concreto esito processuale. Anche in questo caso, se non può decidere immediatamente, il giudice sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. La norma contiene il rinvio all’applicazione dei soli commi 2 e 3 dell’art. 545 bis c.p.p., che disciplinano le attività e i poteri del giudice, delle parti e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, allo scopo di determinare i contenuti e la fisionomia della pena sostitutiva da sottoporre al giudice stesso.

La disposizione in esame ha natura procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri  per la finanza pubblica, introducendo una fase interlocutoria che prevede anche la fissazione di una eventuale udienza successiva, finalizzata a verificare la possibilità concreta di sostituire la pena e consentire all’Ufficio di esecuzione penale esterna di intervenire in modo più puntuale.

 

ART. 26

(Modifiche al Titolo III del Libro VI del codice di procedura penale)

 

Con il presente articolo si prevede di modificare l’articolo 450, comma 3 c.p.p. prevedendo che in materia di citazione nel giudizio direttissimo debbono essere inseriti tutti i requisiti di cui all’articolo 429, comma 1 c.p.p..

La disposizione in esame ha natura precettivo e procedurale e non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

ART. 27

(Modifiche al Titolo IV del Libro VI del codice di procedura penale)

 

Con la lettera a) si intervenie sull’articolo 456, comma 2, con l’intento unicamente di positivizzare il dictum della sentenza costituzionale n. 19 del 2020; si è di conseguenza ritenuto di dover menzionare la sospensione del procedimento con messa alla prova come possibile oggetto di richiesta all’udienza camerale anche negli artt. 458 e 458-bis c.p.p. Non vi è viceversa bisogno di sancire il diritto a chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova in via principale perché ciò è già riconosciuto dall’art. 464-bis, comma 2, secondo periodo («se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1»).

Quanto alla modifica dell’articolo 458, comma 2, terzo periodo, c.p.p. (interpolato con il richiamo anche al comma 6-ter dell’art. 438 c.p.p.), si tratta di allineamento alla sentenza della Corte costituzionale n. 169 del 2003 del quale si è già dato atto nell’illustrare le modifiche in tema di giudizio abbreviato.

Si segnala che le modifiche apportate dalle disposizioni in esame, pur non privando delle loro finalità i riti sommari sui quali intervengono, consentono di estendere la loro applicazione a casistiche più ampie e diverse, realizzando un contenimento sia delle udienze dibattimentali che un’abbreviazione dei tempi di definizione dei procedimenti penali.  Per tali motivazioni sono suscettibili di determinare dei benefici effetti in termini di economie di risorse finanziarie e strumentali e in relazione alle attività dei magistrati giudicanti che potranno essere destinati ad altri adempimenti istituzionali, in ogni caso dal punto di vista finanziario se ne evidenzia la mancanza di effetti negativi.

 

 

ART. 28

(Modifiche al Titolo V del Libro VI del codice di procedura penale)

 

Con la lettera a) si modifica il comma 1 dell’articolo 459 c.p.p., con il quale si disciplina il procedimento per decreto nel procedimento penale, e alla omologa disposizione di cui all’art. 64 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, dettata per il procedimento monitorio nell’ambito della disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, cercando di dare attuazione al criterio di delega indicato all’ articolo 1, comma 9, lett. c con il quale si prevede che il termine di un anno si raccorda col termine, parimenti annuale, di durata delle indagini per i reati diversi dalle contravvenzioni (per i quali varrà il termine più breve semestrale) e dai delitti di cui all’art. 407, comma 2 (per i quali varrà il termine di un anno e sei mesi).

La disposizione, di carattere ordinamentale e procedurale, interviene sul termine concesso al pubblico ministero per formulare la richiesta di decreto penale di condanna, quando ritiene che si debba applicare soltanto la pena pecuniaria portandolo ad un anno, e realizzando un opportuno allineamento con i termini di durata delle indagini per la tipologia di delitti, per i quali viene in genere scelta la definizione mediante il rito alternativo del decreto penale ed è suscettibile di generare eventuali effetti positivi per la finanza pubblica in termini di maggior gettito, seppur allo stato non quantificabili.

Il successivo intervento è coordinato con la riformata disciplina del decreto penale di condanna (articolo 459, co. 1 bis c.p.p.).

L’area di intervento è stata individuata nel comma 1 bis dell’art. 459 c.p.p., che già disciplina la possibilità di emettere il decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva, secondo le seguenti linee di riforma:

  1. a) il primo periodo del comma in esame è rimasto inalterato: Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva.
  2. b) il secondo periodo, che determina l’ammontare del valore giornaliero di cui al primo comma, è stato adeguato al criterio dettato dal nuovo art. 56 quater n. 689/1981 in materia di pena pecuniaria sostitutiva: Il valore giornaliero (…) corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Si rinvia per la descrizione di questo criterio alla Relazione all’articolo 56 quater cit., come introdotto dal presente decreto legislativo;
  3. c) la cornice del valore giornaliero è stata determinata in applicazione del criterio di delega di cui alla lettera l) del comma 17 cit., a mente del quale “il valore giornaliero al quale può essere assoggettato il condannato sia individuato, nel minimo, in misura indipendente dalla somma indicata dall’articolo 135 del Codice penale e, nel massimo (…) in caso di sostituzione della pena detentiva con decreto penale di condanna, in 250 euro”; e così si è stabilito che: il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro.

La determinazione del minimo è coerente con quanto stabilito nell’articolo 56 quater cit.:

  1. d) è stato mantenuto l’opportuno richiamo alla rateizzazione della pena pecuniaria: alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del Codice penale, con l’auspicio che possa trovare maggiori spazi di accoglienza nella pratica, al fine di rendere più agevole e quindi effettivo il pagamento delle pene pecuniarie;
  2. e) da ultimo, in applicazione dello specifico criterio di delega di cui si è già fatto cenno, è stata espressamente prevista la possibilità di irrogare con decreto penale il lavoro di pubblica utilità sostitutivo nel limite di un anno, in luogo della pena pecuniaria, inserendo alla fine del comma l’espressione: entro gli stessi limiti, la pena detentiva può essere sostituita altresì con il lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 56 bis della legge 689 del 1981, se l’indagato, prima dell’esercizio dell’azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente.

Si pone il problema di coordinare le peculiarità della procedura semplificata a contraddittorio eventuale e differito con le esigenze della pena sostitutiva ed in particolare con la verificata non opposizione e la necessità di strutturare un programma di lavoro presso un ente accreditato e disponibile. L’ultimo periodo del comma 1 bis dell’art. 459 c.p.p. riguarda in proposito il caso in cui l’indagato sia a conoscenza del procedimento a suo carico e abbia interesse ad attivarsi presso il pubblico ministero per giungere a un decreto penale di condanna al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, di cui fornisce egli stesso gli elementi e la documentazione necessaria con la serietà dell’avallo dell’ufficio di esecuzione penale esterna. In alternativa, presuppone un pubblico ministero o una polizia giudiziaria specializzata che, agli stessi fini, prendano iniziativa presso l’indagato ed il suo difensore.

In tal modo, la richiesta dell’indagato assolve il requisito della non opposizione e la documentazione prodotta tramite l’ufficio di esecuzione penale esterna delinea i contenuti del lavoro di pubblica utilità da sottoporre alla delibazione del giudice.

Si prevede, in attuazione della legge delega, che quando la sostituzione della pena detentiva ha luogo nel procedimento per decreto il valore giornaliero è pari, nel minimo a 5 euro e, nel massimo, a 250 euro. L’effetto premiale, connesso al rito, è pertanto rapportato al valore massimo giornaliero, stabilito nella misura determinata dalla legge delega (art. 1, co. 17, lett. l l. n. 134/2021).

Si segnala, infatti, che il terzo comma dell’art. 56 quater, infine, ribadisce quanto è oggi già previsto nell’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 53, consentendo al giudice, in caso di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, di disporre con la sentenza o con il decreto penale, in relazione alle condizioni economiche del condannato, il pagamento rateale ai sensi dell’art. 133 ter c.p. Si tratta di un’ulteriore attenzione alle esigenze di individualizzazione del trattamento sanzionatorio in rapporto alle condizioni economiche del condannato.

Si evidenzia,  che le norme contenute nel presente articolo, oltre a non essere suscettibili di determinare effetti onerosi per la finanza pubblica, comporteranno effetti positivi di entrata nelle casse dell’erario, atteso che la previsione dei nuovi limiti di conversione tra pena detentiva e pena pecuniaria permetterà di coinvolgere una platea di soggetti, più estesa rispetto a quella odierna, interessati a richiedere l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, ivi incluse quelle di conversione in pene pecuniarie, sebbene, allo stato attuale, di difficile quantificazione.

Al riguardo si evidenzia, infatti, che per quanto riguarda la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, si è tenuto conto da un lato della disciplina generale già prevista dal secondo comma dell’articolo 53, della legge n. 689 del 1981, n. 689, dall’altro ci si è prodigati per individuare un valore giornaliero nel minimo – la cui misura fosse indipendente dalla somma indicata dall’articolo 135 del Codice penale -) e, nel massimo, in misura non eccedente 2.500 euro.

Il criterio prescelto per individuare la misura nel minimo (5 euro), risponde all’esigenza di calibrare la sostituzione della pena in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, quale presupposto essenziale dell’applicazione della pena giusta, in quanto proporzionata alle reali capacità del condannato e funzionale agli obiettivi di prevenzione speciale e sebbene, risulti di circa tre volte minore rispetto a quella attualmente stabilita a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2022 (75 euro prima ancora 250 euro), non si prevedono effetti negativi per la finanza pubblica, attesa la maggior applicazione della misura per effetto del raddoppio del limite massimo della pena detentiva sostituibile ( da 6 mesi ad un anno)  e la maggiore propensione al pagamento da parte di una platea di potenziali soggetti, che vedranno individuato dal giudice tramite il suo prudenziale apprezzamento il valore giornaliero da corrispondere. E infine, la scelta di una forbice più ampia nella quale il giudice potrà far ricadere la sua decisione – ricompresa in un range di valori (da 5 a 2500 euro) – allo stato, non permette di quantificare possibili minori entrate, potendo invece supporsi un effetto compensativo fra le diverse misure ipotizzate, facendo presente, inoltre, che vi sono rilevanti profili di variabilità dovute alla valutazione delle condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare che non si possono prevedere a priori.

Occorre, da ultimo, evidenziare fra gli effetti positivi dell’applicazione di tali disposizioni quello della potenziale deflazione sul piano processuale e sul piano penitenziario, in termini di maggiore speditezza a livello procedurale e di minor spreco di risorse finanziarie in termini di minori costi sostenuti per il mantenimento del soggetto all’interno del circuito carcerario.

Si è inoltre preso atto delle esigenze pratiche di celerità della procedura e della non frequente attivazione diligente e consapevole dell’indagato prima dell’esercizio dell’azione penale.

Nella consapevolezza che l’assoluta maggioranza dei decreti penali viene emessa per pene pecuniarie, si è deciso di aprire uno spazio al lavoro di pubblica utilità anche dopo l’emissione del decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva. In proposito, è stato creato un comma 1-ter dell’articolo 459 c.p.p., finalizzato a dare piena attuazione ed efficacia al criterio di delega in esame, di cui all’ultimo periodo della lettera e), secondo il seguente schema:

  1. a) il presupposto è l’emissione di un decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva e la sua conoscenza da parte dell’imputato, a seguito di rituale notificazione;
  2. b) nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, che è lo stesso termine per proporre opposizione;
  3. c) l’imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale, vale a dire che, in deroga alle condizioni dell’opposizione, si è disegnato un atto personalissimo con la previsione della procura speciale (per il difensore o per altri), in ragione della gravità delle conseguenze sanzionatorie e della necessità della non opposizione della parte, in coerenza con quanto disposto nell’articolo 545 bisp.p., in occasione della condanna a pena sostituibile;
  4. d) può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56 bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione.

Per semplificare e accelerare la procedura di applicazione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, si è tratto esempio dal caso analogo e noto nella prassi dei giudici per le indagini preliminari del decreto penale di condanna a pena pecuniaria per i reati stradali, che, a mente dell’art. 186, co. 9 bis del Codice della strada, può essere punito anche con il lavoro di pubblica utilità. La prassi dei giudici di merito ha trovato l’autorevole avallo della più recente giurisprudenza di legittimità, a mente della quale “in caso di avvenuta emissione di decreto penale di condanna, il giudice per le indagini preliminari, può, su istanza dell’imputato presentata nel termine di quindici giorni dalla notifica del provvedimento, ed in assenza di presentazione, da parte di questi, di atto di opposizione, sostituire la pena pecuniaria di cui al decreto penale con quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall’art. 186, comma 9- bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285” (cfr. Cass. IV 13 gennaio 2021 n. 6879, Parolin).

  1. d) l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56 bis primo comma e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. La disciplina è coerente con le facoltà e i termini riconosciuti all’imputato dall’articolo 545 bisp.p. e dalle altre norme che lo richiamano. Ne consegue che il condannato con decreto penale, senza proporre formale opposizione, deve depositare istanza di sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità nel termine perentorio di quindici giorni e – su richiesta contestuale – ha diritto a un termine fino a sessanta giorni per presentare il programma e la disponibilità dell’ente.
  2. e) allo spirare del termine, in caso di esito favorevole, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità ovvero, in difetto dei presupposti, può respingere la richiesta, emettendo in tal caso decreto di giudizio immediato, in conformità all’art. 464, co. 1 c.p.p.

La presente disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e non produce effetti negativi per la finanza pubblica, in quanto è volta a declinare una serie di indicazioni circa il decreto penale di condanna medianti interventi innovativi dal punto di vista dell’operatività non solo in relazione alle pene pecuniarie sostitutive, ma anche per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo. Per i profili finanziari si rimanda alle analisi e valutazioni già affrontate in merito agli articoli relativi a tali misure sostitutive delle pene detentive.

Con l’inserimento della lettera  h- bis al comma 1 dell’articolo 460 c.p.p.)., si prevede che l’informativa della facoltà, per la persona sottoposta alle indagini, di accedere ai programmi di giustizia riparativa, come disciplinati nel sistema illustrato, deve essere inclusa, non solo nel decreto di fissazione dell’udienza in seguito alla richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari (modifica del comma 1 dell’articolo 447 c.p.p.) e nell’atto di citazione che instaura il giudizio direttissimo (richiamo alla lettera g-bis del comma 1 dell’articolo 429 c.p.p.), ma anche nel decreto penale di condanna.

Il criterio di cui all’art. 1, comma 10, lett. d), n. 2 della legge delega è attuato attraverso la modifica del comma 5 dell’articolo 460 c.p.p., affinché il prodursi dell’effetto estintivo ivi previsto sia subordinato al pagamento della pena pecuniaria. Nella sua chiarezza, il criterio di delega è stringente e non consente deviazioni rispetto alla sua portata. Il disallineamento che ne risulta, rispetto alla disciplina riservata dall’art. 136 disp. att. c.p.p. al patteggiamento (che subordina i limiti all’effetto estintivo al solo caso di volontaria sottrazione alla pena), è giustificato dalla maggiore premialità del decreto penale di condanna rispetto all’applicazione concordata della pena. Il condannato in via monitoria, infatti, non solo beneficia della possibilità di irrogazione di una pena ridotta sino alla metà del minimo edittale, ma, per effetto dell’attuazione del criterio di delega di cui al successivo n. 3) dell’art. 1, comma 10, lett. d), nel caso di pagamento tempestivo e di acquiescenza fruisce di un’ulteriore riduzione di un quinto della pena inflitta. Eventuali distorsioni che la differente previsione in tema di patteggiamento aveva indotto a paventare in passato (per effetto di opposizioni strumentali al decreto penale di condanna, volte ad accedere all’effetto estintivo, nel caso di insolvibilità del condannato, attraverso il ricorso all’applicazione concordata di pena) sono scongiurate, a seguito della radicale modifica introdotta al sistema di esecuzione delle pene pecuniarie, in attuazione del criterio di delega sub art. 1, comma 16.

Quanto al criterio di cui all’art. 1, comma 10, lett. d), n. 3, lo stesso vuole introdurre un ulteriore stimolo, prima che all’acquiescenza, al pagamento immediato della pena irrogata con il decreto penale. In pratica, il giudice nel decreto penale (se non già il P.M. nella sua richiesta) dovrà indicare due somme: quella “intera”, da pagare in esito all’acquiescenza al decreto, e quella ulteriormente ridotta di un quinto, da pagare entro 15 giorni dalla notifica del decreto, con contestuale rinuncia all’opposizione. Le modifiche all’art. 460 c.p.p. introducono tra le formalità del decreto tali nuovi requisiti (lettera b).

La lettera c) modifica il comma 1 dell’articolo 461 c.p.p. in materia di decreto di opposizione al decreto di condanna, stabilendo che per presentare impugnazione si osservano le disposizioni relativamente alla forma previste dall’articolo 582 c.p.p.

Con la lettera d) si interviene sull’articolo 462, comma 1 indiduando negli articoli 175 e 175-bis c.p.p. le disposizioni a cui riferirsi per la restituzione nel termine per proporre opposizione da parte dell’impututai e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria.

Si evidenzia l’obiettivo perseguito dall’intervento, in linea con le direttrici della riforma in atto, permettere una maggiore consapevolezza da parte dell’interessato ed al tempo stesso assicurare effetti di riduzione dei carichi di lavoro processuali.

Nel segnalare la natura ordinamentale e precettiva delle disposizioni, si rappresenta che le stesse sono suscettibili di determinare dei benefici effetti di deflazionamento processuale e di riduzione dei carichi di lavoro dei magistrati giudicanti che potranno essere destinati ad altri adempimenti istituzionali, ed anche eventuali possibili effetti positivi per la finanza pubblica in termini di maggior gettito, seppur allo stato non quantificabili.

 

 

ART. 29

(Modifiche al Titolo V bis del Libro VI del codice di procedura penale)

 

L’art. 1, co. 22, lett. b), della legge n. 134 del 2021 delega il Governo a “prevedere che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero”. La formulazione adottata nell’elaborazione del criterio di delega merita una riflessione preliminare. L’indicazione del legislatore delegante sembra prevedere che la richiesta di sospensione del procedimento possa promanare direttamente dal Pubblico ministero. Tuttavia, il criterio di delega deve necessariamente essere letto ed interpretato in modo sistematico, anche alla luce di alcune decisioni della Corte costituzionale.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 91 del 2018, ha escluso che l’istituto della messa alla prova si ponga in frizione con l’art. 27, co. 2, della Costituzione valorizzando proprio il ruolo che assume il consenso dell’imputato in relazione a tale modalità di definizione del procedimento alternativa al giudizio; la Corte, infatti, ha osservato che “se l’imputato ritiene di possedere elementi per l’affermazione della propria innocenza (…) egli ha a disposizione le garanzie del rito ordinario” In altri termini, l’eventuale “rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa” non implica una “violazione del principio di presunzione d’innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza” (così Corte costituzionale, sentenza n. 91 del 2018, considerato in diritto n. 6, con esplicito richiamo alla precedente sentenza n. 313 del 1990, in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti). In tale linea interpretativa, pertanto, si ritiene che l’attuazione del criterio di delega – per non porsi in frizione con il dettato dell’art. 27, co. 2, della Costituzione – debba articolarsi su uno schema procedurale che – muovendo dalla proposta formulata dal pubblico ministero – valorizzi il consenso dell’imputato quale elemento indispensabile per disporre la sospensione del procedimento. Lo schema procedurale della messa alla prova attivata su proposta del pubblico ministero deve dunque articolarsi – quale che sia la fase procedimentale in cui il tema si pone – in due scansioni: a) proposta del pubblico ministero; b) adesione della persona sottoposta ad indagini (o dell’imputato) alla proposta del pubblico ministero.

Il criterio di delega dettato dall’art. 1, co. 22, lett. b), della legge delega non indica in modo esplicito quale sia la fase procedimentale in cui il pubblico ministero possa formulare la proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Si ritiene che ciò indirizzi il legislatore delegato verso l’elaborazione di schemi procedimentali per disciplinare la sospensione del procedimento con messa alla prova sia nella fase processuale (in sede di udienza preliminare o in sede predibattimentale), sia nella fase procedimentale (al momento della conclusione delle indagini preliminari).

L’idea di limitare l’attuazione della delega alla sola fase processuale, infatti, comporterebbe una innovazione di portata estremamente modesta: già oggi, il pubblico ministero – se pure non può formulare proposte di sospensione del processo con messa alla prova – può avvisare la persona sottoposta ad indagini della possibilità di percorrere tale modalità alternativa di definizione del processo (cfr. art. 141 disp. att. c.p.p.). Ben più rilevante, viceversa, rispetto agli obiettivi di efficienza del sistema e di riduzione dei tempi del processo penale, perseguiti dalla legge delega, è l’ipotesi di introdurre nell’ordinamento una proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova già nella fase procedimentale. Si tratta di una previsione che può favorire il perseguimento di due obiettivi che attraversano tutta la legge delega. La previsione di una possibilità di sospendere il processo con messa alla prova nella fase anteriore a quella tipicamente processuale, infatti, potrebbe assicurare:

  1. a) un significativo effetto deflativo (anche la giurisprudenza costituzionale ha rilevato che la sospensione del procedimento con messa alla prova abbia tale effetto, trattandosi di “istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo” (Corte costituzionale, sentenza n. 240 del 2015, considerato in diritto 2.2);
  2. b) una anticipazione dei percorsi risocializzanti o riparatori (per un’esplicita conferma di tale affermazione, si veda – tra gli altri – il criterio di delega dettato dall’art. 1, co. 22, lett. a), della legge delega). Dovendosi allora elaborare il procedimento relativo alla sospensione del procedimento con messa alla prova a seguito di proposta formulata dal pubblico ministero già nella fase procedimentale, si reputa necessario – e opportuno – introdurre uno schema il più snello possibile; ciò è coerente con le caratteristiche e la funzione deflativa dell’istituto, oltre che con la complessiva ratio ispiratrice della legge delega, volta a perseguire l’efficienza del processo penale e la celere definizione dei procedimenti giudiziari.

Partendo dall’illustrazione del flusso procedimentale relativo alla sospensione del procedimento con messa alla prova prima della fase tipicamente processuale, si prevede che – nella fase procedimentale – il pubblico ministero possa formulare la proposta solo a partire dal momento in cui le indagini preliminari possono ritenersi concluse (cioè: al momento della notifica dell’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p.). Tale scelta – apparentemente distonica rispetto a quanto prevede l’art. 464 ter c.p.p. per la richiesta di messa alla prova formulata durante le indagini preliminari dall’interessato – si giustifica sulla base di tre ragioni: a) la avvenuta conclusione delle indagini preliminari garantisce la serietà del lavoro inquirente e scongiura il rischio di prassi che potrebbero giungere a svuotare di contenuti il principio di obbligatorietà dell’azione penale e quello di completezza delle indagini preliminari; b) la completezza delle indagini preliminari, poi, assicura la possibilità per la persona ad esse sottoposta di operare scelte processuali con piena cognizione di causa: se la sospensione del procedimento con messa alla prova postula il consenso dell’imputato, è di tutta evidenza che tale consenso – e con esso la rinuncia a contestare l’accusa (v. Corte costituzionale, sentenza n. 91 del 2018, cit.) – deve potersi formare in modo pienamente consapevole (e, dunque, con piena cognizione degli elementi d’accusa potenzialmente pregiudizievoli alla persona sottoposta ad indagini); c) la completezza delle indagini preliminari, infine, consentirà al giudice per le indagini preliminari di assolvere – con piena cognizione di causa – alla sua funzione di controllo (sulla ammissibilità della richiesta in relazione alla qualificazione giuridica del fatto proposta; sull’insussistenza di elementi che impongano il proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p.; sulla idoneità della proposta di sospensione del procedimento messa alla prova a perseguire gli obiettivi di special-prevenzione che comunque appartengono alla ratio dell’istituto).

Ciò posto, all’esito delle indagini preliminari, il pubblico ministero – con l’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. – può (e non “deve”) formulare una proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, indicando “la durata e i contenuti del programma trattamentale. È opportuno chiarire – quanto all’indicazione dei contenuti del programma trattamentale – che il pubblico ministero, nel formulare la proposta, potrà limitarsi ad indicare i contenuti essenziali del programma trattamentale (se, cioè, sia necessario un ristoro per la persona offesa; o, ad esempio, la tipologia di lavoro di pubblica utilità maggiormente confacente al caso in esame); il definitivo programma trattamentale, infatti, dovrà necessariamente essere elaborato con l’indispensabile apporto consensuale della persona interessata.

Relativamente a tale scansione procedimentale, si è ritenuto utile chiarire che il pubblico ministero – ove lo ritenga necessario – possa chiedere l’ausilio dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (di seguito UEPE) per la formulazione della proposta (art. 464 ter.1, co. 1, c.p.p.). Il coinvolgimento dell’UEPE in questa fase è solo eventuale, essendo opportuno non sovraccaricare tale ufficio di una serie di incombenti che rischierebbero di comprometterne la complessiva funzionalità. Tuttavia, tale esplicita previsione è utile anche a promuovere un’attività di collaborazione tra procure della Repubblica e UEPE che potrebbe trovare espressione non solo nell’elaborazione di proposte di MAP dedicate al singolo procedimento, ma anche all’elaborazione di protocolli condivisi tra UEPE e Procura della Repubblica, capaci di offrire degli standard di riferimento dai quali i pubblici ministeri potranno attingere nell’elaborare le proposte da formulare nei singoli casi individuali. Si è altresì ritenuto opportuno prevedere – con finalità acceleratorie – che, in tal caso, l’UEPE debba fornire il proprio contributo entro trenta giorni (v. art. 141 bis, co. 2 disp.att.c.p.p.), con l’introduzione di un termine che, sebbene ordinatorio, deve comunque essere rispettato (arg. ex art. 124 c.p.p.).

La proposta di messa alla prova formulata dal pubblico ministero è formalizzata – e notificata alla persona sottoposta ad indagini – con l’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p.  Ricevuta tale proposta, la persona sottoposta ad indagini deve – entro il termine di venti giorni – manifestare la propria adesione alla proposta del pubblico ministero. Si tratta dello stesso termine che l’art. 415 bis, co. 3, c.p.p. assegna alla persona sottoposta ad indagini per esercitare alcune scelte procedimentali (presentazione di memorie; formulazione di richieste di indagine; richiesta di interrogatorio). Entro tale termine, dunque, la persona sottoposta ad indagini deve manifestare la propria adesione alla proposta del pubblico ministero, personalmente o a mezzo di procuratore speciale (con una forma di manifestazione del consenso che è coerente alle altre ipotesi di messa alla prova). La manifestazione di adesione può essere depositata presso la segreteria del pubblico ministero anche con modalità telematica.

È solo il caso di evidenziare che – laddove il pubblico ministero riesca ad elaborare una proposta di MAP coerente con le risultanze del procedimento e con il profilo soggettivo della persona sottoposta ad indagini – è probabile che essa incontri l’adesione dell’interessato ed è dunque possibile che l’istituto possa esercitare anche l’auspicabile effetto deflativo. Ove, viceversa, il pubblico ministero formuli proposte di MAP che la persona sottoposta ad indagini reputa eccessivamente gravose, più limitato sarà il tasso di adesioni alla proposta formulata dal PM e, conseguentemente, significativamente inferiore sarà l’effetto deflativo dell’istituto, considerato che in tal caso il procedimento seguirebbe il suo corso ordinario. In questo secondo scenario (proposte di MAP formulate dal PM eccessivamente “gravose”), tuttavia, nessun pregiudizio vi sarà sulla posizione della persona sottoposta a procedimento penale; quest’ultima, infatti, potrà comunque non aderire alla proposta del pubblico ministero e – nelle successive scansioni del procedimento – conserverà la facoltà di sottoporre all’attenzione del giudice una propria richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova nelle forme già oggi previste.

Si ritiene che una delle possibili chiavi di successo della novità legislativa sia legata alla snellezza procedimentale e alla necessità di non gravare gli uffici del giudice per le indagini preliminari (già coinvolti da molte novità conseguenti alla riforma) di una serie di incombenze ulteriori e non indispensabili. In tale prospettiva, si è ipotizzato che l’ineliminabile vaglio del giudice per le indagini preliminari sulla proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova possa avvenire all’esito di un procedimento di natura cartolare; è comunque previsto che – laddove lo ritenga necessario – il giudice per le indagini preliminari possa fissare udienza camerale, ai sensi dell’art. 127 c.p.p. (art. 464-ter.1, co. 6, c.p.p.).

Non si ritiene che ciò determini una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla – per certi versi omologa – disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova richiesta nel corso delle indagini preliminari e disciplinata dall’art. 464 ter c.p.p. Da un lato, perché la persona sottoposta ad indagini non vede in alcun modo preclusa la possibilità di chiedere la sospensione del procedimento secondo le modalità già oggi previste dagli artt. 464 bis e 464 ter c.p.p. Dall’altro lato, perché la procedura delineata nell’art. 464 ter.1 c.p.p. contenuta nella proposta del pubblico ministero postula comunque il consenso della persona interessata.

Inoltre, lo schema procedimentale proposto permette di superare alcuni aspetti disfunzionali previsti dalla disciplina oggi delineata dagli artt. 464 bis e 464 ter c.p.p. (cui, nella prassi, si è ovviato con un proliferare di protocolli e linee guida, talora praeter legem). La procedura delineata nel nuovo art. 464 ter.1 c.p.p. contempla infatti il coinvolgimento nel procedimento degli UEPE solo quando vi è una prognosi concreta e plausibile di sospensione del procedimento con messa alla prova, così limitando il dispendio di risorse da parte di questo prezioso ufficio, cruciale per il successo della riforma.

Tornando ora a descrivere il flusso procedimentale delineato nell’art. 464 ter.1 c.p.p. di cui si propone l’introduzione, occorre, schematicamente, dire quanto segue. Una volta ricevuta notizia della tempestiva adesione alla proposta di MAP da parte della persona sottoposta ad indagini, il pubblico ministero formula l’imputazione (in analogia a quanto prevede oggi l’art. 464 ter, co. 3, c.p.p.) e trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari, notificando alla persona offesa dal reato l’esistenza di tale possibile sviluppo del procedimento, con avviso della possibilità di presentare memorie al giudice per le indagini preliminari entro un termine – necessariamente breve – di dieci giorni.

Il coinvolgimento della persona offesa in tale scansione del procedimento appare necessario, onde assicurare una adeguata possibilità di partecipazione al procedimento e, dunque, l’esercizio del diritto al contraddittorio. Il coinvolgimento della persona offesa, del resto, è previsto anche in tutte le altre ipotesi di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 464 quater, co. 1, c.p.p.) e non si vedono valide ragioni per escludere la partecipazione della persona offesa nel particolare procedimento ora in esame.  Nella procedura ordinaria che si è prevista, il coinvolgimento della persona offesa è, in linea di massima, cartolare (salva l’ipotesi in cui il giudice non ritenga necessario fissare udienza ai sensi dell’art. 127 c.p.p.). Del resto, la persona offesa non ha un “potere di veto” sulla possibile sospensione del procedimento con messa alla prova, ma solo il diritto di essere “sentita” e, quindi, di rappresentare il proprio punto di vista. Che la rappresentazione del punto di vista della persona offesa possa avvenire non nel corso di un’udienza camerale, ma solo tramite memorie non è un inedito del nostro sistema processuale: si pensi alla facoltà assegnata alla persona offesa da reati a base violenta di presentare memorie in caso di richieste di revoca o sostituzione di misure cautelari (art. 299, co. 3, c.p.p.) o al contraddittorio cartolare che il legislatore ha delineato in materia di reclamo avverso il decreto di archiviazione (art. 410 bis c.p.p.).

Il termine di dieci giorni indicato per la presentazione di memorie da parte della persona offesa è poi coerente con il termine dilatorio previsto dalla legge processuale per la celebrazione delle udienze in camera di consiglio (e, dunque, la persona offesa ha lo stesso lasso di tempo per esporre al giudice il proprio punto di vista sulla eventuale sospensione del procedimento con messa alla prova, benché diversa sia la forma di rappresentazione).

Ricevuti gli atti – e le eventuali memorie presentate dalla persona offesa – il giudice per le indagini preliminari deve procedere al vaglio della proposta di MAP formulata dal PM, cui abbia aderito la persona sottoposta ad indagini, oramai divenuto imputato. La norma che si prevede di introdurre contempla tre ipotesi: a) il giudice per le indagini preliminari ritiene che la concorde richiesta di sospensione del procedimento debba essere respinta; b) il giudice per le indagini preliminari ritiene che la concorde richiesta di sospensione del procedimento debba essere accolta; c) il giudice per le indagini preliminari ritiene necessario acquisire ulteriori elementi utili alla decisione.

Il testo dell’art. 464-ter.1, co. 4, c.p.p. prevede esplicitamente tre ragioni di possibile diniego della concorde richiesta di sospensione da parte del giudice per le indagini preliminari: a) quando deve emettere sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. (e, in tal caso, il giudice penale emetterà la sentenza senza nemmeno fissare camera di consiglio, come avviene anche in materia di pronuncia di sentenza ex art. 129 c.p.p. in caso di richiesta di decreto penale; la sentenza sarà suscettibile di ricorso per cassazione; cfr. Cass. Sez. U, 30.9.2010, n. 43055, rv. 248378-0 e Cass. Sez. U, 11.5.1993, n. 6203, rv. 193744-0); b) quando ritiene che non possa essere formulata una prognosi favorevole in ordine al pericolo di recidiva; c) quando ritiene che il contenuto della proposta di MAP formulata dal PM e condivisa dall’imputato non sia idoneo alla luce dei criteri indicati dall’art. 133 c.p.

È solo il caso di precisare che – una volta restituiti gli atti al pubblico ministero – l’ufficio requirente potrà assumere le determinazioni che ritiene più adeguate in ordine alle modalità di prosecuzione del procedimento (esemplificativamente: richiesta di archiviazione ex art. 131 bis c.p.; richiesta di fissazione di udienza preliminare o di emissione di decreto di giudizio immediato o di decreto penale di condanna; citazione diretta a giudizio). L’art. 464-ter.1, co. 9, c.p.p. prevede poi che – in caso di rigetto della proposta da parte del giudice per le indagini preliminari – essa possa essere riproposta (anche negli stessi termini) nelle fasi del procedimento immediatamente successive.

Ove la concorde proposta delle parti di sospensione del processo con MAP non presenti profili problematici, il giudice per le indagini preliminari – sempre con procedura cartolare – può dare incarico all’UEPE di elaborare la proposta di MAP d’intesa con l’imputato (art. 464-ter.1, co. 4, c.p.p.). Al fine di evitare stasi del procedimento, si prevede che l’UEPE elabori il programma di intesa con l’imputato e lo trasmetta al giudice per le indagini preliminari entro novanta giorni (art. 464-ter.1, co. 5, c.p.p.); si tratta di termine ordinatorio (di cui è comunque doveroso il rispetto; v. art. 124 c.p.p.), che contempera le esigenze di celerità del singolo procedimento con quelle di “sostenibilità” per gli UEPE del complessivo carico di lavoro gravante su quegli uffici. Una volta ricevuto il programma elaborato dall’UEPE, il giudice per le indagini preliminari – con ordinanza (e sempre senza fissare udienza) – dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova, il cui esito sarà valutato nelle forme già oggi previste dall’art. 464 quater e ss. c.p.p.

L’abbandono della procedura esclusivamente cartolare è prevista per il solo caso in cui il giudice per le indagini preliminari ritenga necessario chiarire alcuni aspetti della proposta avanzata concordemente dalle parti o del programma elaborato dall’imputato d’intesa con l’UEPE. In tali casi, il giudice per le indagini preliminari può fissare udienza camerale, da celebrare nelle forme previste dall’art. 127 c.p.p. (articolo 464 ter.1, co. 6, c.p.p.). In quell’udienza camerale, la cui celebrazione è solo eventuale, il giudice per le indagini preliminari potrà acquisire informazioni utili ai fini della decisione e, eventualmente, acquisire il consenso dell’imputato ad integrare con alcuni contenuti del programma trattamentale. Ove, all’esito degli approfondimenti raccolti nell’eventuale udienza camerale, il giudice per le indagini preliminari ritenga percorribile l’alternativa della sospensione del processo con messa alla prova, egli provvederà ai sensi dei commi 4 e 5 dell’articolo 464 ter.1 c.p.p.; viceversa, ove il giudice ritenga non esservi spazio per tale procedimento speciale, provvederà a respingere la richiesta restituendo gli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso del procedimento.

Così chiarito l’iter procedimentale che si è delineato per la sospensione del procedimento prima dell’esordio della vera e propria fase processuale, è da illustrare quanto previsto per la fase processuale. Al riguardo, si propone di effettuare alcuni interventi normativi sul testo dell’articolo 464 bis c.p.p. Va detto che, in questa fase, il ruolo del pubblico ministero nella formulazione della proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova è destinato ad essere residuale. Nell’udienza preliminare o nella fase predibattimentale, infatti, l’imputato ha piena cognizione di quali siano gli elementi accusatori con i quali deve confrontarsi e ha quindi modo – ove lo ritenga utile e opportuno – di attivarsi direttamente per sollecitare la sospensione del procedimento con messa alla prova. Si è comunque ritenuto utile prevedere che – anche in questa fase – il pubblico ministero possa formulare all’imputato la proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova; ciò al fine di lasciare aperta al massimo grado possibile la porta che dà accesso a tale modalità di definizione alternativa del procedimento, magari in supplenza a situazioni di inerzia dell’ufficio di difesa (situazioni di inerzia che, pur rare, talora si registrano nella prassi).

Laddove il pubblico ministero formuli la proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova nel corso dell’udienza preliminare, o nella fase pre-dibattimentale (nei procedimenti a citazione diretta), si prevede la possibilità per la parte interessata di chiedere un breve rinvio del procedimento (con un’estensione del termine dilatorio limitata a venti giorni, in analogia al termine di cui può godere la persona interessata in caso di proposta di messa alla prova formulata dal pubblico ministero all’esito delle indagini preliminari); la necessità di prevedere tale rinvio è funzionale a consentire all’imputato di ponderare la proposta del pubblico ministero e, eventualmente, di formalizzare la richiesta di programma trattamentale all’UEPE. Nel testo dell’art. 464 bis, co. 2, c.p.p. si è poi prevista la necessità di chiarire che la richiesta di messa alla prova può essere presentata – nei procedimenti a citazione diretta a giudizio – solo sino alla conclusione dell’udienza predibattimentale che il legislatore delegato è chiamato ad introdurre in attuazione della delega conferita dall’art. 1, co. 12, legge n. 134 del 2021.

Atro intervento sul codice di procedura penale di allineamento alla riforma perseguita con la giustizia riparativa è quello in materia di messa alla prova, con l’inserimento nella lettera c) del quarto comma dell’articolo 464 bis c.p.p. della possibilità che il programma allegato all’istanza di messa alla prova contenga (oltre alla, già prevista, mediazione con la persona offesa) anche lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa.

In definitiva: ove le parti processuali formulino proposte ancorate a dati di realtà e concretamente orientate a percorsi riparatori e di risocializzazione, la disciplina della sospensione del processo con messa alla prova su proposta del pubblico ministero può rivelarsi estremamente snella e relativamente poco onerosa per il sistema giudiziario, con possibile concreto effetto deflativo.

Le disposizioni in esame hanno carattere procedurale e precettivo e non comportano effetti negativi per la finanza pubblica, al contrario oltre al riflesso positivo in termini di riduzione dei carichi lavorativi giurisdizionali, si avrà l’ulteriore riflesso di deflazionamento processuale e di riduzione di accesso a misure detentive, cautelari e non, con risparmi di spesa allo stato non quantificabili. Il duplice effetto positivo derivante dalle modifiche inserite nel presente decreto è riscontrabile sia in termini di incentivo alle forme di definizione alternativa dei procedimenti penali con il perseguimento degli obiettivi cardini della riforma del sistema giustizia in termini di risocializzazione del soggetto e reinserimento sociale, alleggerimento del sovraffollamento carcerario, riduzione dei tempi medi processuali ed infine eventuale conseguente contrazione di costi procedurali.

Lo scopo delle disposizioni in esame è quello di agevolare le richieste di applicazione della MAP- misura di comunità collocata nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio – prevedendola anche su proposta del p.m con il consenso dell’imputato/interessato, in quanto tale consenso rappresenta elemento indispensabile per disporre la sospensione del procedimento, stimando possibili rilevanti effetti deflattivi. Gli adempimenti connessi agli specifici interventi previsti dalla presente disposizione, rientrano fra le attività istituzionali dell’amministrazione giudiziaria e pertanto, potranno essere fronteggiati con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente. Per quanto riguarda invece il UEPE, si segnala che il carico aggiuntivo di lavoro previsto per le diverse fasi in cui lo vedrà coinvolto per definire il percorso trattamentale più opportuno per l’imputato/interessato, potrà essere fronteggiato grazie alle misure previste nel decreto- legge 36/2022 in termini di potenziamento di risorse umane.    

 

CAPO VII

Modifiche al Libro VII del codice di procedura penale

 

ART. 30

(Modifiche al Titolo II del Libro VII del codice di procedura penale)

 

Con la lettera a) si sostituisce il primo comma dell’art. 477 del codice di rito, in stretta aderenza alle prescrizioni della legge delega (art. 1, comma 11, lett. a) della l. 27 settembre 2021, n. 134), introducendo  la figura, già nota alla disciplina normativa del rito civile e alle prassi virtuose del processo penale, del calendario delle udienze dibattimentali e della discussione.

La formulazione adottata ricalca quella della legge delega, ma precisa che la calendarizzazione è delineata dal giudice sulla base dell’ascolto e del contemperamento delle esigenze delle parti ed è finalizzata a garantire «celerità e concentrazione», nell’ottica della ragionevole durata del processo.

Nella formulazione proposta, il calendario di udienza costituisce uno strumento per razionalizzare il corso delle attività dibattimentali, evitando mediante la programmazione rinvii inutili o la celebrazione di udienze interlocutorie, ma nel rispetto di una specifica esigenza di celerità e senza rinunciare all’immediatezza del dibattimento, secondo il monito espresso della Corte costituzionale nella sentenza n. 132 del 29 maggio 2019.

Il riferimento al Presidente si adatterà anche al rito monocratico in funzione del rinvio generale ai principi del dibattimento ad opera dell’art. 559, comma 1, cod. proc. pen.

Si segnala la natura procedurale delle disposizioni, tese all’efficientamento organizzativo del dibattimento che non assumono rilevanza sotto il profilo finanziario. Ai relativi adempimenti si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Alla lettera b) rileva uno specifico intervento ha riguardato poi l’articolo 483 c.p.p. che disciplina la sottoscrizione e trascrizione del verbale, con l’inserimento del comma 1-bis che riguarda l’apposizione del visto con firma digitale o altra firma elettronica qualificata del Presidente sul verbale sottoscritto a norma dell’articolo 111 dal pubblico ufficiale che lo ha redatto.

L’intervento ad opera della lettera c) è teso ad inserire  nell’articolo 484, comma 2-bis “Costituzione delle parti”, le disposizioni dell’articolo 420-ter e, nei casi in cui manca l’udienza preliminare, anche le disposizioni di cui agli articoli 420, 420-bis, 420-quater, 420-quinquies e 420-sexies in materia di assenza possono applicare – in quanto compatibili.

Trattasi di una norma che ha natura procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto volta a un coordinamento normativo generale.

Alla lettera d)  si è intervenuti sull’articolo 489 c.p.p. in relazione alla fase dibattimentale, superando la il precedente disposto dell’art. 489 c.p.p., che, in via principale, riconosceva all’imputato contro il quale si è proceduto in assenza nel corso dell’udienza preliminare la sola facoltà di “chiedere di rendere le dichiarazioni previste dall’articolo 494”, con previsione del tutto inutile, visto che quella facoltà non incontra mai limiti e, in aggiunta, prevedeva il solo diritto di formulare le richieste di cui agli articoli 438 e 444,  ove avesse provato che l’assenza nel corso dell’udienza preliminare era riconducibile alle situazioni previste dall’articolo 420-bis, comma 4. Con soluzione anomala, visto che lo stesso art. 420-bis, comma 4, con riferimento al giudizio di primo grado, riconosceva all’imputato il diritto di formulare richiesta di prove ai sensi dell’articolo 493 e la rinnovazione di prove già assunte, se forniva la prova che l’assenza era dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo o che vi era una impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che la prova dell’impedimento era pervenuta con ritardo senza sua colpa.

Per mettere ordine in questa situazione si è, quindi, previsto, per prima cosa, che se l’imputato è stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità del decreto di rinvio a giudizio e restituisce gli atti al giudice dell’udienza preliminare. Soluzione derogata nel caso in cui la nullità non sia eccepita dall’imputato presente (nel qual caso, però, all’imputato – per incentivarlo a quella scelta- è data sempre la facoltà di essere restituito nel termine per formulare le richieste di procedimenti speciali e di esercitare le ulteriori facoltà dalle quali sia decaduto) e nel caso in cui l’imputato fosse nelle condizioni di comparire in udienza preliminare.

Per quest’ultimo profilo, infatti, si ritiene che anche l’errata dichiarazione di assenza non dà diritto ad una retrocessione del procedimento se l’imputato era nelle condizioni di comparire in udienza preliminare e, quindi, di far valere già in quel momento il vizio e di esercitare tutte le facoltà che ora chiede di esercitare con azzeramento del procedimento.

Accanto al rimedio per il caso in cui l’assenza fosse stata mal dichiarata, si aggiunge sempre il rimedio ulteriore per i due casi già visti, in cui invece risulta che mancava una effettiva conoscenza della pendenza del processo. In questi casi, però, per prima cosa, resta ferma, la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza, proprio in ragione del fatto che si è correttamente proceduto in assenza.

L’imputato è, invece, sempre restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto:

  1. a) se (in qualsiasi caso di assenza) dimostra che si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare la facoltà dalla quale è decaduto per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa; oppure
  2. b) se (nei casi di assenza provata o colpevole) prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto.

In ambedue i casi, il rimedio non è riconosciuto se l’imputato era nelle condizioni di comparire (o far valere l’impedimento) in udienza preliminare e, quindi, di esercitare tutte le facoltà che ora chiede di esercitare con azzeramento del procedimento e non lo ha fatto per sua colpa.

Con le modifiche in esame, di natura precettiva e procedurale, si è inteso declinare la disciplina sull’assenza all’interno delle presenti disposizioni, al fine di una più efficiente omogeinizzazione normativa.

Con la lettera e) in attuazione del criterio di delega enunciato dall’art. art. 1, comma 11, lett. b) della l. 27 settembre 2021, n. 134, si è scelto di modificare il terzo comma dell’articolo 493 c.p.p.. impiegando il verbo «illustrare», con riferimento alla richiesta di prove delle parti.

La modifica intende enfatizzare l’introduzione di «un momento dialettico che accompagni le richieste di prova delle parti» a beneficio di un consapevole e razionale esercizio del sindacato giudiziale previsto dagli artt. 189 e 190 c.p.p., al fine di evitare un ingresso incontrollato di prove nel dibattimento e, quindi, appesantire l’istruttoria o impedire una effettiva programmazione del lavoro.

La richiesta di ammissione della prova è articolata nei momenti dell’indicazione dei fatti che si intendono provare e dell’illustrazione dell’ammissibilità e rilevanza delle prove e per evitare che si trasformi in un modo surrettizio per veicolare al giudice elementi conoscitivi di valutazione si è specificato che quello deve essere il contenuto esclusivo dell’illustrazione.

Peraltro, rimane fermo il potere del Presidente, sancito dall’ultimo comma dell’art. 493 cod. proc. pen., di impedire ogni divagazione, ripetizione e interruzione e ogni lettura o esposizione del contenuto degli atti compiuti durante le indagini preliminari.

L’intervento normativo, di natura procedurale, è finalizzato allo snellimento procedurale in sede di dibattimento realizzato con l’introduzione del momento dialogico tra le parti ai fini della selezione probatoria e pertanto non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Ai relativi adempimenti si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Sempre in attuazione del criterio di delega sancito dall’art. 1, comma 11, lett. d) della l. 27 settembre 2021, n. 134, con la lettera f) è stato introdotto nel corpo dell’articolo 495 c.p.p. un nuovo ultimo comma per regolare il delicatissimo tema dell’immediatezza della deliberazione.

La collocazione della norma appare corretta, in quanto quella dettata è una regola di ammissione delle prove, seppure collocata in sede di rinnovazione delle istanze giustificata dal mutamento di almeno uno dei giudici che compongono il collegio.

Il testo, rispetto al criterio della legge delega, che già appare sufficientemente specifico rispetto al bilanciamento realizzato, è stato meglio declinato, per prima cosa, facendo generico riferimento al mutamento del giudice, per includere sia il giudice monocratico che il giudice collegiale – in quanto la norma si colloca nelle disposizioni dettate per il rito collegiale e opera, invece, nel giudizio monocratico per effetto di quanto previsto dagli articoli 549 e 555 c.p.p. – e per consentire che la disposizione operi anche quando la composizione del giudice collegiale muti per effetto della sostituzione anche di uno solo dei suoi membri. In secondo luogo, si è escluso il riferimento espresso al fatto che le prove utilizzabili siano state assunte nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, in quanto si tratta di prove assunte nello stesso dibattimento e quindi è in re ipsa che siano state assunte nel contraddittorio con tutte le parti del medesimo processo.

In concreto, si dispone che in caso di mutamento di almeno uno dei componenti del collegio (e, quindi, in caso di rito monocratico dell’unico giudice), a richiesta della parte che vi ha interesse, debba sempre essere disposta la riassunzione della prova dichiarativa già assunta.

Qualora, però, la prova dichiarativa sia stata verbalizzata tramite videoregistrazione, il giudice non disporrà la riassunzione della prova, salvo lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze.

Quest’ultima disposizione deve essere letta in sintonia con le disposizioni di attuazione del criterio di legge delega enunciato dall’art. 2-quater comma 1, lett. a), destinato a introdurre la registrazione audiovisiva delle prove dichiarative come forma ulteriore e tendenzialmente elettiva di documentazione dell’atto.

La presente disposizione introduce una ulteriore misura di contingentamento dei tempi, stabilendo che la riassunzione della prova dichiarativa davanti ad altro giudice (che è mutato) o al collegio se uno dei componenti è cambiato sia necessaria solo se è richiesto dalla parte o se, nel caso di prova verbalizzata tramite videoregistrazione, il giudice lo ritenga necessario per specifiche esigenze.

Anche tale modifica, stante il carattere procedurale, non assume rilevanza sotto il profilo finanziario.

La lettera g) con la quale si segnala che avuto riguardo alla significativa espansione degli istituti in materia di dematerializzazione” dell’udienza e  di partecipazione alle udienze a distanza, è stata realizzata, innanzitutto, intervenendo sulla disciplina dell’istruttoria dibattimentale, inserendo nell’articolo 496 c.p.p. un nuovo comma 2-bis, che generalizza la possibilità di esame a distanza di testimoni, imputati in procedimento connesso, periti, consulenti tecnici e parti private. Ciò sul presupposto, da un lato che non ricorra alcuna delle ipotesi  che le parti interessate prestino consenso all’impiego di tale modalità di assunzione delle prove: consenso che peraltro non vincola il giudice, il quale – ovviamente – potrà e dovrà accertare la disponibilità della indispensabile strumentazione tecnica e valutare la ricorrenza di eventuali circostanze indicativi dell’opportunità, se non addirittura della necessità, di procedere secondo l’ordinario modulo dell’audizione in presenza.

Con la lettera h) si inserisce il nuovo comma 1-bis dell’articolo 501 c.p.p. introducendo, in conformità alle previsioni della legge delega (art. 1, comma 11, lett. c) della l. 27 settembre 2021, n. 134), il deposito preventivo delle perizie e delle consulenze tecniche per consentire di realizzare un contraddittorio adeguatamente informato, e dunque, consapevole ed efficace, sulla prova scientifica.

In assenza di indicazioni specifiche sulla congruità del termine, si è ritenuto che il termine di sette giorni potesse rappresentare una soluzione adeguata al fine di bilanciare ragionevolmente gli interessi delle parti e l’efficienza processuale.

Si è scelto, inoltre, non introdurre alcuna sanzione per il tardivo o omesso deposito della relazione tecnica, ritenendo che lo stesso non possa pregiudicare la validità dell’esame orale del perito o del consulente tecnico.

In conformità alla previsione della legge delega, la nuova disposizione non comporta alcuna deroga alla disciplina dell’ordine di assunzione delle prove, delle letture e dell’indicazioni degli atti utilizzabili ai fini della decisione.

Peraltro, in connessione con l’intervento effettuato sull’articolo 501 c.p.p. e con il criterio di delega, il quale precisa che resta ferma “la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione”, si è chiarito con un intervento sul comma due, che oltre alla facoltà di periti e consulenti di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni (e alla connessa possibilità di acquisirli), l’acquisizione potrà riguardare le sole relazioni depositate ai sensi dei nuovi commi 1-bis e 1-ter, in tal modo coordinando la fase, meramente informativa, del deposito, con quella acquisitiva e fermo, per il resto, quanto previsto dall’articolo 511 c.p.p.

Con il presente intervento in tema di esame dei periti e consulenti tecnici, si definisce un termine congruo precedente l’udienza per tale attività, che incide in termini di efficientamento procedurale. Le disposizioni  hanno natura ordinamentale e procedurale e non comportano effetti negativi per la finanza pubblica.

In questo contesto, norma centrale del sistema diviene l’articolo 510 c.p.p. “Verbale di assunzione dei mezzi di prova”, nel cui ambito si è pianamente prevista, in attuazione della delega, la necessità della registrazione audiovisiva (in aggiunta alla modalità ordinaria di documentazione) per tutti gli atti processuali destinati a raccogliere le dichiarazioni di persone che possono o devono riferire sui fatti (compresi periti e consulenti tecnici, protagonisti secondo la più recente giurisprudenza di prove dichiarative in senso proprio) (lettera i).

L’intervento in esame, diretto a enucleare i principi e criteri che sottendono alla formazione delle c.d. prove dichiarative ed alla loro corretta utilizzazione in ambito processuale, non determina effetti onerosi per la finanza pubblica, atteso che vengono rese ordinarie attività già previste, il cui svolgimento viene ulteriormente efficientato e che compensano l’eliminazione di altre incombenze che riguardano il personale amministrativo.

Nel quadro generale di riforma, l’intendimento della legge delega è quello di razionalizzare e generalizzare il diritto dell’imputato ad accedere ai riti premiali (segnatamente e nell’attuale contesto normativo: patteggiamento, abbreviato, messa alla prova; l’analogo problema con riguardo all’oblazione trova già soluzione all’art. 141, comma 4-bis, disp. att.) in caso di una qualunque modifica dell’imputazione (lettera l). Per garantire tale risultato si propongono due interventi:

– quello “informativo” all’articolo 519, comma 1, c.p.p. norma che enuncia gli avvisi che il giudice dà all’imputato in caso di modifica dell’accusa;

– quello “attributivo” del potere all’articolo 519, comma 2, c.p.p. norma che contiene i poteri che competono alla parte in caso di nuova contestazione (ottenere il termine a difesa, chiedere nuove prove, chiedere i procedimenti speciali).

Nell’articolo 519, comma 2, c.p.p. si propone poi la soppressione dell’inciso “a norma dell’articolo 507” per adeguare il comma alla sentenza della Corte costituzionale n. 241 del 1992.

La modifica introdotta con la lettera m) all’articolo 520, comma 2, c.p.p., per il caso di nuove contestazioni all’imputato non presente, è conseguente alla modifica all’art. 519 di cui si è detto sopra. Attesa la necessità di coordinare l’intervento con la nuova disciplina del processo in assenza e di eliminare qualsiasi dubbio interpretativo sull’ambito applicativo della disciplina delle nuove contestazioni, si chiarisce che la disposizione di garanzia si riferisce a tutte le situazioni in cui l’imputato non sia  fisicamente presente in udienza,  compresi i casi in cui, per espressa previsione legislativa, l’imputato debba considerarsi presente, nonché i casi in cui quest’ultimo sia evaso durante il dibattimento o sia comparso ad una precedente udienza dibattimentale (si rinvia, sul punto, alle modifiche apportate all’art. 420 c.p.p.).

Si segnala con riferimento alle modifiche introdotte alla disciplina dei riti speciali, in attuazione delle lettere l) e m) del comma 1, che si realizzano opportuni interventi di coordinamento normativo in materia di nuove contestazioni effettuate nel dibattimento con quella dei termini di presentazione della richiesta dei riti speciali come riformulati. Le disposizioni, pertanto, strante il carattere ordinamentale e procedurale non hanno effetti negativi per la finanza a pubblica

 

ART. 31

(Modifiche al Titolo III del Libro VII del codice di procedura penale)

L’ampio e diversificato ventaglio delle pene sostitutive di pene detentive brevi creato dalla legge delega n. 134 del 2021 impone di adottare soluzioni altamente innovative anche in sede processuale di cognizione. La legge delega attribuisce al giudice di merito il potere di sostituire la pena detentiva anticipando alla fase della cognizione, a titolo di vera e propria pena (anche se sostitutiva), le forme di esecuzione extra-carceraria che nell’ordinamento penitenziario vigente sono definite come “misure alternative alla detenzione”. Il giudice della cognizione, in altri termini, in caso di condanna a pena detentiva breve, è chiamato ad un compito ulteriore e nuovo rispetto agli schemi classici della commisurazione e applicazione della pena principale, ossia a valutare se non vi siano modelli sanzionatori, sostitutivi della pena detentiva, che contribuiscano in modo più adeguato alla rieducazione del condannato, purché assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che il condannato commetta altri reati (art. 1, co. 17 lett. c) l. n. 134/2021).

Per adempiere a tale compito, tuttavia, il giudice ha bisogno di un bagaglio di informazioni ulteriori rispetto a quelle comunemente acquisite nel giudizio di cognizione e per questo la legge delega ha previsto il coinvolgimento degli uffici di esecuzione penale esterna.

In questa sede, ci si deve soffermare sul “luogo processuale”, in cui il giudice di cognizione deve decidere sull’eventuale sostituzione della pena detentiva breve con altra pena sostitutiva, acquisendo anche dagli uffici di esecuzione penale esterna gli elementi indispensabili alla selezione della pena sostitutiva più adeguata a contemperare le esigenze di risocializzazione costituzionalmente connesse alla sanzione penale (art. 27, comma 3, Cost.) con quelle retributive e special-preventive ad essa comunque connaturate. Non deve essere affatto trascurato in questa fase l’apporto responsabile e talvolta indispensabile della difesa del condannato, che – ove miri alla sostituzione della pena detentiva – ha il concreto interesse a fornire al giudice tutti gli elementi conoscitivi funzionali allo scopo.

Nel valutare i modi e soprattutto i tempi processuali del possibile innesto nel giudizio di cognizione dell’intervento dell’UEPE e delle parti, ci si trova di fronte a un bivio problematico.

In primo luogo, l’intervento dell’ufficio di esecuzione penale esterna non può essere anticipato al giudizio per una serie di inconvenienti insuperabili, che finirebbero per rendere l’attività dell’ufficio a posteriori superflua e vana: infatti, l’imputato può essere alternativamente assolto o condannato a pena superiore a quattro anni o ancora a pena sospesa; oppure può opporsi alla sostituzione della pena o, ancora, richiederla ma risultare privo dei presupposti; o infine il giudice stesso può valutare all’esito del processo che il condannato non sia affatto meritevole di una pena sostitutiva.

In secondo luogo, non meno rilevante dal punto di vista giuridico processuale, il coinvolgimento previo dell’UEPE potrebbe apparire come una anticipazione del giudizio di condanna, soprattutto ove si concentri – come sarebbe teoricamente ragionevole – il ricorso all’UEPE solo nei giudizi in cui sia prevedibile una condanna inferiore a quattro anni. Non è percorribile nemmeno l’ipotesi contraria dell’indiscriminato coinvolgimento degli UEPE, che determinerebbe un dispendio di risorse disfunzionale e antieconomico (essendo opportuno che l’intervento degli UEPE – il cui ruolo è cruciale nel disegno riformatore – sia attivato solo quando utile e necessario).

Al fine di evitare le conseguenze inaccettabili sopra descritte ed eludere le controindicazioni giuridiche ed operative delle soluzioni delineate, si è ritenuto di collocare la decisione della sostituzione della pena in un momento successivo alla pubblicazione del dispositivo mediante lettura, ai sensi dell’articolo 545 c.p.p., con possibilità di demandare ad un momento ulteriormente successivo l’integrazione del dispositivo, laddove si versi in un caso in cui è concretamente possibile disporre la sostituzione della pena detentiva breve. In tal modo, si evitano contemporaneamente il rischio di anticipazione di giudizio di cui si è detto poco sopra ed il vano coinvolgimento dell’UEPE, che invece viene interpellato solo in caso di concreta percorribilità della sostituzione della pena.

Il meccanismo elaborato è ispirato al modello del sentencing di matrice anglosassone, ma  non è del tutto estraneo al nostro ordinamento, che lo conosce nei processi davanti al giudice di pace (art. 33 d.lgs. n. 274 del 2000 che prevede che – in determinati casi – il giudice possa fissare una nuova udienza per svolgere alcuni accertamenti funzionali all’individuazione della pena più adeguata al caso concreto e – in quella successiva udienza, se ne ricorrono le condizioni – possa “integrare il dispositivo”).

Solo dopo la pubblicazione del dispositivo (ai sensi del vigente articolo 545, co. 1, c.p.p.) sia il giudice sia le parti sono in grado di effettuare una prima valutazione circa la possibile applicazione delle pene sostitutive. In quel momento, infatti, sono cristallizzati tutti i fattori della decisione: è nota la misura della pena principale inflitta (la cui entità determina l’applicabilità o meno delle pene sostitutive); è noto se la pena principale sia stata o meno sospesa (posto che le pene sostitutive si applicano solo in caso di mancata sospensione condizionale della pena); è nota la qualificazione giuridica ritenuta in sentenza ed è noto se – in caso di reati previsti dalla c.d. prima fascia dell’art. 4-bis, della legge 354 del 1975 – siano state o meno riconosciute determinate attenuanti (in presenza delle quali possono essere disposte pene sostitutive di pene detentive brevi); e via seguitando.

Nel caso in cui non vi siano preclusioni circa la possibilità astratta di disporre la sostituzione delle pene detentive brevi, al fine di dare evidenza alla possibilità di sostituzione della pena, il giudice, subito dopo la lettura del dispositivo, è gravato dell’onere di dare avviso alle parti (nuovo art. 545-bis, co. 1, primo periodo, c.p.p.].

A questo punto, l’imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale, può acconsentire alla sostituzione della pena detentiva con una pena sostitutiva diversa dalla pena pecuniaria (nuovo art. 545-bis, co. 1, secondo periodo, c.p.p.).

Si ritiene opportuno che l’assenso all’applicazione di pene sostitutive diverse da quella pecuniaria sia atto personalissimo dell’imputato, da manifestare in modo esplicito (non essendo sufficiente un consenso o una “non opposizione” desunta dalla mera inerzia dell’imputato o del suo difensore), in ragione della rilevanza delle conseguenze che gravano sul condannato.

Con specifico riferimento alla condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, la “non opposizione” dell’imputato è richiesta dalla stessa legge delega (art. 1, co. 17, lett. e). Che essa debba essere “atto personalissimo” (da compiere personalmente o a mezzo di procuratore speciale), da formalizzare in modo esplicito è conclusione che si impone per il fatto che la condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità comporta l’inappellabilità della sentenza di primo grado e, dunque, di fatto, la rinuncia a quel grado di giudizio (art. 1, co. 13, lett. e), l. n. 134 del 2021). Pare dunque necessario – per esigenze di coerenza sistematica – che l’assenso alla sostituzione della pena principale con il lavoro di pubblica utilità sia formalizzato in modi coerenti a quelli previsti dalle disposizioni che regolamentano la rinuncia all’impugnazione (cfr. art. 589 c.p.p., nel testo oggi vigente).

La necessità che l’imputato – personalmente o a mezzo di procuratore speciale – renda esplicito l’assenso alla sostituzione della pena principale con la semilibertà o la detenzione domiciliare, oltre a dare coerenza all’impianto, si fonda, invece, su altre ragioni.

La mancata introduzione dell’affidamento in prova al servizio sociale nel novero delle pene sostitutive introduce il rischio che possano determinarsi irragionevoli disparità di trattamento tra persone condannate: una persona condannata per reati comuni alla pena di tre anni di reclusione non sostituita, riceverà notifica dell’ordine di esecuzione e contestuale decreto di sospensione dello stesso, con possibilità di richiedere l’affidamento in prova al servizio sociale (come oggi prevede l’art. 656 c.p.p.); una persona condannata alla stessa pena ma sostituita – in ipotesi – con tre anni di detenzione domiciliare, invece, vedrebbe la sentenza irrevocabile diventare immediatamente esecutiva.

Infatti, in punto di esecuzione delle pene sostitutive, si è optato per l’immediata esecutività della pena, come disciplinata dai novellati articoli 62 e 63 l. n. 689 del 1981, ritenendo che alle pene sostitutive non debba essere applicato il meccanismo sospensivo analogo a quello previsto dall’art. 656 c.p.p. Si è voluto, infatti, dare immediata effettività al meccanismo delle pene sostitutive; garantire il più celermente possibile l’avvio dell’attività di risocializzazione che, con le pene sostitutive, si intende favorire; scongiurare il riprodursi – anche per le pene sostitutive – del fenomeno dei c.d. “liberi sospesi” che costituisce, come noto, uno dei fattori di più grave rallentamento dell’esecuzione  penale.

Lo strumento che è funzionale ad evitare possibili censure di legittimità costituzionale è legato ad un elemento di consenso promanante dall’imputato all’applicazione delle pene sostitutive: l’imputato acconsente alla sostituzione della pena principale con una pena sostitutiva (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità) e con tale atto, nel caso la condanna diventi irrevocabile, accetta sia il fatto che detta pena sarà immediatamente eseguita, sia il fatto che – in caso di semilibertà e di detenzione domiciliare sostitutive – l’affidamento in prova non possa essere richiesto subito, ma dopo un certo lasso di tempo, come previsto dal nuovo comma 3 ter dell’art. 47 legge 26 luglio 1975 n. 354.. Per tale ragione – anche con riferimento alle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare – si ritiene che l’assenso debba essere esplicito e provenire direttamente dall’imputato o dal suo procuratore speciale.

Nulla esclude, ovviamente, che l’imputato possa acconsentire ad alcune soltanto delle pene sostitutive (può darsi il caso di chi acconsenta alla sostituzione della pena principale con il lavoro di pubblica utilità o con la detenzione domiciliare, dichiarando invece di non acconsentire alla sostituzione della pena principale con quella della semilibertà).

A questo punto, il giudice, verificata la astratta possibilità di sostituire la pena principale e acquisito l’assenso dell’imputato, sentito il pubblico ministero, ha di fronte due possibilità:

  1. a) se vi sono già gli elementi necessari per decidere sulla sostituzione della pena principale, il giudice decide immediatamente; e la decisione immediata può anche essere di rigetto della eventuale istanza di sostituzione della pena, ove il giudice ritenga in radice di non possedere gli elementi per la sostituzione, come in caso di pericolosità conclamata;
  2. b) se tali elementi non vi sono, il giudice fissa una nuova udienza non oltre sessanta giorni, sospendendo il processo per acquisire dall’ufficio esecuzione penale esterna e dalla polizia giudiziaria, se del caso, le necessarie informazioni utili alla decisione sulla pena sostitutiva più adeguata al caso concreto (nuovo art. 545-bis, co. 1, terzo periodo, c.p.p.).

Nello stesso termine, il giudice può verificare i presupposti eventuali per disporre, con la pena sostitutiva ed a titolo di prescrizioni, percorsi terapeutici analoghi a quelli previsti dall’art. 94 DPR n. 309 del 1990. Anche questa previsione ha carattere innovativo, poiché in assenza di previsioni di affidamento in prova e meno ancora di affidamento in casi particolari, si è posto il problema non solo di non discriminare, ma anzi di favorire l’accesso alle pene sostitutive anche ai condannati affetti da dipendenze patologiche. Per coerenza, i soggetti legittimati a fornire la documentazione necessaria e il programma terapeutico sono gli stessi di quelli contemplati dall’art. 94 DPR n. 309 del 1990. Inoltre, alle dipendenze classiche da alcol o da sostanze, si è ritenuto di aggiungere la dipendenza patologica da gioco d’azzardo, che è riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale e fa parte dei compiti dei Servizi territoriali per le dipendenze.

Una volta acquisite le predette informazioni e ricevuto dall’UEPE la proposta di programma trattamentale, il giudice – all’udienza fissata per l’eventuale sostituzione della pena principale – assume le definitive determinazioni sul trattamento sanzionatorio e «se sostituisce la pena detentiva, integra il dispositivo indicando la pena sostitutiva con gli obblighi e le prescrizioni corrispondenti». Se, invece, le informazioni raccolte dimostrano che non è possibile disporre la sostituzione della pena principale con una pena sostitutiva, il giudice «conferma il dispositivo», pubblicando la decisione mediante lettura del dispositivo (nuovo art. 545-bis, co. 3, c.p.p.).

Nella stessa fase, è previsto anche l’intervento della difesa e del pubblico ministero, che si possono rendere parte diligente, depositando documentazione all’ufficio di esecuzione penale esterna e fino a cinque giorni prima dell’udienza presentando memorie in cancelleria. La norma è espressione della valorizzazione dell’apporto delle parti, ed in modo particolare della difesa, che vengono chiamate a contribuire alla più adeguata risposta sanzionatoria al reato, in rapporto alle esigenze di individualizzazione del trattamento che discendono dall’art. 27, co. 3 Cost.

Infine, sono state previste due norme tecniche di raccordo tra la pubblicazione del dispositivo mediate lettura ed il nuovo dispositivo integrato con la pena sostitutiva o confermato nella pena detentiva.

Al termine dell’udienza c.d. di sentencing, si precisa che in ogni caso, il giudice dà lettura del dispositivo ai sensi del primo comma dell’articolo che precede. In tal modo, si vuole rendere chiaro, ad ogni effetto ma soprattutto ai fini del decorso dei termini per l’impugnazione, che il giudice deve dare nuova lettura del secondo dispositivo e che il dies a quo è quello della lettura di quest’ultimo, qualunque contenuto esso abbia.

Si introduce, inoltre, una norma di raccordo con la disciplina della motivazione contestuale, la cui pubblicazione ovviamente deve essere differita alla lettura del secondo dispositivo, per cui si è stabilito che quando il processo è sospeso ai sensi del primo comma, la lettura della motivazione redatta a norma dell’art. 544 comma 1 segue quella del dispositivo integrato o confermato e può essere sostituita con un’esposizione riassuntiva. Si applica il terzo comma dell’articolo che precede.

Il meccanismo appena descritto è funzionale ad impiegare le risorse necessarie all’elaborazione del programma trattamentale e all’individuazione della giusta pena sostitutiva solo allorché necessario. Esso determina – con la sospensione del processo e un rinvio di sessanta giorni per la definitiva determinazione della pena – una dilatazione dei tempi processuali solo apparente: infatti, da un lato, il tempo speso per l’individuazione della giusta pena sostitutiva – collocato in una prospettiva di sistema e non parcellizzata alla singola fase processuale – assicura un risparmio di tempi nella fase esecutiva (limitando il dilatarsi del fenomeno dei c.d. liberi sospesi, ex art. 656 c.p.p.); dall’altro lato, il meccanismo immaginato potrà ampliare il numero di casi in cui la pena principale sarà sostituita con il lavoro di pubblica utilità (con contenimento del numero di giudizi di appello) o comunque con un trattamento sanzionatorio più “tagliato su misura” e quindi più accettabile dal condannato, che ha meno ragioni sostanziali e soprattutto meno interesse a interporre impugnazioni.

L’introduzione del meccanismo per la determinazione della pena sostitutiva con un’udienza ad hoc nel giudizio ordinario si applica direttamente anche al giudizio abbreviato, la cui disciplina rinvia integralmente alle norme di cui agli artt. 529 e ss. c.p.p. Deve invece coordinarsi con la disciplina del giudizio a citazione diretta dell’imputato di fronte al tribunale in composizione monocratica ed in particolare con l’udienza predibattimentale, di cui al nuovo art. 555 c.p.p., come riformulato alla luce della presente legge delega. Inoltre, analoghe esigenze di coordinamento giustificano l’introduzione del comma 1 bis nel corpo dell’art. 448 c.p.p. per i casi tipici ed atipici di applicazione della pena su richiesta. Per tali casi, si rinvia alle relazioni specifiche agli artt. 448 e 555 c.p.p.

Stante la natura procedurale della presente disposizione, si conferma l’assenza di onerosità per la finanza pubblica, in quanto l’intervento è volto a proporre soluzioni innovative anche in sede processuale di cognizione mediante l’intervento dell’Ufficio esecuzione penale esterna al fine di permettere al giudice di acquisire informazioni in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica necessarie per la formulazione della decisione sulla sostituzione della pena detentiva e sulla scelta della pena sostitutiva ai sensi dell’articolo 58 della legge 689/1981.

Gli adempimenti connessi alle attività istituzionali e in particolare a quelle dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, potranno essere fronteggiati mediante il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, potendosi altresì contare sul potenziamento strutturale del predetto Ufficio disposto con l’articolo 17 del D.L. 36/2021 in corso di attuazione.

 

ART. 32

(Modifiche al Titolo II del Libro VIII del codice di procedura penale)

 

Il criterio di delega risulta finalizzato ad estendere il numero dei reati per i quali si procede a citazione diretta, con corrispondente riduzione dell’area dell’udienza preliminare. La scelta del Parlamento non è stata quella di estendere indiscriminatamente tale esercizio dell’azione penale ai reati puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni. La scelta espressa nella legge delega è stata invece quella di ampliare il novero delle eccezioni già previste nel secondo comma dell’articolo 550 c.p.p. sulla base di due criteri: quello formale, per cui deve trattarsi di delitti puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, quindi delitti puniti con un massimo edittale di pena detentiva ricompreso tra quattro e sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, e quello sostanziale della non complessità di accertamento.

In base a tali criteri, dunque, si dovrà procedere a citazione diretta per i reati puniti con pena edittale massima compresa tra i quattro e i sei anni, sempre che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento.

In attuazione della delega, sono stati individuati una serie di delitti i quali, almeno nella norma, non richiedono indagini complesse. Si sono considerati tali, per esempio, i reati che avvengono in pubblico, di fronte ad una pluralità di testimoni, come gli atti osceni in luogo pubblico aggravati (art. 527 comma 2 c.p.) o il danneggiamento di cose mobili o immobili in occasione di manifestazioni pubbliche (art. 635 comma 3 c.p.) l’apologia di delitto (art. 414 c.p.) e l’istigazione a disobbedire alle leggi (art. 415 c.p.). Anche la violazione della pubblica custodia di cose (art. 351 c.p.) e la bigamia (art. 611 c.p.) appaiono di regola di non complesso accertamento, così come i reati caratterizzati da violenza o minaccia, ad esempio l’evasione aggravata da violenza o minaccia (art. 385 comma 2 prima parte c.p.) o la violenza o minaccia per costringere a commettere un reato (art. 611 c.p.). Si sono esclusi, invece, i reati che possono richiedere accertamenti più delicati, come la procurata evasione e l’agevolazione delle comunicazioni dei detenuti sottoposti allo speciale regime penitenziario di cui all’art. 41-bis O.P. (art. 391-bis).

È stato inoltre ritenuto che esistano numerose fattispecie rientranti tra i delitti contro la fede pubblica il cui accertamento non appare complesso in quanto emerge da circostanze di fatto: per esempio le falsità in monete (artt. 454, 460, 461 c.p.), le contraffazioni di pubblici sigilli (artt. 467 e 468 c.p.), oltre all’indebito utilizzo, la falsificazione, la detenzione o la cessione di carte credito (art. 493-ter c.p.). Un discorso analogo può essere svolto per alcuni casi di falsità personale (artt. 495, 495-ter, 496, 497-bis e 497-ter). Sono invece stati esclusi i falsi in atti pubblici, che spesso richiedono indagini più complesse.

Per quanto riguarda i reati contro il patrimonio, sono stati ritenuti riconducibili al criterio di delega la truffa aggravata (art. 640 cpv. c.p.), la frode in assicurazione (art. 642 c.p.) e l’appropriazione indebita (art. 646 c.p.), tenendo anche conto che i querelanti spesso si fanno parti attive con produzioni documentali o indicando persone informate sui fatti.

Nella valutazione dei delitti contro l’attività giudiziaria si sono fatti rientrare nei reati a citazione diretta solo quelli incentrati su condotte di non complesso accertamento, escludendosi quindi le fattispecie di calunnia, falsa perizia e frode processuale.

Nei casi in cui più disposizioni del medesimo articolo prevedano pene diverse o circostanze aggravanti ad effetto speciale, l’estensione si è cercato di razionalizzarne il trattamento processuale, uniformandone la procedura attraverso l’estensione dell’ambito della citazione diretta, ovviamente quando ciò fosse consentito dal criterio di delega. Si possono citare, per esempio, l’interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità aggravata dalla qualifica di capi, promotori, organizzatori (art. 340 comma terzo c.p.); l’esercizio abusivo di una professione aggravata per chi determina/dirige l’attività (art. 348 comma secondo c.p.); la procurata inosservanza di pena in caso di delitto (art. 390 c.p.); la violazione di domicilio aggravata (art. 614 ultimo comma c.p.) e quella commessa da pubblico ufficiale (art. 615 comma 1 c.p.); la rivelazione del contenuto della corrispondenza in caso di violazione di corrispondenza da parte dell’addetto al servizio delle poste (art. 619 secondo comma c.p.).

Si è peraltro deciso di non ampliare il novero dei reati a citazione diretta al caso di omessa denuncia aggravata per un delitto contro la personalità dello stato da parte di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria (art. 363 c.p.), al reato di interferenze illecite nella vita privata commesse da un pubblico ufficiale e reati analoghi riguardanti intercettazioni di comunicazioni telefoniche aggravate dalla qualifica di p.u. o investigatore privato. Sempre a causa della complessità e della delicatezza degli accertamenti richiesti, sono stati esclusi i delitti contro la personalità dello Stato, contro l’incolumità pubblica e contro l’ambiente.

I medesimi criteri sin qui illustrati sono stati seguiti per i reati previsti da leggi speciali.

In tale ambito, si sono innanzitutto selezionati alcuni reati riguardanti le armi contenuti nella legge 110/1975, come il porto di arma in riunione pubblica da parte di persona non munita di licenza, il trasferimento illecito di armi, l’importazione di armi senza licenza e la detenzione di armi clandestine.

All’interno del Testo unico doganale d.P.R. 43/1973 è stato individuato il contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-bis c.p.).

Quanto al d.lgs. 159/2011 (Codice antimafia), si è ritenuto che non presentino problemi di accertamento i delitti di inosservanza di obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, la violazione del divieto di espatrio, il mancato rientro nel termine stabilito nel comune di soggiorno obbligato, l’elusione della amministrazione giudiziaria dei beni personali, l’omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali ex art. 80 e la violazione del divieto di svolgere attività di propaganda elettorale per i sottoposti a sorveglianza speciale. Anche la falsa attestazione della presenza in servizio e la giustificazione dell’assenza con certificato medico falso, punito dall’art. 55-quinquies comma 1 d.lgs. del 165/01 (Testo Unico sul pubblico impiego), è stato considerato suscettibile di rientrare nei criteri stabiliti dalla legge delega.

Di non complesso accertamento sono stati ritenuti alcuni reati previsti dal T.U. sull’immigrazione d.lgs. 286/1998: per esempio, la contraffazione e l’alterazione del visto, del permesso di soggiorno o dei documenti necessari per il loro rilascio; la seconda violazione del divieto di rientrare nel territorio dello Stato dopo un respingimento o dopo l’espulsione disposta dal giudice; la produzione di documenti falsi nelle procedure di ingresso e soggiorno. Ad opposta conclusione si è pervenuti, invece, per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che non è stato dunque inserito nel catalogo dei reati perseguibili con citazione diretta.

Nell’ambito del T.U. sugli stupefacenti (d.P.R. 309/1990), sono stati individuati i reati di violazione dell’obbligo di registrazione per importazione/immissione sul mercato da soggetto titolare della licenza rispetto a sostanze di cui alla categoria 2, nonché l’istigazione pubblica, il proselitismo e l’induzione all’utilizzo di stupefacenti

In relazione ai reati tributari è stata ritenuta di non complesso accertamento solo la fattispecie dell’omessa dichiarazione (art. 5 c. 1 e 1-bis); per gli altri reati tributari e per i reati fallimentari è stata mantenuta l’udienza preliminare.

Si rappresenta che le disposizioni in esame, di natura ordinamentale e procedurale, con la quale si prevede, al fine di limitare il coinvolgimento del tribunale in composizione collegiale, l’estensione del catalogo dei reati da trattare avanti ad un giudice monocratico, non presentano profili di onerosità per la finanza pubblica.

Con la lettera b) s’interviene sull’articolo 552 c.p.p. in materia di Decreto di citazione a giudizio, apportando i necessari aggiustamenti letterali e normativi alla lettera d) e f) del comma 1.

Altro adeguamento alle indicazioni della legge delega è quello realizzato con l’introduzione della lettera h- bis) al comma 1 dell’articolo 552 c.p.p., con la quale si dispone che il decreto di citazione in giudizio contenga l’informativa alla persona sottoposta alle indagini, alla persona offesa dal reato, nonché alla vittima ove individuata, della facoltà di accedere a un programma di giustizia riparativa,

Si tratta di disposizioni di natura ordinamentale e procedurale e pertanto, non presentano profili di onerosità per la finanza pubblica .

L’intervento alla lettera c) modifica l’articolo 553 c.p.p. in ragione all’adempimento della delega, all’udienza predibattimentale è stato assegnato il compito di definire il processo, quando, sulla base del complesso degli atti di indagine (che infatti sono ora trasmessi integralmente al giudice proprio in virtù dell’ articolo 553 c.p.p.), già emergano elementi che conducono ad un proscioglimento oppure si evidenzi che gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna.

Con la lettera d) si inseriscono due nuovi articoli 554-bis c.p.p.”Udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citaione diretta”,554-ter  c.p.p.“ Provvedimenti del giudice” e 554-quater c.p.p.”Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere” e 554-quinquies c.p.p.”Revoca della sentenza di non luogo a procedere”.

L’introduzione nella trama del codice di rito di un’udienza predibattimentale in camera di consiglio rispondeva nella delega a più finalità.

Tramite l’introduzione degli articoli 554-bis e 554-ter c.p.p., si disciplinano quegli istituti e delineano le forme dell’udienza predibattimentale a seguito della citazione diretta, che, in stretta aderenza alle previsioni della legge delega, si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore dell’imputato.

In conseguenza di quell’intervento sono state, inoltre, disciplinate la forma della sentenza di non doversi procedere e le conseguenze rispetto alle spese, con richiamo, peraltro, alle assolutamente analoghe disposizioni di cui agli articoli 426 e 427 dettate per l’udienza preliminare, salvo specificare, rispetto alla motivazione della sentenza, che in questo caso la motivazione, rispetto al modulo sommario già indicato dall’art. 426 c.p.p., deve essere ulteriormente abbreviata, per evitare che il giudice possa essere indotto al più semplice esito del rinvio davanti ad altro giudice, rispetto al quale non vi è alcun onere di motivare scelte diverse.

In sede di richiami di norme previste per l’udienza preliminare si è inteso ribadire anche in questa sede l’applicazione dell’art. 425, comma 2, che legittima l’applicazione delle circostanze generiche e la loro comparazione ai fini dell’adozione della sentenza di non luogo a procedere.

Una disciplina particolare è stata, invece, dettata per l’impugnazione della sentenza, in considerazione della peculiarità propria del rito con citazione diretta, con l’innesto, in aggiunta, della modifica imposta da altra parte della delega circa la non impugnabilità di alcune pronunce.

Peraltro, all’udienza predibattimentale (analogamente a quanto previsto per l’udienza preliminare) è stato attribuito anche il compito di definire l’oggetto del giudizio, consentendo al giudice e alle parti di esaminare l’imputazione articolata ai sensi dell’articolo 552, comma 1, lettera c), sotto i plurimi profili connessi alla sua corrispondenza, in punto di fatto o di definizione giuridica, agli atti di indagine. In questo modo, da un lato, si evita l’inutile restituzione degli atti al pubblico ministero, quando l’imputazione è formulata in termini tali da comportare la nullità, consentendo una modifica nel contraddittorio. Ma, dall’altro lato, si evita anche che le più ampie e diverse problematiche connesse all’imputazione (se già emergono in questa fase dagli atti di indagine, come spesso accade) provochino solo in esito al dibattimento (a quel punto svolto inutilmente) un provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 521 c.p.p., oppure determino l’innestarsi delle vicende modificative disciplinate dagli articoli 516 ss c.p.p., che, in ogni caso, sono causa di inefficienza e complicazioni.

Per effetto di questi interventi, salvo i casi in cui le novità emergano solo dal dibattimento, oggi il thema decidendum diviene oggetto di verifica preliminare nel contraddittorio, anche in relazione alla definizione giuridica, come la delega ha imposto facendo riferimento al fatto che debba essere esaminata anche la correttezza degli articoli di legge richiamati. In ogni caso, a maggior garanzia, si è però previsto che, nel caso in cui l’imputato non sia fisicamente presente all’udienza, il verbale contenente la modifica dell’imputazione sia a lui notificato, anche per consentire l’eventuale accesso ai procedimenti speciali, e si è fissato un termine dilatorio per la celebrazione dell’udienza, alla quale il processo dovrà essere rinviato.

Qualora non sussistano condizioni ostative alla celebrazione del dibattimento e sia possibile formulare una ragionevole previsione di condanna, nell’impianto prescelto per il caso in cui non si addivenga all’esito previsto da un rito speciale, il giudice si limita ad indicare la data per la successiva udienza dibattimentale, che, in quanto collocata nella medesima fase, si pone quindi in continuità, seppure debba ovviamente svolgersi davanti ad un altro giudice persona fisica. In ogni caso, si è previsto che l’udienza per l’apertura e la celebrazione del dibattimento non si possa fissare prima di venti giorni, anche per consentire alle parti di organizzare a quel punto la loro difesa in un’ottica propriamente dibattimentale. E’, infatti, prima di questa udienza che debbono essere depositate le liste testi.

Proprio in ragione di questa scelta, nell’ottica acceleratoria che connota la delega e in forza dell’esigenza di effettuare un coordinamento tra le norme adottate e il complessivo sistema processuale (imposto dall’art. 1, comma 3 delle delega), si è provveduto a ridurre da sessanta a quaranta giorni il termine previsto dall’art. 552, comma 3, con soluzione che, di fatto, non cambia, rispetto, ad oggi, l’estensione minima del termine a comparire tra notifica del decreto di citazione e udienza dibattimentale, ma ripartisce quel termine in quaranta giorni tra decreto di citazione e udienza predibattimentale (salvo i casi di riduzione parimenti adeguati) e in ulteriori venti giorni tra udienza predibattimentale e udienza dibattimentale.

Restano ferme, invece, rispetto all’udienza dibattimentale le previsioni del vigente articolo 555 c.p.p., salvo per la parte in cui le attività indicate non siano state anticipate all’udienza predibattimentale.

In forza della stessa esigenza di effettuare un coordinamento tra le norme adottate e il complessivo sistema processuale (art. 1, comma 3 delle delega), si è ritenuto che si imponesse anche un definitivo e chiaro superamento della limitazione, di fonte giurisprudenziale per vero, all’applicazione ai reati con citazione diretta del giudizio immediato.

Per questa ragione, si è espressamente estesa anche al rito monocratico con citazione diretta l’applicazione del giudizio immediato (articolo 558-bis c.p.p.).

Peraltro, un simile intervento si rende necessario anche in ragione dell’ulteriore intervento effettuato in forza della delega, che ha ampliato i reati azionabili con la citazione diretta, rispetto ai quali si perderebbe la celerità propria del rito immediato, in modo tanto più irragionevole se si considera, come detto, che quel rito oggi si connota anche quale strumento di accesso rapido al giudizio nei casi in cui l’imputato sia sottoposto a misura cautelare.

Si rappresenta, innanzitutto, per quanto concerne gli aspetti di natura finanziaria, che l’estensione del numero di reati per i quali si procede a citazione diretta, è diretto a evitare tutti gli adempimenti connessi alla celebrazione dell’udienza dibattimentale in primis, nonché del dibattimento davanti al tribunale collegiale, nel caso di rinvio a giudizio. L’attuazione delle disposizioni della delega – motivo per cui si dovrà procedere a citazione diretta per i reati puniti con pena edittale massima compresa tra i quattro e i sei anni, nel caso in cui gli stessi non presentino rilevanti difficoltà di accertamento – consentirà di celebrare procedimenti con imputazioni ampiamente diffuse e casistiche contemplate su larga scala che necessiteranno, comunque, di un esame prodromico deputato a “filtrare” da parte di un giudice i fascicoli trasmessi dall’organo requirente, evitando in tal modo l’instaurarsi di processi dibattimentali (con organo monocratico) ritenuti “inutili” o addirittura la celebrazione di quelli il cui esito appare destinato a concretarsi in un proscioglimento. Verranno, pertanto, definiti in modo celere procedimenti che diversamente avrebbero necessitato di un iter più lungo per addivenire al medesimo risultato.

Si consideri, inoltre, che l’anticipazione nell’udienza predibattimentale in camera di consiglio di parecchie attività che attualmente vengono svolte in limine litis- cioè nel corso degli atti introduttivi del dibattimento – permetterà di ridurre i tempi processuali con celebrazione di un numero ridotto di udienze nelle quali, poi, l’acquisizione delle prove risulterà già definita. Inoltre, riveste un carattere significativo l’introduzione della citata udienza anche per il giudizio immediato, consentendo anche per le fattispecie che non presentano gradi di complessità di giungere ad una definizione anticipata della causa senza che venga emesso il decreto di rinvio /citazione a giudizio e, quindi, senza celebrazione del dibattimento.

Pertanto, considerato quanto appena detto, si assicura che le disposizioni contenute nel citato comma 12 (lettere dalla a alla g) hanno natura ordinamentale e procedurale e contribuiscono a sgravare l’attività degli organi giudicanti dibattimentali, da adempimenti che improduttivamente rallentano i tempi processuali con conseguente deflazionamento di quelle attività giurisdizionali connesse per assenza ab origine di elementi probatori a sostegno di una ragionevole previsione di condanna.

Per gli enunciati motivi, le stesse non determinano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e ai relativi adempimenti potrà provvedersi nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

  ART. 33

(Modifiche al Titolo I del Libro IX del codice di procedura penale)

 

La lettera a) del comma 1 del presente articolo apporta modificazioni all’articolo 573 c.p.p. al fine di per attuare la seconda parte della direttiva di cui alla lettera d).

E’ stata conseguentemente disciplinata l’ipotesi dell’impugnazione per i soli interessi civili, introducendo nel nuovo comma 1-bis dell’art. 573 l’innovativa regola del trasferimento della decisione al giudice civile, dopo la verifica imprescindibile sulla non inammissibilità dell’atto svolta dal giudice penale. Naturalmente, occorre attribuire il diritto d’impugnare, in prima battuta, come se si trattasse di un’impugnazione anche agli effetti civili (quindi come se vi fosse anche l’impugnazione agli effetti penali del p.m. o dell’imputato), situazione coperta dall’art. 573 comma 1.

L’articolo 573 comma 1-bis diventa applicabile dopo che il giudice penale dell’impugnazione abbia verificato l’assenza d’impugnazione anche agli effetti penali. Questa scelta del legislatore delegato determina un ulteriore risparmio di risorse, nell’ottica di implementare l’efficienza giudiziaria nella fase delle impugnazioni, e non si pone in conflitto con la giurisprudenza costituzionale, data la limitazione della cognizione del giudice civile alle “questioni civili”. Il giudice civile non potrebbe pertanto accertare incidentalmente il tema già definito della responsabilità penale, neppure nel caso di appello proposto dalla sola parte civile avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato, con una soluzione normativa che evita i profili d’illegittimità ravvisati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 176 del 2019, rispetto all’eventualità di un accertamento dell’illecito penale compiuto in sede civile. Con il rinvio dell’appello o del ricorso al giudice civile l’oggetto di accertamento non cambierebbe, ma si restringerebbe, dal momento che la domanda risarcitoria da illecito civile è già implicita alla domanda risarcitoria da illecito penale (l’illecito penale implica l’illecito civile). Non vi sarebbe, pertanto, una modificazione della domanda risarcitoria nel passaggio dal giudizio penale a quello civile. Ragionevolmente, l’eventualità dovrà essere prevista dal danneggiato dal reato sin dal momento della costituzione di parte civile, atto che pertanto dovrà contenere l’esposizione delle ragioni che giustificano “la domanda agli effetti civili”, secondo l’innovata formulazione dell’art. 78 lett. d).

Le disposizioni in esame hanno natura ordinamentale e procedurale e non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, atteso che si tratta di un intervento di snellimento delle procedure di impugnazione della sentenza per i soli interessi civili  al fine di permettere la  prosecuzione del giudizio sulle quesioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo civile e quelle eventualmente acquisite nel processo penale.

Con la lettera b) si attuano le disposizioni della delega relative alla prescrizione di disciplinare i rapporti dell’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione con l’azione civile esercitata nel processo penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata.

L’attuale regime applicabile in caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione regola in modo omogeneo le due ipotesi negli artt. 578 e 578-bis c.p.p., attribuendo al giudice penale il compito di decidere sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, o ai soli effetti della confisca “in casi particolari”, secondo un’impostazione che, tuttavia, è in parte superata alla luce del quadro normativo sopravvenuto e, comunque, riguardando la diversa ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato, non è mutuabile per disciplinare i rapporti tra azione civile o confisca e improcedibilità per superamento dei termini massimi del giudizio di impugnazione. Per attuare la delega con riguardo ai rapporti con la dichiarazione d’improcedibilità, quindi, occorre tenere conto dei principi ricavabili dalla stessa legge n. 134 del 2021 e dei principi generali del sistema. Quanto ai principi ricavabili dalla legge delega, la direttiva di cui all’art. 1, comma 13, lett. d), che impone di «disciplinare i rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale […] e l’azione civile esercitata nel processo penale, nonché i rapporti tra la medesima improcedibilità dell’azione penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata», non fornisce indicazioni specifiche su come atteggiare tali rapporti, lasciando astrattamente aperte soluzioni diverse (quali la caducazione delle statuizioni civili e in materia di confisca o la prosecuzione o devoluzione del giudizio in altra sede). Dirimente, quindi, nell’orientare la scelta del legislatore delegato, è il quadro generale di sistema. Sotto tale profilo, occorre considerare che la pronunzia di improcedibilità ha carattere processuale e, come tale, impedisce di proseguire nell’esame del merito e di giungere a una condanna definitiva, caducando la precedente pronuncia. L’improcedibilità preclude, quindi, l’applicazione della confisca che presuppone una “condanna” (comunque la si voglia intendere, tanto in senso formale, quanto in senso sostanziale). Né può ricorrersi a un’estensione della differente disciplina prevista dall’art. 578-bis c.p.p. nel caso di estinzione del reato per prescrizione, poiché il superamento dei termini massimi previsti per il giudizio di impugnazione è uno sbarramento processuale che impedisce qualsivoglia prosecuzione del giudizio, anche solo finalizzata all’accertamento della responsabilità da un punto di vista sostanziale e svincolato dalla forma assunta dal provvedimento (come invece consentito, a seguito della sentenza della C. Cost., 26.3.2015 n. 49, nel caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione). Sarebbe impropria, del resto, l’assimilazione di una causa impediente della prosecuzione del giudizio, di natura processuale, a una causa estintiva del reato, che è fenomeno attinente al merito del processo. Esclusa la perseguibilità del processo penale ai soli effetti della confisca, un’alternativa che trasferisca altrove l’accertamento dei suoi presupposti, consentendo all’imputato di difendersi in ordine anche in ordine alla responsabilità penale, non è proponibile, trattandosi di misura che deve essere applicata in un procedimento giurisdizionale informato a tutte le garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale (ivi inclusa la garanzia della ragionevole durata). Pertanto, non si potrebbe trasferire nel procedimento di prevenzione l’azione patrimoniale dopo che la confisca sia stata applicata con una sentenza penale non definitiva. L’imputato potrebbe difendersi rispetto alla decisione di confisca, appellando anche o soltanto i punti riguardanti la responsabilità penale (presupposto della confisca), che non potrebbero essere decisi, seppur incidenter tantum, dal giudice della prevenzione. Neppure potrebbe essere previsto un trasferimento della decisione al giudice penale dell’esecuzione. Se l’azione patrimoniale fosse trasferita in sede esecutiva dopo una sentenza penale di condanna non definitiva, pertanto, senza il presupposto dell’accertamento (definitivo) sul tema della responsabilità penale, nel procedimento dinanzi al giudice dell’esecuzione dovrebbe paradossalmente svolgersi il controllo sul giudizio penale di primo grado demandato alle impugnazioni (appello e ricorso per cassazione) penali. In definitiva, il criterio di delega riguardante « i rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione […] e la confisca disposta con la sentenza impugnata» non può che attuarsi nel senso della privazione di effetti della confisca in sede penale, con la sola eccezione costituita dalle ipotesi di confisca obbligatoriamente prevista dalla legge anche fuori dai casi di condanna (come è, ad esempio, per le cose intrinsecamente criminose di cui all’art. 240, coma 2, n. 2 c.p.). Non di meno, nel caso in cui, con la sentenza impugnata, sia stata disposta la confisca di beni in sequestro, si prevede il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare l’improcedibilità ai sensi dell’art 344-bis c.p.p., trasmetta gli atti all’autorità giudiziaria competente per la proposta di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, affinché la stessa valuti la sussistenza dei presupposti per l’instaurazione del procedimento di prevenzione e l’applicazione, anche in via d’urgenza, di misure conservative in vista della applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale. Non si tratta, quindi, di trasferimento o prosecuzione del giudizio ai fini della confisca penale in altra sede, ma di impulso per l’eventuale attivazione di altra e distinta procedura, da svolgersi nel rispetto della propria disciplina, dettata dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Onde garantire il necessario coordinamento tra le procedure e impedire l’eventuale dispersione dei beni sequestrati in sede penale nelle more della decisione del giudice della prevenzione, si prevede che il sequestro penale cessi di avere effetto se, entro trenta giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, non è disposto il sequestro dal tribunale competente per le misure di prevenzione, ai sensi dell’articolo 20 o 22 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Analoga contraddizione sistematica, in ragione del carattere processuale e impediente della pronuncia di improcedibilità, produrrebbe una prosecuzione del giudizio di impugnazione ai soli effetti civili, considerata la natura accessoria dell’azione civile nel processo penale. A tale ultimo riguardo, peraltro, soccorre un ulteriore dato sistematico, ricavabile dalla disposizione già in vigore introdotta nel comma 1-bis dell’art. 578, ad opera della legge n. 134 del 2021, secondo cui, in caso di condanna per la responsabilità civile, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale ai sensi dell’art. 344-bis, rinvia per la prosecuzione al giudice civile. Il legislatore, per quanto concerne i rapporti tra improcedibilità e azione civile, ha quindi scelto di percorrere una “terza via”, mediana rispetto alla soluzione di lasciare al giudice penale il compito di decidere sulla domanda risarcitoria nonostante l’improcedibilità e a quella di imporre una riproposizione della domanda al giudice civile di primo grado. La scelta punta a ridurre il carico di lavoro del giudice penale nella fase delle impugnazioni, assicurando il diritto della parte civile a una decisione sull’azione risarcitoria in tempi non irragionevoli. In coerenza con tale scelta e con la ratio stessa della legge n. 134/2021, pertanto, si propone di attuare la delega in ordine ai rapporti tra improcedibilità dell’azione penale e azione civile trasferendo la decisione al giudice civile. L’opzione di trasferire al giudice civile la decisione sull’impugnazione, dopo la formazione del giudicato sui capi penali, sviluppa il percorso esegetico seguito dalla giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 578 comma 1, e quindi si basa sul presupposto che, per non incorrere in violazioni della presunzione d’innocenza dell’imputato, è necessario restringere l’oggetto di accertamento al solo diritto del danneggiato al risarcimento del danno, dopo lo spartiacque del giudicato. È pertanto ragionevole attribuire il compito di decidere al giudice civile, in una situazione in cui devono essere verificati gli estremi della responsabilità civile, senza poter accertare nemmeno incidentalmente la responsabilità penale. Ciò accade già, secondo la sentenza costituzionale n. 182 del 2021, nelle ipotesi coperte dall’art. 578 comma 1, dove “il giudice penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice”, ma “se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.)”, valutando quindi se la condotta contestata “si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno”. Secondo la Corte costituzionale, “la mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale in ordine al reato estinto per prescrizione non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l’accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale al pari di quella, per l’imputato, derivante dalla presunzione di innocenza” (sent. n. 182/2021, par. 14 m.). Questa ricostruzione è stata portata alle logiche conseguenze in sede di attuazione della direttiva di cui all’art. 1 comma 13, lett. d) della legge delega, nella parte in cui impone di disciplinare i rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale e l’azione civile. L’art. 578, comma 1-bis, c.p.p. è stato pertanto modificato, includendo il riferimento ad “ogni caso” di impugnazione della sentenza “anche” per gli interessi civili (quindi anche in mancanza di una pronuncia di condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni). La “prosecuzione” del processo davanti al giudice civile, disposta dopo il necessario controllo del giudice penale sull’assenza di cause d’inammissibilità dell’impugnazione, non determina effetti pregiudizievoli per la parte civile o per l’imputato né dal punto di vista cognitivo, in quanto il giudice competente deve decidere tutte le “questioni civili”, con esclusione di quelle penali coperte dal giudicato (la decisione civile non potrebbe quindi incidere sulla presunzione d’innocenza), né dal punto di vista probatorio, in quanto restano utilizzabili le prove acquisite nel processo penale, in contraddittorio con l’imputato, oltre a quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile. Onde salvaguardare anche le cautele reali che assistono la domanda civile in sede penale, si introduce, con il nuovo comma 1-ter dell’art. 578 c.p.p., una disposizione che – in deroga a quanto previsto dall’art. 317, comma 4, c.p.p. (a tal fine opportunamente interpolato) – prevede, nel caso di trasferimento dell’azione civile,  la persistenza degli effetti del sequestro conservativo disposto a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato fino a che la sentenza che decide sulle questioni civili non sia più soggetta a impugnazione. In conseguenza della disciplina dettata per i rapporti fra improcedibilità dell’azione penale, azione civile e confisca, si introducono due ulteriori misure al fine di prevenire l’eventuale prodursi di cause di improcedibilità e, nel caso in cui le stesse dovessero comunque verificarsi, evitare il pregiudizio che un ritardo nella declaratoria di improcedibilità potrebbe produrre all’azione della parte civile e alle esigenze di pronta attivazione dell’A.G. compente per le misure di prevenzione.

Si evidenzia la natura sia ordinamentale che procedurale delle disposizioni che intervengono in tema di rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi del giudizio d’impugnazione e l’azione civile esercitata all’interno dello stesso procedimento, adeguando conseguentemente anche la disciplina delle impugnazioni in relazione alla necessaria tutela degli interessi civili sottesi al procedimento. Vengono previsti, come illustrato, adeguati interventi nell’ambito della confisca penale disposta con la sentenza impugnata, che si sostanziano nell’opportuna integrazione della disciplina dell’istituto, dalla quale derivano attività, comunque  ordinariamente espletate nel corso dei procedimenti dal personale amministrativo e di magistratura e loro ausiliari, ragion per cui si assicura che le stesse potranno essere fronteggiate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Si rappresenta, pertanto, che dall’attuazione delle presenti disposizioni non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, potendo fronteggiare gli adempimenti connessi a tali attività mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie iscritte a legislazione vigente.

Alla lettera d) si prevede la modifica della disciplina generale delle impugnazioni, quanto alla forma e alla presentazione dell’impugnazione, nonché ai termini per proporla.

Viene quindi perseguito il fine di innalzare il livello qualitativo dell’atto d’impugnazione e del relativo giudizio in chiave di efficienza, semplificando al contempo le forme in ottica acceleratoria.

Nel nuovo comma 1-bis dell’articolo 581 c.p.p. è innanzitutto prevista la causa d’inammissibilità dell’impugnazione per mancanza di specificità dei motivi, qualora non vengano enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici alla motivazione del provvedimento impugnato. Tale enunciazione critica deve svilupparsi per ogni richiesta contenuta nell’atto d’impugnazione e deve riferirsi alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, nell’ambito dei capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione. Risulta, pertanto, codificato il requisito della specificità c.d. “estrinseca” dei motivi d’impugnazione, coerentemente con la funzione di controllo della sentenza impugnata rivestita dal giudizio di appello. Il comma 1-ter dell’articolo 581 c.p.p., in attuazione del criterio di cui all’art. 1, comma 13, lett. a) della legge delega, introduce un’ulteriore condizione di ammissibilità dell’impugnazione: con l’atto d’impugnazione deve essere presentata la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione. In caso di impugnazione del difensore dell’imputato assente, per attuare la delega sono aumentati di quindici giorni i termini per impugnare previsti dall’articolo 585, comma 1.

Quanto alle modalità di presentazione dell’atto inserite alla lettera e), si introduce nell’articolo 582 c.p.p. una distinzione a seconda che l’impugnazione sia proposta dalla parte o dai difensori, prevedendo l’uso delle modalità telematiche facoltativo nel primo caso e obbligatorio nel secondo, così operandosi anche il raccordo con quanto previsto, in materia di deposito telematico, dal nuovo art. 111-bis c.p.p., introdotto in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 1, comma 5, lett. a) della legge delega. La disciplina viene conseguentemente semplificata, prevedendo che solo le parti, quando propongono personalmente l’impugnazione, possano presentare l’atto, in modalità analogica, nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Le modifiche agli articoli 589, 591 e 595, comma 2, c.p.p. sono di mero coordinamento , conseguenti all’abrogazione dell’art. 583 c.p.p. e alla necessità di adeguare i rinvii effettuati a detta norma da altre disposizioni del codice.

Come illustrato, con le disposizioni in esame si interviene sulla disciplina del giudizio di appello, del ricorso per cassazione e delle impugnazioni straordinarie con l’intento di deflazionare i carichi di affari ad esso destinati, nell’ottica degli obiettivi di efficientamento processuale indicati nella legge delega di riforma penale. Si rappresenta il carattere di neutralità finanziaria delle norme e si segnala che agli adempimenti connessi si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 34

(Modifiche al Titolo II del Libro IX del codice di procedura penale)

 

La modifica all’articolo 593, comma 3 c.p.p. prevede che sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa (lettera a).

La norma ha carattere precettivo e procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica.

Per la lettera b) si rinvia al precedente articolo 33 del presente decreto.

Con la lettera c) si interviene sulle disposizioni che riguardano le forme di trattazione del giudizio di appello e il concordato sui motivi di appello. Vengono apportate modifiche finalizzate al risparmio di risorse giudiziarie e all’abbattimento dei tempi del processo, incentivando sia la celebrazione dell’appello in camera di consiglio con contraddittorio esclusivamente scritto, che la definizione del giudizio di secondo grado con il concordato. Le forme di trattazione dell’appello con rito camerale “non partecipato” vengono disciplinate dal nuovo articolo 598-bis c.p.p., con modalità simmetriche rispetto al rito davanti alla Corte di cassazione di cui all’articolo 611 c.p.p., secondo la seguente cadenza temporale calcolata a ritroso dall’udienza: quindici giorni per le richieste del procuratore generale e per le memorie e richieste scritte delle altre parti, nonché per i motivi nuovi e la richiesta di concordato; cinque giorni per le memorie di replica, termini il cui tassativo rispetto garantisce un funzionamento efficiente del nuovo rito cartolare. Il termine di quindici giorni prima dell’udienza costituisce uno snodo processuale fondamentale, anche in considerazione della previsione innovativa che entro tale termine debba essere presentata la richiesta di concordato a pena d’inammissibilità. L’altro snodo processuale è costituito dal termine di quindici giorni dalla ricezione del decreto di citazione in giudizio, entro il quale deve essere presentata a pena d’inammissibilità la richiesta di partecipazione all’udienza dell’appellante o, comunque, dell’imputato o del suo difensore. Il regime del comma 2 del nuovo art. 598-bis è pertanto coerente con l’impostazione sistematica del codice che colloca le scelte sul rito a valle degli atti propulsivi del procedimento.

Per quanto attiene al nuovo articolo 598-ter c.p.p.Assenza dell’imputato in appello” inserito con la lettera d) si rinvia a quanto disposto in materia di notificazioni di cui all’articolo 420-bis e seguenti c.p.p., anche in merito ai profili di natura finanziaria.

Per quanto riguarda la disciplina dell’assenza in appello, con la lettera e) si è distinto il caso dell’imputato assente appellante e quello dell’imputato non appellante, in ragione del fatto che per l’appellante la delega gli ha imposto l’onere di depositare procura speciale e elezione di domicilio successivi alla sentenza, in tal modo dando certezza circa la conoscenza del processo e della sentenza.

Per questo motivo, rispetto all’imputato appellante non presente alle udienze che si svolgono in presenza (di cui agli articoli 599 e 602 c.p.p.) in caso di regolarità delle notificazioni (che devono avvenire con le forme garantite) si procede in assenza anche fuori dei casi di cui all’articolo 420-bis, proprio perché, come detto, è certa la sua conoscenza del processo e della sentenza da lui impugnata.

Invece, per l’imputato non appellante, non presente alle udienze che si svolgono in presenza (di cui agli articoli 599 e 602 c.p.p.), ferma sempre la verifica della regolarità delle notificazioni, la corte procede solo se sussistono le condizioni previste dall’articolo 420-bis, commi 1 2 e 3, per procedere in assenza, altrimenti la corte dispone, con ordinanza, la sospensione del processo e ordina le ricerche dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione.

Non è, infatti, applicabile la disciplina di cui all’articolo 420-quater, (nonché gli articoli 420-quinquies e 420-sexies), perché in questo caso c’è una sentenza di primo grado, che sarebbe revocata ove intervenisse un sentenza di non luogo a procedere.Una specifica disciplina è stata dettata anche per le udienze scritte (legittimate dalla direttiva in materia di assenza, che le contempla). Al riguardo si è stabilito che, anche in quel caso, la corte accerti la regolarità della notificazione e verifichi, nei confronti dell’imputato non appellante, la sussistenza delle condizioni previste dall’articolo 420-bis commi 1, 2 e 3 per procedere in assenza, disponendo altrimenti le sue ricerche: anche a fronte di udienze “non partecipate”, infatti, sussiste la necessità di garantire l’effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato non appellante.

Nell’ottica dei profili economico-finanziari, si rileva che le modifiche intervenute a seguito della delega contenuta nella legge 134/2021 sulla materia del processo in assenza dell’imputato sono dettate dalla necessità di rendere più efficace e aderente ai principi di garanzia di effettiva conoscenza da parte del prevenuto della pendenza del giudizio a suo carico, comunque garantendo – in ogni modo – la partecipazione dell’interessato nel caso in cui questi sia incolpevolmente impossibilitato a presenziare all’udienza nel rispetto della volontà del medesimo e  del diritto di difesa costituzionalmente garantito.

A tal fine, è previsto che il giudice si avvalga per le ricerche e la notifica degli atti anche della polizia giudiziaria. Parimenti, invece, le introducende disposizioni sono dirette a eliminare qualsiasi forma di ostacolo alla tempestiva celebrazione delle udienze (in ogni grado di giudizio) quando è palese la volontà dell’imputato di assentarsi scientemente e intenzionalmente dalle aule processuali. Stessa conclusione è prevista per il difensore che cerchi di procrastinare i tempi del processo ai fini del decorso del termine di prescrizione, per il quale sono previsti meccanismi sostitutivi a quelli classici di notifica degli atti e per il quale sono dettate norme di pari livello a quelle previste per gli assistiti per far desistere da tentativi di slittamento delle cause. L’insieme delle previsioni indicate ha natura ordinamentale e procedurale e volte a contribuire allo snellimento delle attività degli organi requirenti e giudicanti, eliminando adempimenti che rallentano i tempi processuali, evitando l’insorgere di procedure di infrazione a livello unionale a garanzia del diritto al giusto processo e realizzando il contenimento dei tempi di definizione del processo: si consegue, pertanto, il deflazionamento di un’attività giurisdizionale che, per assenza di elementi probatori “ab origine”, è tale da determinare una pronuncia di proscioglimento nei confronti del prevenuto. Per gli enunciati motivi, pertanto, si rappresenta che la norma in esame è suscettibile di determinare risparmi di spesa allo stato non quantificabili. Peraltro, riguardo agli adempimenti di notifica degli atti processuali si osserva che altro punto della delega favorisce un maggiore utilizzo delle comunicazioni telematiche – per le quali i software applicativi della giustizia sono da tempo collaudati ed implementati – e che le attività delegate alla polizia giudiziaria sono di natura istituzionale e potranno essere fronteggiate attraverso le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Resta invece affidata alle “prassi virtuose” l’eventuale soluzione di far precedere la citazione in giudizio da un “interpello”, ove ritenuto utile ai fini di una più ordinata calendarizzazione delle udienze. Considerata la dialettica anticipata e scritta imposta dal rito “non partecipato”, con la lettera g) vengono ampliati a quaranta giorni i termini dilatori (oggi di venti giorni) concessi per comparire e per la notifica dell’avviso d’udienza ai difensori, ai sensi dell’articolo 601, comma 3 e 5, c.p.p.

La scelta dell’oralità implica la trattazione del giudizio di secondo grado in pubblica udienza, secondo la disciplina del dibattimento di appello di cui all’articolo 602 c.p.p., oppure in camera di consiglio con l’intervento delle parti, secondo la disciplina generale di cui all’art. 127, già ora applicata alle decisioni camerali in virtù dell’art. 599. Come nell’attuale sistema, la corte provvede in pubblica udienza, tranne nei casi previsti dall’art. 599 (quando l’appello ha uno degli oggetti ivi indicati o quando specifiche disposizioni di legge rinviano alle forme dell’art. 127, come nel caso dell’appello avverso la sentenza di non luogo a procedere, ai sensi dell’art. 428 c.p.p.). Il giudizio di secondo grado viene trattato oralmente, in dibattimento o in camera di consiglio, anche nel caso in cui la corte rigetti la richiesta di concordato sui motivi di appello, indipendentemente dalla richiesta di trattazione orale presentata dall’imputato appellante. Resta peraltro fermo il potere di riproporre in udienza la richiesta di concordato, con una scelta finalizzata a incentivare la definizione anticipata del giudizio di appello, obiettivo cui è pure finalizzata la concomitante abrogazione dei limiti al concordato previsti dall’attuale articolo 599-bis, comma 2, c.p.p. con la lettera f).

Alla nuova disciplina delle udienze nel giudizio di appello consegue, infine, la necessità di un’ulteriore modifica normativa. A tale riguardo, è espressamente previsto, nel nuovo art. 598-bis c.p.p., che il deposito della sentenza equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’art. 545 c.p.p., con disposizione che consente anche di individuare inequivocabilmente il dies a quo per il computo dei termini per impugnare, ai sensi dell’art. 585, comma 2, c.p.p.

La norma ha carattere procedurale e ordinamentale, pertanto, non determina oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, dal momento che agli adempimenti dalla stessa derivanti potranno essere espletati nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera i) s’interviene sull’articolo 603 c.p.p. inserendo il nuovo comma 3-bis, prevendendo una limitazione a casi specifici per rinnovare l’istruttoria dibattimentale in appello anche per il ricorso proposto dal p.m. e non solo da quello proposto dalle parti.

La norma ha natura procedimentale e non comporta profili onerosi per la finanza pubblica.

Nell’ambito del processo penale, peraltro, il sistema riconosce rimedi per l’assente anche in relazione alla fase di appello.

Per prima cosa, con la lettera l) il rinnovato comma 5-bis dell’articolo 604 c.p.p. prevede che nei casi in cui nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato e si accerti che la dichiarazione di assenza è avvenuta in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità.

Questo effetto di azzeramento del processo non opera se la nullità non è eccepita nell’atto di appello e se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata. In questi ultimi due casi, infatti, secondo il modulo che si è visto, sarebbe stato onere dell’imputato attivarsi per far dimostrare immediatamente il suo diritto e, quindi, evitare l’inutile protrazione del processo nella sua assenza.

Accanto a questa previsione, che opera per tutti i casi di assenza, il nuovo comma 5-ter dell’articolo 604 c.p.p. consente all’imputato di essere sempre restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto:

  1. a) se dimostra (in tutti i casi di assenza) che si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire nel giudizio di primo grado in tempo utile per esercitare la facoltà dalla quale è decaduto per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa; oppure
  2. b) se (nei soli casi di assenza provata o colpevole) dimostra di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del giudizio di primo grado e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto.

Anche nelle ipotesi di cui al comma 5-ter, il giudice di appello annulla la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice della fase nella quale si colloca la facoltà dalla quale l’imputato è decaduto, salvo che questi chieda l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 ovvero l’oblazione o esclusivamente la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

In queste ipotesi, infatti, può provvedere direttamente il giudice di appello. In modo connesso l’intervento in esame (fermo il fatto che gli atti compiuti restano utilizzabili) si è fatto carico di apportare le connesse modifiche anche all’articolo 603 c.p.p., per stabilire che il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale quando l’imputato, nei casi di cui all’articolo 604, comma 5-ter,c.p.p. ne fa richiesta ai sensi del comma 5-quater dello stesso articolo.

Peraltro, in questo caso quando nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato correttamente dichiarata ai sensi dell’articolo 420-bis, comma 3 (ossia per la volontaria sottrazione dell’imputato), la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale viene disposta solo ai sensi dell’articolo 190-bis.

Lo schema arricchito dei rimedi si sviluppa ancora anche in relazione alla fase di cassazione, per far fronte alle ipotesi in cui l’eventuale problematica dedotta è stata mal risolta in sede di appello e ai casi in cui la problematica si sia posta solo per la fase di appello.

Conformemente a quanto già previsto, con la lettera b-bis) dell’art. 623 si dispone che la cassazione annulla la condanna nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-bis (ossia di dichiarazione di assenza in mancanza dei presupposti), con trasmissione degli atti al giudice del grado e della fase in cui si è verificata la nullità, ma parimenti, in conformità con quanto già previsto, si dispone che la corte annulli la sentenza anche nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-ter (ossia di assenza ben dichiarata ma di dimostrazione da parte dell’imputato che in realtà una reale conoscenza non vi era stata). In questo caso, però, secondo il modulo già visto, l’annullamento non viene dichiarato se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo e nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.

In chiusura di questo ampio sistema di rimedi, è stato confermato anche l’istituto della rescissione del giudicato, destinato ad operare al di fuori dei casi in cui operi la revisione europea e per le sole ipotesi in cui l’interessato provi che la dichiarazione di assenza è avvenuta in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis.

Ovviamente il ricorso a questo strumento, in conformità a tutti gli altri previsti dall’ordinamento all’interno del processo, postula che l’imputato dimostri di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione avverso la sentenza di cui chiede la rescissione nei termini senza sua colpa.

La possibilità riconosciuta dal sistema in tutte le sue fasi e i suoi gradi, di far valere la nullità della dichiarazione di assenza, preclude la concessione del radicale beneficio rescissorio a colui che quella nullità avrebbe potuto far valere nel corso del processo.

Sotto il profilo finanziario, è da rappresentare la natura ordinamentale e procedurale delle modifiche apportate in attuazione della delega, alle norme sopra richiamate a seguito dell’importanza attribuita al parametro dell’effettiva conoscenza al fine di adeguarsi alla direttiva (UE) 2016/343, che comporta l’ampliamento dei rimedi successivi, a favore dell’imputato e del condannato giudicato in assenza.

Al riguardo, quindi, si segnala che con l’intervento si consegue un equo contemperamento di interessi, per la connotazione garantista di tutela del diritto di difesa e, al tempo stesso, per impedire che richieste pretestuose o dilatorie possano condurre a un prolungamento dei tempi processuali con riapertura del procedimento nel grado e nella fase in cui l’eccezione di mancata conoscenza (colpevole e volontaria o comunque non sufficientemente provata) viene fatta valere. In tali termini la disposizione snellisce le attività giudiziarie e impedendo attività non indispensabili o non pertinenti di cui si chiede la ripetizione, comporta effetti positivi per la finanza pubblica e non determina nuovi o maggiori oneri, perseguendo il fine dell’accertamento dei fatti proprio dell’esercizio dell’azione penale, in termini di un minor dispendio di risorse umane, strumentali e finanziarie, sebbene, allo stato, non quantificabili.

 

ART. 35

(Modifiche al Titolo III del Libro IX del codice di procedura penale)

 

 

Le modifiche all’articolo 611 c.p.p. attuano le direttive di cui all’art. 1, comma 13, lett. m) della legge delega e perseguono gli obiettivi del risparmio di risorse giudiziarie e dell’abbattimento dei tempi del processo, incentivando la celebrazione del giudizio davanti alla Corte di cassazione in camera di consiglio con contraddittorio “cartolare”, in linea con l’analogo intervento apportato nella disciplina del giudizio di appello.

Le forme di trattazione del ricorso con rito camerale “non partecipato” vengono previste dal nuovo comma 1 dell’art. 611 c.p.p., che già racchiude la disciplina delle decisioni in camera di consiglio, secondo la seguente cadenza temporale, fino a quindici giorni prima dell’udienza, per la presentazione delle richieste del procuratore generale, dei motivi nuovi e delle memorie di tutte le parti, fino a cinque giorni prima dell’udienza, per le eventuali memorie di replica.

Nel comma 2-bis si introduce la norma generale che consente, anche nei procedimenti per i quali si procede ai sensi dell’art. 127 c.p.p., la scelta della trattazione orale, in alternativa alla trattazione scritta, che diviene il rito “ordinario” davanti alla Corte di cassazione. La delega, al riguardo, manda al delegato di «prevedere che la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione avvenga con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori, salva, nei casi non contemplati dall’articolo 611 del codice di procedura penale, la richiesta delle parti di discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata [—]» (art. 1, comma 13, lett. m). Il legislatore delegante, quindi, consente una deroga al rito cartolare per i soli «casi non contemplati dall’articolo 611 del codice di procedura  penale»; esclude, di conseguenza, la possibilità di udienza “partecipata” nei casi per i quali l’art. 611 c.p.p. già oggi prevede il procedimento in camera di consiglio senza l’intervento delle parti (casi particolarmente previsti dalla legge, quali quelli di cui  agli artt. 428 e  612 c.p.p. e tutti i ricorsi contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell’art. 442 c.p.p.). Per tale ragione, si è limitata la potestà delle parti (di tutte le parti, come da espressa previsione della legge delega) di attivare il rito “orale” nei soli procedimenti per la decisione su ricorsi contro le sentenze pronunciate nel dibattimento o ai sensi dell’art. 442 c.p.p., nonché in quelli da trattare con le forme previste dall’art. 127 c.p.p., prevedendo che in tali casi il procuratore generale e i difensori possano chiedere la trattazione in pubblica udienza o, rispettivamente, in camera di consiglio con la loro partecipazione. Per ragioni di coerenza logica e sistematica e per non disincentivare il ricorso al rito cartolare in appello, si è prevista che la stessa facoltà sia concessa alle parti a fronte di ricorsi avverso sentenze pronunciate all’esito di udienza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti, a norma del nuovo art. 598-bis c.p.p., quando si tratti di ricorsi per i quali, in caso di udienza “partecipata” in appello, si sarebbe dovuto procedere con udienza pubblica (con esclusione, quindi, dei ricorsi avverso sentenze di appello aventi esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario: tutti casi per cui la vigente disciplina prevede il rito camerale in appello).

Nei commi 2-ter e 2-quater sono previste le scansioni successive alla richiesta di partecipazione all’udienza del procuratore generale e dei difensori delle parti ed è altresì disciplinata la possibilità che la Corte stessa disponga l’udienza “partecipata”, pubblica o in camera di consiglio, quando lo consiglino la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame: potestà che, in stretta aderenza al criterio di delega («prevedere che, negli stessi casi, la Corte di cassazione possa disporre, anche in assenza di una richiesta di parte, la trattazione con discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata») la Corte potrà esercitare nei soli casi in cui è consentita analoga facoltà alle parti.

Nel comma 2-quinquies, ferma restando la distinzione fra trattazione scritta e orale di cui ai commi precedenti, si prevedono termini ridotti, sia per la presentazione dell’eventuale richiesta di intervento in udienza, che per il deposito di memorie e repliche, fissando anche un termine minimo di comparizione (venti giorni) più ampio rispetto a quello previsto in generale dall’art. 127 c.p.p. Nel giudizio dinanzi alla Suprema Corte, infatti, il rito camerale assume necessariamente cadenze diverse rispetto a quelle previste dall’art. 127 c.p.p., non potendosi comprimere eccessivamente i termini spettanti alle parti per esercitare il contraddittorio scritto.

Completa l’intervento sull’art. 611 c.p.p. la previsione, inserita nel comma 2-sexies, a tutela del contraddittorio nel caso in cui emerga la possibilità di una ridefinizione giuridica del fatto contestato, in aderenza alla giurisprudenza CEDU di riferimento (a partire dalla nota sentenza Drassich c. Italia dell’11 dicembre 2007) e del consolidato orientamento della Suprema Corte che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, esclude la compressione o la limitazione del diritto al contraddittorio quando la diversa qualificazione giuridica del fatto non avvenga a sorpresa e l’imputato e il suo difensore siano stati posti in condizione di interloquire sulla questione (Cfr., fra le più recenti, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27905 del 03/05/2021, Rv. 281817-03 ).

Si segnala che le disposizioni introdotte, stante la natura ordinamentale, non comportano riflessi di natura finanziaria e realizza, in coerenza con l’impianto della riforma in esame, l’efficientamento del sistema delle impugnazioni concretizzato con lo snellimento delle procedure. Ai relativi adempimenti potrà provvedersi nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente

Peraltro, in questo caso quando nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato correttamente dichiarata ai sensi dell’articolo 420-bis, comma 3 (ossia per la volontaria sottrazione dell’imputato), la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale viene disposta solo ai sensi dell’articolo 190-bis.

Lo schema arricchito dei rimedi si sviluppa ancora anche in relazione alla fase di cassazione, per far fronte alle ipotesi in cui l’eventuale problematica dedotta è stata mal risolta in sede di appello e ai casi in cui la problematica si sia posta solo per la fase di appello.

Conformemente a quanto già previsto, con la lettera b-bis) dell’art. 623 c.p.p. si dispone che la cassazione annulla la condanna nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-bis (ossia di dichiarazione di assenza in mancanza dei presupposti), con trasmissione degli atti al giudice del grado e della fase in cui si è verificata la nullità, ma parimenti, in conformità con quanto già previsto, si dispone che la corte annulli la sentenza anche nei casi previsti dall’articolo 604, comma 5-ter (ossia di assenza ben dichiarata ma di dimostrazione da parte dell’imputato che in realtà una reale conoscenza non vi era stata). In questo caso, però, secondo il modulo già visto, l’annullamento non viene dichiarato se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo e nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.

In chiusura di questo ampio sistema di rimedi, è stato confermato anche l’istituto della rescissione del giudicato, destinato ad operare al di fuori dei casi in cui operi la revisione europea e per le sole ipotesi in cui l’interessato provi che la dichiarazione di assenza è avvenuta in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis.

Ovviamente il ricorso a questo strumento, in conformità a tutti gli altri previsti dall’ordinamento all’interno del processo, postula che l’imputato dimostri di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione avverso la sentenza di cui chiede la rescissione nei termini senza sua colpa.

La possibilità riconosciuta dal sistema in tutte le sue fasi e i suoi gradi, di far valere la nullità della dichiarazione di assenza, preclude la concessione del radicale beneficio rescissorio a colui che quella nullità avrebbe potuto far valere nel corso del processo.

Per contro, l’estensione della remissione in termini a chi non deduca un’errata dichiarazione di assenza, ma assuma che malgrado la correttezza della pronuncia egli in realtà non aveva avuto effettiva conoscenza del processo, esclude la necessità di estendere anche a costui il rimedio rescissorio.

Pe i profili finanziari si rinvia alle valutazioniinserite nel precedente articolo 34 del presente provvedimento, trattandosi di disposizioni di natura ordinamentale e procedurale che non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

 

ART. 36

(Inserimento del Titolo III bis del Libro IX del codice di procedura penale)

 

L’indicazione contenuta nel criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 13, lett. o) va nel senso di superare l’assetto binario – da un lato, revisione europea e, dall’altro, incidente di esecuzione – fissato dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, a favore di un unico rimedio di nuovo conio, che affidi sempre alla Corte di cassazione la valutazione del dictum europeo, con un vaglio preliminare sul vizio accertato dalla Corte di Strasburgo.

L’istituto deve dare esecuzione al triplice obbligo di neutralizzazione e rivalutazione della sentenza e di riapertura del procedimento derivante dalla sentenza europea di condanna alla restitutio in integrum, conservando però un ragionevole margine di apprezzamento a tutela del giudicato nazionale.

Per questo, trattandosi di rimedio diverso, richiede una disciplina autonoma e differente rispetto alla ordinaria revisione. Sulla scorta di tale considerazione, si è ritenuto di collocare la disciplina in un nuovo titolo III-bis, sotto la rubrica Rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Le scelte caratterizzanti della nuova previsione possono essere sintetizzate come segue.

L’articolo 628-bis c.p.p. al comma 1 indica i casi in cui è possibile attivare il rimedio in questione e i soggetti legittimati, individuati esclusivamente nel ricorrente in sede europea, con conseguente esclusione dei terzi non impugnanti che avrebbero potuto vantare la medesima violazione. Sul punto, si è ritenuto che l’espresso riferimento contenuto nella delega al solo «soggetto che abbia presentato il ricorso» non consentisse un ampliamento in favore di soggetti diversi. Per quanto concerne le decisioni della Corte Edu che legittimano l’attivazione della revisione europea, si è fatto riferimento non solo alle sentenze che accertino una violazione della Convenzione, ma anche alle ipotesi in cui sia disposta la cancellazione del ricorso dal ruolo ai sensi dell’art. 37 della Convenzione in conseguenza del riconoscimento della violazione da parte dello Stato.

Le norme di cui ai commi 2 e 3 disciplinano essenzialmente i profili procedurali della richiesta. In proposito, si stabilisce che essa debba, a pena di inammissibilità:

  1. contenere «l’indicazione specifica delle ragioni che la giustificano»;
  2. essere presentata personalmente dall’interessato o, in caso di morte, da un suo congiunto, a mezzo di difensore munito di procura speciale;
  3. formulata con ricorso depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza o il decreto penale di condanna nelle forme previste dall’articolo 582, entro novanta giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte europea che ha accertato la violazione o dalla data in cui è stata emessa la decisione che ha disposto la cancellazione del ricorso dal ruolo.

Si prevede, inoltre, che alla richiesta vadano allegati la sentenza o il decreto penale di condanna, la decisione emessa dalla Corte europea e gli eventuali ulteriori atti e documenti che la giustificano. Circa la competenza della Corte di cassazione, non si è ritenuto necessario precisare che il procedimento debba essere assegnato a una sezione diversa da quella che ha eventualmente definito i ricorsi interni, trattandosi di riparto interno alla Corte che, in quanto tale, potrà essere disciplinato in sede tabellare.

La norma di cui al comma 4 disciplina le modalità di trattazione della revisione europea, richiamando il giudizio camerale previsto dall’art. 611. E’ integralmente richiamata la disposizione dell’articolo 635, in tema di sospensione della pena o della misura di sicurezza.

Come disposto al comma 5, superato il vaglio di ammissibilità, l’oggetto della valutazione rimessa alla Cassazione riguarderà l’individuazione della “incidenza effettiva” che la violazione convenzionale ha prodotto sulla condanna, cui seguirà la scelta in ordine allo strumento più adatto per rimuovere gli effetti pregiudizievoli, ivi inclusa – se del caso – la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna. Solo qualora la Corte di cassazione non sia in grado di provvedere direttamente, trasmetterà gli atti al giudice dell’esecuzione oppure, secondo le evenienze, disporrà la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione, stabilendo se e in quale parte gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi conservino efficacia.

Nei commi 6 e 7 vengono disciplinate talune delle conseguenze della riapertura del processo. In particolare, quanto alla prescrizione, la pronuncia di riapertura del processo viene sostanzialmente assimilata all’annullamento agli effetti di cui all’articolo 161-bis del codice penale, essendosi previsto che la prescrizione riprenda a decorrere – a far tempo dalla pronuncia della Corte – quando la riapertura del processo venga disposta davanti al giudice di primo grado (comma 6). Ancor più evidente il meccanismo di assimilazione ai fini dell’improcedibilità. In tal caso, infatti, per l’ipotesi di riapertura del processo innanzi alla corte di appello, si è dettata una disposizione perfettamente corrispondente a quella prevista dall’art. 344-bis, comma 8, con la sola differenza che il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all’articolo 128 (comma 7).

Al comma 8 si attua la previsione del criterio di delega, laddove si fa riferimento alla necessità di regolamentare i rapporti del rimedio in esame con la rescissione del giudicato. Al riguardo, si è ritenuto maggiormente coerente con la ratio della delega stabilire che le disposizioni sin qui esaminate trovino applicazione anche quando la violazione accertata dalla Corte europea riguardi il diritto dell’imputato di partecipare al processo.

Ulteriore conseguenza della riapertura del processo è la “riassunzione” della qualità di imputato, che viene disciplinata con apposita modifica della disposizione di cui all’articolo 60 del codice.

Con le disposizioni transitorie, inserite in questo stesso decreto, si è provveduto a regolare i possibili profili di diritto intertemporale, stabilendosi in particolare:

– che nelle ipotesi in cui, in epoca anteriore all’entrata in vigore del presente decreto, sia divenuta definitiva la decisione con cui la Corte europea ha accertato la violazione, ovvero la Corte europea abbia disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato, il termine di 180 giorni per la proposizione del nuovo rimedio decorra dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto;

– che, per i reati commessi in data anteriore al 1° gennaio 2020 (ovvero prima della legge n. 3/2019, che ha introdotto il cd. blocco della prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di primo grado) la prescrizione riprenda il suo corso in ogni caso in cui la Corte di cassazione disponga la riapertura del processo, e non solo allorquando quest’ultima venga disposta innanzi al giudice di primo grado.

Per i profili finanziari si rileva la natura precettiva e ordinamentale della norma che è diretta a omologare sussistendone i presupposti le sentenze della CEDU di cui l’interessato chiede il riconoscimento . Si applicano le disposizioni in tema di impugnazioni e di presentazione dei ricorsi in Cassazione, la quale decide in Camera di Consiglio e senza assunzione di formalità. Nel cao in cui la Corte di Cassazione si pronunci favorevolmente all’interessato si avrà la riapertura del processo davanti al giudice di primo grado e davanti alla Corte di appello a seconda delle casistiche.Considerato che gli oneri di presentazione del ricorso e quelli di riassunzione del processo sono a carico dell’interessato non si rilevano effetti negativi per la finanza pubblica.

 

ART. 37

(Modifiche al Titolo IV del Libro IX del codice di procedura penale)

Il sistema dei rimedi, come da delega, è stato interamente rimodulato e arricchito. Con l’articolo 629-bis  si prevede in primo luogo, l’imputato giudicato in assenza, oltre a casi già previsti di caso fortuito e forza maggiore (che valgono anche per l’imputato presente), è restituito nel termine per proporre impugnazione se, nei casi previsti dall’articolo 420-bis, commi 2 e 3 (ossia di assenza provata e di assenza da sottrazione volontaria), dimostri di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto proporre impugnazione nei termini senza sua colpa. I due elementi di ammissibilità cui l’istanza è subordinata, in connessione con il complessivo sistema dei rimedi, servono allo scopo di impedire l’utilizzo dello strumento da parte di chi, pur formalmente assente, ha successivamente avuto conoscenza della pendenza del processo in tempo utile per intervenire e soprattutto proporre impugnazione nei termini ordinari. In questi casi, infatti, per prima cosa, egli sarebbe potuto intervenire nel processo e avvalersi dei rimedi interni alla fase e, in secondo luogo, avrebbe potuto proporre impugnazione nei termini. Il ritorno, seppure per i soli casi in cui la dichiarazione di assenza non è fondata su elementi di certezza (per i quali, invece, solo una dichiarazione erronea di assenza consentirà il rimedio rescissorio), allo strumento della remissione in termini per l’impugnazione discende dalla circostanza che la delega ha contestualmente introdotto per l’assente un onere aggiuntivo per proporre appello, ossia il deposito di una procura speciale e di una elezione di domicilio successivi alla sentenza.

Il rimedio più coerente con questa scelta, che tende a precludere la proposizione dell’impugnazione per l’assente che non si manifesti è, infatti, la rimessione in termini per proporla, per i casi in cui davvero l’imputato non aveva conoscenza della pendenza del processo e non era nelle condizioni di proporre impugnazione, senza sua colpa.

La disposizione in esame ha natura precettiva e procedurale e pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in quanto è tesa a disciplinare la rescisssione del giudicato in relazione alle norme in materia di assenza al fine di rendere più omogeneo tutto il sistema procedimentale.

 

ART. 38

(Modifiche al Titolo II del Libro X del codice di procedura penale)

 

Con la lettera a) – analogamente in fase di esecuzione della pena – si interviene sull’articolo 656 c.p.p., prevedendo che l’ordine di esecuzione, con le opportune modifiche dei commi 3 e 5, deve contenere, anche l’avviso al condannato, anche nel caso in cui sia destinatario di un decreto di sospensione della pena notificato al difensore, della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.

Con la lettera b) s’interviene sull’articolo 657 c.p.p. disciplinando le ipotesi di fungibilità della detenzione anche cautelare già espiata, sia che si tratti di restrizione della libertà per lo stesso reato, sia che si tratti di altro reato. Il pubblico ministero in sede esecutiva procede d’ufficio e in modo automatico nel caso in cui debba eseguire le pene detentive della reclusione o dell’arresto.

La norma disciplina nei commi 3 e 4 anche l’esecuzione delle “sanzioni sostitutive”, di cui alla legge n. 689 del 1981; in proposito, la dottrina ha sottolineato l’esclusione di ogni automatismo ed ha sempre riconosciuto al condannato la facoltà di chiedere lo scomputo della custodia cautelare o di altra pena detentiva “inutiliter data”, quando nei suoi confronti debbano essere eseguite sanzioni sostitutive. Si vuole in tal modo attribuire al condannato la possibilità di scegliere la detrazione a lui più favorevole, quando questi possa avere delle pendenze e quindi delle prevedibili condanne a pena detentiva. Il condannato, infatti, può avere interesse a detrarre il periodo presofferto dalla pena carceraria piuttosto che da una più mite pena sostitutiva.

Nello stesso senso si è espressa una delle pochissime pronunce di legittimità, che ha statuito che la detrazione può operare anche su pene pecuniarie e sostitutive, ma solo su richiesta del condannato (cfr. Cass. I, 20 giugno 2000, n. 4503, Degni).

Si è ritenuto che tale impianto debba essere conservato, anche rispetto alle nuove pene sostitutive; infatti, nonostante la più lunga durata ed il maggiore impatto sulla libertà individuale, esse rimangono connotate da minore afflittività rispetto alle pene detentive.

L’unico intervento necessario riguarda la pena del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, poiché il nuovo art. 63 della legge 689 del1981 ne affida l’esecuzione direttamente al giudice che lo ha applicato, mentre l’articolo 657 c.p.p. prevede che organo dell’esecuzione sia solo il pubblico ministero. Si è reso pertanto necessario inserire nel terzo comma l’inciso o, in caso di condanna alla pena del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, al giudice.

L’intervento normativo in esame è di natura ordinamentale e precettivo e pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

La riforma dell’esecuzione e della conversione delle pene pecuniarie, in attuazione della legge delega, richiede di sostituire il testo dell’articolo 660 c.p.p., che all’interno del Libro X del codice di procedura penale disciplina l’esecuzione delle pene pecuniarie.

Viene ribadita, pur nel contesto di un impianto normativo profondamente rinnovato, la competenza del pubblico ministero, quale organo dell’esecuzione, e del magistrato di sorveglianza, competente ex art. 678, co. 1 bis c.p.p. per la conversione delle pene pecuniarie non eseguite, nonché per l’esecuzione delle pene da conversione delle pene pecuniarie stesse.

Il modello di disciplina adottato dal nuovo testo dell’articolo 660 c.p.p. alla lettera c), si ispira nelle linee essenziali a quello adottato nell’art. 656 c.p.p. per l’esecuzione delle pene detentive. L’abbandono del sistema del recupero crediti, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria per mera insolvenza, è realizzato, sul piano processuale, concependo la pena pecuniaria non come un credito che lo Stato deve recuperare, attivandosi e sforzandosi in tal senso, bensì come una pena che, al pari di quella detentiva, deve essere eseguita dall’autorità giudiziaria attraverso un ordine di esecuzione.

Il primo comma, sul modello del primo comma dell’articolo 656 c.p.p., stabilisce che quando deve essere eseguita una condanna a pena pecuniaria, anche in sostituzione di una pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale ingiunge al condannato il pagamento. In caso di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva, tale ordine potrà nella prassi essere emesso insieme a quello di carcerazione, ai sensi dell’art. 656 c.p.p., pur essendo rispetto ad esso del tutto autonomo.

Il secondo comma individua i soggetti cui deve essere notificato l’ordine di esecuzione da parte del pubblico ministero: il condannato e il suo difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, il difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio. Analogamente a quanto dispone il terzo comma dell’art. 656 c.p.p. per l’ordine di carcerazione si prevede che l’ordine di esecuzione della multa o dell’ammenda debba contenere le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e quanto altro valga a identificarla, l’imputazione, il dispositivo del provvedimento, l’indicazione dell’ammontare della pena, nonché le modalità del pagamento. Questo può avvenire in un’unica soluzione ovvero in rate mensili ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale, secondo quanto disposto dal giudice nella sentenza o nel decreto di condanna. Si precisa infine che, nei casi dell’articolo 534, l’ordine di esecuzione è notificato altresì al civilmente obbligato per la pena pecuniaria (su tale soggetto cfr. gli artt. 196 e 197 c.p.).

Il terzo comma disciplina l’intimazione di pagamento: l’ordine di esecuzione contiene l’intimazione al condannato alla multa o all’ammenda di provvedere al pagamento entro il termine di novanta giorni dalla notifica.  L’intimazione di pagamento è accompagnata dall’avviso che, in mancanza di pagamento, la pena pecuniaria sarà convertita nella semilibertà sostitutiva (cfr. art. 102 l. n. 689/1981) o, in caso di accertata insolvibilità, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva (cfr. art. 103 l. n. 689/1981). E’ parso congruo prevedere un termine di novanta giorni dalla notifica per consentire al condannato di recuperare la disponibilità della somma di denaro necessaria per il pagamento della pena. Per agevolare il pagamento l’ordine di esecuzione contiene inoltre l’avviso al condannato che, quando non è già stato disposto nella sentenza o nel decreto di condanna, entro venti giorni, può depositare presso la segreteria del pubblico ministero istanza di pagamento rateale della pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale. Se è presentata istanza di pagamento rateale, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che procede ai sensi dell’articolo 667, comma 4.

Il quarto comma disciplina l’ipotesi in cui con la sentenza o con il decreto di condanna sia stato già disposto il pagamento in rate mensili, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale. In tal caso l’ordine di esecuzione contiene l’indicazione del numero delle rate, dell’importo e delle scadenze di ciascuna per il pagamento.  Con l’ordine di esecuzione il pubblico ministero ingiunge al condannato di pagare la prima rata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento, avvertendolo che in caso di mancato tempestivo pagamento della prima rata è prevista l’automatica decadenza dal beneficio e il pagamento della restante parte della pena in un’unica soluzione, da effettuarsi, a pena di conversione ai sensi del terzo comma precedente, entro i sessanta giorni successivi. Per il pagamento della prima rata è parso congruo prevedere un termine più breve rispetto a quello ordinario di novanta giorni. Il mancato pagamento della prima rata non determina peraltro la conversione della pena pecuniaria, potendo il condannato – decaduto dal beneficio del pagamento rateale – pagare in un’unica soluzione la multa o l’ammenda entro i successivi sessanta giorni e, pertanto, entro l’ordinario termine di novanta giorni.

Il quinto comma ricalca il disposto dell’art. 656, co. 8 bis c.p.p. stabilendo che quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza dell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero può assumere, anche presso il difensore, le opportune informazioni, all’esito delle quali può disporre la rinnovazione della notifica.

Il sesto comma disciplina l’ipotesi in cui, entro il termine stabilito, la multa o l’ammenda vengano pagate. Organo competente a verificare l’avvenuto pagamento e a dichiarare l’avvenuta esecuzione della pena è il pubblico ministero. Se, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento della multa o dell’ammenda, da parte del condannato, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena. In caso di pagamento rateale, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento delle rate e, dopo l’ultima, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena.

Il settimo comma, invece, disciplina l’ipotesi in cui l’ordine di esecuzione non sia andato a buon fine. Quando accerta il mancato pagamento della pena pecuniaria, ovvero di una rata della stessa, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione ai sensi degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ovvero, quando si tratta di pena pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’articolo 71 della medesima legge. Resta fermo che, in ogni caso, se il pagamento della pena pecuniaria è stato disposto in rate mensili, è convertita la parte non ancora pagata.

L’ottavo comma regola il procedimento per la conversione della pena pecuniaria, anche sostitutiva, da parte del magistrato di sorveglianza. E’ prevista l’applicabilità della procedura senza formalità di cui all’articolo 667, co. 4 c.p.p. Si stabilisce inoltre che, per la conversione della pena pecuniaria, ai sensi degli articoli 71, 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si applica, in quanto compatibile, l’art. 545 bis, commi 2 e 3 (c.d. udienza di sentencing, introdotta per l’applicazione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, da parte del giudice di cognizione).

Il nono comma disciplina l’accertamento dell’insolvibilità del condannato, da parte del magistrato di sorveglianza. Al fine di accertare l’effettiva insolvibilità del condannato, che sia stata da questi allegata o che abbia motivo di ritenere sussistente, il magistrato di sorveglianza dispone le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si ha ragione di ritenere che il condannato possieda beni o cespiti di reddito e richiede, se necessario, informazioni agli organi finanziari o di polizia giudiziaria. La disposizione ripropone con adattamenti quanto previsto nell’art. 238, co. 1 del d.P.R. n. 115/2002 (t.u. spese giustizia), che viene contestualmente abrogato (v. infra). L’accertamento dell’insolvibilità del condannato riveste un ruolo ancor più centrale nel riformato sistema di conversione della pena pecuniaria, dipendendo da esso l’applicazione della disciplina più severa di cui all’art. 102, ovvero di quella più mite di cui all’art. 103. In questa prospettiva, altresì centrale sarà, da parte del giudice della cognizione, la corretta e motivata applicazione dei criteri di commisurazione della pena pecuniaria, di cui all’art. 133 bis c.p., che può ridurre i casi di conversione per insolvibilità, a beneficio dell’efficienza complessiva dell’esecuzione penale e, quindi, del processo.

Il decimo comma stabilisce che quando il mancato pagamento della pena pecuniaria è dovuto a insolvibilità, il condannato può chiedere al magistrato di sorveglianza il differimento della conversione per un tempo non superiore a sei mesi, rinnovabile per una sola volta se lo stato di insolvibilità perdura. Ai fini della estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale la conversione è stata differita. La disposizione conferma un istituto – quello del differimento della conversione, fino a un anno – già previsto a beneficio del condannato insolvibile dall’art. 660, co. 3 c.p.p. e dall’art. 238, co. 3 del d.P.R. n. 115/2002 (t.u. spese di giustizia). L’istituto, come quello della rateizzazione del pagamento, riflette un generale favor dell’ordinamento per il pagamento della pena pecuniaria, riservando alla conversione in pena limitativa della libertà personale un ruolo di extrema ratio. Esso viene ragionevolmente limitato ai condannati in condizioni di insolvibilità. Chi è nelle condizioni di pagare, infatti, deve farlo senza indugi e può comunque chiedere la rateizzazione.

L’undicesimo comma disciplina l’ipotesi in cui vi sia stata condanna ex art. 354 c.p.p. del civilmente obbligato per la pena pecuniaria. La disposizione coordina pertanto la nuova disciplina dell’esecuzione e della conversione della pena pecuniaria con quella del predetto soggetto processuale, le cui principali disposizioni si rinvengono, oltre che nell’art. 354 c.p.p., negli artt. 196 e 197 c.p. Presupposto del pagamento del soggetto civilmente obbligato è l’accertamento dell’insolvibilità del condannato (cfr. art. 534 c.p.p), fermo restando (cfr. artt. 196 e 197 c.p.) che, in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria da parte del civilmente obbligato, la conversione ha luogo nei confronti del condannato. Questo modello, in linea con il principio di personalità della responsabilità penale, viene ora ribadito. Si stabilisce, nella nuova disposizione del codice di rito, che il magistrato di sorveglianza comunichi al pubblico ministero l’accertata condizione di insolvibilità del condannato e che il pubblico ministero ordini al civilmente obbligato per la pena pecuniaria di provvedere al pagamento della multa o dell’ammenda entro il termine di cui al terzo comma, ovvero, in caso di pagamento rateale, entro il termine di cui al quarto comma. Qualora il civilmente obbligato per la pena pecuniaria non provveda al pagamento entro i termini stabiliti, il pubblico ministero ne dà comunicazione al magistrato di sorveglianza che provvede alla conversione della pena nei confronti del condannato.

Il dodicesimo comma prevede che all’ordinanza di conversione – e, pertanto, alle pene da conversione della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva e del LPU sostitutivo –  sia data esecuzione dal magistrato di sorveglianza, ai sensi degli artt. 62 e 63 della l. n. 689/1981.

Il tredicesimo comma conferma quanto previsto, prima della presente riforma, dall’ultimo comma dell’art. 660 c.p.p.: il ricorso contro l’ordinanza di conversione ne sospende l’esecuzione.

Il quattordicesimo comma richiama, per l’esecuzione delle pene da conversione, l’art. 107 l. n. 689/1981. Tale disposizione rende applicabili (oltre agli artt. 62 e 23 l. n. 689/1981, già richiamati dal comma 12) gli artt. 64, 65, 68 e 69 della l. n. 689/1981, n. 689. Da segnalare che la competenza del magistrato di sorveglianza per l’esecuzione (e quindi la gestione) di semilibertà sostitutiva e detenzione domiciliare sostitutiva è già prevista dall’art. 62 l. n. 689/1981 quando le dette pene siano applicate dal giudice di cognizione, in sostituzione di una pena detentiva breve. Non altrettanto prevede invece l’art. 63, quanto alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Competente per l’esecuzione di quella pena sostitutiva, infatti, è il giudice che ha provveduto alla sostituzione della pena. Quando invece il lavoro di pubblica utilità è applicato dal magistrato di sorveglianza quale pena da conversione della pena pecuniaria non eseguita, competente per l’esecuzione della pena è lo stesso magistrato di sorveglianza.

Il quindicesimo comma, infine, ha una funzione di raccordo processuale con la disciplina di cui all’art. 102, co. 4 della l. n. 689/1981. Si stabilisce che le pene sostitutive, conseguenti alla conversione della pena pecuniaria, sono immediatamente revocate dal magistrato di sorveglianza quando risulta che il condannato ha pagato la multa o l’ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della pena da conversione espiata. A dimostrazione ulteriore del favor dell’ordinamento per il pagamento della pena pecuniaria, che prevale sempre sulla conversione in pena limitativa della libertà personale, si stabilisce, ancora una volta in linea con l’art. 102, co. 4 l. n. 689/1981, che durante l’esecuzione il condannato può chiedere al magistrato di sorveglianza di essere ammesso al pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133 ter del Codice penale. In tal caso, dopo il pagamento della prima rata l’esecuzione della pena da conversione è sospesa, e riprende in caso di mancato pagamento di una delle rate successive.

La disposizione è il fulcro del nuovo sistema per rendere effettivo il regime di esecutività della pena pecuniaria. La norma, infatti, contiene tutta la disciplina dell’applicabilità dell’istituto della “conversione” ora tra pene detentive e pene pecuniarie e, viceversa, tra pene pecuniarie rimaste insolute e pene detentive o pene sostitutive delle pene detentive brevi, privilegiando sempre, se e quando possibile, la soluzione che consente il pagamento – anche residuale – della pena pecuniaria. Proprio per il motivo appena esposto la norma, pur avendo natura procedurale, è suscettibile di determinare effetti positivi per la finanza pubblica, comportando un gettito d’entrata nelle casse erariali, sebbene, allo stato, di difficile quantificazione.

L’originario articolo 661 c.p.p. rubricato “Esecuzione delle sanzioni sostitutive” si risolveva in una disciplina di semplice rinvio “alle leggi vigenti” e quindi alla legislazione speciale in materia con particolare riguardo all’articolo 62 della legge 24 novembre 1981 n. 689 e all’articolo 660 c.p.p. Per la semidetenzione e la libertà controllata, l’organo dell’esecuzione era il pubblico ministero, che trasmetteva l’estratto della sentenza di condanna al magistrato di sorveglianza, incaricato di determinare le modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva. L’esecuzione della pena pecuniaria era disciplinata dal comma 2, che rinviava semplicemente all’articolo 660 c.p.p.

Le nuove pene sostitutive introdotte dalla legge delega vengono eseguite in modo diverso, secondo uno schema tripartito:

  1. a) pene sostitutive di natura detentiva come la semilibertà e la detenzione domiciliare, eseguite ai sensi dell’art. 62 l. n. 689/1981; b) lavoro di pubblica utilità sostitutivo, eseguito ai sensi dell’articolo 63 l. n. 689/1981; c) pena pecuniaria sostitutiva, eseguita ai sensi dell’articolo 660 c.p.p.

Da qui l’esigenza sistematica di mantenere una norma specifica per l’esecuzione delle pene sostitutive nel titolo II del Libro X del codice di procedura penale dedicato all’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, con analoga funzione di rinvio alla normativa speciale. Nel contempo, la diversa natura e struttura delle nuove pene sostitutive ha imposto degli adeguamenti al nuovo sistema.

Lo schema esecutivo originario, come si è detto, è stato conservato soltanto per la semilibertà e la detenzione domiciliare, prevedendo che quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a una delle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare, il pubblico ministero trasmette la sentenza al magistrato di sorveglianza, che provvede senza ritardo ai sensi dell’articolo 62 della legge 24 novembre 1981 n. 689.

In questa sede, va rilevato che il magistrato di sorveglianza competente territorialmente è individuato in relazione al domicilio del condannato, come previsto dal novellato articolo 62 legge 24 novembre 1981, n. 689.

In analogia alle disposizioni dell’articolo 656 c.p.p. per l’esecuzione delle pene detentive, si è inteso disciplinare espressamente il caso in cui il condannato si trovi sottoposto a misure cautelari al momento della irrevocabilità della sentenza e quindi della sua esecutività, considerando anche in questo caso la maggiore rilevanza acquisita dalle nuove pene sostitutive di pene detentive brevi, estese fino a quattro anni.

Si è così previsto che fino alla decisione del magistrato di sorveglianza, se il condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare è in custodia cautelare permane nello stato detentivo in cui si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti.

La norma va letta in combinato disposto con il nuovo comma 4 bis dell’art. 300 c.p.p., per effetto del quale solo il condannato alla semilibertà sostitutiva, se sottoposto alla custodia cautelare in carcere, rimane nello stato detentivo massimo; mentre il condannato alla detenzione domiciliare sostitutiva non può comunque rimanere in stato di custodia cautelare in carcere, ma permane nello stesso status libertatis solo se si trova agli arresti domiciliari cautelari. In entrambi i casi, il giudice può graduare la misura cautelare, ai sensi dell’articolo 299 c.p.p.

Al contrario, con la irrevocabilità della sentenza applicativa di pene sostitutive non detentive, si è ritenuto che le altre misure cautelari non avessero più ragione di proseguire, come del resto avviene anche per le condanne a pena detentiva; si è così previsto espressamente che in tutti gli altri casi, le misure cautelari disposte perdono immediatamente efficacia.

Il nuovo secondo comma si occupa, invece, specificamente, e sempre con forma di rinvio, dell’esecuzione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, che è ordinata dal giudice che ha applicato la pena, il quale provvede ai sensi dell’articolo 63 della legge 24 novembre 1981 n. 689.

L’originario comma 2, ora comma 3, rimane inalterato con riguardo all’esecuzione della pena pecuniaria con rinvio all’articolo 660 c.p.p., che tuttavia è stato interamente riformato.

Con la presente disposizione, di natura ordinamentale e procedurale, si cerca di definire in maniera puntuale la procedura di esecuzione delle pene sostitutive, non rinviando semplicemente all’osservanza delle leggi vigenti, ma specificando l’iter, le varie fasi, i soggetti istituzionali competenti e i tempi.

Pertanto, dall’attuazione delle disposizioni esaminate non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, potendo essere garantite le attività collegate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente

La disposizione ricalca e adegua al nuovo impianto normativo l’analoga previsione dell’art. 64 oggi vigente, rendendo più snella la procedura di modifica delle prescrizioni, che si può presentare frequentemente nel corso dell’esecuzione di una pena sostitutiva, potendo avere anche durata apprezzabile.

Il primo comma riguarda le prescrizioni della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva applicate a norma dell’articolo 62 e prevede che “le prescrizioni imposte con l’ordinanza prevista dall’articolo 62 possono essere modificate per comprovati motivi” e non più da “sopravvenuti motivi di assoluta necessità”, con formulazione che è parsa eccessivamente restrittiva.

L’organo competente a decidere è il magistrato di sorveglianza che ha in carico il condannato e che “procede senza formalità ai sensi dell’art. 678 comma 1 bis del codice di procedura penale, su istanza del condannato da inoltrare tramite l’ufficio di esecuzione penale esterna”.

È stato opportunamente eliminato il complesso e superfluo meccanismo di modifica nel contraddittorio con previsione della facoltà di adottare un provvedimento d’urgenza. Il magistrato provvede immediatamente, de plano e in camera di consiglio, analogamente a quanto già avviene nella prassi delle misure alternative.

Ancora una volta, l’intervento dell’UEPE è centrale, affinché le istanze di modifica delle prescrizioni pervengano al magistrato già filtrate e, se del caso, istruite dall’organo che ha il diretto contatto e controllo con il condannato.

Il secondo comma ricalca il medesimo schema per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo, solo adattandolo all’organo competente per l’esecuzione che è il giudice che lo ha applicato.

Il terzo comma contiene una disposizione esecutiva comune ai due provvedimenti che precedono.

Per evitare qualsiasi equivoco, in linea con la disposizione oggi vigente, al quarto comma si è previsto espressamente un catalogo di prescrizioni inderogabili “di cui ai numeri 1, 2, 4 e 5 dell’articolo 56 ter, comma 1”.

Il presente intervento ha carattere procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, essendo teso ad individuare le specifiche ipotesi in cui le modalità di esecuzione delle pene sostitutive possano essere modificate.

 

 

ART. 39

(Modifiche al Titolo III del Libro X del codice di procedura penale)

 

Un ulteriore rilevante intervento alla lettera a), attuato sulla falsariga di quanto già previsto per il procedimento di sorveglianza (art. 678, co. 3.2), è stato eseguito sulle regole generali del rito camerale e del procedimento di esecuzione (articolo 666, co. 4 c.p.p.), per prevedere la possibilità di audizione a distanza della persona che richieda di essere sentita e risulti detenuta o internata in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, per la quale è attualmente prevista l’audizione unicamente ad opera del magistrato di sorveglianza del luogo (art. 127, co. 3).

Si tratta di una disposizione di natura procedurale che mira ad armonizzare tutti gli interventi operati in tema di audizione a distanza e pertanto non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica.

Con la lettera b) si apportano modifiche all’articolo 676 c.p.p. inserendo fra le nuove competenze del giudice dell’esecuzione anche quella della decisione in merito all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis nel caso della mancata impugnazione contro la sentenza di condanna ada parte dell’imputato o dell suo difensore.

La norma esaminata che ha l’obiettivo di incentivare la definitiva del processo in tempi brevi con la previsione di un’ulteriore riduzione della pena di un sesto da parte del giudice dell’esecuzione, qualora non sia stata promossa impugnazione avverso una sentenza di giudizio abbreviato, stante il carattere ordinamentale e procedurale non determinaa impatti negativi per la finanza pubblica.

Da ultimo l’intervento alla lettera c) sull’articolo 678, comma 1 c.p.p. si giustifica in ragione della necessità di sostituire le espressioni “semidetenzione e libertà controllata” con le nuove denominazioni di “semilibertà sostitutiva e detenzione domiciliare sostitutiva”.

Stante la natura procedurale della disposizione, non si rinvengono profili di onerosità per la finanza pubblica.

 

CAPO XI

Modifiche al Libro XI del codice di procedura penale

 

ART. 40

 

(Modifiche al Titolo II del Libro XI del codice di procedura penale)

 

L’impiego dei nuovi strumenti tecnologici è parso compatibile anche nei procedimenti di cooperazione giudiziaria internazionale.

In particolare, per quanto riguarda la procedura estradizionale, oltre che all’interrogatorio (artt. 703, co. 2, e per i casi di arresto, 717, co. 2 c.p.p.), la possibilità di partecipazione a distanza dell’estradando e del difensore è stata prevista, in generale, per l’intero procedimento camerale di estradizione (art. 704, co. 2).

Nel settore del riconoscimento delle sentenze, non è stato necessario apportare modifiche alla procedura passiva quanto all’interrogatorio del condannato sottoposto a misure coercitive, considerato che l’art. 736, co. 3 c.p.p., rinvia al già citato art. 717, co. 2 c.p.p..

Le specifiche misure introdotte sono dirette ad assicurare il compiuto svolgimento dei processi penali mediante la più ampia estensione possibile della modalità di partecipazione agli atti e alle udienze nella fase delle indagini preliminari, anche quelle camerali e del processo di esecuzione, attraverso collegamenti audiovisivi a distanza, idonei a salvaguardare il principio del contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti coinvolte e non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza, rinviando alle considerazioni sull’impatto finanziario già svolte nei precedenti articoli che si occupano della stessa materia.

TITOLO III

Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale

 

ART. 41

(Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale)

 

Le modifiche proposte  con la lettera a) riguardano due ambiti differenti.

Sotto il profilo ordinamentale, in attuazione puntuale della delega, si è deciso di intervenire sulla norma contenuta nell’art. 1 del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero ed in particolare è stato inserito un nuovo articolo 3-bisPriorità nella trattazione delle notizia di reato e nell’esercizio dell’azione penale”. La proposta di riformulazione di tale dettato è sostanzialmente coincidente con quella contenuta nell’art. 13 del disegno di legge A.C. 2681 – “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, approvato alla Camera dei deputati il 26 aprile 2022 (l’unica differenza riguarda la precisazione relativa alla «permanenza nelle specifiche funzioni», inserita nel comma 6 lett. g). L’intervento sulla “tabellarizzazione dei progetti organizzativi” è consentito dalla seconda parte del criterio della lett. i), laddove si prevede di allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti. Il necessario allineamento tra le priorità che vincolano l’attività della procura e quelle relative agli uffici giudicanti è assicurato dalla procedura partecipata, regolata dall’art. 1, comma 7: per un verso, va sentito il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e, per l’altro, si prevede il previo parere del consiglio giudiziario.

L’intervento è teso a garantire l’efficace e l’uniforme esercizio dell’azione penale da parte dell’ufficio del pubblico ministero attraverso la selezione dei processi da avviare operata, con cadenza periodica, secondo criteri di priorità trasparenti e predeterminati, tenuto conto del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili. Stante la natura ordinamentale e procedurale delle disposizioni si segnala l’assenza di effetti negativi per la finanza pubblica.

L’intervento alla lettera b), pur operando in un contesto di complessiva semplificazione, non ha subito modifiche se non funzionali ad accertare l’effettiva consapevolezza dell’imputato del proprio difensore.  Sempre per favorire il rapporto effettivo tra imputato e difensore nei casi di cui ai commi 1 e 3 si è previsto che l’elezione di domicilio presso il difensore sia immediatamente comunicata allo stesso (cosa che per vero già accade per l’imputato detenuto) Con la modifica all’articolo 28 disp. att. c.p.p., allo stesso fine di agevolare l’instaurazione di un rapporto effettivo fra l’imputato e il difensore a lui nominato d’ufficio, si è imposta la tempestiva comunicazione all’interessato dei recapiti, anche telefonici e telematici, del difensore. Si tratta di una disposizione centrale nel sistema delle notificazioni, in considerazione del fatto che dalle attività espletate dalla polizia giudiziaria nel primo atto compiuto con l’intervento dell’indagato, dipendono le successive modalità di notifica, se telematica ovvero attraverso consegna a mani proprie o attraverso altre persone. Inoltre, è nuovamente affermata la centralità del ruolo del difensore presso il quale, nella maggior parte dei casi, sarà possibile effettuare le notifiche successive alla prima e che deve essere munito di strumentazione e indirizzo digitali ed essere in grado di effettuare telematicamente le comunicazioni. Pertanto, sia il difensore che l’indagato/imputato/condannato, sono responsabilizzati riguardo alle attività notificatorie, atteso che, sarà onere dei medesimi dimostrare di non aver avuto conoscenza degli atti loro destinati per evitare le conseguenze di celebrazione del processo dovute alla contumacia. Per quanto concerne, poi, le operazioni della polizia giudiziaria, si rappresenta che la collaborazione continua con l’organo inquirente e la delega da parte del p.m. a compiere atti propri del suo ufficio nell’urgenza ed immediatezza dei fatti, rende edotti e preparati gli ufficiali ed agenti di p.g. sulle norme violate e sulla successione degli eventi che hanno prodotto gli illeciti, anche perché secondo i loro compiti istituzionali è demandato a costoro di effettuare i rilievi, le annotazioni e i referti in prossimità del verificarsi dei fatti. E’, quindi, consequenziale che la polizia giudiziaria intervenuta sul posto sia in grado di dare una chiara esposizione dei fatti e delle violazioni contestate all’indagato, peraltro riassunte, sinteticamente, nell’atto notificatogli. Al riguardo, si assicura che le citate incombenze vengono ordinariamente svolte dagli operatori di polizia giudiziaria, rientrando tali adempimenti nei loro compiti istituzionali e nelle attività di indagine preliminare di cui ordinariamente sono investiti. Pertanto, la disposizione ha carattere di neutralità potendosi fronteggiare le citate attività attraverso le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Per gli altri profili finanziari valgono le stesse considerazioni effettuate riguardo all’art. 148 c.p.p., cui si rinvia.

Si segnala l’intervento realizzato, con la lettera c, sull’articolo 29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, recante Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, con l’introduzione dell’art. 45-ter –, diretto in modo specifico all’individuazione come riportato in rubrica del Giudice competente in ordine all’accesso alla giustizia riparativa, al fine di evitare qualsiasi dubbio interpretativo con riguardo ai momenti di passaggio. Tale disposizione, in coerenza con quanto stabilito dalla delega, in cui si prevede che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa sia possibile già in fase di indagini preliminari, stabilisce, che nel corso delle indagini preliminari, la valutazione giudiziaria sull’avviavo del programma di giustizia riparativa, si affidata al pubblico ministero, che è l’unico a disporre del fascicolo e a poter attivarsi d’ufficio, mentre dopo l’esercizio dell’azione penale, la competenza funzionale viene invece affidata al giudice procedente, ossia a quello che dispone del fascicolo.

Le norme che hanno carattere ordinamentale e precettivo consentiranno, già nel primo semestre successivo all’entrata in vigore del provvedimento in esame, la realizzazione di programmi di giustizia riparativa.

Le modifiche apportarte con la lettera d) all’articolo 55, comma 2, disp. att. c.p.p.,  sono un mero adeguamento al riconoscimento del mezzo telematico per le notificazioni, con legittimazione anche alle comunicazioni di conferma all’indirizzo di posta elettronica indicato dal destinatario. Si è altresì eliminato il riferimento al desueto strumento del telegrafo, sia nella norma codicistica che nelle disposizioni di attuazione del codice.

Per quanto riguarda le persone diverse dall’imputato, le presenti norme prevedono forme di comunicazione e di convocazione più celeri (a mezzo del telefono o tramite telegramma), agevolando i compiti degli uffici di segreteria e cancelleria e esonerandoli da adempimenti quantitativamente elevati. In tale ottica, pertanto, si rileva che le disposizioni hanno natura ordinamentale e procedurale e servono a coordinare l’insieme del sistema delle notificazioni, armonizzandolo con i nuovi mezzi e le nuove strumentazioni previste, abrogando il riferimento a quelli desueti, non comportando alcun aggravio di oneri per la finanza pubblica.

Con la lettera e) si interviene sull’articolo 56, disp. att. c.p.p., in linea con la disposizione di cui all’art. 152 c.p.p. che viene adeguata al riconoscimento del mezzo telematico per le notificazioni, con legittimazione del difensore anche all’utilizzo di un indirizzo di posta elettronica o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato a un domicilio digitale nel caso in cui sia già consentito il ricorso alla raccomandata. Viene conseguentemente introdotta una apposita disposizione di attuazione del codice, modellata, con i necessari adeguamenti, sulle collaudate formalità dettate dall’art. 3-bis della l. n. 53 del 1994, al fine di disciplinare la possibilità per i difensori di ricorrere alle modalità telematiche per la notificazione degli atti che altrimenti dovrebbero essere richiesti alla cancelleria (che è appunto, il predetto articolo 56-bis disp. att. c.p.p.). Finora, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della L. 53/94, l’avvocato può eseguire la notificazione di atti in materia: civile amministrativa stragiudiziale, ma non quelli relativi alla materia penale che, invece, sono resi ammissibili attraverso l’introducenda disposizione. Sotto il profilo finanziario si segnala lo snellimento di adempimenti sia procedurali che relativi a formazione di copie analogiche dei documenti, rimandando alle norme in tema di copie informatiche e digitali per i risvolti finanziari relativi alla riscossione dei diritti di copia e di notifica. Ad ogni modo, atteso l’esito positivo che si è verificato, su larga scala, dall’emanazione della legge 53 del 1994 riguardo alla diffusione delle notifiche civili da parte degli avvocati, è da presumere che anche per l’ambito qui esaminato sarà possibile raggiungere risultati ottimali per i tempi processuali e per l’effettività e certezza della consegna e conoscenza degli atti del processo. Gli enunciati interessi, infine, si riflettono anche in ambito finanziario considerato che i costi di rilascio/estrazione copia degli atti e i costi di notifica graveranno sugli avvocati e, pertanto, sulle parti private da questi rappresentate. Pertanto, le disposizioni in esame non determinano un aggravio di oneri, ma realizzano effetti positivi per la finanza pubblica, sebbene ancora non quantificabili.

Con la lettera f) viene previsto l’inserimento dell’articolo 63-bis disp. att. c.p.p.) “Comunicazioni di cortesia” prevedendo in tal senso che la cancelleria dia avviso di cortesia al destinatario dell’avvenuta notifica ai sensi dell’articolo 349 c.p.p., ovvero ai recapiti della casa di abitazione, del luogo in cui esercita abitualmente l’attività lavorativa e dei luoghi in cui ha temporanea dimora o domicilio, oltre che ad indicare i propri recapiti telefonici o indirizzi di posta che l’interessato ha dovuto dichiarare, ai fini di qualsivoglia notificazione degli atti processuali.

Si tratta di una disposizione diretta a velocizzare l’iter processuale puntando allo snellimento degli adempimenti degli organi e degli uffici deputati alle notificazioni giudiziarie (ufficiali giudiziari, gestori di servizi postali), nonché delle cancellerie penali, che potranno evadere le notifiche reperendo l’imputato nei luoghi indicati e avvertendolo dell’avvenuta notifica a persona diversa, attraverso avviso di cortesia effettuato anche a mezzo telefono o per posta elettronica certificata. Per tale motivazione la presente disposizione, completando i richiami del luogo di rinvenimento del destinatario non è suscettibile di determinare oneri a carico della finanza pubblica, ma al contrario sono idonee a realizzare possibili risparmi di spesa, allo stato non quantificabili.

Con la lettera g) si prevede che alle modifiche apportate all’art. 148 e alle abrogazioni degli artt. 150 e 151 del codice conseguono gli adattamenti apportati all’articolo 64 disp. att. c.p.p.

Riguardo agli aspetti di natura finanziaria, si rappresenta che le modifiche sanciscono la regola ordinaria che le notificazioni avvengono ordinariamente attraverso la riformulazione dell’art. 148 c.p.p. che, pertanto, diviene norma generale, comprensiva di tutte le casistiche che vengono ad essere prospettate e alla quale fare riferimento per qualsiasi dubbio e incertezza. La stessa, peraltro, che riunisce le disposizioni riguardo alle notificazioni richieste dal giudice e quelle richieste dal pubblico ministero (con abrogazione degli articoli 150 e 151 c.p.p.) è da leggersi insieme ad altre disposizioni sistematiche, vale a dire con quelle riformulate dell’art. 149, che disciplina le modalità di notifica a mezzo posta, nel caso di urgenza nonché con quelle degli articoli 55 e 64 delle disp. att. c.p.p. con legittimazione anche alle comunicazioni di conferma all’indirizzo di posta elettronica indicato dal destinatario. Si è altresì eliminato il riferimento al desueto strumento del telegrafo, sia nella norma codicistica che nelle disposizioni di attuazione del codice.

Si tratta di un insieme di disposizioni dirette a velocizzare l’iter processuale puntando allo snellimento degli adempimenti anche degli organi e degli uffici deputati alle notificazioni giudiziarie (ufficiali giudiziari, gestori di servizi postali), nonché delle cancellerie penali, che in maniera più chiara, diretta e celere acquisiranno la prova dell’avvenuta ricezione dell’atto da parte dell’imputato sia esso detenuto o meno o della persona sottoposta alle indagini. Le notificazioni per via telematica, infatti, renderanno possibile un più razionale impiego delle risorse umane che svolgevano tali incombenze, con migliore distribuzione della quantità e della qualità dei carichi di lavoro e efficientamento dei servizi della giustizia.  Per tali motivazioni le norme in esame non sono suscettibili di determinare oneri a carico della finanza pubblica, ma al contrario sono idonee a realizzare possibili risparmi di spesa, allo stato non quantificabili. Ad ogni modo, si assicura che eventuali adeguamenti sui sistemi non daranno luogo a nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, potendosi provvedere ai relativi adempimenti con le risorse umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, nonché con le risorse finanziarie già iscritte nel bilancio dell’Amministrazione della giustizia alla Missione 6 – Programma 1.2 – Giustizia civile e penale: “Sviluppo degli strumenti di innovazione tecnologica in materia informatica e telematica per l’erogazione dei servizi di giustizia”, capitolo di bilancio 1501, per la parte corrente, che reca uno stanziamento di euro 45.993.808 per ciascuno degli anni dal 2022 al 2024, nonché capitolo di bilancio 7203, per la parte capitale, che reca uno stanziamento di euro 247.821.801 per l’anno 2022, di euro 209.110.654 per l’anno 2023 e di euro 151.350.408 per l’anno 2023.

Con la lettera h) si introduce il nuovo articolo 64-ter disp. att. c.p.p  in materia di diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini.

La norma di attuazione dell’art. 1, comma 25, della legge delega è stata stilisticamente redatta sulla falsariga dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. codice privacy) e lascia impregiudicate le competenze di settore dell’Autorità garante della privacy.

Un primo e chiaro vincolo di delega è che l’intervento deve essere operato all’interno delle disposizioni di attuazione del codice di rito.

Il “costituire titolo” lascia intravedere una iniziativa su richiesta — ed in tal senso si è operato — che esclude l’attivazione officiosa o comunque automatismi incombenti sulle cancellerie.

I provvedimenti che costituiscono titolo per la deindicizzazione sono individuati dal criterio di delega nel “decreto di archiviazione”, nella “sentenza di non luogo a procedere” e nella “sentenza di assoluzione”. Le tre locuzioni però non si coordinano perfettamente tra loro: non avrebbe senso, da un lato, includere i decreti ed escludere le ordinanze di archiviazione; dall’altro, includere le sentenze dibattimentali di assoluzione (art. 530) ed escludere quelle dibattimentali di non doversi procedere (artt. 529 e 531), quando le archiviazioni e le sentenze di non luogo a procedere vengono menzionate abbracciando qualunque “formula”. Nel comma 1 della norma che si propone di introdurre si sono apportate, pertanto, le opportune formule armonizzatrici.

Il rinvio all’art. 17 del Regolamento sulla protezione dei dati (“Diritto alla cancellazione – diritto all’oblio”) vuole garantire il rispetto della disciplina comunitaria, imposto dalla delega. Non si è ritenuto opportuno effettuare un rinvio maggiormente specifico, mediante espressa menzione dell’art. 17, comma 1, lett. e) e dell’art. 19 del Regolamento: ciò non perché si ritenga che dette norme non siano applicabili, ma all’opposto perché il rinvio all’art. 17 del Regolamento senza ulteriori specificazioni appare in grado di meglio evocare — in modo recettizio — l’istituto del diritto all’oblio nella sua interezza, anche a fronte di future modifiche della disciplina eurounitaria.

Le tipologie di annotazioni rilasciabili dalla cancelleria, sulla base dell’interesse e della specifica richiesta di parte, sono due: un preventivo ed originario divieto di indicizzazione del provvedimento (comma 2); una successiva attestazione della idoneità del titolo ad ottenere la deindicizzazione da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del Regolamento del Parlamento europeo del 27 aprile 2016, n. 679, ad indicizzazione già avvenuta (comma 3).

Si tratta di disposizioni di natura precettiva e procedurale volti a disciplinare, come illustrato, alcuni aspetti in materia di diritto all’oblio degli indagati o imputati, prevedendo che il decreto di archiviazione, la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione nel rispetto della normativa europea in materia di dati personali, garantiscano in modo effettivo appunto il diritto all’oblio per il soggetto destinatario dei provvedimenti indicati.

Si segnala che tale disposizione, che riveste carattere ordinamentale e procedurale e semplifica gli adempimenti connessi alla cancellazione di dati sfavorevoli per la persona interessata, non è suscettibile di determinare effetti finanziari negativi sulla finanza pubblica. Si assicura, infatti, che gli adempimenti giudiziari previsti potranno essere garantiti nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera i) al fine attuare la direttiva di cui alla lett. a) dell’art. 1 comma 14), viene modificata la disciplina di cui all’articolo 86 disp. att. c.p.p., facendo salvi i casi in cui sia prevista una specifica destinazione delle cose confiscate. Pertanto, le ipotesi di confisca in casi particolari ai sensi dell’art. 240-bis c.p. e fattispecie assimilate, nonché di confisca disposta nei procedimenti per reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. restano disciplinate dal comma 1-quater dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., con il coinvolgimento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Negli altri casi, per risolvere la questione delle competenze e delle modalità di liquidazione dei beni definitivamente confiscati nell’ambito di processi penali in ordine a reati per i quali non si applicano le disposizioni del codice antimafia, si estende alle cancellerie penali la possibilità di delega delle operazioni di vendita già prevista dalle disposizioni degli articoli 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile.

Come noto, il criterio di delega originava dalla esigenza di “decongestionare” le cancellerie degli uffici giudiziari, anche in ragione del fatto che si tratta di uffici strutturalmente non attrezzati per gestire questo tipo di attività in tutti i casi (sempre più frequenti) nei quali non si tratta di vendere beni mobili di agevole commercializzazione, per i quali già è possibile per gli uffici avvalersi utilmente dell’IVG, in forza dell’art. 13 del reg. di esecuzione del c.p.p. o dell’art. 152 del TU spese di giustizia. Questioni delicate si sono poste, ad esempio, per la liquidazione di aziende o quote societarie. Ma problemi analoghi si pongono con riferimento alla liquidazione di beni immobili, che vede le cancellerie penali sfornite delle conoscenze delle problematiche inerenti alle vendite immobiliari e che, dalle informazioni disponibili, ha condotto a una generalizzata stasi dei procedimenti.

In attuazione dello specifico criterio di delega, pertanto, con la modifica al comma 1 dell’art. 86 disp. att. c.p.p., si rendono applicabili anche in sede penale le più agevoli e moderne modalità di vendita dettate dagli articoli 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile, che hanno dato buona prova di sé in quell’ambito della giurisdizione.

Il caso particolare dell’esecuzione della confisca per equivalente di beni non sottoposti a sequestro o, comunque, non specificamente individuati dal giudice con il provvedimento di confisca, viene invece disciplinato nel comma 1-bis dell’art. 86 disp. att. c.p.p., in aderenza alla stessa direttiva di cui alla lett. a). In questo caso si prevede che l’esecuzione della confisca avvenga secondo le modalità proprie dell’esecuzione delle pene pecuniarie. Si tratta di una soluzione già accolta dal sistema, in quanto prevista dall’art. 735-bis c.p.p. per l’esecuzione di provvedimenti resi da Autorità straniere che abbiano ad oggetto una “confisca consistente nella imposizione del pagamento di una somma di denaro corrispondente al valore del prezzo, del prodotto o del profitto del reato” (che è provvedimento riconducibile, per l’appunto, alla confisca per equivalente che non si sia già manifestata nell’apprensione di un bene in sede di sequestro). La direttiva di cui alla lett. a) dell’art. 1 comma 14) va d’altra parte coordinata con quelle, previste dal successivo comma 16, che delegano il Governo a modificare la disciplina in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie. L’esigenza di semplificare e razionalizzare l’esecuzione della pena pecuniaria emerge dai dati statistici citati in altra parte di questa relazione, che testimoniano come le percentuali di riscossione siano bassissime. La volontà della legge delega, come emerge da una lettura congiunta dei richiamati criteri direttivi, è di introdurre meccanismi efficaci per l’esecuzione tanto delle pene pecuniarie, quanto della confisca per equivalente, nell’ipotesi di cui si è detto. In attuazione della legge delega, pertanto, la nuova disciplina dell’esecuzione della pena pecuniaria troverà applicazione, in quanto compatibile, anche per l’esecuzione della confisca per equivalente. Ciò è coerente con la natura di sanzione penale riconosciuta come propria di tale forma di confisca dalla giurisprudenza e dalla dottrina. La conversione della confisca per equivalente in una pena sostitutiva, finalizzata alla coercizione dell’adempimento, ove possibile, è d’altra parte misura già prevista in altri ordinamenti europei e giudicata compatibile con il diritto UE (cfr. Corte di Giustizia, Prima Sezione, 10 gennaio 2019, Causa C-97/18 ET). Essa è d’altra già prevista dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, richiamata dal citato art. 735 bis c.p.p.

Alla lettera l) si individuano le norme contenute nell’articolo 104-bis disp. att. c.p.p. che continuano a disciplinare l’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo, conformemente alla ratio della direttiva di cui alla lett. b) dell’art. 1 comma 14 della legge delega. La soluzione prescelta determina anche un coordinamento con la disciplina dei commi 1-bis e 1-quater dell’art. 104-bis modificata dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, entrata in vigore il 15 luglio 2022, senza necessità di ulteriori modifiche.

Si segnala la natura tanto ordinamentale che procedurale delle disposizioni che intervengono in materia di esecuzione della confisca per equivalente in seguito all’accertamento della commissione di reati e all’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro, stabilendo che si applichi la disciplina dell’esecuzione delle pene pecuniarie in caso di beni mobili o immobili già sottoposti a sequestro, e che, la vendita dei beni confiscati a qualsiasi titolo, avvenga secondo le disposizioni degli artt. 534-bis e 591- bis del c.p.c. con delega, al notaio o al professionista iscritto negli elenchi di cui agli articoli 169-ter e 179- ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, delle operazioni di vendita. 

Si rappresenta, al riguardo, che i compensi liquidati ai predetti soggetti gravano sulla stessa procedura esecutiva o sono corrisposti dalla parte acquirente prima dell’assegnazione del bene a titolo di privilegio in favore dell’Erario.

Con riferimento, invece, alla disposizione che prevede l’applicazione, ai beni sottoposti a sequestro e ai beni confiscati, della disciplina di cui all’articolo 104-bis disp. att. c.p.p. secondo il quale l’autorità̀ giudiziaria nomina un amministratore giudiziario scelto nell’Albo di cui all’articolo 35 del Codice antimafia di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni, si evidenzia che l’autorità̀ giudiziaria può affidare la custodia dei beni suddetti a soggetti diversi da quelli indicati al periodo precedente secondo le previsioni del citato codice.

Le disposizioni in esame realizza obiettivi di efficientamento risolvendo le problematiche relative alla gestione da parte degli uffici giudiziari – le cancellerie penali in primis – delle procedure di esecuzione e vendita connesse ad alcune particolari tipologie di beni mobili (es.: quote societarie e liquidazione di aziende) e in relazione a beni immobili. La regolamentazione della disciplina permette di superare situazioni problematiche collegate a adempimenti particolarmente complessi, gravanti sui citati uffici giudiziari e permette la commercializzazione agevole di detti beni, con ricadute positive sul gettito d’entrata delle casse erariali, seppure allo stato non quantificabili.

Alla lettera m) si prevede che – per sviluppare l’articolo 1, comma 9 lettera r) della legge delega -, nel procedimento a carico d’ignoti, il giudice per le indagini preliminari a cui fosse chiesta l’archiviazione ovvero l’autorizzazione a proseguire le indagini, qualora avesse ritenuto che il reato fosse ascrivibile ad una persona già individuata, ordinasse d’iscriverne il nome nell’apposito registro. Il precetto viene esteso lungo due direzioni: da un lato, il giudice potrà emettere l’ordine non soltanto in quelle due circostanze ma tutte le volte che il suo intervento sia sollecitato (si pensi, a esempio, a una richiesta d’intercettazione); dall’altro, la disposizione diventa applicabile anche nei procedimenti contro indagati noti, consentendo al giudice di individuare ulteriori persone da iscrivere nel registro, oltre a quelle che già vi figurano.

Conviene precisare che la prerogativa giudiziale riguarda, in questo caso, unicamente soggetti a cui venga addebitato quello stesso fatto che forma oggetto della richiesta indirizzata al giudice; ove si trattasse di fatti illeciti diversi, potrebbe semmai venire in gioco la disciplina sull’obbligo di denuncia.

Il giudice per le indagini preliminari, peraltro, non sempre è informato dei soggetti iscritti nel registro di cui all’art. 335 e, quindi, potrebbe trovarsi in difficoltà nell’esercitare il potere. Per questa ragione s’è previsto che, ogni qual volta avanzi una richiesta, il pubblico ministero debba anche indicargli la notizia di reato ed i soggetti ai quali è ascritta (articolo 110-ter n. att. c.p.p.); dovrebbe quindi venir meno la prassi di indicare un unico responsabile, seguito dalla dicitura «ed altri». L’ordine è adottato «sentito il pubblico ministero»; ciò dovrebbe prevenire l’eventualità di iscrizioni che, alla luce di atti di cui il giudice non abbia avuto conoscenza, non appaiano realmente necessitate.

Sebbene sia teoricamente possibile che il giudice emetta l’ordine nel momento stesso in cui emergono gli indizi a carico del soggetto da iscrivere (si pensi al caso in cui un testimone renda dichiarazioni accusatorie nel corso d’un incidente probatorio), in concreto – di regola – la decisione si baserà sulla valutazione di atti anteriori al provvedimento giudiziale, cosicché bisognerà anche stabilire il momento a partire dal quale decorrono i termini delle indagini. Quanto al soggetto cui attribuire questo compito, si è ritenuto di affidarlo non al giudice ma al pubblico ministero. La soluzione è parsa coerente con l’impianto codicistico, che riserva appunto al pubblico ministero la prima decisione sulla data in cui è emersa la notitia criminis, lasciando al giudice solo un potere di controllo postumo. D’altra parte, almeno se si ritiene che si tratti sostanzialmente d’una retrodatazione, l’assetto opposto sarebbe entrato in attrito con la legge delega, secondo cui la retrodatazione può essere disposta soltanto su domanda.

Il decreto motivato del giudice avrà dunque riguardo al nominativo della persona da iscrivere (e, nel caso d’una pluralità di fatti investigati, al reato che gli si attribuisce), ma non alla data in cui l’iscrizione sarebbe dovuta avvenire. Naturalmente, qualora l’interessato ritenesse che la data individuata dal pubblico ministero non fosse corretta, potrebbe innescare il meccanismo di controllo disegnato dall’art. 335-quater.

Si rappresenta che il presente intervento si pone in linea con gli intenti di miglioramento e semplificazione procedurale perseguiti dalla legge delega in termini di necessaria individuazione delle persone sottoposte ad indagine, superando le criticità riscontrate nell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. La disposizione ha carattere definitorio e procedurale e, pertanto, non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica.

Per tale motivo, dunque, il secondo periodo della nuova disposizione precisa come detto divieto non osti alla possibilità di apprezzare “autonomamente”, in sede civile o amministrativa, gli elementi indiziari valutati dal P.M. all’atto dell’iscrizione, così come le (eventuali) «ulteriori circostanze rilevanti» rese disponibili ai fini della decisione.

Essenzialmente alla medesima finalità di esatta individuazione della portata del nuovo precetto normativo risponde, altresì, l’ulteriore intervento operato attraverso l’inserimento dell’articolo 110-quater disp. att. che, come si evince testualmente già dalla rubrica, è volto a regolare i «[r]iferimenti alla persona iscritta nel registro delle notizie di reato contenuti nelle disposizioni civili e amministrative».

In proposito, giova premettere che, secondo quanto si legge nella Relazione predisposta dalla Commissione Lattanzi, il legislatore delegato avrebbe dovuto «rived[ere], rimuovendole, le ipotesi normative in cui dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato discenda un effetto pregiudizievole per l’interessato».

In fase di attuazione del criterio di delega si è, tuttavia, dovuto prendere atto di come, in realtà, la dichiarata intenzione “soppressiva” non si sia tradotta in una direttiva di delega volta ad autorizzare interventi di tipo abrogativo sulle norme in questione.

Tali norme, d’altro canto, oltre che non esaustivamente censibili ed analizzabili nei ristretti termini disponibili, risultano talora strutturate in modo da accordare rilievo alla sola posizione dell’«indagato» o della «persona sottoposta a procedimento penale» (v., rispettivamente, artt. 463-bis cod. civ. e 12, legge 7 luglio 2016, n. 122, in tema di indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti), senza menzionare quella dell’«imputato», e cioè del soggetto nei cui confronti il P.M. si sia determinato ad esercitare l’azione penale: sicché, in questi casi, l’intervento “ablativo” (peraltro solo incidentalmente) ipotizzato nel citato passo della Relazione, interdicendo effetti pregiudizievoli in relazione a valutazioni ben più pregnanti (e, addirittura, espresse da un giudice: si pensi all’applicazione di una misura cautelare personale), avrebbe finito per esorbitare lo stesso ambito di operatività delineato in via generale per il principio di garanzia introdotto dalla delega.

Ebbene, è alla stregua di tali considerazioni che il nuovo articolo 110-ter disp. att.c.p.p., nel suo inciso iniziale, oltre a riprendere la possibilità di «autonoma valutazione degli indizi che hanno determinato l’iscrizione», nonché «delle ulteriori circostanze rilevanti» (già contemplata dal secondo periodo dell’articolo 335-bis), opera una sorta di generale “conversione” del riferimento alla mera sottoposizione ad indagini, cui vengono sostituiti snodi procedimentali più pregnanti, quali l’applicazione di una misura cautelare personale o l’avvenuto esercizio dell’azione penale: al ricorrere di tali evenienze, quindi, gli effetti pregiudizievoli si produrranno – secondo il disposto della norma – «comunque», a significare che, in tal caso, non occorre alcuna (ulteriore) valutazione di “indizi” o di altre circostanze rilevanti.

Le presenti disposizioni hanno natura ordinamentale e procedurale in quanto stabiliscono la neutralizzazione degli effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo prodotti dalla mera iscrizione nel registro di cui articolo 335 c.p.p. e, pertanto, dalla loro attuazione non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Fermo restando quanto previsto dall’inserito articolo 335-bis, rubricato “Limiti all’efficacia dell’iscrizione ai fini civili e amministrativi”, è parso tuttavia necessario accordare analogo rilievo alla definizione dell’esatto ambito di operatività di detto principio, che la norma di delega individua ricollegando il divieto di effetti extrapenali pregiudizievoli alla «mera iscrizione» del nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato.

Per tale motivo, dunque, il secondo periodo della nuova disposizione precisa come detto divieto non osti alla possibilità di apprezzare “autonomamente”, in sede civile o amministrativa, gli elementi indiziari valutati dal P.M. all’atto dell’iscrizione, così come le (eventuali) «ulteriori circostanze rilevanti» rese disponibili ai fini della decisione.

Essenzialmente alla medesima finalità di esatta individuazione della portata del nuovo precetto normativo risponde, altresì, l’ulteriore intervento operato attraverso l’inserimento dell’articolo 110-quater disp. att. che, come si evince testualmente già dalla rubrica, è volto a regolare i «riferimenti alla persona iscritta nel registro delle notizie di reato contenuti nelle disposizioni civili e amministrative».

In fase di attuazione del criterio di delega si è, tuttavia, dovuto prendere atto di come, in realtà, la dichiarata intenzione “soppressiva” non si sia tradotta in una direttiva di delega volta ad autorizzare interventi di tipo abrogativo sulle norme in questione.

Tali norme, d’altro canto, oltre che non esaustivamente censibili ed analizzabili nei ristretti termini disponibili, risultano talora strutturate in modo da accordare rilievo alla sola posizione dell’«indagato» o della «persona sottoposta a procedimento penale» (v., rispettivamente, artt. 463-bis cod. civ. e 12, legge 7 luglio 2016, n. 122, in tema di indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti), senza menzionare quella dell’«imputato», e cioè del soggetto nei cui confronti il P.M. si sia determinato ad esercitare l’azione penale: sicché, in questi casi, l’intervento “ablativo” (peraltro solo incidentalmente) ipotizzato nel citato passo della Relazione, interdicendo effetti pregiudizievoli in relazione a valutazioni ben più pregnanti (e, addirittura, espresse da un giudice: si pensi all’applicazione di una misura cautelare personale), avrebbe finito per esorbitare lo stesso ambito di operatività delineato in via generale per il principio di garanzia introdotto dalla delega.

Ebbene, è alla stregua di tali considerazioni che il nuovo articolo 110-ter disp. att., nel suo inciso iniziale, oltre a riprendere la possibilità di «autonoma valutazione degli indizi che hanno determinato l’iscrizione», nonché «delle ulteriori circostanze rilevanti» (già contemplata dal secondo periodo dell’articolo 335-bis), opera una sorta di generale “conversione” del riferimento alla mera sottoposizione ad indagini, cui vengono sostituiti snodi procedimentali più pregnanti, quali l’applicazione di una misura cautelare personale o l’avvenuto esercizio dell’azione penale: al ricorrere di tali evenienze, quindi, gli effetti pregiudizievoli si produrranno – secondo il disposto della norma – «comunque», a significare che, in tal caso, non occorre alcuna (ulteriore) valutazione di “indizi” o di altre circostanze rilevanti.

Le presenti disposizioni hanno natura ordinamentale e procedurale in quanto stabiliscono la neutralizzazione degli effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo prodotti dalla mera iscrizione nel registro di cui articolo 335 c.p.p. e, pertanto, dalla loro attuazione non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Con la lettera n) s’intervine sull’articolo 127 disp. att.c.p.p in materia di comunicazioni di reato al procuratore generale. La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto disciplina l’elenco delle comunicazioni che la segreteria del pubblico ministero deve trasmettere al procuratore generale presso la corte d’appello relativamente ai procedimenti seguiti dal pubblico ministero.

Con la lettera o) s’introduce il nuovo articolo 127-bis disp. att.c.p.p., finalizzato a coordinare le determinazioni del procuratore generale con i criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio di procura – nell’ l’ipotesi di avocazione per inerzia da parte del procuratore generale ex art. 412 cod. proc. pen., – realisticamente riconfigurata in termini di “discrezionalità”.

Le modifiche proposte riguardano due ambiti differenti.

Sotto il profilo ordinamentale, in attuazione puntuale della delega, si è deciso di intervenire sulla norma contenuta nell’art. 1 del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero. La proposta di riformulazione di tale dettato è sostanzialmente coincidente con quella contenuta nell’art. 13 del disegno di legge A.C. 2681 – “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, approvato alla Camera dei deputati il 26 aprile 2022 (l’unica differenza riguarda la precisazione relativa alla «permanenza nelle specifiche funzioni», inserita nel comma 6 lett. g). L’intervento sulla “tabellarizzazione dei progetti organizzativi” è consentito dalla seconda parte del criterio della lett. i), laddove si prevede di allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti. Il necessario allineamento tra le priorità che vincolano l’attività della procura e quelle relative agli uffici giudicanti è assicurato dalla procedura partecipata, regolata dall’art. 1, comma 7: per un verso, va sentito il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e, per l’altro, si prevede il previo parere del consiglio giudiziario.

Il secondo ambito di intervento è quello strettamente processuale. Nello spirito della riforma, si è ritenuto necessario rimarcare che i criteri di priorità non hanno valenza puramente organizzativa, ma sono destinati a incidere sulle scelte procedimentali del pubblico ministero, sin dall’attività successiva all’iscrizione della notizia di reato. La sede proposta è quella delle disposizioni di attuazione, dove già si trova la disciplina dei criteri di priorità nella trattazione dei processi (articolo 132-bis disp. att.). In quest’ottica, si prevede anzitutto una norma di portata generale, da inserire in apertura del capo dedicato al pubblico ministero, che vincola il pubblico ministero al rispetto dei criteri di priorità tanto nella fase delle indagini, quanto al momento dell’esercizio dell’azione penale.  La seconda previsione riguarda specificamente il procuratore generale e stabilisce che, nel disporre l’avocazione facoltativa, questi debba tener conto dei criteri di priorità: ove così non fosse, si arriverebbe al paradosso di consentire al procuratore generale di avocare un’indagine postergata dal pubblico ministero proprio in applicazione delle scelte di priorità.

L’intervento è teso a garantire l’efficace e l’uniforme esercizio dell’azione penale da parte dell’ufficio del pubblico ministero attraverso la selezione dei processi da avviare operata, con cadenza periodica, secondo criteri di priorità trasparenti e predeterminati, tenuto conto del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili. Stante la natura ordinamentale e procedurale delle disposizioni si segnala l’assenza di effetti negativi per la finanza pubblica.

L’articolo 132-ter disp.att. c.p.p. inserito con la lettera p), detta disposizioni di natura organizzativa al fine di  assicurare la rapida definizione dei processi.

La norma ha carattere ordinamentale e procedurale e comporta effetti negativi per la finanza pubblica, in quanto è tesa all’adozione dei necessari provvedimenti organizzativi da parte dei digirenti degli uffici giudicanti che siano in grado di assicurare la celebrazione dell’udienza secondo i termini stabiliti dalla legge.

Con la lettera q) si disciplinano le modifiche intervenute sull’articolo 141, comma 4-bis disp.att. c.p.p,  con le quali si prevede che in caso di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, l’imputato è rimesso in termini per chiedere la medesima, tale disposizione relativa al procedimento di oblazione si applica anche nel caso di nuove contestazioni di cui agli articoli 517 e 518 c.p.p.

L’intervento ha natura ordinamentale e procedeurale e non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La lettera r) ed s)  apportano modifiche agli articoli 141-bis e 141-ter disp.att. c.p.p prevedendo rispettivamente al primo articolo che all’esito delle indagini preliminari, il pubblico ministero – con l’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. – può (e non “deve”) formulare una proposta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, indicando “la durata e i contenuti del programma trattamentale. È opportuno chiarire – quanto all’indicazione dei contenuti del programma trattamentale – che il pubblico ministero, nel formulare la proposta, potrà limitarsi ad indicare i contenuti essenziali del programma trattamentale (se, cioè, sia necessario un ristoro per la persona offesa; o, ad esempio, la tipologia di lavoro di pubblica utilità maggiormente confacente al caso in esame); il definitivo programma trattamentale, infatti, dovrà necessariamente essere elaborato con l’indispensabile apporto consensuale della persona interessata. . La proposta di messa alla prova formulata dal pubblico ministero è formalizzata – e notificata alla persona sottoposta ad indagini – con l’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. e al secondo che il pubblico ministero – ove lo ritenga necessario – possa chiedere l’ausilio dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (di seguito UEPE) per la formulazione della proposta (art. 464 ter.1, co. 1, c.p.p.). Il coinvolgimento dell’UEPE in questa fase è solo eventuale, essendo opportuno non sovraccaricare tale ufficio di una serie di incombenti che rischierebbero di comprometterne la complessiva funzionalità. Tuttavia, tale esplicita previsione è utile anche a promuovere un’attività di collaborazione tra procure della Repubblica e UEPE che potrebbe trovare espressione non solo nell’elaborazione di proposte di MAP dedicate al singolo procedimento, ma anche all’elaborazione di protocolli condivisi tra UEPE e Procura della Repubblica, capaci di offrire degli standard di riferimento dai quali i pubblici ministeri potranno attingere nell’elaborare le proposte da formulare nei singoli casi individuali. Si è altresì ritenuto opportuno prevedere – con finalità acceleratorie – che, in tal caso, l’UEPE debba fornire il proprio contributo entro trenta giorni (v. art. 141 bis, co. 2 disp.att.c.p.p.), con l’introduzione di un termine che, sebbene ordinatorio, deve comunque essere rispettato (arg. ex art. 124 c.p.p.).

Le disposizioni in esame hanno carattere procedurale e precettivo e non comportano effetti negativi per la finanza pubblica, al contrario oltre al riflesso positivo in termini di riduzione dei carichi lavorativi giurisdizionali, si avrà l’ulteriore riflesso di deflazionamento processuale e di riduzione di accesso a misure detentive, cautelari e non, con risparmi di spesa allo stato non quantificabili. Il duplice effetto positivo derivante dalle modifiche inserite nel presente decreto è riscontrabile sia in termini di incentivo alle forme di definizione alternativa dei procedimenti penali con il perseguimento degli obiettivi cardini della riforma del sistema giustizia in termini di risocializzazione del soggetto e reinserimento sociale, alleggerimento del sovraffollamento carcerario, riduzione dei tempi medi processuali ed infine eventuale conseguente contrazione di costi procedurali.

Lo scopo delle disposizioni in esame è quello di agevolare le richieste di applicazione della MAP- misura di comunità collocata nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio – prevedendola anche su proposta del p.m con il consenso dell’imputato/interessato, in quanto tale consenso rappresenta elemento indispensabile per disporre la sospensione del procedimento, stimando possibili rilevanti effetti deflattivi. Gli adempimenti connessi agli specifici interventi previsti dalla presente disposizione, rientrano fra le attività istituzionali dell’amministrazione giudiziaria e pertanto, potranno essere fronteggiati con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente. Per quanto riguarda invece il UEPE, si segnala che il carico aggiuntivo di lavoro previsto per le diverse fasi in cui lo vedrà coinvolto per definire il percorso trattamentale più opportuno per l’imputato/interessato, potrà essere fronteggiato grazie alle misure previste nel decreto- legge 36/2022 in termini di potenziamento di risorse umane.    

Con la lettera t si modifica l’articolo 142, comma 3 disp.att. c.p.p.

Nella prospettiva dell’individuazione delle possibili conseguenze derivanti dalla mancata dichiarazione o elezione di domicilio, esplicitando così la volontà del legislatore di rendere la persona offesa attivamente responsabile rispetto alla propria partecipazione al procedimento penale e di rendere il querelante edotto delle conseguenze derivanti dalla ingiustificata mancata comparizione, si spiegano le ulteriori disposizioni di coordinamento che si propone vengano adottate nello schema di decreto legislativo. In ordine alla esplicitazione delle conseguenze che determina la ingiustificata mancata comparizione del querelante all’udienza in cui dovrebbe essere esaminato come testimone, si ritiene opportuno modificare il testo dell’articolo 142 disp.att. c.p.p., disponendo che l’intimazione notificata al testimone/querelante contenga l’avviso che la ingiustificata mancata comparizione all’udienza integra remissione tacita di querela.

La formulazione proposta nel modificare l’articolo 142 disp. att. c.p.p. recepisce un indirizzo giurisprudenziale già esistente ed è tesa a soddisfare il diritto della persona offesa di essere compiutamente informata delle conseguenze processuali che la legge annette ai suoi comportamenti; si tratta di un avviso che, dunque, assicura al querelante la possibilità di operare scelte libere e consapevoli, orientate alla tutela del proprio interesse. L’intervento sulle norme in esame è di natura ordinamentale e procedurale e le modifiche mirano a rendere edotto il querelante sulle sue prerogative nonché sulle conseguenze della sua condotta inerte o incompleta. Gli adempimenti connessi alla loro attuazione sono di carattere istituzionale e già espletati dal personale a ciò deputato, senza che vi siano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Le modifiche dell’articolo 145, comma 2 disp. att. c.p.p. di cui alla lettera u) sono di tipo letterale e non comportano effetti negativi per la finanza pubblica.

Con le lettere z) e aa) vengono operati i necessari coordinamenti normativi  negli articoli 146-bis e 147-bis disp. att. c.p.p., dedicati – rispettivamente – alla partecipazione al dibattimento a distanza e all’esame degli operatori sotto copertura, delle persone che collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso, sempre all’interno dell’ambito più ampio della disposizione di cui all’art. 133-ter c.p.p., intitolata alle Modalità e garanzie della partecipazione a distanza, in cui sono state sostanzialmente “trasferite” (con circoscritte modifiche di adattamento e coordinamento) talune regole procedurali già attualmente vigenti, contenute, che sono state dunque conseguentemente soppresse e con la lettera gg) vengono inserire le opportune modifiche ai richiami normativi all’interno dell’articolo 205-ter discp.att.c.p.p. .

La modifiche normative in esame hanno natura ordinamentale e procedurale e non producono effetti onerosi per la finanza pubblica, in quanto sono tese a inserire gli opportuni richiami normativi alla luce delle modifiche legislative operate con il presente decreto.

Alla lettera bb) si interviene sul comma 2 dell’articolo 154 disp.att. c.p.p., la riformulazione si è resa indispensabile ai fini del coordinamento le nuove regole in materia di redazione degli atti in forma di “documento informatico”, rispetto alle quali divengono eccentrici tanto il riferimento alla “minuta” quanto quello alla verifica della corrispondenza all’originale.

L’intervento sulla disposizione richiamata si rende necessaria per adeguare sia in termini lessicali gli articoli del codice di procedura penale e le disposizioni di attuazione del medesimo in relazione alla produzione di atti e documenti sia da parte delle cancellerie e segreterie giudiziarie che da parte degli interessati (indagato, imputato, parte civile, appellante etc.) e naturalmente dei loro difensori.

Pertanto, si tratta di norme che vengono adeguate alle nuove esigenze ed armonizzate con le nuove modalità introdotte dalla riforma e specificate nel presente decreto. Dalle stesse non derivano effetti negativi per la finanza pubblica, potendosi fronteggiare gli adempimenti ad esse collegate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera cc), in conseguenza della disciplina dettata per i rapporti fra improcedibilità dell’azione penale, azione civile e confisca, si introducono due ulteriori misure al fine di prevenire l’eventuale prodursi di cause di improcedibilità e, nel caso in cui le stesse dovessero comunque verificarsi, evitare il pregiudizio che un ritardo nella declaratoria di improcedibilità potrebbe produrre all’azione della parte civile e alle esigenze di pronta attivazione dell’A.G. compente per le misure di prevenzione.

La prima misura è di carattere organizzativo e, attraverso l’introduzione dell’articolo 165-ter disp. att. c.p.p., intende promuovere l’adozione, da parte dei capi degli uffici, dei provvedimenti organizzativi necessari per attuare il costante monitoraggio dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione e del rispetto della disposizione di cui all’articolo 175-bis delle stesse disposizioni di attuazione.

Con la nuova disposizione di cui all’art. 175-bis disp. att. c.p.p., parallelamente, si impone un termine acceleratorio alle corti per la pronuncia di improcedibilità: termine compatibile con quello, dilatorio, individuato con le nuove disposizioni per la citazione a giudizio (40 giorni) e finalizzato ad assicurare che, nei procedimenti in cui sono presenti parti civili costituite o beni in sequestro, possano attivarsi i percorsi rispettivamente previsti per la prosecuzione dell’azione civile innanzi al giudice civile competente secondo le disposizioni dell’ordinamento giudiziario e per l’eventuale adozione di misure di prevenzione

Si evidenzia la natura sia ordinamentale che procedurale delle disposizioni che intervengono in tema di rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi del giudizio d’impugnazione e l’azione civile esercitata all’interno dello stesso procedimento, adeguando di conseguentemente anche la disciplina delle impugnazioni in relazione alla necessaria tutela degli interessi civili sottesi al procedimento. Vengono previsti, come illustrato, adeguati interventi nell’ambito della confisca penale disposta con la sentenza impugnata, che si sostanziano nell’opportuna integrazione della disciplina dell’istituto, dalla quale derivano attività, comunque  ordinariamente espletate nel corso dei procedimenti dal personale amministrativo e di magistratura e loro ausiliari, ragion per cui si assicura che le stesse potranno essere fronteggiate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

L’intervento inserito alla lettera dd) riguardano le disposizioni in materia di forme di trattazione del giudizio di appello e il concordato sui motivi di appello. Vengono apportate modifiche finalizzate al risparmio di risorse giudiziarie e all’abbattimento dei tempi del processo, incentivando sia la celebrazione dell’appello in camera di consiglio con contraddittorio esclusivamente scritto, che la definizione del giudizio di secondo grado con il concordato.

Alla nuova disciplina delle udienze nel giudizio di appello consegue, infine, la necessità di un’ulteriore modifica normativa. Con una disposizione nuova, introdotta all’articolo 167-bis disp. att. c.p.p., si prevede che avviso del provvedimento emesso dalla corte in seguito alla camera di consiglio di cui all’articolo 598-bis c.p.p. sia comunicato a cura della cancelleria al procuratore generale e ai difensori delle altre parti: si tratta di mera comunicazione “di cortesia”, senza alcun valore costitutivo della conoscenza del provvedimento, che resta connessa al deposito del provvedimento in udienza. A tale riguardo, è espressamente previsto, nel nuovo art. 598-bis c.p.p., che il deposito della sentenza equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’art. 545 c.p.p., con disposizione che consente anche di individuare inequivocabilmente il dies a quo per il computo dei termini per impugnare, ai sensi dell’art. 585, comma 2, c.p.p.

La norma ha carattere procedurale e ordinamentale, e realizzando obiettivi di snellimento delle procedure -con l’applicazione del procedimento in camera di consiglio in assenza di effettivo contraddittorio per quei casi che possono essere definiti con modalità più celeri  – non determina oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, dal momento che agli adempimenti dalla stessa derivanti potranno essere espletati nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Nella lettera ee)  a seguito della disciplina dettata per i rapporti fra improcedibilità dell’azione penale, azione civile e confisca, si introducono due ulteriori misure al fine di prevenire l’eventuale prodursi di cause di improcedibilità e, nel caso in cui le stesse dovessero comunque verificarsi, evitare il pregiudizio che un ritardo nella declaratoria di improcedibilità potrebbe produrre all’azione della parte civile e alle esigenze di pronta attivazione dell’A.G. compente per le misure di prevenzione.

La prima misura, di cui si è già detto prima, è di carattere organizzativo e, attraverso l’introduzione dell’art. 165-ter disp. att. c.p.p., intende promuovere l’adozione, da parte dei capi degli uffici, dei provvedimenti organizzativi necessari per attuare il costante monitoraggio dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione e del rispetto della disposizione di cui all’articolo 175-bis delle stesse disposizioni di attuazione.

Con la nuova disposizione di cui all’articolo175-bis disp. att. c.p.p., parallelamente, si impone un termine acceleratorio alle corti per la pronuncia di improcedibilità: termine compatibile con quello, dilatorio, individuato con le nuove disposizioni per la citazione a giudizio (40 giorni) e finalizzato ad assicurare che, nei procedimenti in cui sono presenti parti civili costituite o beni in sequestro, possano attivarsi i percorsi rispettivamente previsti per la prosecuzione dell’azione civile innanzi al giudice civile competente secondo le disposizioni dell’ordinamento giudiziario e per l’eventuale adozione di misure di prevenzione

Si evidenzia la natura sia ordinamentale che procedurale delle disposizioni che intervengono in tema di rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi del giudizio d’impugnazione e l’azione civile esercitata all’interno dello stesso procedimento, adeguando di conseguentemente anche la disciplina delle impugnazioni in relazione alla necessaria tutela degli interessi civili sottesi al procedimento. Vengono previsti, come illustrato, adeguati interventi nell’ambito della confisca penale disposta con la sentenza impugnata, che si sostanziano nell’opportuna integrazione della disciplina dell’istituto, dalla quale derivano attività, comunque  ordinariamente espletate nel corso dei procedimenti dal personale amministrativo e di magistratura e loro ausiliari, ragion per cui si assicura che le stesse potranno essere fronteggiate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con la lettera ff) si inserisce l’articolo 181-bis disp.att. c.p.p., in quanto al fine di agevolare il tempestivo pagamento della pena pecuniaria, assicurandone l’esecuzione e la riscossione, è parso opportuno introdurre nelle disposizioni di attuazione del codice di rito la presente disposizione. In un sistema che prevede la conversione della pena pecuniaria in pene limitative della libertà personale, qualora il pagamento non avvenga (di norma) entro novanta giorni dall’ordine di esecuzione, è necessario assicurare che vengano comunicate al condannato le modalità attraverso le quali può e deve adempiere all’obbligo di pagamento.

Il primo comma stabilisce che le modalità di pagamento delle pene pecuniarie applicate dal giudice con la sentenza o con il decreto di condanna devono essere indicate dal pubblico ministero, anche in via alternativa, nell’ordine di esecuzione di cui all’art. 660 c.p.p. Esse comprendono in ogni caso il pagamento attraverso un modello precompilato, allegato all’ordine di esecuzione.

Il secondo comma demanda a un decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi per la prima volta entro novanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, l’individuazione e il periodico aggiornamento delle modalità tecniche di pagamento, anche per via telematica (ad esempio, sul modello di, o tramite, PagoPA).

La norma ha natura ordinamentale e procedurale e determina effetti positivi, in quanto oltre a riaffermare, come già sostenuto all’articolo precedente, la prevalenza del pagamento della pena pecuniaria, sia come misura alternativa alla pena detentiva sia come misura da prediligere rispetto alla conversione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, illustra una procedura snella e semplificata, da eseguirsi anche attraverso modelli standardizzati precompilati, allegati all’ingiunzione di pagamento, che agevolano la riscossione delle somme dovute soprattutto attraverso pagamenti telematici, già ampiamente collaudati con le piattaforme in uso presso ogni pubblica amministrazione. Dall’attuazione della disposizione, pertanto, non derivano oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, potendosi attuare gli adempimenti previsti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. 

 

 

TITOLO IV

Disciplina organica della giustizia riparativa

 

CAPO I

Principi e disposizioni generali

 

Il Titolo IV dello schema di decreto legislativo è stato predisposto in attuazione della delega contenuta nella legge 27 settembre 2021 nell’ottica delineata dalla citata riforma di attuare i principi e i criteri di una disciplina organica della “giustizia riparativa”, alla luce delle indicazioni provenienti da organismi di livello internazionale, quali le raccomandazioni provenienti dal Consiglio d’Europa, i principi fondamentali dei programmi in materia penale delle Nazioni Unite e le direttive dell’Unione europea, nonché dalle elaborazioni concettuali della dottrina internazionale. Il provvedimento contiene la previsione di programmi ad hoc che possono essere avviati esclusivamente con il consenso delle persone coinvolte senza che, dalla loro mancata accettazione possano derivare ricadute a livello sanzionatorio o di applicazione di benefici e sconti di pena. Un primo approccio a tale strumento di estrazione prevalentemente sociale era stato operato già con la legge 28 aprile 2014, n. 67, la quale estendeva l’istituto della “messa alla prova”, previsto nell’ambito del processo minorile, anche ai reati commessi da adulti puniti con la pena edittale fino a quattro anni di reclusione sola o congiunta a pena pecuniaria. In tali casi, l’imputato può chiedere la sospensione del processo e la c.d. “messa alla prova” che consiste in una condotta tendente all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e, ove possibile, al risarcimento del danno dal medesimo cagionato.  La peculiarità dell’istituto consiste nella realizzazione, già nella fase procedimentale – ancora in corso di lite di un percorso diverso rispetto a quello personale restrittivo custodiale.

La prospettiva di una giustizia che mette in relazione rei, vittime e comunità, chiamati a partecipare attivamente, qualora vi acconsentano, nella gestione degli effetti deleteri di un reato con l’obiettivo di una ricerca condivisa di un possibile accordo di riparazione, è stata delineata nei seguenti precisi criteri di delega, che qui succintamente vengono richiamati:

  • Formulazione di una disciplina organica della giustizia riparativa che deve contenere all’interno dei principali programmi prospettati, un imprinting di marcato carattere sociale in cui l’intervento di riconoscimento del disvalore della condotta, di responsabilizzazione e di impegno nell’elidere per quanto possibile, il pregiudizio – soprattutto psicologico e morale – causato alla vittima, prevalgano sulle finalità repressive e punitive della pena irrogata o da irrogare (1, comma 18, lettera a, della legge delega );
  • Valorizzazione del ruolo della vittima (della quale vengono fornite puntuali definizioni) attraverso l’istituto della mediazione – già previsto nell’ambito del processo minorile – istituto che viene inserito tra gli interventi tutelari, con la finalità di responsabilizzare il reo e dare voce alla sofferenza della parte lesa (1, comma 18, lettera b, della legge delega );
  • Possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in maniera illimitata, in ogni stato e grado del processo e durante l’esecuzione della pena, senza alcuna preclusione riguardo ai reati commessi: fulcro centrale del sistema diviene, quindi, l’informazione sia per l’autore che per la vittima del reato sul significato del programma, le modalità con cui viene attuato, le finalità dei programmi stessi ed il monitoraggio e valutazione dei loro esiti (1, comma 18, lettera c, della legge delega). Tale obbligo di informazione, può, peraltro, essere adempiuto da soggetti diversi, seppur sempre nell’ambito di compiti istituzionali cui sono adibiti: pertanto, a procedimento in corso saranno gli stessi giudici davanti ai quali pende il procedimento a fornirne la comunicazione ovvero in fase di esecuzione il tribunale o magistrato di sorveglianza, nel caso delegando tale comunicazione ai propri ausiliari (cancelleria e polizia giudiziaria), nonché i servizi sociali degli enti locali presso cui è stato avviato il programma o quelli dell’amministrazione penitenziaria e dell’UEPE, in caso di applicazione di misure alternative o di comunità (art.1 comma 18, lettera b, della legge delega).

In tal senso, è garantito il diritto all’informazione tanto della persona indicata come autore del reato che della vittima, senza ritardo da parte dell’autorità giudiziaria circa la possibilità di accedere ad un percorso di giustizia riparativa ed i relativi servizi, curando che le comunicazioni avvengano in una lingua comprensibile alle parti interessate, tramite l’eventuale supporto di un interprete figura già prevista nell’ambito del processo penale e dell’ordinamento penitenziario. Analogamente viene riconosciuto il diritto a ricevere le comunicazioni del mediatore del percorso riparativo in modo comprensibile e adeguato all’età de partecipanti (art.1 comma 18, lettera d, della legge delega);

  • Essenziale è la previsione che l’esito favorevole del programma riparativo sia comunicato all’autorità giudiziaria che ha disposto il programma stesso e possa influire sull’esito positivo del processo; in nessun caso, comunque, l’esito negativo del percorso può condizionare il decorso processuale né l’esecuzione della pena in corso o influire sulla concessione di misure alternative alla detenzione o sui benefici premiali previsti dall’ordinamento penitenziario né può esplicare effetti negativi sulla vittima (1 comma 18, lettera e, della legge delega);
  • Disciplinare la formazione dei mediatori esperti tenendo conto delle esigenze delle vittime e degli autori del reato e delle capacità di gestione degli effetti del conflitto e del reato, dettagliando i requisiti e i criteri per l’esercizio dell’attività professionale di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa e le modalità di accreditamento dei mediatori presso il Ministero della giustizia, garantendo le caratteristiche di imparzialità, indipendenza ed equiprossimità di ruolo (1 comma 18, lettera f, della legge delega);
  • Individuare i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni dei servizi per la giustizia riparativa, prevedendo che siano erogati da strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia (1 comma 18, lettera g, della legge delega).

 

Sezione I

Definizioni, principi e obiettivi

 

ART. 42

(Definizioni)

 

Con l’articolo 42 si stabiliscono le “Definizioni” del provvedimento in esame, precisando che per giustizia riparativa si intende ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore (lettera a); volto al raggiungimento di un esito riparativo che consiste in  qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti (lettera e); perseguito attraverso i servizi per la giustizia riparativa  (lettera f) la cui organizzazione e gestione spetta al Centro per la Giustizia riparativa (lettera g) la cui disciplina sarà descritta nel successivo articolo 63.

La disposizione in esame ha carattere ordinamentale e precettivo delle disposizioni, non presenta profili di onerosità a carico della finanza pubblica.

 

ART. 43

(Principi generali e obiettivi)

 

L’articolo 43 fissa i principi generali e individua gli obiettivi dei programmi di giustizia riparativa, che tendono a promuovere il riconoscimento della vittima, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità. Viene stabilito che cardini del sistema introdotto sono la partecipazione attiva e volontaria di tutti i soggetti coinvolti nel reato (vittima, persona indicata come autore dell’offesa e gli eventuali altri soggetti coinvolti), che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è assicurato ai soggetti che vi hanno interesse con le garanzie previste dal presente decreto legislativo e, oltre ad essere gratuito, è sempre favorito, senza discriminazioni e nel rispetto della dignità di ogni persona, dal momento che l’unico limite è il pericolo concreto per i partecipanti, derivante dallo svolgimento del programma stesso.

In considerazione del carattere ordinamentale e precettivo delle disposizioni, non si ravvisano profili di onerosità a carico della finanza pubblica.

ART. 44 

(Principi sull’accesso)

ART. 45

 (Partecipanti ai programmi di giustizia riparativa)

 

 

Gli articoli 44 e 45 contengono rispettivamente le disposizioni sull’accesso ai programmi di giustizia riparativa e sui partecipanti ai programmi di giustizia riparativa, che ribadiscono come previsto dalla legge delega che non ci sono preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità,  che si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, financo dopo l’esecuzione delle stesse o a seguito della pronuncia di non luogo a procedere o di non doversi procedere.

Le disposizioni in esame sono di natura precettiva e ordinamentale e, pertanto, non determinano effetti negativi per la finanza pubblica.

 

 

ART. 46

(Diritti e garanzie per le persone minori di età)

 

L’articolo 46, dedicato ai diritti e alle garanzie per le persone minori di età, contiene l’opportuno riferimento al principio del “superiore interesse del minore”, nell’accezione fissata dall’articolo 3, comma 1 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176, del quale si deve tenere conto insieme alla personalità e alle esigenze del minore, nel caso in cui a qualsiasi titolo, una persona minore di età sia coinvolta in un programma di giustizia riparativa.

L’articolo, stante il carattere ordinamentale,non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica.

 

ART. 47

(Diritto all’informazione)

ART. 48

(Consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa)

ART. 49

(Diritto all’assistenza linguistica)

 

 

Vengono disposte le norme che regolano i diritti dei partecipanti al programma di giustizia riparativa, a partire dal diritto all’informazione disciplinato dall’articolo 47, che prevede che la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato debbano essere informate della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa indicati e ai servizi disponibili. Tale informazione deve avvenire senza ritardo e in ogni stato e grado del procedimento penale o all’inizio dell’esecuzione della pena detentiva o della misura di sicurezza e deve essere effettuata da parte dell’autorità giudiziaria o dagli istituti e servizi, anche minorili, del Ministero della giustizia, dai servizi sociali del territorio, dai servizi di assistenza alle vittime, dall’autorità di pubblica sicurezza, nonché da altri operatori che a qualsiasi titolo sono in contatto con i medesimi soggetti.

Si segnala il diritto di ricevere dai mediatori una informazione effettiva, completa e obiettiva sui programmi di giustizia riparativa disponibili, sulle modalità di accesso e di svolgimento, sui potenziali esiti e sugli eventuali accordi tra i partecipanti, e parimenti il diritto in merito alle garanzie e ai doveri previsti nel presente decreto.

Altra disposizione, conforme al dettato della legge delega, è quella contenuta nell’articolo 48, per la quale il consenso delle parti, personale, libero e consapevole e reso in forma scritta, è sempre necessario e può in ogni momento essere revocato nelle medesime forme ed è raccolto dal mediatore nel corso del primo incontro, con la possibilità che sia presente anche il difensore della vittima o di colui che è stato indicato come autore del reato.

Come già accennato, con l’articolo 49 si disciplina il diritto all’assistenza linguistica garantito a tutti i partecipanti al programma di giustizia riparativa.

Gli interventi in esame sono di natura precettiva e ordinamentale e sono necessarie per regolamentare i diritti di tutte le parti coinvolte nei programmi di giustizia riparativa, gli adempimenti connessi potranno essere svolti dalle amministrazioni interessate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 50

(Dovere di riservatezza)

 

ART. 51

(Inutilizzabilità)

 

ART. 52

(Tutela del segreto)

 

Con l’articolo 50 vengono fissati i doveri in capo tanto al mediatore che a tutte le parti coinvolte nel programma di giustizia riparativa, a cominciare dal dovere alla riservatezza sulle attività e sugli atti compiuti, sulle dichiarazioni rese dai partecipanti e sulle informazioni acquisite per ragione o nel corso dei programmi di giustizia riparativa, per i mediatori e il personale dei Centri per la giustizia riparativa a meno che non vi sia il consenso dei partecipanti o il mediatore ritenga indispensabile la rivelazione per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e quando le dichiarazioni integrino di per sé reato.

Si segnala, altresì, la disposizione per la quale quale è ammessa – con il consenso dell’interessato e nel rispetto della disciplina sulla protezione dei dati personali – la pubblicazione delle dichiarazioni e delle informazioni acquisite, una volta concluso il programma di giustizia riparativa e la definizione del procedimento penale con sentenza o decreto penale irrevocabili.

Con l’articolo 51 viene stabilito il divieto di utilizzazione in sede processuale delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel contesto riparativo, mentre l’articolo 52 prevede la non obbligatorietà della deposizione testimoniale del mediatore al fine di non causare forme di vittimizzazione secondaria, estendendo altresì allo stesso mediatore le garanzie previste per il difensore, indicate nell’articolo 103 del c.p.p. e, in quanto applicabili, nelle disposizioni dell’articolo 200 del c.p.p.

Le previsioni in esame contengono disposizioni di carattere ordinamentale e procedurale, volte a regolamentare aspetti dei programmi di giustizia riparativa e, pertanto, non sono suscettibili di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, potendo fronteggiare gli adempimenti collegati alle suddette attività mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 53

(Programmi di giustizia riparativa)

ART. 54

(Attività preliminari)

ART. 55

(Svolgimento degli incontri)

 

ART. 56

(Disciplina degli esiti riparativi)

 

L’articolo 53 contiene le disposizioni che regolano lo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, definendone i principi ispiratori, i contenuti, le linee di azione e le metodologie utilizzate. Viene indicato fin dallarticolo 53 il ruolo centrale svolto dai mediatori che attraverso il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico agiscono nell’interesse della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa. Con l’articolo 54 vengono definite le attività preliminari e, in particolare l’incontro, consistenti nei momenti di contatto tra le persone coinvolte e i mediatori e dacolloqui tra il mediaztore e ciascuno dei partecipanti, necessari per la compiuta informazione sul programma di giustizia riparativa, nonché sui potenziali esiti di tali programmi e nella raccolta del consenso a procedere nel percorso intrapreso. L’articolo 55 si dedica a disciplinare lo svolgimento degli incontri del programma di giustizia riparativa, ponendo particolare attenzione alla cura degli spazi e, in ossequio a uno dei principi cardine della delega, alla garanzia di un trattamento equiprossimo e non discriminatorio dei partecipanti, che possono essere assistiti da persone di supporto anche in relazione alla loro capacità. Inoltre, il mediatore anche su richiesta dell’autorità giudiziaria procedente, invia comunicazioni sullo stao e sui tempi del progemma. Da ultimo l’articolo 56, contiene la disciplina relativa alla conclusione del programma di giustizia riparativa con esito riparativo, che può essere anche di natura simbolica, potendo concretarsi in dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi, o di natura materiale, comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori.

Le norme hanno natura ordinamentale e precettiva, in quanto sono tese a scandire lo svolgimento del programma riparativo, precisandone altresì gli esiti e, pertanto, non comportano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, potendosi attuare le attività ad esse collegate con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Al riguardo per la quantificazione della spesa complessiva all’attività svolta dal personale di mediazione specializzato in giustizia riparativa, secondo le disposizioni del presente decreto attuativo, inizialmente si potrà fare riferimento ai costi relativi ai compensi per figure professionali analoghe a quelle del mediatore penale e alle precedenti esperienze progettuali potendo fungere gli stessi da parametri di riferimento.

In particolare, il costo orario lordo stimato in euro 17,63, nella relazione tecnica alla legge delega n. 134 del 2021, è stato ricavato dall’analisi degli accordi individuali per l’espletamento dell’attività di esperto negli uffici di esecuzione penale esterna stipulati fra l’amministrazione della giustizia e i collaboratori/ consulenti professionali ex. art. 80 O.P.  e sulla base dei diversi progetti presentati nell’ambito della mediazione penale, dai quali risultava una uniformità di trattamento in relazione al compenso orario previsto per l’attività di mediazione penale. Conseguentemente l’onere annuo medio complessivo per i costi relativi ai compensi dei mediatori esperti in giustizia riparativa è stato quantificato in euro 4.090.160,00, ed è ricompreso nella autorizzazione di spesa pari ad euro 4.438.524 disposta per l’attuazione del complesso normativo organico di nuova creazione in materia di giustizia riparativa, prevista dal comma 19 dell’articolo 1 della legge n. 134 del 2021, al quale si provvede secondo le disposizioni dettate nel successivo articolo 67.

 

ART. 57

(Relazione e comunicazioni all’autorità giudiziaria)

ART. 58

(Valutazione dell’esito del programma di giustizia riparativa)

 

Con l’articolo 57, vengono disciplinate la materia delle comunicazioni all’autorità giudiziaria e tra quest’ultima e i centri per la giustizia riparativa e vengono stabilite le regole per la valutazione dell’esito del programma di giustizia riparativa da parte dell’autorità giudiziaria sulla base della relazione tramessa dal mediatore, evidenziando che tale trasmissione è dovuta anche in caso di mancata effettuazione, interruzione del programma, o mancato raggiungimento dell’esito riparativo prefissato.

Si segnala, al riguardo, che l’articolo 58 prevede che la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa.

Le disposizioni indicate, per la natura ordinamentale e precettiva, non sono in grado di produrre effetti negativi per la finanza pubblica.

 

 

ART. 59

(Formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa)

 

Le disposizioni dell’articolo 59 regolamentano la formazione (articolata in teorica, pratica e tirocinio) dei mediatori esperti, definendone i contenuti, la durata e le modalità di accesso e svolgimento, con l’obiettivo di assicurare l’acquisizione di conoscenze, competenze, abilità e dei principi deontologici necessari a svolgere, con imparzialità, indipendenza, sensibilità ed equiprossimità, i programmi di giustizia riparativa (comma 1). Si segnala che la formazione teorica e pratica viene erogata dalle Università e dai Centri per la giustizia riparativa, che operano in collaborazione, secondo le competenze di ciascun organismo (comma 7), specificando in particolare che la formazione pratica, affidata ai predetti Centri per la giustizia riparativa, viene impartita da mediatori esperti, che vantano un’esperienza almeno quinquennale. Si prevede, inoltre, che la qualifica di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa, sia ottenuta all’esito positivo della prova finale teorico-pratica, sostenuta dopo aver completato la formazione indicata, a cui si può accedere solo se in possesso un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea triennale e al superamento di una prova di ammissione culturale e attitudinale (commi 8 e 9). Da ultimo, si stabilisce che la disciplina delle forme, dei tempi, delle modalità di svolgimento e valutazione delle prove debbano essere fissate con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca, da adottarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore del provvedimento in esame (comma 10).

Con riferimento alla formazione, come determinata dal presente articolo, si segnala che gli oneri relativi alla partecipazione alle suddette attività sono posti a carico dei partecipanti, come avviene per analoghe figure professionali per le quali l’esercizio dell’attività è subordinato alla partecipazione a percorsi formativi il cui contenuto è disciplinato per legge, al superamento di prove finali nonché all’iscrizione in elenchi tenuti e vigilati dal Ministero della giustizia.

 

ART. 60

(Requisiti per l’esercizio dell’attività di mediatore esperto. Elenco dei mediatori esperti)

 

 

L’articolo 60 regolamenta i requisiti per l’esercizio dell’attività di mediatore esperto e della tenuta dell’elenco dei mediatori esperti istituito presso il Ministero della giustizia con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca, da adottarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto. Al riguardo si segnala la disposizione contenuta nel comma 3 del presente articolo che stabilisce che l’istituzione e la tenuta dell’elenco previsto avvengono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali già esistenti e disponibili a legislazione vigente, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato.

Sul punto va rappresentato, infatti, per quanto attiene gli adempimenti amministrativi derivanti dalla istituzione e tenuta dell’elenco sopra indicato, che gli stessi non sono suscettibili  di generare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, essendo possibile fronteggiare tali attività mediante l’impiego delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, queste ultime iscritte nel bilancio del Ministero della giustizia alla U.d.V.1.4 –  Servizi di gestione amministrativa per l’attività giudiziaria – Azione: “Supporto all’erogazione dei servizi di giustizia”, che reca uno stanziamento rispettivamente di euro 17.967.481 per l’anno  2022, di euro 17.667.481 per l’anno  2023 e di euro di euro  15.667.481 per l’anno  2024, trattandosi di attività istituzionale già ordinariamente svolta dal Dipartimento per gli Affari di giustizia in materia di libere professioni, relativa alla vigilanza sugli Ordini e alla tenuta di Albi, Registri ed Elenchi.

 

 

ART. 61

(Coordinamento dei servizi e Conferenza nazionale per la giustizia riparativa)

ART. 62

(Livelli essenziali delle prestazioni)

 

 

Gli articoli 61 e 62 contengono le disposizioni sul coordinamento dei servizi di giustizia riparativa e sui livelli essenziali delle prestazioni da erogare. In particolare, con l’articolo 61, si prevede che il Ministero della giustizia, avvalendosi della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa, operi il coordinamento nazionale dei servizi per la giustizia riparativa, esercitando le funzioni di programmazione delle risorse, di proposta dei livelli essenziali delle prestazioni e di monitoraggio dei servizi erogati. La Conferenza nazionale, presieduta dal Ministro della Giustizia o da un suo delegato, a cui partecipano un rappresentante per ogni regione o provincia autonoma e sei esperti come consulenti tecnico-scientifici, è convocata e redige annualmente una relazione sullo stato della giustizia riparativa in Italia, che viene presentata al Parlamento dal Ministro della giustizia. Si rappresenta che gli esperti sopraindicati sono individuati tra personalità di riconosciuta competenza ed esperienza nell’ambito della giustizia riparativa   e che come riportato nel comma 6 del citato articolo 61 del provvedimento in esame, la partecipazione alle attività della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa non dà diritto a compensi, gettoni, emolumenti, indennità o rimborsi di spese di qualunque natura o comunque denominati.

Si segnala, pertanto, che dall’attuazione della disposizione non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica dal momento che le attività connesse, anche quelle riconducibili ai compiti e alle funzioni istituzionali, potranno essere assicurate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Con l’articolo 62 si prevede che i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni dei servizi per la giustizia riparativa sono stabiliti a seguiti di intesa raggiunta nell’ambito della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, disciplinata dall’art. 3 del decreto legislativo n. 281 del 1997, e che nella determinazione dei predetti LEP sono indicate le risorse necessarie per la loro erogazione.

La configurazione progettuale prevede, infatti, che i servizi possono essere erogati da strutture pubbliche facenti capo agli enti locali dettando, individuati sul territorio nazionale presso ogni distretto di Corte di appello e sono pro quota cofinanziati con le risorse disponibili nel bilancio delle amministrazioni coinvolte al fine di garantire la funzionalità dei programmi di giustizia riparativa reo-vittima, secondo le indicazioni inserite nell’articolo 67. Si tratta di disposizione di carattere ordinamentale e come tale non produce effetti negativi per la finanza pubblica.

 

 

ART. 63

(Istituzione dei Centri per la giustizia riparativa e Conferenza locale per la giustizia riparativa)

 

ART. 64

(Forme di gestione)

ART. 65

(Trattamento dei dati personali)

ART. 66

 (Vigilanza del Ministero della giustizia)

 

ART. 67

(Finanziamento)

 

Con i presenti articoli da 63 a 67, in ossequio al criterio di delega che richiede di affidare l’erogazione dei servizi di giustizia riparativa «a strutture pubbliche facenti capo agli enti locali», vengono fissate le regole per la procedura di individuazione degli enti locali presso cui istituire i Centri per la giustizia riparativa; le forme di gestione; il trattamento dei dati; il potere di vigilanza del Ministero della Giustizia e le forme di finanziamento dei programmi di giustizia riparativa.

Nel dettaglio con l’articolo 63, in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza si è deciso di  affidare ad un organo ad hoc quale è la Conferenza locale per ciascun distretto di corte d’appello, il compito di individuare, previa ricognizione delle esperienze di giustizia riparativa esistenti, gli enti locali cui è affidato il compito di istituire i Centri per la giustizia riparativa e organizzarne i relativi servizi, trovando in tal modo la migliore soluzione modulata a seconda dell’effettiva morfologia  delle esigenze territoriali e dei servizi in atto e da implementare. All’istituenda Conferenza locale partecipano un rappresentante del Ministero della giustizia, un rappresentante delle regioni o province autonome e un rappresentante delle province o città metropolitane sul territorio delle quali si estende il distretto della corte d’appello, un rappresentante per ogni comune ricompreso nel distretto che sia sede di uffici giudiziari o presso il quale siano in atto esperienze di giustizia riparativa.

In analogia a quanto disposto per la Conferenza nazionale per la giustizia riparativa, la partecipazione alle attività della Conferenza locale non dà diritto a compensi, gettoni, emolumenti, indennità o rimborsi di spese di qualunque natura o comunque denominati.

Si segnala, pertanto, che dall’attuazione della disposizione non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica dal momento che le attività connesse, anche quelle riconducibili ai compiti e alle funzioni istituzionali, potranno essere assicurate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Si segnala che la citata Conferenza locale per la giustizia riparativa, individua, mediante protocollo d’intesa, uno o più enti locali cui affidare l’istituzione e la gestione dei Centri per la giustizia riparativa, tenendo conto del il fabbisogno di servizi sul territorio, delle risorse e delle disponibilità; della necessità che l’insieme dei Centri assicuri per tutto il distretto, su base territoriale o funzionale l’offerta dell’intera gamma dei programmi di giustizia; nonché la necessità che i Centri assicurino, nello svolgimento dei servizi, i livelli essenziali delle prestazioni, il rispetto dei principi e delle garanzie stabiliti dal presente decreto.

Si prevede, inoltre, per le strutture adibite al servizio di giustizia riparativa, che l’onere relativo a un opportuno potenziamento delle attrezzature necessarie all’erogazione delle prestazioni richieste pari ad euro 290.000,00, calcolato in via prudenziale sulla base di un numero medio di strutture all’interno del  distretto di Corte d’appello e ad un costo medio unitario pari a 5.000 euro, come si evince dal prospetto riportato nella relazione tecnica allegata alla legge delega n. 134 del 2021, (si rimanda alle valutazioni riferite al successivo articolo 67).

L’articolo 64 dispone le forme di gestione dei servizi per la giustizia riparativa, stabilendo che i Centri, nella prestazione dei servizi, assicurino i livelli essenziali delle prestazioni, come definiti ai sensi dell’articolo 62, attraverso l’apporto professionale dei mediatori esperti, cioè a soggetti che abbiano conseguito la qualifica di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa.

In relazione alle forme di gestione, si segnala, che è stata riconosciuta, sulla base delle esperienze attuali di giustizia riparativa,  la possibilità di scegliere tra tre diversi modelli: prestare i servizi mediante proprio personale, dotato della qualifica di mediatore esperto; appaltare il servizio a mediatori esperti esterni all’ente di riferimento, (come previsto dagli articoli 140 e ss. del decreto legislativo n. 50 del 2016); affidare il servizio a enti del terzo settore (conformemente agli articoli 55 e 56 decreto legislativo n. 117 del 2017. Si precisa che nell’ipotesi dell’appalto e dell’affidamento a enti del terzo settore viene stabilito il contenuto necessario del contratto o della convenzione.

Le disposizioni in esame, volte alla valorizzazione delle positive esperienze nella gestione di programmi di giustizia riparativa, realizzati grazie a proficue forme di interazione tra enti locali e strutture esterne, in termini di garanzia e di affidabilità, ha carattere ordinamentale e non comporta effetti negativi per la finanza a pubblica.

L’articolo 65 disciplina le modalità di trattamento dei dati personali, da parte dei Centri per la giustizia riparativa, individuati quali titolari del trattamento stesso che deve avvenire in ossequio ai principi e le regole contenuti nel Regolamento europeo per la protezione dei dati personali (Regolamento (UE) 2016/679) e nel codice per la protezione dei dati personali (decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196). Rilevante la previsione secondo il quale la condizione di liceità del trattamento dei dati personali risiede nella limitazione nell’oggetto della raccolta ai soli dati indispensabili, pertinenti e relativi a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui i dati stessi sono raccolti e trattati.

Si segnala che le tipologie dei dati che possono essere trattati, le categorie di interessati, i soggetti cui possono essere comunicati i dati personali, le operazioni di trattamento, nonché le misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti degli interessati sono definiti con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, nel termine di un anno dall’entrata in vigore del presente decreto.

Con l’articolo 66, viene previsto il potere di vigilanza del Ministero della giustizia sull’intero sistema della giustizia riparativa, stabilendo che i Centri per la giustizia riparativa presentino una relazione annuale al Ministero stesso sull’attività svolta e che comunque in qualsiasi momento il Ministero abbia la facoltà di chiedere informazioni sullo stato dei servizi per la giustizia riparativa.

Significativo il contenuto del comma 2 , che dispone che le informazioni acquisite saranno valutate ai fini delle determinazioni che lo stesso Ministero, come disciplinato dal successivo articolo 26, andrà ad assumere circa l’individuazione della quota spettante agli enti locali, per il funzionamento dei Centri per la giustizia riparativa nonché per l’organizzazione e la prestazione dei relativi servizi, creando un sistema di conseguenzialità tra attività svolte oggetto delle informazioni correttamente condivise e finanziamento dei Centri.

L’articolo 67 stabilisce che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 281/1997, è fissata ogni anno la quota spettante agli enti locali di cui all’articolo 63, comma 5, per il funzionamento dei Centri per la giustizia riparativa, per l’organizzazione e la prestazione dei relativi servizi, per l’organizzazione e la prestazione dei relativi servizi, nel limite della disponibilità del fondo istituito ai sensi del presente comma.

Si prevede, inoltre, che le Regioni e le Province autonome, le Città metropolitane, le Province, i Comuni e la Cassa delle Ammende, nel quadro delle rispettive politiche e competenze, concorrono, nei limiti delle risorse disponibili, al finanziamento dei programmi di giustizia riparativa.

L’organizzazione dei servizi per la giustizia riparativa riveste carattere peculiare e complesso, proprio per questo è stata operata la scelta di istituire Centri per la giustizia riparativa demandati a strutture locali che saranno tenute ad erogare i servizi richiesti capillarmente sul territorio, e quella dell’affidamento a personale specializzato nella realizzazione dei predetti programmi di giustizia riparativa.

Dal punto di vista dell’impatto finanziario si rappresenta che in via generale le disposizioni esaminate potranno trovare attuazione nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Si segnala, tuttavia, che la quantificazione degli oneri per l’attuazione degli interventi in materia di giustizia riparativa operata in sede di legge delega, è stata determinata sulla base di elementi analitici all’epoca disponibili e che hanno consentito di definire solo un primo stanziamento di risorse necessarie alla completa attuazione della riforma, che dovrà trovare più ampio respiro attraverso le risorse finanziarie che gli enti interessati potranno reperire nell’ambito delle disponibilità dei rispettivi bilanci.

In tal senso, la disponibilità delle risorse stanziate nell’apposito fondo istituito nel bilancio del Ministero della giustizia, pari a euro 4.438.524 a decorrere dall’anno 2022, come disposto dal comma 19 dell’articolo 1 della legge n. 134 del 2021, da ripartire tra gli enti territoriali secondo da criteri da definire, cosituisce un primo serbatoio di risorse cui attingere annualemnte per favorire l’avvio degli interventi previsti.

Si stabilisce inoltre, con finalità di incentivare gli enti chiamati ad attuatore la realizzazione del progetto normativo,  che nel limite delle disponibilità del fondo, fermo restando il finanziamento degli interventi necessari a garantire i livelli essenziali delle prestazioni di giustizia riparativa, la  determinazione degli  importi da assegnare agli enti di cui al comma 2  tiene conto, sulla base di criteri di proporzionalità, dell’ammontare delle risorse proprie annualmente impiegate dagli stessi enti per il finanziamento dei programmi di giustizia riparativa, opportunamente documentati e rendicontati alla Conferenza nazionale di cui all’articolo 61.

 

ART. 68

(Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231)

 

Con l’articolo 68 si apportano modifiche all’articolo 64, comma 1 del decreto legislativo 8 giugno 2001,n. 231, prevedendo che il tempo che il p.m. ha per richiedere al GIP di applicare la sanzione pecuniaria per le persone giuridiche sia aumentato da sei mesi ad un anno da quando l’illecito amminitrativo è iscritto nel registro.

La disposizione ha natura procedurale e comporta effetti positivi in termini di efficienza processuale, potendo il p.m. e il giudice valutare meglio tale applicazione.

 

ART. 69

 (Modifiche in materia di giustizia digitale)

 

Con l’articolo 69 si interviene sul decreto legge n. 179 del 2012, consentendo di individuare nella procedura disciplinata in quella sede, la modalità telematica oggi praticabile.

Le modifiche riguardano, il comma 4, le notificazioni in generale, e il comma 6, le notificazioni degli atti destinati a persone diverse dall’imputato.

Per quanto attiene a quelle apportate al comma 4 esse sono diretta attuazione dell’introduzione delle modalità telematiche quale modalità principale sia per l’esecuzione delle notificazioni, anche nei confronti dell’imputato entro i limiti previsti dagli articoli 148 e 157-ter c.p.p.,  sia per la comunicazione all’imputato che abbia residenza o dimora all’estero (art. 169 c.p.p.).

La modifica al comma 6 è stata dettata dall’esigenza di evitare che possa sorgere alcun dubbio circa la non eseguibilità mediante deposito in cancelleria delle notificazioni degli atti, qualunque contenuto e natura abbiano, diretti all’imputato, ove questi appartenga ad una delle categorie che oggi hanno l’obbligo di munirsi di un idoneo indirizzo di posta elettronica e non abbia ottemperato a tale obbligo. La formulazione che si propone consente, dunque, di eseguire la notificazione o comunicazione mediante deposito in cancelleria solo se il destinatario dell’atto sia persona diversa dall’imputato.

Infine, oltre ad adeguare il comma 8, al fine di chiarire che nel caso in cui la notificazione, per i soggetti che hanno un indirizzo di posta elettronica certificata rientrante negli elenchi in possesso della P.A. diventi impossibile per causa a loro non imputabile, si procederà come disposto dall’art. 148, comma 4, c.p.p., con il comma 7-bis si è dettata apposita disciplina per il caso in cui risulti impossibile procedere alla notificazione per via telematica all’imputato o alle altre parti private che abbiano dichiarato domicilio presso un indirizzo di posta certificata estraneo agli elenchi in possesso delle pubbliche amministrazioni.

La norma ha carattere ordinamentale e procedimentale e non determina effetti negativi per la finanza pubblica. Si reiterano le considerazioni effettuate, sotto il profilo finanziario, negli articoli precedenti, soprattutto quelle dell’art. 148 c.p.p., cui si rinvia integralmente.

 

ART. 70

(Modifiche alla legge 30 aprile 1962, n. 283)

 

Il Governo è delegato ad introdurre una causa di estinzione delle contravvenzioni operante nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall’organo accertatore – autorità amministrativa/polizia giudiziaria – e del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. Le contravvenzioni per le quali consentire l’accesso alla causa di estinzione del reato devono essere individuate tra quelle suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie.

La legge delega ha inteso valorizzare ulteriormente un modello estintivo già previsto nella legislazione speciale per alcune contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro (cfr. gli artt. 20 ss. del d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 e l’art. 301 bis del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), di ambiente (cfr. gli artt. 318 ss. del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) e di radiazioni ionizzanti (cfr. l’art. 228 d.lgs. 31 luglio 2020, n. 101).

Nel contesto di un intervento volto a migliorare l’efficienza del processo penale, in linea con gli obiettivi del P.N.R.R. tesi alla riduzione della durata media dei processi, la legge delega intende valorizzare ulteriormente una causa estintiva del reato già prevista nel sistema e destinata a operare nella fase delle indagini preliminari, in rapporto a reati di non particolare gravità (contravvenzioni), con un duplice e concorrente effetto utile: a) evitare la celebrazione del processo favorendo l’archiviazione del reato durante le indagini da parte del pubblico ministero, che è per di più sgravato da molti compiti in virtù del ruolo centrale che, nella procedura, riveste l’organo accertatore/di vigilanza, con funzioni di polizia giudiziaria; b) assicurare al contempo una efficace tutela al bene giuridico tutelato, grazie alla leva ripristinatoria/risarcitoria sulla quale si basa il meccanismo estintivo del reato.

L’intervento normativo, sul fronte processuale, ambisce dunque a ridurre il numero dei procedimenti che arrivano a giudizio e, al contempo, ad alleggerire il carico di lavoro delle procure, grazie all’apporto sinergico degli organi accertatori (autorità amministrativa di vigilanza/polizia giudiziaria).

Questa premessa di ordine generale ha suggerito al Governo di esercitare il criterio di delega di cui alla lett. b) dell’art. 1, co. 23 l. n. 134/2021 individuando alcuni circoscritti ambiti di materia nei quali sono previste dalla legge contravvenzioni suscettibili di elisione del danno o del pericolo, mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie, che si caratterizzano per un significativo impatto sull’attività giudiziaria, essendo di frequente contestazione. Le contravvenzioni cui si applica la causa estintiva sono solo quelle suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie. L’ambito di applicazione, così individuato dalla legge delega, è pertanto diverso da quello proprio dell’analogo meccanismo estintivo previsto in materia di ambiente dagli artt. 318 bis e ss. d.lgs. n. 152/2006, che si riferisce a contravvenzioni “che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale”. Per tale ragione, la delega non consente, a giudizio del Governo, di intervenire sulla disciplina stessa, che è stata d’altra parte oggetto di una recentissima riforma ad opera del d.l. 30 aprile 2022, n. 36 (“Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”), convertito in l. 29 giugno 2022, n. 79.

In particolare, da una lettura congiunta delle direttive di cui alle lettere a) e b) dell’art. 1, co. 23 della legge delega risulta evidente l’intenzione del legislatore di limitare il meccanismo alle contravvenzioni che siano punite con l’ammenda, essendo l’estinzione del reato subordinata al pagamento, da parte del contravventore, di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo della “ammenda prevista per il reato commesso”. Tale indicazione esclude senz’altro la possibilità di esercitare la delega in rapporto a contravvenzioni punite con la sola pena dell’arresto. Come nei modelli richiamati, già previsti in alcune leggi complementari al codice penale, il meccanismo estintivo deve essere senz’altro riferito alle contravvenzioni punite con la sola ammenda, ovvero con l’ammenda alternativa all’arresto. Per estendere la portata applicativa e gli effetti deflattivi dell’intervento di riforma, la causa estintiva viene tuttavia altresì estesa alle contravvenzioni punite con la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda. Tale scelta rientra nei limiti della legge delega, che nel fare riferimento all’“ammenda prevista per il reato commesso” si limita a richiedere che la contravvenzione di cui si tratti sia punita con la pena edittale dell’ammenda – rilevante quale parametro di individuazione della somma da pagare in sede amministrativa – senza escludere l’ipotesi della comminatoria congiunta dell’arresto. Sul piano dell’efficacia deflattiva, va sottolineato che l’estensione della causa estintiva alle contravvenzioni punite con pene congiunte consente di definire il procedimento penale nella fase delle indagini preliminari in un numero significativo di casi in cui non è ammessa l’oblazione ex art. 162 bis c.p. E’ ad esempio il caso, in materia di edilizia, della contravvenzione di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001, che è di frequente contestazione e che si segnala quale uno dei reati per i quali è più frequente la prescrizione entro il primo grado di giudizio. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, i reati edilizi occupano la prima posizione nell’elenco dei reati maggiormente prescritti in primo grado. Estendere il meccanismo estintivo anche ai reati di più frequente contestazione, tra di essi, può ridurre l’incidenza della prescrizione, elevare la tutela dei beni giuridici tutelati favorendo condotte ripristinatorie e risarcitorie, nonché migliorare l’efficienza complessiva del processo e del sistema penale, in linea con gli obiettivi del P.N.R.R. Altrettanto può dirsi per le contravvenzioni in materia di beni culturali e paesaggio, nonché per quelle in materia di alimenti.

Rispetto al modello di disciplina già da tempo sperimentato in materia di sicurezza sul lavoro e ambiente, la legge delega introduce alcuni elementi di novità:

  1. a) esclude che la causa estintiva operi quando le contravvenzioni concorrono con delitti: l’economia processuale realizzata con l’archiviazione del procedimento non si determina, infatti, quando il procedimento stesso deve proseguire per concorrenti delitti;
  2. b) prevede la possibilità di prestare lavoro di pubblica utilità, in alternativa al pagamento di una somma di denaro;
  3. c) introduce la possibilità di un’attenuazione di pena in caso di adempimento tardivo e, come tale, non utile ai fini dell’estinzione del reato.

Di seguito si illustrano brevemente gli interventi realizzati in attuazione della legge delega, che riproducono, con adattamenti e con gli anzidetti elementi di novità, i modelli di disciplina già presenti nell’ordinamento e ai quali più volte si è fatto riferimento.

Le disposizioni in esame, inserite nell’ottica della ridefinizione, efficientamento e snellimento dei tempi e delle attività del sistema giudiziario penale, intendono, pertanto, pervenire ad una conclusione anticipata del procedimento con evidenti contrazioni delle azioni, tanto in sede d’indagine che giurisdizionale. Si segnalano gli effetti positivi in termini di economia, determinati dal minor impiego di risorse umane, strumentali e finanziarie, quest’ultime allo stato non quantificabili, altrimenti necessarie alla celebrazione di un processo e al raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione di ogni conseguenza dannosa, tanto effettiva che potenziale, mediante condotte ripristinatorie e risarcitorie.

Si evidenzia, inoltre, che le economie di cui sopra, in termini di riduzione di tempi e di eliminazione di una serie di attività che, senza produrre risultati congrui, gravano sugli uffici giudiziari, potranno essere focalizzate sul complesso esercizio dell’azione penale che per sua missione deve contrastare con sempre maggiore efficacia le condotte illecite.

Si rappresenta, infine, che non si producono effetti negativi per la finanza pubblica in  conseguenza delle ipotesi, peraltro contenute e nei limiti in cui verrà esercitata la delega, di estinzione di contravvenzioni punite con la pena dell’ammenda, a fronte del pagamento immediato di una somma di denaro determinata in una frazione comunque del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa, considerato, altresì, il cospicuo impiego di risorse necessarie all’insieme delle attività di recupero del credito derivante dalla condanna, eventuale e successiva, al pagamento delle ammende, che vede coinvolti gli uffici giudiziari per la comunicazione delle informazioni processuali, Equitalia giustizia S.p.A. per l’acquisizione dei dati del debitore e la quantificazione del credito da iscrivere a ruolo e, infine, l’Agenzia delle l’Agenzia delle Entrate – Riscossione, per gli adempimenti legati al recupero delle cartelle esattoriali.

In attuazione ai principi e criteri inseriti nel comma 23 dell’articolo 1 della Legge 134/2021, il nuovo articolo 12-terEstinzione delle contravvenzioni per adempimento di prescrizioni dell’organo accertatore” inserito nella Legge 30 aprile 1962 n. 283, interviene sul regime delle contravvenzioni, definendo in alcuni casi modalità alternative alla celebrazione del procedimento penale a fronte di condotte ripristinatorie o risarcitorie del bene giuridico offeso dal fatto illecito commesso.

Il comma 1 individua l’ambito di applicabilità della nuova disciplina, richiamando i criteri della legge delega. La tecnica normativa, che estende le disposizioni, oltre che alle contravvenzioni previste dalla legge n. 283/1962, alle altre previste da norme aventi forza di legge, nella stessa materia o in materie affini, si ispira all’art. 301 d.lgs. n. 81/2008, in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro, che pure opera analogo rinvio per materia. Tale tecnica consente di valorizzare maggiormente la nuova causa estintiva, evitando al contempo irragionevoli esclusioni nell’ambito della disciplina penale in materia di igiene, produzione, tracciabilità e vendita di alimenti e bevande, dislocata in una pluralità di provvedimenti normativi.

I commi 2-5 ripropongono lo schema procedimentale di cui agli artt. 20, co. 1 d.lgs. n. 758/1994 e 318 ter co. 1 d.lgs. n. 152/2006. Il co. 5, in particolare, attua la direttiva di cui alla lett. c) dell’art. 1, co. 23 della legge delega tenendo fermo l’obbligo di riferire la notizia di reato ai sensi dell’art. 347 c.p.p.

Il comma 6 attribuisce al pubblico ministero il potere di disporre con decreto che l’organo che ha impartito le prescrizioni apporti modifiche alle stesse. L’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria implica che l’attività dell’organo accertatore debba rimanere sottoposta al controllo del pubblico ministero, funzionalmente competente alla direzione delle indagini preliminari (art. 326 c.p.p.), nonché alla direzione dell’operato della polizia giudiziaria. Per tale ragione, si è previsto (nel comma 5) che l’organo accertatore con funzioni di polizia giudiziaria trasmetta al pubblico ministero, non solo la notizia di reato, ma anche il verbale contenente le prescrizioni impartite al contravventore. Coerentemente con la premessa appena formulata – che vede il controllo e la direzione del pubblico ministero come momenti coessenziali all’attività della polizia giudiziaria – si è ritenuto inevitabile corollario quello che prevede la possibilità che il pubblico ministero, “quando lo ritiene necessario” disponga con decreto che l’organo che ha impartito le prescrizioni apporti modifiche alle prescrizioni (potrebbe darsi il caso che l’organo accertatore abbia emanato prescrizioni inutilmente gravose per il contravventore e non tutte indispensabili ad “eliminare la contravvenzione”; oppure potrebbe darsi il caso che l’organo accertatore abbia emanato prescrizioni insufficienti “ad eliminare la contravvenzione”, con la conseguenza di consentire al trasgressore di accedere ad una causa estintiva che potrebbe conseguire solo a condizioni più gravose; potrebbe darsi il caso che l’organo di polizia giudiziaria abbia imposto prescrizioni muovendo da erronei presupposti di diritto). In tali ipotesi, l’attribuzione di un potere di controllo da parte del pubblico ministero – e se necessario di sollecitazione all’integrazione/correzione delle prescrizioni che debbono comunque essere apportate dall’organo di polizia giudiziaria – si pone come piana esplicazione delle responsabilità funzionali dell’organo inquirente.

La disposizione in esame ha natura ordinamentale e procedurale ed è dettata da ragioni di ottimizzazione delle risorse, realizzate attraverso la definizione anticipata dell’iter processuale con conseguente riduzione del livello dei carichi procedimentali e pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

L’articolo 12- quater ripropone, con adattamenti, la disciplina di cui agli artt. 21 d.lgs. n. 758/1994 e 318 quater d.lgs. n. 152/2006. Il termine per la verifica dell’adempimento delle prescrizioni, di cui al comma 1, viene però ridotto da sessanta a trenta giorni per imprimere maggior celerità al procedimento, in linea con gli obiettivi di riduzione dei tempi processuali, propri della legge delega.

Il comma 2 individua una frazione del massimo dell’ammenda da pagare pari a un sesto e, pertanto, inferiore rispetto a quella, di un quarto, prevista dalle procedure affini in materia di ambiente e sicurezza sul lavoro. Si è inteso infatti prevedere un serio incentivo ad accedere al meccanismo estintivo che elimina la contravvenzione prima del processo, posto che la predetta somma risulterà inferiore alle somme che il contravventore sarebbe chiamato a pagare in caso di accesso all’oblazione ai sensi degli artt. 162 e 162 bis del codice penale. Il valore elevato del massimo dell’ammenda per le principali contravvenzioni di cui alla l. n. 283/1962 (cfr. l’art. 6, co. 4, che prevede pene fino a 46.000 euro) suggerisce, per il successo applicativo della causa estintiva, e per i conseguenti effetti deflativi, di aumentare la misura della riduzione della pena. Sempre nel comma 2, riprendendo una formulazione recentemente introdotta nell’art. 228 d.lgs. 31 luglio 2020, n. 101, in materia di radiazioni ionizzanti, si precisa che la somma di denaro pagata dal contravventore, ai fini dell’estinzione del reato, è “destinata all’entrata del bilancio dello Stato”.

Nel comma 3, rispetto allo schema ordinario, viene dimezzato – da 120 a 60 giorni – il termine per la comunicazione al pubblico ministero dell’adempimento della prescrizione e del pagamento della somma di denaro. Analoga riduzione del termine, in questo caso per la comunicazione dell’inadempimento, è realizzata, rispetto allo schema ordinario, dal comma 4 (da 90 a 60 giorni).

L’intervento in esame ha natura ordinamentale e procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto è tesa a favorire l’accesso al meccanismo estintivo di eliminazione della contravvenzione prima del processo mediante pagamento della somma prevista dalla presente disposizione ( pari a un sesto dell’ammenda massima), valutando positivamente gli effetti che ne possono derivare sia in termini di deflazione processuale, di recupero delle risorse, di snellimento dei procedimenti, sia in termini di un’entrata anticipata per l’Erario, allo stato non quantificabile, sebbene in misura inferiore rispetto alla misura dell’ammenda dovuta per il reato compiuto, ma sicuramente in parte recuperata mediante l’eliminazione di tante attività da svolgere per il recupero del credito da parte dei soggetti coinvolti nella procedura.

La previsione della possibilità di prestare lavoro di pubblica utilità, in alternativa al pagamento della somma di denaro, su richiesta del contravventore, rappresenta una novità rispetto al modello di disciplina già sperimentato in materia di sicurezza sul lavoro e di ambiente; novità introdotta dalla direttiva di cui alla lett. a) dell’art. 1, co. 23 della legge delega. Nell’attuare tale direttiva, il Governo ritiene opportuno limitare l’accesso a tale alternativa alla sola ipotesi in cui il pagamento della somma di denaro, già assai favorevolmente ridotta alla misura di un sesto del massimo dell’ammenda prevista per la contravvenzione, risulti impossibile in ragione delle condizioni economiche e patrimoniali del contravventore. In tale prospettiva, il lavoro di pubblica utilità rimuove gli ostacoli all’accesso alla causa estintiva, determinati dalle condizioni economiche del contravventore. Esso assolve a una funzione che, nel sistema, è tradizionalmente propria del lavoro di pubblica utilità quale pena da conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato.

L’articolo 12-quinquies riprende la disciplina, con adattamenti, del lavoro di pubblica utilità quale pena da conversione della pena pecuniaria e quale pena sostitutiva della pena detentiva, nonché quale pena principale per i reati di competenza del giudice di pace. La peculiarità della nuova disciplina è che essa configura un’inedita ipotesi in cui il lavoro di pubblica utilità viene disposto senza l’intervento del giudice. Ciò è funzionale alla speditezza della procedura, che realizza le proprie finalità deflattive, limitando al massimo l’intervento del giudice per le indagini preliminari e del pubblico ministero. A quest’ultimo è peraltro attribuito un ruolo centrale, essendosi ravvisata l’opportunità di demandare a un magistrato, e non all’attività amministrativa, la decisione sull’ammissione al lavoro e sulla determinazione della durata e dei modi. Quanto al criterio di ragguaglio tra la somma di denaro da pagare in via amministrativa e il lavoro di pubblica utilità, è parso opportuno, per evitare disparità di trattamento, adottare lo stesso criterio impiegato per la conversione della pena pecuniaria in lavoro di pubblica utilità, in caso di insolvibilità del condannato (art. 103, co. 2 l. n. 689/1981; criterio che riprende quello per la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, a seguito di Corte cost. n. 1/2012). Si tratta della somma di 250 euro, corrispondente a quella di cui all’art. 135 c.p. Tale criterio è assai favorevole al contravventore, che, ad esempio, potrà ottenere l’estinzione della contravvenzione di cui all’art. 6, co. 3, secondo periodo, l. n. 283/1962, punita nel massimo con l’ammenda di 46.481 euro, anziché pagando 7.746 euro (pari a un sesto del massimo di quell’ammenda), prestando 31 giorni di lavoro di pubblica utilità, pari a 62 ore (si conferma infatti la regola generale, prevista per il LPU quale pena del giudice di pace e quale pena sostitutiva della pena detentiva, secondo cui un giorno di lavoro di pubblica utilità equivale a due ore di lavoro). Fermo il limite giornaliero di massimo 8 ore di lavoro, si introduce un limite massimo settimanale di 6 ore, che il pubblico ministero, su richiesta del contravventore, può derogare. Si prevede altresì, per evitare che il lavoro di pubblica utilità si dilunghi eccessivamente nel tempo, procrastinando il momento estintivo del reato e la conseguente definizione del procedimento penale, che esso non possa durare più di sei mesi.

Si prevede, peraltro, che il contravventore possa in ogni momento interrompere la prestazione del lavoro di pubblica utilità pagando una somma di denaro pari a un sesto del massimo dell’ammenda prevista per la contravvenzione, dedotta la somma corrispondente alla durata del lavoro già prestato.

Il controllo sull’osservanza degli obblighi connessi al lavoro di pubblica utilità è effettuato dall’ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza dell’ufficio di pubblica sicurezza, dal comando dell’Arma dei carabinieri territorialmente competente.

Le disposizioni in esame hanno natura precettiva e procedurale, anche per il lavoro di pubblica utilità, che non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto anche per tale pena si ricalcano norme già attuate con interventi che realizzano pienamente le potenzialità applicative del LPU sostitutivo, essendo lo stesso esteso alla generalità dei reati in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni ed eseguito secondo le modalità di svolgimento determinate con decreto del Ministro della giustizia d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del D.lgs. 281/1997.

Tale misura/pena presenta affinità con la disciplina già attuata con il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 124 “Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere g), h) e r), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, sia in relazione alle finalità rieducativa e di reinserimento sociale, sia rispetto al riconoscimento della positiva adesione alla pena-programma (LPU.)

Si rappresenta, infine, che anche per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo potranno essere utilizzate le risorse finanziate per la copertura degli obblighi assicurativi contro le malattie e gli infortuni (INAIL) destinate in favore di detenuti ed internati impegnati in lavori di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 20-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, pari ad euro 3.000.000,00 a decorrere dall’anno 2020, assegnate allo stato di previsione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Missione “Politiche previdenziali” Programma “Previdenza obbligatoria e complementare, assicurazioni sociali” –C.d.R “Direzione generale per le politiche previdenziali e assicurative” –  Azione “Indennizzi e incentivi in materia di infortuni e malattie professionali” capitolo 4326 “Fondo finalizzato a reintegrare INAIL dell’onere conseguente alla copertura assicurativa di particolari categorie di soggetti” mediante corrispondente riduzione del “Fondo per l’attuazione della legge 23 giugno 2017, n. 103”, previsto dall’articolo 1, comma 475, della legge 27 dicembre 2017, n. 205.

La disposizione di cui all’articolo 12-sexies riprende quella prevista, in materia di sicurezza sul lavoro, dall’art. 22 d.lgs. n. 758/1994 (v. anche l’art. 318 quinquies d.lgs. n. 152/2006).

L’ intervento in esame è di natura ordinamentale e procedurale e pertanto privo di effetti negativi per la finanza pubblica, in quanto si tratta di adempimenti che coinvolgono pubblico ministero, l’organo accertatore e la polizia giudiziaria in analogia a quanto previsto dalle disposizioni relative all’estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro per l’attivazione del pubblico ministero per le notizie di reato non pervenute dall’organo di vigilanza o alla disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale.

La disciplina inserita nell’articolo 12-septies, dettata in attuazione della direttiva di cui alla lett. d) dell’art. 1, co. 23 della legge delega, riprende quella prevista, in materia di sicurezza sul lavoro, dall’art. 23 d.lgs. n. 758/1994 (v. anche l’art. 318 sexies d.lgs. n. 152/2006). Alcuni adattamenti sono stati resi necessari per dare rilievo al lavoro di pubblica utilità, quale alternativa al pagamento della somma di denaro. Si prevede, in particolare, che se è presentata richiesta di archiviazione, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità è sospesa fino alla decisione del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta stessa. Posta l’incidenza limitativa del lavoro di pubblica utilità sulla libertà personale, è parso opportuno e ragionevole prevederne la sospensione quando il pubblico ministero chieda l’archiviazione del procedimento per ragioni che prescindono dalla causa estintiva del reato, in funzione della quale il lavoro è prestato.

La disposizione in esame ha natura ordinamentale e procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in quanto si tratta di un procedimento speculare a quello disciplinato per la estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro e pertanto, agli adempimenti collegati alle attività ivi previste si potrà provvedere mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e legislative a legislazione vigente.

All’articolo 12-octies, per regolare l’effetto estintivo e la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, viene ripresa la disciplina prevista, in materia di sicurezza sul lavoro, dall’art. 24 d.lgs. n. 758/1994 (v. anche l’art. 318 septies d.lgs. n. 152/2006), aggiungendo l’ipotesi in cui l’estinzione del reato sia dichiarata a fronte della prestazione del lavoro di pubblica utilità.

L’intervento normativo ha natura ordinamentale e procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto è tesa disciplinare l’effetto estintivo del reato mediante le prescrizioni disciplinate al precedente articolo 12-quater, comma 2, includendo anche la nuova prestazione resa con il lavoro di pubblica utilità così come prevista dal nuovo articolo 12-quinquies.

Il comma 1 dell’articolo 12-novies, in attuazione della direttiva di cui alla lett. a), ultimo periodo, dell’art. 1, co. 23 della legge delega, introduce una circostanza attenuante per l’ipotesi in cui la prescrizione sia adempiuta in un tempo superiore a quello stabilito. L’adempimento tardivo, in caso di condanna, può comportare una diminuzione della pena fino a un terzo (cfr. art. 65 c.p.), sempre che, nel giudizio di bilanciamento, tale attenuante non sia ritenuta equivalente o soccombente rispetto a una o più circostanze aggravanti con essa concorrenti (cfr. art. 69 c.p.).

Il comma 2 ribadisce una previsione presente nei più volte richiamati modelli di disciplina della causa estintiva per adempimento delle prescrizioni dell’organo accertatore (cfr. artt. 24, co. 3 d.lgs. n. 758/1994 e 318 septies, co. 3 d.lgs. n. 152/2006). Essa è volta a valorizzare l’adempimento tardivo delle prescrizioni e, comunque, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione ai fini dell’oblazione speciale ex art. 162 bis c.p., ammessa per le sole contravvenzioni punite con le pene alternative dell’arresto o dell’ammenda. Come è noto, l’ammissione all’oblazione speciale è preclusa quando permangono conseguenze dannose o pericolose eliminabili dal contravventore. L’adempimento tardivo delle prescrizioni dell’organo accertatore viene in rilievo ai fini della valutazione sull’ammissione all’oblazione e, pertanto, è comunque incentivato dal legislatore. In tal caso, la somma da pagare a titolo di oblazione è ridotta al quarto del massimo dell’ammenda ed è pertanto inferiore a quella ordinariamente prevista per l’oblazione dell’art. 162 bis c.p. (la metà del massimo dell’ammenda). Nell’incipit della disposizione si precisa peraltro, a fini di coordinamento con la previsione del primo comma, che l’adempimento tardivo rileva ai fini dell’oblazione prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna, cioè entro i termini previsti dall’art. 162 bis c.p. per l’oblazione. Va sottolineato, che la disposizione del secondo comma viene prevista pur in assenza di un espresso criterio di delega in tal senso. Si ritiene infatti, alla luce della disciplina prevista in materia di sicurezza sul lavoro e di ambiente, che un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge delega imponga di evitare irragionevoli disparità di trattamento, nella materia degli alimenti, quanto alla rilevanza dell’adempimento tardivo delle prescrizioni rispetto all’oblazione. Si tratta, d’altra parte, di coordinare in modo ragionevole e sistematico una nuova disciplina speciale con la disciplina generale prevista per l’oblazione dal Codice penale, valorizzando l’adempimento delle prescrizioni, anche quando è tardivo.

La disposizione in esame ha natura ordinamentale e pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, dal momento che l’inserimento di tale circostanza attenuante è volta a valorizzare l’adempimento tardivo delle prescrizioni al fine di eliminare le conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione ai fini dell’oblazione di cui all’articolo 162-bis mentre il pagamento della somma a titolo di oblazione pari ad un quarto anziché la metà del massimo dell’ammenda rappresenta una forma di incentivazione al pagamento, in grado di generare eventuali effetti positivi sul fronte processuale e ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari.  

 

ART. 71

 (Modifiche alla legge 24 novembre 1981, n. 689)

 

L’attuazione della legge delega (art. 1, co. 17 l. n. 134/2021) comporta una riforma organica delle “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”, di cui al Capo III della l. 24 novembre 1981, n. 689. Tale tipologia di sanzioni si inquadra come è noto tra gli istituti – il più antico dei quali è rappresentato dalla sospensione condizionale della pena – che sono espressivi della c.d. lotta alla pena detentiva breve; cioè del generale sfavore dell’ordinamento verso l’esecuzione di pene detentive di breve durata.

In questo contesto, trovano spazio nel sistema le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, introdotte più di quarant’anni fa, dalla legge 689 del 1981, quale rilevante novità per l’ordinamento italiano, ispirata, appunto, alla logica delle alternative al carcere. L’area della sostituzione della pena detentiva, originariamente individuata nella misura massima di sei mesi, è stata progressivamente estesa, prima, a un anno (nel 1993) e, poi, a due anni (nel 2003). Nonostante questa progressiva valorizzazione dell’istituto, l’evoluzione del sistema sanzionatorio, nei decenni successivi, è stata tale da rendere nella prassi sempre meno rilevanti le sanzioni sostitutive. Come ha notato la dottrina, l’area della pena sostituibile, infatti, è rimasta sovrapposta a quella della pena sospendibile, rendendo così di fatto le sanzioni sostitutive soluzioni meno praticate dai giudici e meno interessanti per la difesa, anche nel contesto dei riti alternativi.

Nel contesto di un più ampio disegno volto all’efficienza del sistema penale, e al raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R., il Parlamento ha infatti delegato il Governo a rivitalizzare e rivalorizzare le sanzioni sostitutive delle pene detentive, che vengono ora concepite, sin dal nomen iuris, come vere e proprie pene sostitutive: ciò per sottolineare come si tratti di vere e proprie pene, per quanto non edittali. Invero già la legge 689/1981, nonostante il titolo del Capo III (“sanzioni sostitutive”), in alcune disposizioni parla di “pene sostitutive” (ad es., negli artt. 57 e 58), espressione presente anche nella giurisprudenza costituzionale (v., da ultimo, la sentenza n. 28/2022). Si tratta di pene, diverse da quelle edittali (detentive e pecuniarie), irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato, così come a obiettivi di prevenzione generale e speciale.

La scelta del Parlamento è stata di ampliare notevolmente l’area della pena detentiva breve sostituibile: il limite massimo di due anni di pena detentiva, infatti, viene raddoppiato. Il concetto di pena detentiva “breve” cambia e si allinea, nel giudizio di cognizione, con quello individuato in sede di esecuzione dall’art. 656, co. 5 c.p.p.. Di fatto, la pena detentiva breve, nell’esecuzione penale, è la pena fino a quattro anni, che può essere eseguita ab initio fuori dal carcere, previa concessione di una misura alternativa alla detenzione. La scelta della l. n. 134/2021 è di allineare il limite massimo della pena sospendibile con quello entro il quale in sede di esecuzione può applicarsi una misura alternativa alla detenzione. Questa scelta comporta due effetti positivi sul sistema:

  1. a) fa venir meno l’integrale sovrapposizione dell’area della pena sospendibile con quella della pena sostituibile, ai sensi della l. n. 689/1981, promettendo così di rivitalizzare nella prassi le pene sostitutive;
  2. b) consente al giudice di cognizione di applicare pene, diverse da quella detentiva, destinate a essere eseguite immediatamente, dopo la definitività della condanna, senza essere ‘sostituite’ con misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza, spesso a distanza di molto tempo dalla condanna stessa (come testimonia l’allarmante fenomeno dei c.d. liberi sospesi). La riforma, in altri termini, realizza una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione.

Più in generale, la riforma delle pene sostitutive promette positivi effetti di deflazione processuale e penitenziaria, inserendosi a pieno titolo tra gli interventi volti a migliorare l’efficienza complessiva del processo e della giustizia penale.

Nella prospettiva del processo, la valorizzazione delle pene sostitutive rappresenta, anzitutto, un incentivo ai riti alternativi. Basti pensare all’ampliamento dell’operatività del procedimento per decreto (per effetto del raddoppio – da sei mesi a un anno – del limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria, nonché della possibilità di applicare, con il decreto di condanna, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo), ovvero alla possibilità di patteggiare una pena sostitutiva di una pena detentiva fino a quattro anni, con la garanzia di evitare l’ingresso in carcere. In secondo luogo, la valorizzazione, tra le pene sostitutive, del lavoro di pubblica utilità, con il quale può essere sostituita la pena detentiva fino a tre anni, concorre alla riduzione delle impugnazioni, essendo prevista dalla legge delega (art. 1, co. 13, lett. e) l’inappellabilità delle sentenze di condanna al lavoro di pubblica utilità. Sempre sul terreno processuale, inoltre, la valorizzazione delle pene sostitutive, irrogabili dal giudice di cognizione, promette una riduzione dei procedimenti davanti al tribunale di sorveglianza, oggi sovraccarichi e incapaci, in molti distretti, di far fronte in tempi ragionevoli alle istanze di concessione di misure alternative, come testimonia il fenomeno dei c.d. liberi sospesi.

Nella prospettiva del carcere, afflitto da strutturali problemi di sovraffollamento, la riforma delle pene sostitutive promette un significativo impatto, concorrendo alla riduzione del numero dei detenuti per pene brevi. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2021 i detenuti per pene inflitte in misura inferiore a quattro anni erano 11.262 su 37.631, pari cioè al 29,9%. Ciò significa che quasi un detenuto ogni tre stava scontando una pena breve. Dei citati 11.262 detenuti, 1.173 stavano scontando una pena fino a un anno; 2.244 una pena compresa tra un anno e due anni; 3.754 una pena compresa tra due anni e tre anni; 4.100 una pena compresa tra tre anni e quattro anni. Ciò significa che i detenuti per pene inflitte tra i due e i quattro anni – oggi non sostituibili né sospendibili – sono il 70% (7.854) dei detenuti condannati a pena detentiva breve e il 21% del complesso dei detenuti condannati. Tali dati – pur al netto di eventuali condizioni soggettive che possano precludere la sostituzione della pena – rendono evidente il possibile impatto della riforma sulla popolazione penitenziaria e sul problema del sovraffollamento carcerario.

Tali dati, in uno con la rivitalizzazione delle pene sostitutive ad opera della presente riforma e con la crescente dimensione applicativa della sospensione del procedimento con messa alla prova, confermano la centralità dell’esecuzione penale esterna e il ruolo fondamentale dell’UEPE. Il  numero delle persone in esecuzione penale esterna ha ormai superato il numero di quelle detenute: a un sistema che per anni ha tradizionalmente conosciuto la centralità del carcere si sta gradualmente sostituendo, in linea con un trend osservabile in altri ordinamenti europei e non, un sistema che assegna un ruolo centrale a misure da eseguirsi nella comunità, con minor sacrificio della libertà personale e dei diritti fondamentali, nonché con maggiori possibilità di rieducazione, reinserimento sociale e riduzione della recidiva, nonché del sovraffollamento carcerario. L’efficienza e l’effettività di un simile sistema sanzionatorio richiede opportuni investimenti sull’esecuzione penale esterna. In previsione dell’attuazione della legge delega, il Governo ha già provveduto a stanziare risorse necessarie per il raddoppio dell’organico dell’UEPE (art. 17 d.l. 30 aprile 2022, n. 36, recante “Misure di potenziamento dell’esecuzione penale esterna e rideterminazione della dotazione organica dell’Amministrazione per la giustizia minorile e di comunità, nonché autorizzazione all’assunzione”).

La valorizzazione delle pene sostitutive all’interno del sistema sanzionatorio penale, operata della legge delega, rende opportuna l’introduzione nel codice penale di una disposizione di raccordo con l’articolata disciplina delle pene stesse, che continua a essere prevista nella legge 689 del 1981. Per ragioni di economia e di tecnica legislativa, oltre che di rispetto della legge delega, la disciplina delle pene sostitutive non viene inserita nel codice penale, dove nondimeno è opportuno, per ragioni sistematiche, che alla disciplina stessa venga operato un rinvio nella parte generale, trattandosi di pene applicabili alla generalità dei reati. Per tale ragione si introduce un nuovo art. 20 bis c.p. (“Pene sostitutive delle pene detentive brevi”) – inserito nel Titolo II (Delle pene), Capo I (Delle specie di pene, in generale), dopo la disciplina generale delle pene principali e delle pene accessorie. Scopo della nuova disposizione è di includere espressamente le pene sostitutive nel sistema delle pene, delineato dalla parte generale del codice, richiamando la disciplina della legge 689 del 1981.

Si prevede, in particolare, che “salvo quanto previsto da particolari disposizioni di legge” – come ad es. nel caso degli artt. 16 t.u. immigrazione o 186, co. 9 bis c. strada –, le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto sono disciplinate dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689. Si stabilisce espressamente, in linea con il riformato art. 53 della stessa legge, attuativo della legge delega (art. 1, co. 17, lett. b) ed e), che le pene sostitutive sono le seguenti: la semilibertà sostitutiva; la detenzione domiciliare sostitutiva;

il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; la pena pecuniaria sostitutiva. In particolare, la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva possono essere applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni. Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo può essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni. La pena pecuniaria sostitutiva può essere applicata dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno.

Si è ritenuto opportuno denominare le nuove pene sostitutive aggiungendo l’aggettivo “sostitutivo/”: semilibertà “sostitutiva”, detenzione domiciliare “sostitutiva”, lavoro di pubblica utilità “sostitutivo”, pena pecuniaria “sostitutiva”. Tale denominazione è funzionale a rendere immediatamente distinguibili le predette pene sostitutive da istituti analoghi che, nell’ordinamento, hanno una diversa natura giuridica e disciplina. E’ il caso delle misure alternative alla detenzione della semilibertà e della detenzione domiciliare, del lavoro di pubblica utilità previsto come pena principale irrogabile dal giudice di pace o disposto nell’ambito della sospensione condizionale della pena o della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, ovvero, infine, è il caso della pena pecuniaria, prevista come pena principale (multa/ammenda).

La disposizione in esame è di natura ordinamentale e procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, realizzando invece attraverso il processo di riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi una serie di effetti positivi per il sistema giudiziario in termini di deflazione processuale e penitenziaria, che si traduce in un miglioramento dell’efficienza complessiva del processo penale.

Si segnalano, inoltre, riflessi positivi sull’economia sociale del paese, ravvisabili in termini di minori costi individuali e sociali, realizzando i criteri e principi direttivi declinati nella legge delega 134/2021, che pone al centro del cambiamento culturale penale la rivitalizzazione e rivalorizzazione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi quale cardine di una moderna concezione di detenzione, funzionale al processo di reinserimento sociale del condannato e a un calo del tasso di recidiva. Per quanto riguarda l’eventuale impatto finanziario delle disposizioni previste dal presente provvedimento, si rimanda ai successivi articoli relativi alle richiamate pene sostitutive, come elencate nel presente articolo.

L’intervento alla lettera a), modificativo del primo comma dell’articolo 53, attua i criteri di delega di cui alle lettere a), b) ed e) dell’all’art. 1, co. 17 l. n. 134/2021. Vengono anzitutto soppressi i riferimenti alla semidetenzione e alla libertà controllata, che vengono abolite (sul punto v. anche la disposizione transitoria di cui al riformato art. 76). Vengono introdotte quali pene sostitutive la semilibertà e la detenzione domiciliare, sostitutive della pena detentiva inflitta in misura non superiore a quattro anni, il lavoro di pubblica utilità, sostitutivo della pena detentiva inflitta in misura non superiore a tre anni; la pena pecuniaria, sostitutiva della pena detentiva inflitta in misura non superiore a un anno. Il limite massimo di pena sostituibile viene pertanto raddoppiato (da due a quattro anni). Unica tra le previgenti sanzioni sostitutive a rimanere nel sistema è la pena pecuniaria, che vede raddoppiato (da sei mesi a un anno) il limite di pena detentiva sostituibile.

La tecnica legislativa adottata, quanto al rapporto tra le pene sostitutive, ricalca quella della previgente sostituzione. Le pene sostitutive possono pertanto concorrere, entro i rispettivi limiti massimi di pena detentiva sostituibile. In particolare, quando la pena detentiva è irrogata entro il limite di un anno, tutte e quattro le pene sostitutive possono essere applicate. Quando la pena detentiva è irrogata da un anno e un giorno a tre anni, possono concorrere lavoro di pubblica utilità, detenzione domiciliare e semilibertà. Quando, infine, la pena detentiva è irrogata da tre anni e un giorno a quattro anni, possono trovare applicazione quali pene sostitutive solo la detenzione domiciliare o la semilibertà. I criteri di scelta tra le pene sostitutive sono disciplinati dall’art. 58, al quale si rinvia.

Quanto al lavoro di pubblica utilità, va precisato che il mancato riferimento nell’art. 53, co. 1 alla non opposizione del condannato, pur contenuto nella lett. e) dell’art. 1, co. 17 della legge delega, si giustifica in ragione della disciplina processuale adottata nel nuovo art. 545 bis c.p.p., alla quale si rinvia, e che dà espresso rilievo, anche e proprio per il lavoro di pubblica utilità, alla non opposizione del condannato quale condizione per l’applicazione della pena sostitutiva.

Si precisa, sempre nel primo comma, che la sostituzione della pena detentiva può avvenire sia in caso di condanna, sia in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento). Con ciò si recepisce un’espressa indicazione della legge delega (art. 1, co. 17, lett. e) e si aggiorna la disciplina dell’art. 53 l. n. 689/1981, che nella sua versione originaria precede l’introduzione del rito speciale nel codice di procedura penale del 1988.

Il secondo comma dell’art. 53 viene interamente sostituito. La disciplina della pena pecuniaria sostitutiva, oggi contenuta in quel comma, viene infatti trasferita nel nuovo art. 56 quater, che il primo comma dell’art. 53 richiama in chiusura. Il secondo comma dell’art. 53 è invece ora dedicato alla disciplina relativa ai rapporti tra sostituzione della pena detentiva e procedimento per decreto. Si prevede, in attuazione dell’art. 1, co. 17, lett. e), ultimo periodo), che con il decreto penale di condanna, il giudice, su richiesta dell’indagato o del condannato, possa sostituire la pena detentiva determinata entro il limite di un anno, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità. Il Governo è delegato a “prevedere che con il decreto penale di condanna la pena detentiva possa essere sostituita, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità, se il condannato non si oppone”. Tale criterio di delega si presta a una duplice lettura: a) che con il decreto penale di condanna possa applicarsi il lavoro di pubblica utilità entro lo stesso limite – di un anno – entro il quale la pena detentiva, nell’ambito di quel rito, può essere sostituita con la pena pecuniaria; b) che con il decreto penale di condanna possa applicarsi il lavoro di pubblica utilità in sostituzione della pena detentiva entro il limite ordinario di tre anni. Nel dubbio si è preferito optare per la prima soluzione, valorizzando al fine della determinazione del limite di pena il riferimento alla pena pecuniaria, presente nel criterio di delega. Si è di conseguenza introdotta nell’art. 459, co. 1 ter c.p.p. (una disciplina che prevede, in caso di decreto penale di condanna a pena pecuniaria, sostitutiva di una pena detentiva, la possibilità per il condannato di chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità.

Il terzo comma dell’art. 53, che si riferisce, in tema di giudizio per decreto, a una disciplina e precedente al codice di rito del 1988, viene abrogato.

Il quarto comma dell’art. 53, che disciplina la sostituzione della pena detentiva in caso di concorso formale di reati e di reato continuato, viene sostituito e riformulato in una nuova disposizione, che risulta collocata nel nuovo terzo comma. L’originaria disposizione stabilisce che “nei casi previsti dall’articolo 81 del Codice penale, quando per ciascun reato è consentita la sostituzione della pena detentiva, si tiene conto dei limiti indicati nel primo comma soltanto per la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave. Quando la sostituzione della pena detentiva è ammissibile soltanto per alcuni reati, il giudice, se ritiene di doverla disporre, determina, al solo fine della sostituzione, la parte di pena per i reati per i quali opera la sostituzione”. Ciò premesso, in base alla disciplina dell’attuale quarto comma dell’art. 53 i limiti di pena di cui al primo comma sono triplicati in caso di concorso formale di reati o di reato continuato. Il giudice, infatti, al fine della sostituzione della pena detentiva non tiene conto dell’aumento di pena conseguente alla disciplina di cui all’art. 81 c.p. (pena inflitta per il reato più grave, aumentata sino al triplo). L’aumento di pena conseguente al cumulo giuridico ex art. 81 c.p., in altri termini, è sterilizzato, dovendosi tenere conto solo della pena da infliggersi per il reato più grave; se questa non è superiore a due anni – attuale limite massimo per la sostituzione della pena detentiva – può aver luogo la sostituzione, anche se la pena inflitta è di sei anni. Tale disciplina, risalente all’originaria formulazione della legge 689, allorché il limite massimo di pena detentiva sostituibile era pari a sei mesi, è difficilmente compatibile con un sistema, come quello delineato dalla legge delega, in cui il limite massimo della pena detentiva sostituibile è pari a quattro anni. Considerando l’ipotesi in cui il giudice infligga la pena detentiva nella misura massima sostituibile (4 anni), applicando poi l’aumento massimo per il concorso massimo o per la continuazione, potrebbe essere sostituita una pena detentiva pari a dodici anni: si tratterebbe, all’evidenza, di una pena non di breve durata, incompatibile con la logica, le finalità e la disciplina delle pene sostitutive (si pensi anche solo a una detenzione domiciliare della durata di dodici anni, o a un lavoro di pubblica utilità che si protragga per nove anni). Di qui la scelta di introdurre una disciplina del tutto diversa, secondo la quale ai fini della determinazione dei limiti di pena detentiva entro i quali possono essere applicate pene sostitutive, si tiene conto dell’aumento di pena ai sensi dell’art. 81 c.p. Ciò significa che il giudice potrà sostituire la pena detentiva solo se, dopo aver determinato l’aumento di pena per il concorso formale o la continuazione dei reati, la pena detentiva risulti irrogata in misura non superiore a quattro anni. Tale limite massimo – cui corrisponde la massima estensione possibile del concetto di pena detentiva “breve” – non potrà in ogni caso essere superato.

In conseguenza di quanto illustrato, si rappresenta che le disposizioni in esame sono dirette a realizzare uno snellimento procedurale e non presentano profili di onerosità per la finanza pubblica. Infatti, dalle modifiche apportate possono derivare effetti positivi in termini di minori costi processuali in grado di aumentare i livelli di efficienza del sistema della giustizia penale.

L’articolo 55 disciplina la semilibertà sostitutiva (lettera b). Si tratta, secondo una logica di ordine progressivo, della più afflittiva tra le pene sostitutive della pena detentiva, la cui disciplina, in base al criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. f), viene mutuata dall’omonima misura alternativa alla detenzione, di cui all’art. 48 l. n. 354/1975. Il maggior grado di afflittività si deve al fatto che si tratta – come già nel caso della semidetenzione – dell’unica pena sostitutiva che comporta la permanenza in carcere per una parte della giornata. Nel sistema delle nuove pene sostitutive, come è evidente dalla disciplina del potere discrezionale del giudice, di cui all’art. 58, la semilibertà è concepita come una extrema ratio. Si tratta, al pari della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, di una pena ispirata all’idea della pena-programma. Essa comporta, secondo quanto è previsto nel primo comma, l’obbligo di trascorrere almeno otto ore al giorno in un istituto di pena e di svolgere, per la restante parte del giorno (fino a sedici ore), attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione ed al reinserimento sociale, secondo un programma di trattamento predisposto dall’ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE). Ulteriori prescrizioni, comuni alla detenzione domiciliare sostitutiva e al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, sono previste dall’art. 56 ter, al quale si rinvia.

La componente detentiva è recessiva, potendo, nella misura massima possibile, essere ridotta a sole otto ore al giorno, pari al tempo che può trascorrersi in istituto per il rientro e il riposo notturno. Il limite minimo di dieci ore giornaliere in istituto, previsto dall’art. 55 per la semidetenzione, viene pertanto abbassato ad otto ore. Dell’omonima misura alternativa alla detenzione si è peraltro mutata la prassi, individuando in otto ore un ragionevole limite di permanenza minima in carcere, che consente ampi margini di libertà, funzionali alla realizzazione del programma di trattamento rieducativo, anche in considerazione dei tempi necessari per raggiungere il carcere o altri luoghi, come quello di lavoro, che in alcuni casi possono essere non brevi.

Il secondo comma, richiamando quanto già previsto per la semidetenzione e per la semilibertà/misura alternativa, stabilisce che i condannati alla semilibertà sostitutiva sono assegnati in appositi istituti o sezioni autonome di istituti ordinari, di cui all’art. 48, co. 2 l. n. 354/1975, situati nel comune di residenza, di domicilio, di lavoro o di studio del condannato o in un comune vicino. Rispetto alla disciplina della semidetenzione e della semilibertà/misura alternativa, si attribuisce rilievo anche alla prossimità con il comune di domicilio, lavoro o studio del condannato. La prossimità del luogo di detenzione ai luoghi frequentati nelle ore all’esterno dell’istituto è infatti funzionale a consentire le attività oggetto del programma di trattamento, in vista della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato. Richiamando quanto previsto dall’attuale ultimo comma dell’art. 55, si precisa poi che durante il periodo di permanenza in carcere il condannato è sottoposto alle norme della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354/1975) e del relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. n. 230/2000), in quanto compatibili. Nei casi di cui all’articolo 66, il direttore riferisce al magistrato di sorveglianza e all’ufficio di esecuzione penale esterna in ordine alla violazione delle prescrizioni inerenti la semilibertà sostitutiva, che ne possono comportare la revoca.

Il terzo comma disciplina l’obbligo di svolgere, per parte del giorno trascorsa fuori dal carcere, attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione ed al reinserimento sociale. Si prevede che il semilibero sia sottoposto a un programma di trattamento predisposto dall’ufficio di esecuzione penale esterna ed approvato dal giudice, in cui si determinano le ore da trascorrere in istituto e le attività da svolgere all’esterno. La determinazione delle ore da trascorrere in istituto/all’esterno è affidata a un provvedimento del giudice, che approva un programma predisposto dall’UEPE. Il criterio-guida è rappresentato dall’esigenza di svolgere, nella comunità, le attività indicate nel primo comma: attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione ed al reinserimento sociale. Tali attività rappresentano un obbligo, per il condannato, al pari della permanenza in istituto per una parte della giornata. La componente trattamentale della semilibertà sostitutiva, caratterizzata dalla nuova disciplina, anche processuale, delle pene sostitutive irrogate dal giudice di cognizione, mutua espressamente, in quanto compatibile, la disciplina del programma di trattamento previsto per l’omonima misura alternativa alla detenzione dall’art. 101, co. 2 D.P.R. n. 230/2000, richiamato dall’ultimo periodo del terzo comma.

Il quarto comma affida all’ufficio di esecuzione penale esterna la vigilanza e l’assistenza del condannato in libertà, secondo le modalità previste dall’articolo 118 del D.P.R. n. 230/2000.

Il quinto comma, attraverso un rinvio all’art. 101, commi 1, 6, 7, 8 e 9 del D.P.R. n. 230/2000 mutua, in quanto compatibile, alcune disposizioni della disciplina di attuazione della semilibertà, misura alternativa alla detenzione. Al fine di favorire il reinserimento sociale del condannato, facilitando le opportunità di trovare un lavoro e gli spostamenti giornalieri da e verso l’istituto di pena, si stabilisce, escludendo l’applicazione dell’art. 120 d.lgs. n. 285/1992, che la condanna alla semilibertà non è di ostacolo al conseguimento o al mantenimento della patente di guida.

Quanto all’impatto atteso nella prassi, l’innalzamento da due a quattro anni del limite di pena detentiva sostituibile, non più coincidente con il limite di pena sospendibile, prefigura un’applicazione della semilibertà sostitutiva ben maggior rispetto alla semidetenzione. Tale pena sostitutiva, nel 2021, ha interessato solo 11 persone. E’ verosimile che i numeri della semilibertà sostitutiva siano ben maggiori, per quanto si tratti comunque dell’extrema ratio tra le pene sostitutive. Nello stesso anno, le persone sottoposte dall’esterno (dalla libertà, non dalla detenzione) al regime della semilibertà/misura alternativa, sono state 94: un numero notevolmente inferiore rispetto a quelle sottoposte a misure meno limitative della libertà, quali l’affidamento in prova al servizio sociale (17.961) e la detenzione domiciliare (8.088). Il sistema delineato dalla riforma – in particolare, per effetto della disciplina del potere discrezionale del giudice, di cui all’art. 58 – promette di replicare, all’interno delle pene sostitutive, un analogo rapporto tra semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria.

In tal senso, l’intervento in esame, stante la natura procedurale non è suscettibile di determinare nuovi e ulteriori oneri a carico della finanza pubblica, sottolineando che nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive elemento fondamentale è la discrezionalità attribuita al giudice che individuerà quelle più idonee a realizzare il reinserimento sociale del condannato.

L’articolo 56 disciplina la detenzione domiciliare sostitutiva (lettera c). La disciplina viene mutuata dall’omonima misura alternativa alla detenzione, salvo essere adattata alla natura e alla funzione di pena sostitutiva della pena detentiva breve. Come nel caso della semilibertà sostitutiva, anche la detenzione domiciliare sostitutiva si caratterizza per una duplice anima, comportando l’esecuzione della pena, in parte, in stato di detenzione e, in parte, in stato di libertà. Al pari della semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva è configurata come pena-programma, che si caratterizza per un minor grado di afflittività, evitando del tutto la permanenza del condannato in carcere.

Secondo il primo comma, in particolare, la detenzione domiciliare sostitutiva comporta l’obbligo di rimanere nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza ovvero in comunità o in case-famiglia protette, per non meno di dodici ore al giorno, avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro, o di salute del condannato. L’indicazione della misura minima di detenzione (nel domicilio) è suggerita, come nel caso della semilibertà sostitutiva (e, prima ancora, della semidetenzione) da esigenze di rispetto del principio di legalità della pena. Il maggior numero di ore in stato di detenzione, rispetto alla semilibertà, si giustifica in ragione del minor grado di afflittività della permanenza nel domicilio. I luoghi di esecuzione della pena sono i medesimi previsti per la detenzione domiciliare/misura alternativa dagli artt. 47 ter e 47 quinquies l. n. 354/1975, nonché, per quanto riguarda la precisazione della natura pubblica o privata dei luoghi di cura, assistenza o accoglienza, nonché il riferimento alle comunità, dall’art. 6 d.lgs. n. 121/2018, che disciplina la detenzione domiciliare quale misura alternativa alla detenzione per i minorenni. L’elencazione dei luoghi di esecuzione della pena sostitutiva caratterizza la detenzione domiciliare sostitutiva quale pena capace di adattarsi a mutevoli esigenze del condannato, in vista non solo del suo recupero sociale, ma anche di eventuali esigenze legate alla salute, all’assistenza, alla condizione sociale o familiare, compresa la maternità. La detenzione domiciliare, quale pena sostitutiva della pena detentiva, può pertanto soddisfare le esigenze umanitarie proprie della detenzione domiciliare/misura alternativa alla detenzione, rappresentando una misura dall’applicazione anticipata e alternativa, rispetto a quella, con migliore e più tempestiva soddisfazione delle esigenze sottese, nell’interesse del condannato e dei suoi familiari.

Analogamente a quanto è previsto per la semilibertà sostitutiva, la determinazione del tempo da trascorrere, rispettivamente, nel domicilio (non meno di dodici ore) e all’esterno è effettuata dal giudice avuto riguardo a comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro, o di salute del condannato. Si tratta ancora una volta di una pena caratterizzata da elasticità nei contenuti, predeterminati dalla legge, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in v ista del raggiungimento degli obiettivi proprio della pena: la rieducazione/risocializzazione del condannato, come anche la prevenzione speciale. Nella sua estensione massima, il periodo di permanenza all’esterno del domicilio può essere di dodici ore, limitando così la permanenza nel domicilio alle ore serali/notturne. Non essendo prevista una misura massima della durata della permanenza nel domicilio, a garanzia del condannato si prevede che, in ogni caso, egli possa lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita e di salute (es., fare la spesa, lavorare, recarsi da un medico, ecc.). Tale disciplina si ispira, con adattamenti, a quella prevista per gli arresti domiciliari dall’art. 284, co. 3 c.p.p.

Il secondo comma prevede che il giudice disponga la detenzione domiciliare sostitutiva “tenendo conto anche del programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato e che riferisce periodicamente sulla sua condotta e sul percorso di reinserimento sociale”. Si conferma la centralità del ruolo dell’UEPE nella gestione delle pene sostitutive.

Il terzo comma precisa, nel primo periodo, che “il luogo di esecuzione della pena deve assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato e non può essere un immobile occupato abusivamente”. Il riferimento alle esigenze di tutela della persona offesa allude a situazioni – come quelle relative a reati in materia di violenza domestica o contro le donne – in cui il giudice, nel sostituire la pena detentiva, deve farsi carico delle esigenze anzidette, individuando un luogo adatto all’esecuzione della pena. Mutuando poi la disposizione dell’art. 384, co. 1 ter c.p.p., in tema di arresti domiciliari, si precisa che la pena non può essere eseguita in un immobile occupato abusivamente: lo Stato non può ragionevolmente ordinare l’esecuzione della pena in cui il condannato si trova abusivamente, con pregiudizio altrui. Il secondo periodo del terzo comma viene incontro a un problema ricorrente nella prassi e mira a rimuovere ostacoli alla realizzazione del principio di uguaglianza, secondo quanto impone l’art. 3 Cost.: “se il condannato non ha la disponibilità di un domicilio idoneo, l’ufficio di esecuzione penale esterna predispone il programma di trattamento, individuando soluzioni abitative anche comunitarie adeguate alla detenzione domiciliare”. Viene così mutuata – ed estesa agli adulti – una disposizione prevista, in tema di esecuzione delle pene nei confronti dei minorenni, dall’art. 2, co. 11 d.lgs. n. 121/2018. Le potenzialità di questa disciplina, anche in termini di deflazione penitenziaria, si colgono appieno considerando come non pochi detenuti, specie immigrati, vivano in condizioni di indigenza e siano privi di idoneo domicilio. E’ in tal senso significativo considerare che, secondo i dati del Ministero della Giustizia, gli stranieri al 31 dicembre 2021 rappresentavano il 44% dei condannati a pena detentiva non superiore a un anno; il 43% dei condannati a pena detentiva compresa tra uno e due anni; il 42% dei condannati a pena detentiva compresa tra due e tre anni; il 39% dei condannati a pena detentiva compresa tra tre e cinque anni.

Il quarto comma, analogamente a quanto è già previsto per la misura cautelare degli arresti domiciliari e per la misura alternativa alla detenzione della detenzione domiciliare, rende possibile adottare anche per la detenzione domiciliare sostitutiva procedure di controllo elettronico, come il c.d. braccialetto elettronico. Si stabilisce che il giudice, se lo ritiene necessario per prevenire il pericolo di commissione di altri reati o per tutelare la persona offesa (ad es., la vittima di violenza domestica o di genere), può prescrivere procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, conformi alle caratteristiche funzionali e operative degli apparati di cui le Forze di polizia abbiano l’effettiva disponibilità. Per non limitare l’applicazione della pena sostitutiva, si prevede poi che l’eventuale temporanea indisponibilità dei predetti mezzi non può ritardare l’inizio della esecuzione della detenzione domiciliare. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 275 bis secondo e terzo comma del codice di procedura penale.

Il quinto comma rinvia, in quanto compatibile, all’art. 100 del D.P.R. n. 230/2000 (Regolamento sull’ordinamento penitenziario) per alcuni aspetti operativi relativi alla detenzione domiciliare. Si prevde poi, così come per la semilibertà sostitutiva, e per le medesime ragioni già illustrate, che al condannato alla pena sostitutiva della detenzione domiciliare non si applica l’articolo 120 del d.lgs. n. 285/1992, in tema di patente di guida.

Per le ulteriori prescrizioni della detenzione domiciliare sostitutiva, comuni alla semilibertà sostitutiva e al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, si rinvia all’art. 56 ter.

Quanto al prevedibile impatto sulla prassi, secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2021 sono state ammesse alla misura alternativa della detenzione domiciliare, dallo stato di libertà, 8.088 condannati a pena non superiore a 4 anni. Questo dato fornisce un ordine di grandezza plausibile delle potenzialità applicative della detenzione domiciliare sostitutiva che, per effetto della disciplina del potere discrezionale del giudice, di cui all’art. 58, rappresenterà verosimilmente la principale pena sostitutiva delle pene detentive inflitte tra tre e quattro anni (nel 2021 sono state 4.100, pari al 36% delle pene detentive inflitte entro il limite di quattro anni).

La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, dal momento che gli adempimenti relativi alle attività connesse potranno essere fronteggiati con l’utilizzo delle risorse umane strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Si segnala, in particolare, il ruolo determinante svolto dagli Uffici Penali di Esecuzione Esterna (UEPE) competenti a predisporre il programma di trattamento per il condannato preso in carico e a riferire periodicamente sulla condotta e sul percorso di reinserimento svolto dallo stesso.

Al riguardo, si rappresenta che per far fronte agli interventi disegnati  per l’attuazione delle disposizioni in esame,  l’articolo 17 del Decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito nella legge 29 giugno 2022, n. 79, ha  previsto un aumento della dotazione organica dei “dirigenti penitenziari di esecuzione penale esterna” per gli uffici territoriali del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia e il contestuale  incremento della pianta organica del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità  di unità di personale non solo appartenente alla professionalità di servizio sociale, ma anche pedagogica, nonché del personale amministrativo e tecnico di supporto.

Per la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall’attuazione delle disposizioni contenute all’articolo 17 commi 1, 2 e 6 pari a euro 10.313.266 per l’anno 2022, 47.791.843 euro per l’anno 2023, euro 47.819.442 per ciascuno degli anni 2024 e 2025, euro 47.847.041 per ciascuno degli anni 2026 e 2027, euro 47.874.641 per ciascuno degli anni 2028 e 2029 e euro 47.902.240 annui a decorrere dall’anno 2030.

Si stabilisce, inoltre, per il soggetto ammesso alla detenzione domiciliare sostitutiva, che non disponga di una propria abitazione o di altro luogo di privata dimora, l’accesso a luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza ovvero di dimora sociale appositamente destinati all’esecuzione extracarceraria della pena detentiva, nella disponibilità di enti pubblici od enti convenzionati, in maniera analoga alla misura alternativa alla detenzione della detenzione domiciliare.

Si tratta di un ambito di intervento praticabile sulla base della messa a disposizione di luoghi di esecuzione da parte di enti pubblici o privati, che svolgano attività nel c.d. terzo settore, e già sperimentate sulla base di protocolli con gli uffici di esecuzione e i tribunali di sorveglianza.

Con specifico riferimento alle disposizioni che consentono l’utilizzo dei dispositivi elettronici di controllo per i soggetti in detenzione domiciliare sostitutiva – analogamente a quanto avviene per la misura cautelare degli arresti domiciliari e per misura alternativa alla detenzione della detenzione domiciliare- si rappresenta che la distribuzione degli stessi avverrà secondo un programma adottato con provvedimento del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, d’intesa con il capo della Polizia- Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, periodicamente aggiornato, con il quale è  individuato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Si prevede che l’applicazione dei dispositivi di controllo potrà avvenire quando accertata l’esistenza del consenso del condannato, nonché accertata l’effettiva disponibilità degli strumenti e comunque all’esito della verifica dei necessari requisiti tecnici presso le abitazioni o i luoghi di detenzione domiciliare, con le modalità indicate dal decreto del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro della giustizia del 2 febbraio 2001 e nell’ambito dei contratti di fornitura e di gestione da remoto dei dispositivi già in essere tra gli operatori specializzati e le Forze di polizia.

Con riferimento, pertanto, alla sostenibilità degli oneri si rappresenta che gli stessi potranno essere fronteggiati con le risorse umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, nonché con le risorse finanziarie iscritte nel bilancio dell’Amministrazione dell’interno, alla Missione 7 – Ordine pubblico e sicurezza – C.d.R. Dipartimento della Pubblica sicurezza – Programma 3.3 –  Pianificazione e coordinamento Forze di polizia – Azione: “Potenziamento e ammodernamento delle Forze di Polizia”, capitolo di bilancio 2558 “Spese di gestione, manutenzione ed adattamento, di mobili, impianti ed attrezzature varie”, pg. 2 “Noleggio, installazione, gestione e manutenzione di particolari strumenti tecnici di controllo delle persone sottoposte alle misure cautelari degli arresti domiciliari o dei condannati in stato di detenzione domiciliare” che reca uno stanziamento di euro 21.212.767 per l’anno 2022, euro 20.712.767 per ciascuno degli anni 2023 e 2024.

La disposizione di cui all’articolo 56-bis, disciplina il lavoro di pubblica utilità (di seguito, LPU) che, per la prima volta nel nostro ordinamento, viene introdotto quale pena sostitutiva della pena detentiva irrogata per qualsiasi reato in misura non superiore a tre anni (lettera d). Oggi il LPU è infatti previsto quale pena sostitutiva non in via generalizzata, ma solo per un ristrettissimo numero di reati: a) per due contravvenzioni – punite con la pena detentiva pari, nel massimo, a un anno di arresto: la guida sotto l’influenza dell’alcool (art. 186, co. 9 bis d.lgs. n. 285/1992) e la guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187, co. 8 bis d.lgs. n. 285/1992); per un delitto – punito con la reclusione pari, nel massimo, a quattro anni di reclusione: la produzione o il traffico di stupefacenti, quando il fatto è di lieve entità ed è commesso da persona tossicodipendente o da assuntore si sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 73, co. 5 bis d.P.R. n. 309/1990). Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2021 le persone in carico all’UEPE in esecuzione del LPU sono state 15.228, per reati connessi alla circolazione stradale, e 1.004, per reati in materia di stupefacenti. Il LPU, quale sanzione sostitutiva della pena detentiva, ha interessato nel 2021, nel complesso, un numero di persone pari al 34% di quelle che, nello stesso anno, sono state in carico all’UEPE perché ammesse, in relazione a reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a quattro anni, alla sospensione del procedimento con messa alla prova, ex art. 168 bis c.p., che comporta obbligatoriamente il lavoro di pubblica utilità. Sono pertanto evidenti le potenzialità applicative del LPU sostitutivo, esteso alla generalità dei reati in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni; così come sono evidenti le correlate capacità deflative della nuova pena sostitutiva, tanto sul processo – anche per via dell’inappellabilità delle sentenze di condanna al LPU – quanto sul carcere.

Anche il LPU sostitutivo, come la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva, è concepito come pena-programma. Rispetto a quelle due diverse pene sostitutive presenta un minor grado di incidenza sulle libertà del condannato, essendo del tutto privo di una componente detentiva. In tale prospettiva, il ruolo del lavoro di pubblica utilità, nel sistema delle nuove pene sostitutive, è comparabile a quello ricoperto dell’affidamento in prova al servizio sociale tra le misure alternative alla detenzione, in rapporto alla semilibertà e alla detenzione domiciliare. Se l’affidamento in prova al servizio sociale è di gran lunga la più applicata tra le misure alternative alla detenzione concesse dall’esterno (per pene detentive inflitte entro il limite di quattro anni, cioè entro lo stesso limite in cui è oggi resa possibile l’applicazione di una pena sostitutiva), è verosimile che ciò possa dirsi un domani del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, rispetto alla semilibertà sostitutiva e alla detenzione domiciliare sostitutiva. D’altra parte, spesso nella prassi l’affidamento in prova al servizio sociale, nei confronti dei soggetti ammessi dalla libertà, è una misura non correlata a particolari obblighi e prestazioni trattamentali, che può risultare debole sul piano dei contenuti positivi e delle potenzialità rieducative. Non altrettanto può dirsi del LPU, imperniato su attività lavorative che hanno una spiccata attitudine rieducativa e risocializzante e che, anche nella prospettiva della persona offesa dal reato e della società, sono percepite come un reale contenuto sanzionatorio, sostitutivo della pena detentiva di breve durata inflitta al condannato.

Quanto alla disciplina prevista dal nuovo art. 56 bis, se è vero che il modello è rappresentato dalla pena principale del lavoro di pubblica utilità (LPU) irrogabile dal giudice di pace (art. 54 d.lgs. n. 274/2000), è anche vero che le specificità dell’omonima pena sostitutiva, anche sul piano sistematico, nonché il pieno rispetto del principio di legalità della pena, suggeriscono la previsione di una disciplina autonoma, e non un mero rinvio al d.lgs n. 274/2000. Ciò nel rispetto del criterio di cui all’art. 1, co. 17, lett f) della l. n. 134/2021, che delega il Governo a mutuare, solo “in quanto compatibile”, la disciplina del d.lgs. n. 274/2000.

Il primo comma definisce il lavoro di pubblica utilità riproducendo la nozione prevista dall’art. 54, co. 2 d.lgs. n. 274/2000. Esso consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Unica novità – rispetto alla richiamata disposizione relativa al giudice di pace – è rappresentata dall’espressa menzione delle città metropolitane, che si impone dopo la riforma del Titolo quinto della Costituzione, avvenuta nel 2001 (cfr. art. 114 Cost.).

Va precisato che, come nel sistema del giudice di pace penale, il LPU può essere applicato solo con il consenso del condannato, che assume la forma di una richiesta, nell’art. 33, co. 2 d.lgs. n. 274/2000 e, conformemente al criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. e) l. n. 134/2000, di una non opposizione del condannato alla sostituzione della pena detentiva con il LPU. Tale aspetto, imposto da esigenze di conformità della pena sostitutiva con il divieto di lavori forzati od obbligatori di cui all’art. 4 Cedu, è oggetto di disciplina nel nuovo art. 545 bis c.p.p.

Il secondo comma dell’art. 56 bis disciplina il luogo di esecuzione e la durata del LPU.

Quanto al primo aspetto, si stabilisce che l’attività debba essere svolta, di regola, nell’ambito della regione in cui risiede il condannato. L’individuazione dell’ambito regionale, aperta a deroghe, esclude rigidi automatismi e favorisce l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio in funzione della rieducazione e della risocializzazione del condannato, favorendo l’accesso alla pena sostitutiva. La Corte costituzionale (sent. n. 179/2013), nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, co. 3 d.lgs. n. 274/2000, nella parte in cui individuava la provincia di residenza come ambito territoriale di esecuzione della pena del LPU, ha infatti affermato che “la previsione di un vincolo territoriale, privo di una adeguata giustificazione, può compromettere le finalità ora indicate, impedendo al giudice una efficace modulazione della pena e dissuadendo il condannato dall’intraprendere un percorso che avrebbe potuto consentirne l’emenda e la risocializzazione”. La Corte, in quella occasione, dichiarò illegittima la citata disposizione “nella parte in cui non prevede che, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità fuori dall’ambito della provincia in cui risiede”. Di qui la scelta, quanto al LPU sostitutivo, di individuare di regola la regione di residenza come ambito territoriale di esecuzione della pena sostitutiva, salva la possibilità per il giudice, d’intesa con il condannato, di individuare un ambito territoriale diverso sulla base delle esigenze del caso concreto, funzionali alle predette finalità (si pensi ad esempio al caso di un condannato che, risiedendo in un comune limitrofo al confine con un’altra regione, manifesti la volontà di svolgere il LPU in quella regione).

Quanto alla durata, si prevede una disciplina diversa rispetto a quella dell’omonima pena principale irrogabile dal giudice di pace, che viene mutuata solo in quanto compatibile. Nel sistema del giudice di pace, infatti, il LPU, configurato quale pena principale per reati non gravi, può estendersi da un minimo di dieci giorni a un massimo di sei mesi (cfr. art. 54, co. 2 d.lgs. n. 274/2000). Si tratta pertanto di una pena di breve durata. Ciò si riflette sulla disciplina prevista dall’art. 54 d.lgs. n. 274/2000, co. 3-5, che individua la durata del LPU, di regola, in sei ore settimanali, fermo restando comunque il limite massimo di otto ore giornaliere. In quel sistema normativo, infine, ai fini del computo della pena un giorno di LPU consiste nella prestazione di due ore di lavoro.

Del tutto diversa è la prospettiva del LPU quale pena sostitutiva di una pena detentiva irrogabile nella misura massima di tre anni, pari cioè a sei volte la durata massima del LPU pena principale. Di qui l’esigenza di un ragionevole equilibrio tra l’estensione temporale della pena e del correlato programma di trattamento, da un lato, e le esigenze personali, di vita e di lavoro (libero e retribuito) del condannato, dall’altra parte.

Si è così previsto, nel secondo comma dell’art. 56 bis, che il LPU sostitutivo comporta la prestazione di non meno di sei ore e non più di quindici ore di lavoro settimanale, da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.

I limiti minimo e massimo di durata settimanale del LPU sono posti a garanzia dei diritti del condannato e del raggiungimento delle finalità della pena sostitutiva, sul piano special preventivo. La forbice temporale (da sei a quindici ore) è funzionale a consentire al giudice, con elasticità, di individualizzare la pena e il programma di trattamento, alla luce delle finalità di rieducazione e reinserimento sociale, sulla base delle concrete esigenze del condannato e dell’ente presso il quale svolge il lavoro. Si prevede, d’altra parte, con ulteriore elasticità, che, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle quindici ore settimanali. Viene poi mantenuta ferma, e mutuata dall’art. 54, co. 4 d.lgs. n. 274/2000, la regola secondo cui la durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore. Sarà così possibile prevedere che l’esecuzione della pena sostitutiva del LPU sia limitata a una giornata (ad es., sei o otto ore di sabato) ovvero si svolga, durante la settimana, nell’arco di più giornate (ad es., qualora il condannato sia in pensione e non debba conciliare con l’esecuzione della pena un’altra attività lavorativa).

Il terzo comma stabilisce che ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di due ore di lavoro. Viene qui mutuato il criterio previsto dall’art. 54, co. 5 d.lgs. n. 274/2000, che stabilisce una corrispondenza tra due ore di lavoro e un giorno di pena di LPU inflitta dal giudice di pace.

Va ribadito che, nel sistema delle pene sostitutive, il LPU postula una particolare flessibilità nella determinazione dell’orario del lavoro, da parte del giudice, che tenga conto delle esigenze del caso concreto. La durata minima della prestazione lavorativa, pari asei ore settimanali, risponde in particolare all’opportunità di distribuire l’esecuzione della pena sostitutiva lungo l’arco temporale corrispondente a quello della pena detentiva sostituita. Nel rispetto dei vincoli rappresentati dal massimo di otto ore giornaliere, e di almeno sei ore settimanali, sarà possibile modulare l’orario di lavoro, in un sistema caratterizzato da una spiccata flessibilità, in modo tale da rendere l’esecuzione della pena compatibile con le esigenze e gli interessi, lavorativi e familiari, in particolare, del condannato. L’ordinario limite massimo di lavoro settimanale viene in particolare individuato in quindici ore per consentire l’espiazione di un mese di pena detentiva in un mese di LPU: 30 giorni di reclusione o arresto corrispondono a 60 ore di LPU, che possono essere svolte lavorando 15 ore alla settimana.

Il quarto comma mutua quanto previsto dall’art. 54, co. 6 d.lgs. n. 274/2000 stabilendo che, fermo restando quanto previsto dai commi precedenti, le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

Il quinto comma stabilisce, in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. i) l. n. 134/2021, che in caso di decreto penale di condanna o di sentenza di patteggiamento, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato. Tale disposizione, nella misura in cui consente di evitare la confisca, rappresenta un forte incentivo all’accesso ai predetti riti alternativi, con positivi effetti deflativi sul processo. La revoca della confisca è una misura eccezionale, nel sistema, trattandosi di misura che, normalmente, comporta l’espropriazione perpetua del bene. Ipotesi di revoca della confisca, conseguenti al positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, sono previste dal codice della strada per la guida sotto l’influenza dell’alcool e per la guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti (artt. 186, co. 9 bis e 187, co. 8 bis d.lgs. n. 285/1992) e hanno contribuito al successo applicativo della pena sostituiva del LPU, testimoniato dai già citati dati statistici. Nella disciplina dell’art. 56 bis, tuttavia, la revoca della confisca è agganciata e condizionata all’accesso ai predetti riti alternativi, che il legislatore delegante ha inteso evidentemente incentivare per contribuire a ridurre i tempi medi del processo penale. La rinuncia dello Stato al bene confiscato, nei limiti di cui si è detto, è funzionale all’anzidetto obiettivo. D’altra parte, l’accesso ai riti alternativi, con applicazione del LPU, è sempre subordinato alla valutazione del pubblico ministero, prima, e del giudice, poi, che potranno tenere adeguatamente in considerazione la possibilità della revoca della confisca.

Il sesto comma esclude l’applicabilità dell’art. 120 d.lgs. n. 285/1992, in tema di patente di guida, ribadendo per il LPU sostitutivo quanto stabilito dall’ultimo comma degli artt. 55 e 56, rispettivamente, per la semilibertà sostitutiva e per la detenzione domiciliare sostitutiva. Tale disposizione, oltre a rappresentare un incentivo alla sostituzione della pena detentiva con il LPU – con correlata inappellabilità della sentenza e riduzione del numero dei procedimenti pendenti in appello – risponde all’esigenza di escludere effetti negativi, quanto al possesso della patente di guida, in rapporto a condannati che, anche e proprio per svolgere l’attività lavorativa, hanno necessità della patente di guida per i propri spostamenti.

Le disposizioni in esame hanno natura procedurale e non presentano profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto si ricalcano norme già attuate con sono interventi che realizzano pienamente le potenzialità applicative del LPU sostitutivo, essendo esteso alla generalità dei reati in caso di condanna a pena detentiva non superiore a tre anni, eseguito secondo le modalità di svolgimento determinate con decreto del Ministro della giustizia d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del D.lgs. 281/1997.

Tale misura presenta affinità con la disciplina già attuata con il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 124 “Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere g), h) e r), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, sia in relazione alle finalità rieducativa e di reinserimento sociale, sia rispetto al riconoscimento della positiva adesione alla pena-programma (LPU.)

Si rappresenta, infine, che anche per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo potranno essere utilizzate le risorse finanziate per la copertura degli obblighi assicurativi contro le malattie e gli infortuni (INAIL) destinate in favore di detenuti ed internati impegnati in lavori di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 20-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, pari ad euro 3.000.000,00 a decorrere dall’anno 2020, assegnate allo stato di previsione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Missione “Politiche previdenziali” Programma “Previdenza obbligatoria e complementare, assicurazioni sociali” –C.d.R “Direzione generale per le politiche previdenziali e assicurative” –  Azione “Indennizzi e incentivi in materia di infortuni e malattie professionali” capitolo 4326 “Fondo finalizzato a reintegrare INAIL dell’onere conseguente alla copertura assicurativa di particolari categorie di soggetti” mediante corrispondente riduzione del “Fondo per l’attuazione della legge 23 giugno 2017, n. 103”, previsto dall’articolo 1, comma 475, della legge 27 dicembre 2017, n. 205.

L’articolo 56-ter introduce prescrizioni comuni alle pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, volte a prevenire la commissione di ulteriori reati (lettera d). Trova per tale via attuazione il criterio di cui all’art. 1, co. 17, lett. c) della l. n. 134/2021, che delega il Governo a prevedere opportune prescrizioni che assicurino la prevenzione del pericolo che il condannato commetta ulteriori reati.

Le prescrizioni di cui all’art. 56 ter si aggiungono a quelle proprie delle singole pene sostitutive, disposte dal giudice in sede di applicazione, anche attraverso il programma di trattamento. Esse si distinguono in due categorie, a seconda che siano obbligatorie o rimesse alla valutazione discrezionale del giudice.

Il primo comma prevede un elenco di prescrizioni obbligatorie, che discendono cioè automaticamente dall’applicazione della pena sostitutiva. Vengono riproposte alcune prescrizioni già previste per la semidetenzione e la libertà controllata o per le misure alternative alla detenzione:

1) il divieto di detenere e portare a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia;

2) il divieto di frequentare abitualmente, senza giustificato motivo, pregiudicati o persone sottoposte a misure di sicurezza, a misure di prevenzione o comunque persone che espongano concretamente il condannato al rischio di commissione di reati, salvo si tratti di familiari o di altre persone conviventi stabilmente;

3) l’obbligo di permanere nell’ambito territoriale, di regola regionale, stabilito nel provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva;

4) il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente;

5) l’obbligo di conservare, di portare con sé e di presentare ad ogni richiesta degli organi di polizia il provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva e l’eventuale provvedimento di modifica delle modalità di esecuzione della pena, adottato a norma dell’articolo 64.

Rispetto alle prescrizioni relative alla semidetenzione e alla libertà controllata, non viene riproposta quella relativa alla sospensione della patente di guida. Ciò è coerente con l’esclusione espressa dell’applicabilità dell’art. 120 d.lgs. n. 285/1992 e con le ragioni a sostegno di tale scelta, già illustrate.

Il secondo comma prevede, quale prescrizione non obbligatoria, ma rimessa alla valutazione del giudice, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Si stabilisce a riguardo l’applicabilità, in quanto compatibile, dell’282 ter c.p.p. e, pertanto, delle modalità di controllo previste dall’art. 275 bis c.p.p., richiamate dall’art. 282 ter c.p.p. (c.d. braccialetto elettronico). La natura non obbligatoria di tale prescrizione si giustifica in considerazione della necessità di valutare, caso per caso, le effettive esigenze di tutela della persona offesa dal reato.

Il presente intervento ha natura procedurale e come tale non determina effetti negativi per la finanza pubblica in quanto è teso ad introdurre prescrizioni comuni alle pene sostitutive della semilibertà, detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità con l’intento di prevenire l’ulteriore commissione di reati.

L’articolo 56 quater disciplina la pena pecuniaria sostitutiva, che può essere applicata in luogo della pena detentiva inflitta in misura non superiore a un anno (lettera d). Pur in assenza di rilevazioni statistiche – che purtroppo non risultano disponibili –, la pena pecuniaria sostitutiva ha a lungo rappresentato, nella prassi, la più applicata tra le sanzioni sostitutive previste dalla legge 689 del 1981. Le potenzialità applicative di tale pena sostitutiva vengono ora valorizzate ulteriormente per effetto del raddoppio – da sei mesi a un anno – del limite massimo della pena detentiva sostituibile nonché, per quanto si dirà, della modifica del valore giornaliero al quale può essere assoggettato il condannato. Ciò è del tutto coerente con la valorizzazione delle alternative al carcere, delle quali la pena pecuniaria rappresenta la più tradizionale espressione. Notevoli sono le potenzialità deflative della pena pecuniaria sostitutiva, sia sul piano processuale (in termini di incentivo ai riti speciali: decreto penale di condanna e patteggiamento, in particolare), sia sul piano penitenziario: il 31 dicembre 2021 i detenuti per pena inflitta non superiore a un anno erano 1.173, pari al 3% dei detenuti in espiazione di pena. Si tratta, con tutta evidenza, di persone che, in un sistema votato alla lotta alla pena detentiva breve, anche attraverso le pene sostitutive, non dovrebbero trovarsi in carcere.

Tanto premesso, va preliminarmente osservato come, sotto il profilo della tecnica legislativa, si è ritenuto opportuno dedicare un apposito articolo alla disciplina della pena pecuniaria sostitutiva, già prevista dall’art. 53, co. 2 della legge 689/1981 nel contesto della disposizione generale sulla sostituzione della pena detentiva, in apertura del Capo III. La collocazione in un apposito articolo valorizza sul piano sistematico la pena pecuniaria sostitutiva, che trova ora menzione espressa (e nomen iuris) nella rubrica dell’art. 56 quater. Essa è coerente con la collocazione delle tre altre pene sostitutive in appositi articoli della legge 689 e può essere altresì funzionale alle rilevazioni statistiche, facilitate dalla previsione, nei registri informatici, di uno specifico referente normativo. Si ribadisce e si segnala problematicamente, infatti, come ad oggi non risultino rilevazioni statistiche relative a tale pena sostitutiva, la cui applicazione, a seguito della riforma, dovrà invece essere opportunamente monitorata.

Il primo periodo del primo comma riproduce il secondo periodo del vigente art. 53, co. 2 della legge 689: “per determinare l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva”. Viene pertanto ribadito per la determinazione della pena pecuniaria sostitutiva – in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. l) della legge delega – il modello della pena pecuniaria per tassi giornalieri (o per quote giornaliere), diffuso in molti paesi europei ed introdotto dalla l. n. 134/2003 riformando l’art. 53, co. 2 l. n. 689/1981.

Il secondo periodo del primo comma ridetermina il valore giornaliero della pena pecuniaria sostitutiva, secondo i criteri di cui all’art. 1, co. 17, lett. l) della legge delega, al quale si rinvia. Esso forma oggetto di una definizione legislativa: è la “quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare”. Rispetto ai criteri che orientano la discrezionalità del giudice, oggi previsti nell’art. 53, co. 2 l. n. 689/1981, viene dato espresso rilievo, oltre che al concetto di “quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria”, alle condizioni “di vita” dell’imputato nonché, accanto a quelle economiche, a quelle “patrimoniali”.

Al giudice si chiede pertanto di moltiplicare i giorni di pena detentiva inflitta per il valore giornaliero, così determinato, nel rispetto di un limite minimo e di un limite massimo.

Il valore massimo giornaliero viene individuato in € 2.500 per giorno di pena detentiva, pari allo stesso valore massimo determinabile dal giudice, prima della recente sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2022, in applicazione dell’art. 53, co. 2 l. n. 689/1981 (dieci volte l’ammontare della somma indicata nell’art. 135 c.p., pari € 250 euro).

Il valore minimo giornaliero viene per la prima volta individuato in misura indipendente dall’art. 135 c.p., secondo il criterio della legge delega. La somma indicata nella citata disposizione del codice penale, per effetto di successive riforme, è risultata pari a € 250. Solo di recente, per effetto della sentenza n. 22 del 2022 della Corte costituzionale, tale somma è stata ridotta a 75 euro. L’art. 135 c.p. – disposizione sulla quale la riforma non interviene, in assenza di una delega a riguardo – disciplina il ragguaglio tra pena pecuniaria e pena detentiva “per qualsiasi effetto giuridico”. Tale criterio di ragguaglio era stato elevato da 38 a 250 euro ad opera della l. n. 94/2009, comportando effetti talora favorevoli al reo, talaltra sfavorevoli. L’aumento del valore di tale criterio di ragguaglio va a favore del reo quando si tratta, ad esempio, di ragguagliare la pena pecuniaria alla pena detentiva ai fini della sospensione condizionale di pene congiunte: 2.500 euro di pena pecuniaria, ad esempio, corrispondevano, prima della sentenza n. 22 del 2022, solo a dieci giorni di pena detentiva. Per contro, quando si tratta di ragguagliare la pena detentiva in pena pecuniaria, ai fini della sostituzione della prima pena con la seconda, l’aumento del criterio di ragguaglio ridonda a sfavore del condannato. Sei mesi di pena detentiva potevano essere sostituiti, prima della citata riforma del 2009, con non meno 6.840 euro (38 euro per 180 giorni); dopo quella riforma, invece, e prima della sentenza n. 22 del 2022, con non meno di 45.000 euro (250 euro per 180 giorni). Ciò, come hanno riconosciuto la Corte costituzionale e, prima ancora, la dottrina, ha avuto effetti negativi sulla pena pecuniaria sostitutiva, risultata nella prassi irragionevolmente gravosa. Un caso giudiziario segnalato dalla stampa nel marzo del 2015 rende evidente l’iniquità degli esiti ai quali può portare la disciplina vigente e le ragioni che hanno ispirato la legge delega nel prevederne la riforma: un pensionato che aveva sottratto dai banchi di un supermercato una salsiccia di valore inferiore a due euro è stato condannato a 45 giorni di reclusione, sostituiti con una multa di 11.250 euro (250 euro per 45 giorni). Si spiega così perché, pur a seguito del recente intervento della Corte costituzionale, successivo peraltro alla legge delega, viene abbandonata la scelta di richiamare l’art. 135 c.p. per determinare il valore giornaliero della pena pecuniaria sostitutiva.

Come ha affermato la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 22/2022 e, ancor prima, nella sentenza n. 15/2020, una quota giornaliera di conversione così elevata, come quella di 250 euro, “ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce. Al tempo stesso, la disposizione censurata ha finito per trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti, in contrasto con l’art. 3 Cost.”.

Proprio alla luce di tali considerazioni, la disciplina viene ora congegnata in modo funzionale alla commisurazione della pena pecuniaria sostitutiva entro un limite minimo e massimo rapportato alle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare, che il giudice dovrà accertare nell’udienza di cui all’art. 545 bis c.p.p.

Il valore minimo giornaliero viene individuato in 5 euro, assai inferiore a quello, di 75 euro, che la Corte costituzionale, nella citata recente sentenza, ha potuto ricavare dal sistema facendo riferimento alla disciplina della sostituzione della pena detentiva in sede di decreto penale di condanna. Si tratta di una scelta del tutto innovativa per l’ordinamento italiano e in linea con le discipline vigenti in altri paesi europei allorché si tratta di commisurare la pena pecuniaria secondo il criterio dei tassi giornalieri.

Una così larga forbice per la determinazione del valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato – da 5 a 2.500 euro – può a prima vista apparire eccessiva in un ordinamento in cui il modello della pena pecuniaria per tassi giornalieri non è adottato per le pene principali e ha ancora oggi un’applicazione limitata alla sostituzione delle pene detentive brevi e alla responsabilità da reato degli enti (cfr. art. 10 d.lgs. n. 231/2001). Quella forbice allargata è però funzionale a soddisfare l’esigenza della commisurazione alle effettive condizioni economiche e patrimoniali dell’imputato, che normalmente riflettono un divario altrettanto ampio nella società: la medesima condanna a pena detentiva, sostituita con la pena pecuniaria, può infatti essere pronunciata nei confronti di una persona disoccupata e ai limiti dell’indigenza, ovvero di un milionario. Mentre la pena detentiva inflitta ai due condannati non determina disparità di trattamento, incidendo un bene – la libertà personale – dei quali entrambi dispongono nella stessa misura – altrettanto non può dirsi della pena pecuniaria, che incide sul patrimonio, cioè su un bene che non ha la medesima consistenza. Ad analoghe esigenze risponde la determinazione del valore minimo e massimo giornaliero della pena pecuniaria sostitutiva, stabilito, rispettivamente, in 5 e in 2.500 euro.

Si tratta, d’altra parte, di un intervento imposto dal rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e proporzione della pena e auspicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 2022, nella quale, dopo aver individuato in 75 euro il valore minimo giornaliero, si legge che “resta ovviamente ferma la possibilità che nell’esercizio della menzionata delega di cui alla legge n. 134 del 2021 vengano individuate soluzioni diverse, e in ipotesi ancor più adeguate, a garantire la piena conformità della disciplina della sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria ai principi costituzionali”. L’attuazione della legge delega viene realizzata anche e proprio per venire incontro a questo auspicio della Corte costituzionale.

In primo luogo, l’aver previsto un così basso valore minimo giornaliero della pena pecuniaria sostitutiva consente di evitare per il futuro l’inflizione di condanne inique e sproporzionate alla gravità del fatto, come nel citato caso in materia di furto: la pena di 45 giorni di reclusione può essere sostituita con 225 euro (5 euro per 45 giorni), quando l’autore sia ai limiti dell’indigenza, come spesso avviene in caso di furto per bisogno, anziché con 11.250 euro.

In secondo luogo, la determinazione del valore minimo in misura così ridotta consente di realizzare l’uguaglianza sostanziale nell’applicazione della pena pecuniaria sostitutiva, secondo l’auspicio della Corte costituzionale.

L’intervento è coordinato con la riformata disciplina del decreto penale di condanna (v. art. 459, co. 1 bis c.p.p.). Si prevede, in attuazione della legge delega, che quando la sostituzione della pena detentiva ha luogo nel procedimento per decreto il valore giornaliero è pari, nel minimo a 5 euro e, nel massimo, a 250 euro. L’effetto premiale, connesso al rito, è pertanto rapportato al valore massimo giornaliero, stabilito nella misura determinata dalla legge delega (art. 1, co. 17, lett. l l. n. 134/2021).

Il terzo comma dell’art. 56 quater, infine, ribadisce quanto è oggi già previsto nell’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 53, consentendo al giudice, in caso di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, di disporre con la sentenza o con il decreto penale, in relazione alle condizioni economiche del condannato, il pagamento rateale ai sensi dell’art. 133 ter c.p. Si tratta di un’ulteriore attenzione alle esigenze di individualizzazione del trattamento sanzionatorio in rapporto alle condizioni economiche del condannato.

Si evidenzia,  che le norme contenute nel presente articolo, oltre a non essere suscettibili di determinare effetti onerosi per la finanza pubblica, comporteranno effetti positivi di entrata nelle casse dell’erario, atteso che la previsione dei nuovi limiti di conversione tra pena detentiva e pena pecuniaria permetterà di coinvolgere una platea di soggetti, più estesa rispetto a quella odierna, interessati a richiedere l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, ivi incluse quelle di conversione in pene pecuniarie, sebbene, allo stato attuale, di difficile quantificazione.

Al riguardo si evidenzia, infatti, che per quanto riguarda la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, si è tenuto conto da un lato della disciplina generale già prevista dal secondo comma dell’articolo 53, della legge n. 689 del 1981, n. 689, dall’altro ci si è prodigati per individuare un valore giornaliero nel minimo – la cui misura fosse indipendente dalla somma indicata dall’articolo 135 del Codice penale -) e, nel massimo, in misura non eccedente 2.500 euro.

Il criterio prescelto per individuare la misura nel minimo (5 euro), risponde all’esigenza di calibrare la sostituzione della pena in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, quale presupposto essenziale dell’applicazione della pena giusta, in quanto proporzionata alle reali capacità del condannato e funzionale agli obiettivi di prevenzione speciale e sebbene, risulti di circa tre volte minore rispetto a quella attualmente stabilita a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2022 (75 euro prima ancora 250 euro), non si prevedono effetti negativi per la finanza pubblica, attesa la maggior applicazione della misura per effetto del raddoppio del limite massimo della pena detentiva sostituibile ( da 6 mesi ad un anno)  e la maggiore propensione al pagamento da parte di una platea di potenziali soggetti, che vedranno individuato dal giudice tramite il suo prudenziale apprezzamento il valore giornaliero da corrispondere. E infine, la scelta di una forbice più ampia nella quale il giudice potrà far ricadere la sua decisione – ricompresa in un range di valori (da 5 a 2500) – allo stato, non permette di quantificare possibili minori entrate, potendo invece supporsi un effetto compensativo fra le diverse misure ipotizzate, facendo presente, inoltre, che vi sono rilevanti profili di variabilità dovute alla valutazione delle condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare che non si possono prevedere a priori.

Occorre, da ultimo, evidenziare fra gli effetti positivi dell’applicazione di tali disposizioni quello della potenziale deflazione sul piano processuale e sul piano penitenziario, in termini di maggiore speditezza a livello procedurale e di minor spreco di risorse finanziarie in termini di minori costi sostenuti per il mantenimento del soggetto all’interno del circuito carcerario.

L’intervento sull’articolo 57 mira, da un lato, a introdurre una regola generale sulla durata delle pene sostitutive, e, dall’altro lato, a adeguare la disciplina degli effetti e dei criteri di ragguaglio delle pene sostitutive al nuovo assetto delineato dalla riforma (lettera e).

Il primo comma stabilisce che la durata della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva è pari a quella della pena detentiva sostituita, calcolata in anni, mesi e giorni. Di qui la necessità (cfr. art. 61) che il giudice, nella sentenza o nel decreto di condanna, indichi la durata della pena detentiva sostituita di quella sostitutiva. La corrispondenza della durata della pena detentiva sostituita e della pena sostitutiva è stabilita dal vigente art. 53, co. 3 in rapporto alla semidetenzione; è del tutto ragionevole che lo sia ora in rapporto alla semilibertà e alla detenzione domiciliare, ancor più considerando che la legge delega il Governo a mutuare la disciplina di tali pene sostitutive, in quanto compatibile, da quella delle omonime misure alternative alla detenzione, che pure hanno durata pari a quella della pena detentiva in relazione alle quali sono concesse. Per il LPU sostitutivo, poi, il criterio della corrispondenza della durata a quella della pena detentiva sostituita è espressamente previsto dalla legge delega (art. 1, co. 17, lett.f) l. n. 134/2021. La menzione espressa della regola per il solo LPU, da parte della legge delega, si spiega in ragione della volontà di derogare rispetto al limite massimo di sei mesi, previsto dall’art. 54 d.lgs. n. 274/2000 per il LPU quale pena principale irrogabile dal giudice di pace. La disciplina della durata del LPU sostitutivo deve tenere conto dei criteri stabiliti dall’art. 56 bis e, in particolare, dal terzo comma, ai sensi del quale ai fini del computo della pena da espiare un giorno di LPU consiste nella prestazione di due ore di lavoro. Ciò significa che il giudice, ad esempio, se decide di sostituire due di reclusione con il LPU, dovrà prima convertire la pena in giorni (pari a 730) e poi moltiplicare il numero di giorni per due, ottenendo così il numero di ore di LPU corrispondenti alla pena detentiva sostituita (1.460). In base alla disciplina dell’art. 56 bis, tale monte ore di lavoro dovrà essere svolto dal condannato nel rispetto dei vincoli di orario giornaliero (massimo 8 ore) e settimanale (minimo sei ore e, di norma, massimo quindici) previsto dalla legge. La pena sarà espiata quando tutte le ore di lavoro saranno state svolte.

Il secondo comma adegua alle nuove pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del LPU la disciplina oggi prevista nel primo e nel terzo comma dell’art. 57 per la semidetenzione e per la libertà controllata. Si prevede anzitutto, come già per la semidetenzione e la libertà controllata, che “per ogni effetto giuridico, la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita”. Ciò significa che ogni riferimento alla reclusione e all’arresto, previsto da norme di parte generale o ovunque ubicate, deve di norma estendersi alle tre nuove pene sostitutive ad ogni effetto giuridico.  Si aggiunge poi, in linea con quanto disposto dal primo comma, che ad ogni effetto giuridico un giorno di pena detentiva equivale a un giorno di semilibertà sostitutiva, di detenzione domiciliare sostitutiva o di lavoro di pubblica utilità sostitutivo. Le tre pene sostitutive vengono pertanto parificate nella loro corrispondenza alla pena detentiva.

Il terzo comma, infine, ribadisce la regola stabilita dal vigente secondo comma dell’art. 57 stabilendo che la pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva.

L’intervento realizzato ha carattere ordinamentale ed è privo di effetti negativi per la finanza pubblica, con l’intento di operare un processo di parificazione fra le tre pene sostitutive ad esclusione di quella pecuniaria.

L’intervento di cui all’articolo 58 attua il criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. c) l. n. 134/2021 riformando la disciplina del potere discrezionale del giudice nella sostituzione della pena detentiva e nella scelta della pena sostitutiva da applicare; disciplina che trova il suo pendant processuale nel nuovo art. 545 bis c.p.p (lettera f).

La disciplina segue un processo bifasico, che prevede in un primo momento la decisione sull’an della sostituzione della pena detentiva e, in un secondo momento, l’eventuale decisione sul quomodo della sostituzione, cioè sulla pena sostitutiva da applicare.

Il primo comma è dedicato al primo momento di discrezionalità del giudice.

Viene anzitutto confermato il riferimento, logicamente preliminare, ai criteri di cui all’art. 133 c.p., dei quali il giudice deve tenere conto per stabilire la gravità oggettiva e soggettiva del fatto e, quindi, la meritevolezza e il bisogno di una pena detentiva, piuttosto che sostitutiva. Si tratta di una scelta discrezionale affidata all’apprezzamento del giudice, in funzione delle esigenze di prevenzione speciale, che deve naturalmente essere compiuta nel rispetto del criterio oggettivo dei limiti di pena inflitta, di cui all’art. 53. Solo se la pena inflitta non è superiore a quei limiti di pena, infatti, ha ingresso nel processo la valutazione giudiziale sulla sostituibilità della pena detentiva stessa con una o più pene sostitutive.

Si precisa poi che il giudice può sostituire la pena detentiva “se non ordina la sospensione condizionale della pena”. Il riferimento espresso alla sospensione condizionale della pena, contenuto nel primo comma, ha la funzione di richiamare l’attenzione del giudice sul fatto che può applicare una pena sostitutiva se non ordina la sospensione condizionale della pena. Se infatti ordina la sospensione condizionale della pena, questa non può essere sostituita, perché in base alla regola prevista dall’art. 61 bis, in attuazione della legge delega (art. 1, co. 17, lett. h) l. n. 134/2021), le pene sostitutive non possono essere condizionalmente sospese. Ciò significa che, entro i limiti oggettivi in cui l’esecuzione della pena detentiva è sospendibile, ai sensi dell’art. 163 c.p., e in presenza dei presupposti soggettivi per la sospensione condizionale, il giudice, sulla base dei richiamati criteri di cui all’art. 133 c.p., può scegliere se ordinare la sospensione condizionale della pena – eventualmente subordinata agli obblighi di cui all’art. 165 c.p. – ovvero se optare per la sostituzione della pena detentiva, che presuppone la non opposizione del condannato (v. art. 545 bis c.p.). Tale scelta, che deve essere adeguatamente motivata quale esercizio del potere discrezionale, consente di individualizzare il trattamento sanzionatorio fornendo al giudice un ampio ventaglio di possibilità e alternative, funzionale al migliore raggiungimento degli obiettivi di rieducazione e risocializzazione del condannato. D’altra parte, può darsi il caso in cui la sospensione condizionale non possa essere concessa, difettandone i presupposti soggettivi di cui all’art. 164 c.p. (ad es. perché il condannato ha già fruito più volte del beneficio). In tali casi, la sostituzione della pena detentiva rappresenta la sola via per evitare la condanna a una pena detentiva breve da eseguirsi in carcere.

In attuazione del menzionato criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. c), si stabilisce poi espressamente che il giudice, tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p., può applicare le pene sostitutive della pena detentiva quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato, rispetto alla pena detentiva breve sostituita. Tale criterio, come conferma la legge delega, ha un ruolo fondamentale e prioritario nella scelta sulla sostituzione della pena detentiva breve, che deve essere orientata, come impone l’art. 27, co. 3 Cost., al raggiungimento della finalità rieducativa della pena. Il giudice dovrà pertanto compiere una valutazione comparativa tra i risultati attesi, in termini di rieducazione del condannato, applicando la pena detentiva breve ovvero una pena sostitutiva.

Sempre in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. c), si stabilisce poi, attribuendo rilievo a non trascurabili esigenze di difesa sociale – a fronte della possibilità di sostituire pene detentive inflitte fino a quattro anni, anche per reati di una certa gravità – che il giudice può sostituire la pena detentiva con le pene sostitutive quando queste, “anche attraverso opportune prescrizioni assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati”. Il giudice, nel decidere sulla sostituzione della pena detentiva, deve pertanto valutare l’idoneità della pena sostitutiva non solo non solo in rapporto alla rieducazione del condannato, ma anche al pericolo di recidiva durante l’esecuzione della pena stessa. Il giudice di cognizione è pertanto chiamato a compiere una valutazione analoga a quella che il tribunale di sorveglianza compie allorché concede una misura alternativa alla detenzione. La decisione sulla sostituzione della pena detentiva è anche una decisione sull’esecuzione della pena nella comunità, in tutto o in parte. Di qui la necessità di opportune valutazioni sul pericolo di recidiva, in funzione di difesa sociale. La prevenzione della commissione di ulteriori reati è rimessa “anche” a “opportune prescrizioni”. Il riferimento non è tanto alle prescrizioni obbligatorie comuni (cfr. art. 56 ter, co. 1), o a quelle connaturate alle diverse pene sostitutive, bensì alle ulteriori prescrizioni che, nel rispetto del principio di legalità della pena, e con ampio margine di flessibilità, possono essere adottate nel programma di trattamento quanto a modalità esecutive delle pene (si pensi alle prescrizioni relative al tempo e al luogo di esecuzione della pena).

L’ultimo periodo del primo comma ribadisce la regola oggi stabilita dall’art. 58, co. 2: la pena detentiva non può essere sostituita quando il giudice ritiene che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato. Rispetto al vigente art. 58, co. 2, che fa riferimento a una presunzione del giudice (“quando presume che…”), a garanzia dell’imputato si introduce tuttavia uno standard più rigoroso, con un corrispondente onere motivazionale: per escludere la sostituzione della pena detentiva breve devono infatti sussistere “fondati motivi” di ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute. Non vi è pertanto spazio per alcuna presunzione, su base soggettiva o oggettiva (relativa, ad esempio, al titolo di reato per il quale vi è condanna).

Il secondo comma stabilisce il criterio generale che vincola la discrezionalità giudiziale nel secondo momento di valutazione, relativo alla scelta della pena sostitutiva da applicare, una volta che il giudice ritenga di poter sostituire la pena detentiva. Tra le pene sostitutive il giudice sceglie quella più idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato con il minor sacrificio della libertà personale, indicando i motivi che giustificano l’applicazione della pena sostitutiva e la scelta del tipo. Rispetto alla vigente disciplina, di cui all’art. 58 (co. 1, ultima parte, e co. 3), è confermato che, tra le pene sostitutive, il giudice deve applicare quella più idonea al “reinserimento sociale” del condannato, fornendo adeguata motivazione al riguardo. La disciplina viene tuttavia integrata con significativi elementi, resi opportuni dall’introduzione di un diverso e più ampio set di pene sostitutive, applicabili in luogo di pene detentive che possono essere inflitte fino a quattro anni.

Un primo elemento è rappresentato dal riferimento all’idoneità della pena sostitutiva alla rieducazione del condannato, oltre che al suo reinserimento sociale. La valutazione sull’idoneità rispetto al fine della rieducazione e, pertanto, alle istanze di prevenzione speciale, è compiuta, nel primo comma, in rapporto alla scelta tra pena detentiva e pena sostitutiva; nel secondo comma chiama in causa, invece, la comparazione tra le pene sostitutive.

Un secondo rilevante elemento di novità, decisivo nel vincolare la discrezionalità del giudice, è rappresentato dalla necessità di contemperare le finalità di rieducazione e reinserimento sociale del condannato con l’esigenza del minor sacrificio della sua libertà personale. La pena sostitutiva che comporta il maggior sacrificio della libertà personale deve pertanto risultare comparativamente necessaria, rispetto alle altre concorrenti, in vista del raggiungimento delle finalità di rieducazione e risocializzazione del condannato. Se così non è, deve invece cedere il posto all’applicazione di pene sostitutive meno afflittive. L’operazione concettuale che il giudice di cognizione è chiamato a compiere, nella scelta delle pene sostitutive, è logicamente analoga a quella che usualmente compie quando si tratta di scegliere le misure cautelari (cfr. art. 275 c.p.p.), nonché a quella che il tribunale di sorveglianza compie quando deve scegliere tra più misure alternative alla detenzione applicabili nel caso concreto.

Il terzo comma conferma e rafforza la regola di giudizio di cui al secondo comma. Si stabilisce che entro il limite di tre anni – allorché cioè sono applicabili tutte le pene sostitutive – quando applica la semilibertà o la detenzione domiciliare, il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonei nel caso concreto il lavoro di pubblica utilità o la pena pecuniaria. Viene così espresso e ribadito il tendenziale favore per pene sostitutive, come la pena pecuniaria (entro il limite di un anno di pena inflitta) e il lavoro di pubblica utilità (entro il limite di tre anni di pena inflitta) che, non comportando alcuna detenzione e privazione della libertà personale, devono in linea di principio prevalere quali strumenti di lotta alla pena detentiva breve, salva la sussistenza di esigenze particolari. Viene così affermata, attraverso una regola, anche processuale, relativa all’esercizio del potere discrezionale del giudice, la centralità delle pene non detentive nel sistema delle nuove pene sostitutive, che relega semilibertà e detenzione domiciliare, in rapporto tra loro progressivo (da più a meno), al ruolo di extrema ratio. Il modello di disciplina adottato riprende quello previsto in tema di misure cautelari, dove si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere – cioè la più afflittiva tra le misure cautelari – “il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo elettronico di cui all’art. 275 bis, co. 1 c.p.p.”. Il principio-guida, in tema di scelta tra le pene sostitutive, è pertanto che, in quanto possibile, il giudice deve sostituire la pena detentiva con una pena non detentiva. Sul piano del successo applicativo della riforma, ciò è d’altra parte di fondamentale importanza per favorire, in quanto possibile, la non opposizione del condannato alla sostituzione della pena (cfr. art. 545 bis c.p.p.), a beneficio degli obiettivi di deflazione processuale e penitenziaria perseguiti dalla l. n. 134/2021.

Va inoltre precisato che, quando la pena inflitta è compresa tra tre e quattro anni, e risultano pertanto applicabili solo la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva, in base al criterio di cui al secondo comma (minor sacrificio della libertà personale) deve tendenzialmente prevalere la detenzione domiciliare sostitutiva, in quanto pena meno afflittiva.

Il quarto comma introduce un ulteriore e complementare criterio per la scelta tra semilibertà sostitutiva, detenzione domiciliare sostitutiva e lavoro di pubblica utilità sostitutivo; un criterio che attribuisce rilievo a una serie di particolari condizioni soggettive del condannato, rilevanti rispetto alla decisione sulla sostituzione della pena e alla scelta del tipo di pena sostitutiva. Si tratta, in primo luogo, di condizioni legate all’età, alla salute fisica o psichica, alla maternità, o alla paternità nei casi di cui all’articolo 47 quinquies comma 7 legge 26 luglio 1975 n. 354; condizioni alle quali attribuisce rilievo l’ordinamento penitenziario rispetto all’applicazione delle misure alternative alla detenzione e, in particolare, alla detenzione domiciliare. Fermo restando quanto previsto in tema di rinvio dell’esecuzione della pena sostitutiva dall’art. 69, commi 3 e 4, esigenze di carattere ‘umanitario’ o familiare ben possono e devono essere tenute in adeguata considerazione nella scelta tra le pene sostitutive. Se è vero che l’ordinamento vede con sfavore le pene detentive brevi, ciò è ancor più vero quando si tratti di condannati nelle anzidette condizioni soggettive, la cui esistenza restringe ulteriormente i margini di applicazione della semilibertà, a favore della detenzione domiciliare (così come nei rapporti tra le omonime misure alternative) e, rispetto a quest’ultima, del lavoro di pubblica utilità.

D’altra parte, la volontà legislativa di anticipare nel giudizio di cognizione sanzioni con funzione e contenuto corrispondente alle misure alternative alla detenzione, concesse dall’esterno, trova adeguata realizzazione rendendo possibile la sostituzione della pena in condizioni nelle quali trova applicazione, in sede di esecuzione, una misura alternativa alla detenzione. E’ ad esempio il caso della detenzione domiciliare per le detenute madri o per gli ultrasettantenni, ovvero dell’affidamento in prova terapeutico di cui all’art. 94 d.P.R. n. 309/1990.

A tale ultimo proposito, l’ultimo periodo del quarto comma stabilisce che il giudice, nella scelta tra le pene sostitutive, diverse dalla pena pecuniaria, tiene altresì conto delle condizioni di disturbo da uso di sostanze o di alcol ovvero da gioco d’azzardo, certificate dai servizi pubblici o privati autorizzati indicati all’art. 94, co. 1 d.P.R. n. 309/1990, nonché delle condizioni di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, a norma dell’articolo 47 quater l. n. 354/1975. Si intende per tale via richiamare l’attenzione del giudice, pur a fronte della mancata inclusione dell’affidamento in prova ai servizi sociali tra le pene sostitutive, sulla possibilità e sull’opportunità di applicare pene sostitutive con finalità terapeutica, in vista delle esigenze di cura e di reinserimento sociale dei condannati affetti da disturbo da uso di alcol, di sostanze o da gioco d’azzardo ovvero  da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. Nella scelta della pena sostitutiva da applicare il giudice deve tener conto, oltre che degli altri criteri indicati dall’art. 58, delle specifiche esigenze legate alle condizioni personali del condannato, contemperando le diverse esigenze in gioco, non ultime quelle di cura e tutela della salute dello stesso, con incidenza positiva sui tassi di recidiva e beneficio per la collettività. Le pene sostitutive, applicate dal giudice di cognizione ed immediatamente esecutive, dopo la definitività della sentenza, possono infatti consentire cure, assistenza e recupero sociale più immediato rispetto alle misure alternative alla detenzione, applicabili in sede di esecuzione dal tribunale di sorveglianza, non di rado a distanza di mesi o anni dall’istanza.

Si evidenzia che l’applicazione delle pene sostitutive delle pene detentive, che potrà avvenire solo quando il giudice ne accerti la funzione rieducativa del condannato, afferma il potere discrezionale del giudice sia per quanto riguarda le prescrizioni necessarie a prevenire recidive, sia nella scelta tra le pene sostitutive da irrogare, realizza una misura di carattere procedurale, con effetti positivi derivanti dalla  più efficace soluzione individuata idonea all’effettivo recupero sociale del soggetto.

La modifica dell’articolo 59 (“Condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva”) è realizzata in attuazione dell’art. 1, co. 17, lett. d) della l. n. 134/2021, che delega il Governo a “ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario per l’accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare” (lettera g).

Vengono individuate quattro diverse ipotesi – corrispondenti ad altrettante condizioni soggettive – in presenza delle quali la pena detentiva non può essere sostituita. La verifica della insussistenza di condizioni soggettive che precludono la sostituzione della pena detentiva costituisce un momento centrale del vaglio sulla sostituibilità della pena, che il giudice, dopo la lettura del dispositivo di condanna, è chiamato a compiere nella sede processuale delineata dal nuovo art. 545 bis c.p.p.

Le prime tre condizioni soggettive (lett. a-c) si sostituiscono alle quattro previste oggi dal primo e dal secondo comma dell’art. 59. La quarta condizione (lett. d) assicura il coordinamento con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario, conformemente alla legge delega.

La vigente disciplina dell’art. 59 viene sostituita perché, essendo per lo più imperniata su rigidi automatismi (ipotesi di recidiva: co. 1 e co. 2, lett. a) e presunzioni di pericolosità (co. 2, lett. c) necessita di essere riformata e adeguata ai più recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, che ha in più occasioni dichiarato l’illegittimità costituzionale di analoghi automatismi e presunzioni.

Le prime tre condizioni (lett. a-c) rispondono, ora (lett. a-b) a una logica sanzionatoria del fallimento nell’esecuzione di una precedente pena sostitutiva applicata per reato diverso da quello per cui si procede, ovvero per il reato stesso, ora (lett. c) a una logica di pericolosità sociale dell’agente, non presunta bensì accertata dal giudice rispetto a un condannato cui deve essere applicata una misura di sicurezza

Il primo comma, lett. a) prevede che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di chi abbia commesso il reato per cui si procede entro tre anni dalla revoca della semilibertà, della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 66. La condizione soggettiva che esclude la sostituzione della pena detentiva – secondo un modello di disciplina in parte analogo a quello del vigente art. 59, co. 2, lett. b) – è legata alla revoca della semilibertà sostitutiva, o della detenzione domiciliare sostitutiva, o del LPU sostitutivo, intervenuta nei tre anni precedenti. Questa preclusione soggettiva non è legata a logiche presuntive ma rappresenta una sanzione per l’inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni delle tre pene sostitutive: nei tre anni successivi alla revoca ex art. 66, infatti, la pena sostitutiva non può essere applicata per un nuovo reato. Con ciò si intende rafforzare, sul piano preventivo, l’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni, secondo un modello di disciplina previsto, per le misure alternative alla detenzione, dall’art. 58 quater, co. 2-3. Ad analoga finalità è ispirata la preclusione che riguarda chi ha commesso proprio il reato per cui si procede mentre si trovava in esecuzione di una pena sostitutiva, revocata ai sensi dell’art. 72. Tale preclusione viene limitata all’ipotesi in cui il reato commesso sia di particolare gravità (un delitto non colposo). L’innalzamento da due a quattro anni del limite massimo di pena detentiva sostituibile rende opportuno introdurre meccanismi che rafforzino l’adempimento di obblighi e prescrizioni. La rigidità del meccanismo sanzionatorio è temperata non solo dal limitato arco di tempo in cui esso opera, quando riguarda diversi da quello per cui si procede (tre anni dal provvedimento di revoca), ma anche dall’espressa previsione che è fatta comunque salva la possibilità di applicare una pena sostitutiva di specie più grave di quella revocata. La revoca del LPU, nei tre anni precedenti, non impedisce pertanto l’applicazione della detenzione domiciliare o della semilibertà; quella della detenzione domiciliare non impedisce l’applicazione della semilibertà. Si è ritenuto ragionevole limitare la preclusione soggettiva alla stessa pena sostitutiva inosservata e revocata e non estenderla a una pena sostitutiva di specie più grave, che ben può far fronte alle esigenze di contenimento e controllo del condannato. Ciò nella consapevolezza che, come insegna l’esperienza di altri ordinamenti e, in particolare, di quello degli Stati Uniti d’America, in assenza di opportune previsioni normative le sanzioni penali eseguite nella comunità (forme di probation o parole) possono rappresentare, per effetto dei provvedimenti di revoca connessi all’inosservanza delle prescrizioni, un volano del sovraffollamento carcerario. Con il risultato, paradossale, che la lotta alla pena detentiva breve può concorrere all’incremento della popolazione penitenziaria. Di qui l’opportunità di consentire l’applicazione di una pena sostitutiva di specie più grave anche in caso di revoca di una pena sostitutiva meno grave.

Il primo comma, lett. b) esclude che la pena detentiva possa essere sostituita con la pena pecuniaria nei confronti di chi, nei cinque anni precedenti, sia stato condannato a pena pecuniaria, anche sostitutiva, e non l’abbia pagata, salvi i casi di conversione per insolvibilità ai sensi degli articoli 71 e 103. Anche in questo caso la preclusione soggettiva sanziona la mancata esecuzione di una pena precedentemente inflitta e che comporta il medesimo obbligo – il pagamento di una somma di denaro – di quella sostitutiva. Può trattarsi del mancato pagamento di una multa o di una ammenda applicate a titolo di pena principale o sostitutiva. Si intende così, con finalità preventiva, rafforzare l’obbligo di pagamento e quindi l’effettività delle pene pecuniarie, a fortiori quando sono sostitutive di pene detentive, in linea con le direttrici della legge delega (cfr. art. 1, co. 16 l. n. 134/2021). Come nell’ipotesi precedente, va da sé che la condizione soggettiva considerata dalla lett. b), relativa alla sola pena pecuniaria sostitutiva, non preclude l’applicazione di una diversa e più grave pena sostitutiva.

Il primo comma, lett. c), infine, esclude che il giudice possa applicare una pena sostitutiva nei confronti dell’imputato a cui deve essere applicata una misura di sicurezza personale, salvo i casi di parziale incapacità di intendere e di volere. Il giudizio di pericolosità sociale (art. 203 c.p.), presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza personali, si sostanzia in una valutazione positiva del giudice sulla probabilità che il condannato commetta nuovi reati. Tale giudizio è logicamente incompatibile con la sostituzione della pena detentiva, che implica una prognosi favorevole di non recidività e che, ai sensi dell’art. 58, co. 1, ultimo periodo, è preclusa quando vi sono fondati motivi di ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato. D’altra parte, si è ritenuto di limitare tale preclusione ai soggetti pienamente imputabili e di escluderla in caso di parziale incapacità di intendere e di volere. Ciò in quanto le pene sostitutive, attraverso programmi di trattamento predisposti in chiave terapeutica, possono normalmente risultare più funzionali del carcere rispetto alle esigenze di cura e tutela della salute del condannato, anche nella prospettiva di un ragionevole bilanciamento con le esigenze di neutralizzazione della sua pericolosità sociale.

La quarta condizione soggettiva (lett. d) mira ad assicurare il “coordinamento” con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario per l’accesso alle misure alternative alla detenzione. In attuazione della legge delega, in particolare, il Governo è chiamato a “coordinare” il regime delle nuove pene sostitutive con quello dell’art. 4 bis l. n. 354/1975 (ordinamento penitenziario).

Ciò premesso, si osserva, preliminarmente, come pene detentive di breve durata, non superiori a quattro anni, possono essere inflitte anche agli autori di reati inclusi nel catalogo dell’art. 4 bis ord. penit. Di ciò è ben consapevole il legislatore, come dimostra la previsione dell’art. 656, co. 9 c.p.p., che esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, co. 5 c.p.p. nei confronti dei condannati per reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. È possibile, ad esempio, che un reato riconducibile alla criminalità organizzata sia punito con pena detentiva non superiore a quattro anni, presentando una gravità medio-bassa. E’ ad esempio il caso di una minaccia o di una violenza privata o di lesioni personali aggravate dal metodo mafioso, ex art. 416 bis.1 c.p. D’altra parte, per effetto di successivi interventi normativi, il regime limitativo dell’accesso alle misure alternative, con correlato divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione, è stato esteso a un insieme eterogeneo di reati, fino a ricomprendere reati estranei alla sfera della criminalità mafiosa e terroristica, per i quali è ben possibile, e non infrequente, che siano irrogate pene detentive non superiori a quattro anni. E’ ad esempio il caso, tra i delitti contro la pubblica amministrazione, del peculato, punito con la reclusione pari, nel minimo, a quattro anni e, pertanto, sostituibile ai sensi dell’art. 53 l. n. 689/1981.

Il problema della sostituibilità di pene detentive brevi – nella nuova nozione introdotta dalla legge delega – si pone pertanto anche in rapporto a reati inclusi nel catalogo dell’art. 4 bis ord. penit.

Ciò premesso, si ritiene che un ragionevole e opportuno coordinamento con le preclusioni all’accesso alle misure alternative, previste dalla l. n. 354/1975, debba essere realizzato escludendo la sostituzione della pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all’art. 4 bis ord. penit.

Se non si prevedesse una simile preclusione, infatti, la disciplina dell’art. 4 bis ord. penit. (e dell’art. 656, co. 9 c.p.p) risulterebbe sostanzialmente elusa: sarebbe irragionevole limitare la concessione della semilibertà e della detenzione domiciliare, quali misure alternative alla detenzione, subordinandole alla collaborazione e alle ulteriori stringenti condizioni sostanziali e procedurali previste dall’art. 4 bis e, per altro verso, consentire al giudice all’esito del giudizio di cognizione di applicare la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva o, addirittura, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo.. Il legislatore delegante, d’altra parte, ha manifestato di esserne ben consapevole nel momento in cui, nel riformare le pene sostitutive, ha chiesto al Governo di “coordinare” con esse la disciplina delle preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario per la semilibertà e per la detenzione domiciliare. Consentire tout court l’applicazione delle pene sostitutive in ordine ai reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. non realizzerebbe alcun coordinamento con l’ordinamento penitenziario e contrasterebbe con l’indicazione della legge delega. Detto ciò, si ritiene che l’unica ipotesi in cui sia possibile e ragionevole sostituire la pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all’articolo 4 bis sia quella in cui il giudice di cognizione ritiene applicabile la circostanza attenuante della collaborazione di cui all’art. 323 bis, co. 2 c.p., richiamata dall’art. 4 bis per individuare la condotta collaborativa che funge da presupposto per la concessione delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei condannati per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione. Se il giudice di cognizione ha già accertato la collaborazione rilevante ai fini dell’art. 4 bis, non vi è ragione per precludere l’applicazione delle pene sostitutive, anticipando la concessione delle misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza.   

Il secondo comma dell’art. 59, infine, esclude che le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva – e le connesse preclusioni – operino nei confronti degli imputati minorenni. Si recepisce e si afferma così un principio – orientato al massimo favore per la rieducazione e la risocializzazione dei minorenni – che è del tutto coerente con il sistema della giustizia penale minorile e che la Corte costituzionale ha affermato a più riprese. In primo luogo, con la sentenza n. 16 del 1998 la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 59, per contrasto con gli artt. 3, 27, co. 3 e 31 Cost., nella parte in cui non escludeva che le condizioni soggettive in esso prevedute per l’applicazione delle pene sostitutive si estendano agli imputati minorenni. Si tratta di un principio che deve essere riaffermato, per quanto il regime delineato dall’art. 59 non sia più caratterizzato da rigidi automatismi, come quello riformato. In secondo luogo, con la sentenza n. 263 del 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 27, co. 3 e 31 Cost., l’art. 2, co. 3 d.lgs. n. 121/2018 (recante la “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni”), che rendeva applicabile l’art. 4 bis, co. 1 e 1 bis l. n. 354/1975 ai fini della concessione ai condannati minorenni delle misure penali di comunità (comprese la semilibertà e la detenzione domiciliare). Ciò rende ancor più opportuno escludere l’applicabilità della riformata disciplina dell’art. 59 agli imputati minorenni.

L’intervento di modifica in esame ha natura ordinamentale e precettiva, in quanto fornisce un’elencazione di casistiche, in cui la pena detentiva non può essere sostituita.

L’intervento riformula il testo dell’articolo 61, che rappresenta, nell’ambito della l. n. 689/1981, la disposizione di raccordo con la disciplina processuale inserita nel codice di procedura penale, nel nuovo art. 545 bis c.p.p. (lettera h). Si stabilisce che nella sentenza di condanna o di patteggiamento, ovvero nel decreto penale di condanna, il giudice deve indicare la specie (arresto o reclusione) e la durata della pena detentiva sostituita, nonché la specie (semilibertà sostitutiva, detenzione domiciliare sostitutiva, lavoro di pubblica utilità sostitutivo, pena pecuniaria sostitutiva), la durata o, in caso di pena pecuniaria sostitutiva, l’ammontare della pena sostitutiva. Il meccanismo della sostituzione della pena detentiva comporta che questa, pur non eseguita, resti alle spalle della pena sostitutiva, trovando esecuzione in caso di revoca. È pertanto necessario, e richiesto dalla disciplina dell’art., 545 bis c.p.p., che il giudice pronunci la condanna a una pena detentiva di una determinata specie e ammontare e che indichi poi la specie, la durata o l’ammontare della pena sostitutiva. Quanto alla durata, l’art. 60 va coordinato con l’art. 57, co. 1, ai sensi del quale la durata della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva e del lavoro di pubblica utilità sostitutivo è sempre pari a quella della pena detentiva sostituita. Quanto all’ammontare della pena pecuniaria, l’art. 56 quater richiede che lo stesso sia determinato sulla base della durata della pena detentiva inflitta.

La disposizione in esame è di tipo ordinamentale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

La disposizione relativa all’articolo 61-bis, attua l’art. 1, co. 17, lett. h) della l. n. 134/2021 escludendo che la disciplina della sospensione condizionale della pena si applichi alle pene sostitutive delle pene detentive brevi previste dalla legge n. 689/1981 (lettera i). L’intervento mira a garantire effettività alle pene sostitutive, restituendo ad un tempo alla sospensione condizionale della pena il suo naturale ruolo di strumento di lotta alla pena detentiva breve. Si tratta di un intervento innovativo. Dottrina e giurisprudenza hanno ammesso l’applicazione della sospensione condizionale della pena alle sanzioni sostitutive traendone conferma, in assenza di una disposizione espressa come quella ora introdotta, dall’art. 57, co. 1 (equiparazione a ogni effetto giuridico della semidetenzione e della libertà controllata alla pena detentiva corrispondente) e dall’art. 57, co. 3 che, con una disposizione non più riproposta dopo il presente intervento di riforma, fa riferimento al caso in cui è concessa la sospensione condizionale della pena, da intendersi come sanzione sostitutiva. L’esclusione della sospensione condizionale della pena – che, sostanziandosi in una modifica normativa in malam partem sarà soggetta al divieto di applicazione retroattiva – è in linea con analoga esclusione prevista nel sistema sanzionatorio dei reati competenza del giudice di pace dall’art. 60 d.lgs. n. 274/2000. La logica, come ha riconosciuto la Corte costituzionale con la sentenza n. 47 del 2014 escludendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 60 d.lgs. n. 274/2000, è quella della effettività di pene più miti rispetto a quelle sostituite. D’altra parte, il giudice applica una pena sostitutiva se non ordina la sospensione condizionale della pena (così l’art. 58, co. 1), sicché sarebbe irragionevole applicare la pena sostitutiva per poi sospenderne l’esecuzione. Si realizza così, anche per tale via, un ragionevole coordinamento tra istituti diversi – sospensione condizionale della pena e pene sostitutive –, entrambi volti a contrastare l’esecuzione in carcere di pene detentive brevi.

L’intervento in esame ha natura procedurale e pertanto, non comporta effetti negativi per la finanza pubblica, atteso il carattere esplicativo della disposizione che interviene per disciplinare l’esclusione della sospensione condizionale della pena (art. 163 e seguenti del Codice penale), nel caso in cui si applichino le pene sostitutive previste dal presente provvedimento.

L’articolo 62 disciplina l’esecuzione delle due pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare, che viene affidata al magistrato di sorveglianza, trattandosi di pene accomunate dalla natura detentiva e distinte dal lavoro di pubblica utilità, la cui esecuzione è invece affidata dal successivo articolo 63 al giudice della cognizione che lo ha applicato (lettera l).

Lo schema legale rispetta la classica funzione esecutiva del pubblico ministero e ripercorre con opportuni adattamenti la norma previgente relativa alla semidetenzione ed alla libertà controllata con verifica di attualità dei presupposti e dichiarazione di esecutività della pena.

Si tratta della norma cardine dell’esecuzione delle pene sostitutive, ispirata al principio della immediata esecutività, senza meccanismi sospensivi simili a quelli previsti dall’articolo 656 c.p.p. per le pene detentive, finalizzata ad evitare appunto nuove forme di c.d. “liberi sospesi”. L’apparente discrimine con il condannato alla pena della reclusione fino a quattro anni, che invece si può giovare della sospensione dell’esecuzione, è colmato dalla previsione della verifica della non opposizione effettiva e consapevole del condannato alla pena sostitutiva, che nel processo ordinario si manifesta al più tardi immediatamente dopo la pubblicazione del dispositivo di condanna mediante lettura, a mente del nuovo art. 545 bis c.p.p., introdotto dal presente decreto legislativo.

Si è ritenuto indispensabile mantenere il vaglio del magistrato di sorveglianza anche per altre ragioni:

  1. a) tra la sentenza di merito in cui è applicata la pena sostitutiva e la sua irrevocabilità all’esito di tre gradi di giudizio, la situazione di fatto e soggettiva del condannato possono essere mutate e il vaglio preliminare di esecutività del magistrato di sorveglianza implica la verifica dell’attualità di dette condizioni ovvero il loro mutamento;
  2. b) si è individuato nell’ufficio di sorveglianza, inoltre, l’organo giudiziario più adeguato, per le funzioni tipiche che già svolge, a seguire l’andamento della pena sostitutiva, con i poteri e con l’agilità di intervento che necessita, secondo le prassi consolidate dell’ufficio di sorveglianza; al contrario, il giudice della cognizione, che può essere anche collegiale e, in ipotesi, anche di secondo grado non è strutturato per rispondere con la necessaria tempestività alle esigenze della pena sostitutiva della semilibertà e della detenzione domiciliare e del condannato stesso. Viceversa, il giudice di cognizione ha già familiarità con il lavoro di pubblica utilità, specie nell’ambito della sospensione del procedimento con messa alla prova ex 168 bis c.p. (oltre che nella sospensione condizionale della pena ex art. 165 c.p.)

Il primo comma individua quindi nel pubblico ministero l’organo deputato all’esecuzione, che trasmette al magistrato di sorveglianza competente per territorio in relazione al domicilio del condannato la sentenza di condanna, e non solo il suo estratto, affinché il magistrato sia immediatamente in possesso di tutti gli elementi che fondano e definiscono la pena sostitutiva. Il magistrato territorialmente competente è quindi anche quello che segue l’andamento della misura e interviene in tutti gli incidenti che si verificano, dalla concessione delle autorizzazioni in deroga alla revoca della pena per inosservanza delle prescrizioni o commissione di delitti, ai sensi degli articoli 66 e 72.

Nell’ottica della massima valorizzazione del contributo della difesa, il provvedimento esecutivo è notificato anche al difensore, che quindi può tempestivamente interloquire con il magistrato, in vista di eventuali aggiornamenti della situazione di fatto o giuridica dell’assistito.

Al fine di dare maggiore efficacia e celerità all’esecuzione, si è mantenuta la disposizione già vigente di cui all’articolo 678 comma 1 bis c.p.p., a mente del quale il magistrato provvede de plano, ma ovviamente previa istruttoria ufficiosa, da svolgere attraverso i consueti canali delle Forze dell’ordine. I poteri di intervento del magistrato di sorveglianza sono limitati ai profili esecutivi e alle eventuali modifiche delle condizioni di fatto delle prescrizioni, dettate dall’evoluzione degli eventi, ma non potranno estendersi a mutare il volto della pena sostitutiva, né meno ancora ad applicarne una diversa anche se meno incisiva sulla libertà personale o ritenuta più rieducativa. La pena sostitutiva, infatti, è stabilita dal giudice, non è alternativa all’esecuzione di una pena principale ed è quindi coperta dal giudicato.

Il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto comma ripercorrono le modalità esecutive già collaudate sotto i previgenti articoli 62 e 63, concentrate in questo articolo, che non vengono nella sostanza modificate, se non con l’inserimento della trasmissione dell’ordinanza del magistrato di sorveglianza anche all’ufficio di esecuzione penale esterna e al direttore del carcere di assegnazione del condannato alla semilibertà sostitutiva per le rispettive competenze e affinché abbiano conoscenza formale della pena sostitutiva da eseguire.

Stante la natura procedurale delle disposizioni, si segnala l’assenza di effetti negativi per la finanza pubblica, rappresentando, altresì, che agli adempimenti connessi alle attività sopraindicate si potrà provvedere mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, in analogia a quanto avviene in materia di misure alternative alla detenzione.

L’articolo 63 disciplina in modo parzialmente innovativo l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, in modo autonomo dall’esecuzione delle altre pene sostitutive, in ragione della sua natura peculiare (lettera m). Tale pena sostitutiva, inoltre, è quella che si presta maggiormente ad incontrare il favore dell’imputato e che, anche per la celerità di applicazione ed esecuzione, rispetta in modo preminente le finalità di accelerazione del processo che si prefigge la legge delega. Il lavoro di pubblica utilità è applicato dal giudice sulla base del consenso/non opposizione del condannato ad una sentenza inappellabile. Inoltre, è prevedibile che anche i ricorsi in cassazione possano essere molto contenuti nel numero, in ragione della sostanziale adesione del condannato e del suo interesse a dare immediata esecuzione alla pena. Ne consegue che l’esecuzione di tale pena può seguire a breve la pronuncia della sentenza rapidamente divenuta irrevocabile.

Inoltre, il sistema penale conosce già un modello di esecuzione del lavoro di pubblica utilità, previsto dall’articolo 43 del d.lgs. n. 274/2000 relativo alla competenza penale del giudice di pace, a cui la norma in esame si è ispirata. Anche in quel modello competente per l’esecuzione è il giudice di cognizione, che parimenti è competente per l’esecuzione del LPU sostitutivo di cui al codice della strada (artt. 186, co. 9 bis e 187, co. 8 bis) oltre che per la gestione del LPU quale contenuto obbligatorio della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, ai sensi dell’art. 168 bis c.p.

Il primo comma prevede che “la sentenza penale irrevocabile o il decreto penale esecutivo che applicano il lavoro di pubblica utilità [siano] immediatamente trasmessi per estratto a cura della cancelleria all’ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza di questo, al comando dell’Arma dei carabinieri competenti in relazione al comune in cui il condannato risiede, nonché all’ufficio di esecuzione penale esterna che deve prendere in carico il condannato”. Per le ragioni di efficacia e celerità sopra anticipate, si è ritenuto opportuno evitare il passaggio non indispensabile dall’ufficio del pubblico ministero, che invece è ancora previsto dall’art. 43 d.lgs. n. 274/2000. La norma prosegue sul modello del citato articolo 43, introducendo tuttavia il necessario intervento dell’ufficio di esecuzione penale esterna, per il suo ruolo centrale nella formazione del programma e nella verifica del regolare svolgimento della pena.

Il secondo comma affida all’organo di polizia il compito della notifica dell’ordinanza, dell’ingiunzione di attenersi alle prescrizioni e di presentarsi all’ufficio di esecuzione penale esterna. Segue il dettaglio relativo al caso in cui al momento dell’esecuzione, il condannato sia detenuto per altra causa.

Il terzo comma dispone che, “con la sentenza o con il decreto penale, il giudice incarica l’ufficio di esecuzione penale esterna e gli organi di polizia indicati al primo comma di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’ufficio di esecuzione penale esterna riferisce periodicamente al giudice che ha applicato la pena sulla condotta del condannato e sul percorso di reinserimento sociale”. La centralità del ruolo dell’UEPE è prevista in funzione della portata eminentemente rieducativa della pena sostitutiva, ma anche della maggiore gravità dei fatti commessi e delle pene sostitutive applicate rispetto alla limitata competenza penale del giudice di pace.

Infine, il quarto comma dispone che “al termine del lavoro di pubblica utilità, l’ufficio di esecuzione penale esterna riferisce al giudice che, fuori dai casi previsti dall’articolo 66, dichiara estinta la pena e ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue e dispone la revoca di cui all’articolo 56 bis”. Si è infatti ritenuto che la pena del lavoro di pubblica utilità, da un lato, al termine necessitasse un vaglio di effettivo e corretto svolgimento da parte del giudice che l’ha applicata; e dall’altro, che dovesse essere accompagnata da un beneficio ulteriore derivato per analogia sia dall’articolo 47, co. 12 della legge sull’ordinamento penitenziario in materia di esito positivo dell’affidamento in prova, sia dall’articolo 186 co. 9 bis del Codice della Strada, che prevedono entrambi una declaratoria di estinzione della pena e degli effetti penali. È prevista altresì la revoca della confisca, nei casi di cui al quinto comma dell’articolo 56 bis.

La disposizione in esame ha carattere procedurale e pertanto, si conferma l’l’assenza di onerosità a carico della finanza pubblica. Gli adempimenti connessi alle attività sopra indicate, rientrano fra quelli istituzionalmente attribuiti agli Uffici di esecuzione penale esterna e pertanto, potranno essere fronteggiati mediante il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, attese anche le misure di potenziamento della dotazione organica degli stessi UEPE operata con l’articolo 17 del D.L. 36/2022.

L’articolo 64 ricalca e adegua al nuovo impianto normativo l’analoga previsione dell’art. 64 oggi vigente, rendendo più snella la procedura di modifica delle prescrizioni, che si può presentare frequentemente nel corso dell’esecuzione di una pena sostitutiva, potendo avere anche durata apprezzabile (lettera n).

Il primo comma riguarda le prescrizioni della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva applicate a norma dell’articolo 62 e prevede che “le prescrizioni imposte con l’ordinanza prevista dall’articolo 62 possono essere modificate per comprovati motivi” e non più da “sopravvenuti motivi di assoluta necessità”, con formulazione che è parsa eccessivamente restrittiva.

L’organo competente a decidere è il magistrato di sorveglianza che ha in carico il condannato e che “procede senza formalità ai sensi dell’art. 678 comma 1 bis del codice di procedura penale, su istanza del condannato da inoltrare tramite l’ufficio di esecuzione penale esterna”.

È stato opportunamente eliminato il complesso e superfluo meccanismo di modifica nel contraddittorio con previsione della facoltà di adottare un provvedimento d’urgenza. Il magistrato provvede immediatamente, de plano e in camera di consiglio, analogamente a quanto già avviene nella prassi delle misure alternative.

Ancora una volta, l’intervento dell’UEPE è centrale, affinché le istanze di modifica delle prescrizioni pervengano al magistrato già filtrate e, se del caso, istruite dall’organo che ha il diretto contatto e controllo con il condannato.

Il secondo comma ricalca il medesimo schema per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo, solo adattandolo all’organo competente per l’esecuzione che è il giudice che lo ha applicato.

Il terzo comma contiene una disposizione esecutiva comune ai due provvedimenti che precedono.

Per evitare qualsiasi equivoco, in linea con la disposizione oggi vigente, al quarto comma si è previsto espressamente un catalogo di prescrizioni inderogabili “di cui ai numeri 1, 2, 4 e 5 dell’articolo 56 ter, comma 1”.

Il presente intervento ha carattere procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, essendo teso ad individuare le specifiche ipotesi in cui le modalità di esecuzione delle pene sostitutive possano essere modificate.

L’articolo 65 disciplina le competenze e le modalità operative dei necessari controlli sull’adempimento delle prescrizioni connesse alla pena sostitutiva. In proposito si sono resi necessari solo interventi di adattamento della norma previgente, di cui si conferma l’impianto generale (lettera o). La predisposizione di un sistema di controlli da parte di organi di polizia è funzionale all’effettività e alla serietà della pena sostitutiva, non affidata ad un contenimento esterno come il carcere, ma alla volontaria collaborazione e adesione del condannato. Conseguentemente, le violazioni riscontrate dagli organi preposti al controllo potranno determinare la revoca della pena sostitutiva, ai sensi del successivo articolo 66.

Il primo comma aggiorna la denominazione delle pene sostitutive e, tra gli organi di polizia deputati ai controlli, aggiunge opportunamente il nucleo di Polizia penitenziaria istituito presso l’ufficio di esecuzione penale esterna con D.M. 1° dicembre 2017, che ha compiti di controllo analoghi per le misure alternative.

Il secondo comma è sostanzialmente identico al testo previgente, aggiunge solo l’inserimento nel fascicolo individuale anche della sentenza di applicazione del lavoro di pubblica utilità e aggiorna il richiamo normativo al vigente Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario, di cui al d.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 per i condannati alla semilibertà sostitutiva.

Il terzo comma è sostanzialmente immutato, ma non contempla i direttori delle sezioni autonome per la semilibertà degli istituti di pena ordinari.

La presente disposizione ha natura ordinamentale e procedurale, prevedendo l’aggiunta del nucleo di Polizia penitenziaria – istituito presso l’ufficio di esecuzione penale esterna- fra gli organi di polizia deputati ai controlli in analogia a quanto avviene in tema di controlli per le misure alternative alla detenzione.

Pertanto, dall’attuazione delle disposizioni esaminate non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, potendo essere garantite le attività collegate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

L’intervento sull’articolo 66 attua il criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. m) l. n. 134/2021 riformando la disciplina già vigente della revoca per inosservanza delle prescrizioni inerenti alle pene sostitutive, facendo salvo quanto previsto autonomamente dall’articolo 71 per la pena pecuniaria sostitutiva (lettera p). L’originario istituto sanzionatorio era alquanto severo, ma se ne è conservato l’impianto per la sua insostituibile funzione strumentale all’effettività e alla serietà della pena sostitutiva, non affidata ad un contenimento esterno, come il carcere, ma alla volontaria collaborazione e adesione del condannato. Il rispetto delle prescrizioni funzionali alla corretta esecuzione della pena sostitutiva e alla prevenzione del pericolo di recidiva – anch’esse previste da un apposito criterio di delega – è quindi un profilo ineliminabile della pena sostitutiva e deve essere presidiato da sanzioni specifiche, a cui il criterio di delega sopra citato fa riferimento esplicito.

Il primo comma, in sostituzione della violazione semplice anche di una sola prescrizione, recepisce letteralmente il criterio di delega più moderato ed elastico della “violazione grave o reiterata” ed aggiunge il pacifico caso della “mancata esecuzione delle pene sostitutive”, sempre previsto dalla legge delega. Rimane ovviamente intatta la previsione che la pena residua non ancora espiata si possa convertire nella pena detentiva sostituita, ma viene aggiunta l’ipotesi della sostituibilità con “altra pena sostitutiva più grave”. Si sottolinea, in proposito, che il più ampio catalogo delle pene sostitutive che emerge dalla legge delega consente di concepire rimedi sanzionatori delle violazioni in modo più elastico e proporzionato alla gravità delle violazioni, rispetto al mero ritorno alla pena detentiva sostituita.

Il secondo comma resta sostanzialmente inalterato e subisce soltanto adeguamenti al nuovo sistema di pene sostitutive, compresi i compiti di controllo dell’ufficio di esecuzione penale esterna.

Il terzo comma, invece, ridisciplina l’intervento della magistratura di sorveglianza, per la revoca della semilibertà e della detenzione domiciliare sostitutive, nonché del giudice della cognizione per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo. In luogo della previgente competenza della sezione di sorveglianza (ora Tribunale di sorveglianza), per ragioni di celerità e semplificazione, la norma attribuisce direttamente il potere di revoca al magistrato di sorveglianza (o rispettivamente al giudice di cognizione), ma conserva a garanzia del condannato le forme del contraddittorio, in ragione della gravità delle conseguenze e della rilevanza degli elementi di conoscenza e valutazione che può fornire la parte interessata. Viene, infatti, richiamata la procedura di esecuzione prevista dall’articolo 666 c.p.p., che resta comunque una procedura più semplice, ma a partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero.

Stante la natura procedurale della disposizione, si conferma l’assenza di onerosità a carico della finanza pubblica.

L’originario articolo 67, la cui rubrica rimane immutata, pone al centro l’inapplicabilità delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario (ad eccezione della detenzione domiciliare, ma solo perché l’art. 47 ter l. n. 354/1975 è entrato in vigore successivamente alla l. 689/1981) al condannato in espiazione di pena detentiva per conversione, a seguito di revoca di sanzione sostitutiva per violazione di prescrizioni a norma dell’articolo che precede (lettera q).

Come in molti altri casi, la nuova definizione delle pene sostitutive e la loro maggiore rilevanza nell’ambito del sistema sanzionatorio penale ha imposto degli adeguamenti anche di sistema, come quello introdotto dalla disposizione in esame.

Al primo comma, si trova il nuovo fulcro della norma, rappresentato da una previsione più radicale, che sigla la “inapplicabilità di tutte le misure alternative alla detenzione di cui al capo VI del titolo I della legge 26 luglio 1975 n. 354 al condannato in espiazione di pena sostitutiva”. Si è ritenuto, infatti, che le misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario debbano restare funzionali alla sostituzione della sola pena detentiva, nell’ottica della gradualità del trattamento e della progressiva risocializzazione tipiche della funzione rieducativa della pena carceraria.

È parso, per altro, stridente con il sistema affidare al giudice di merito l’arduo compito di selezionare le forme più adeguate della rieducazione e della risocializzazione del condannato, attraverso un ventaglio di pene sostitutive applicate con i criteri stringenti di cui all’articolo 58, e poi consentire l’immediato accesso ad altre forme alternative, pensate all’origine per la pena detentiva.

Militano contro tale possibilità sia ragioni sistematiche, sia ragioni pratiche, legate alla esigenza di evitare la dispersione dell’attività degli organi preposti all’individuazione dei contenuti e delle forme della pena sostitutiva più adeguate al condannato.

In tale contesto, è stato tuttavia necessario fare salvo quanto previsto dall’articolo 47 comma 3 ter della legge 26 luglio 1975 n. 354, di nuova introduzione, che costituisce una eccezione alla inapplicabilità delle misure alternative, dettata dalla esigenza di “aprire” all’affidamento in prova, a determinate condizioni, anche le due pene sostitutive più afflittive, al fine di evitare le irragionevoli disparità di trattamento, di cui si tratterà nella relazione all’articolo 47 comma 3 ter l. n. 354/1975.

Il secondo comma replica la disposizione che nell’ordinamento previgente era centrale e ribadisce che “le misure di cui al comma che precede non si applicano altresì al condannato in espiazione di pena detentiva per conversione effettuata ai sensi dell’articolo precedente” o dell’art. 72, co. 4  (che contempla ulteriore ipotesi di revoca), ma non dopo avere espiato metà della pena residua. Ancora una volta, l’apertura parziale alle misure alternative anche della pena detentiva per conversione è dettata dall’esigenza di evitare sanzioni eccessivamente penalizzanti e distoniche rispetto alla disciplina che emerge dal nuovo articolo 47 comma 3 ter della legge 26 luglio 1975 n. 354.

È infine previsto espressamente che tale disciplina restrittiva e sanzionatoria non si applichi ai “minori di età al momento della condanna”, in modo conforme a quanto statuito dalla sentenza Corte cost. n. 109 del 22 aprile 1997, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma previgente, nella parte in cui si applicava appunto ai minori di età al momento della condanna.

La disposizione in esame ha natura procedurale e pertanto, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

In applicazione del criterio di cui all’art. 1, co. 1 e 3 della legge delega, che consente interventi di coordinamento con la collegata legislazione vigente, all’articolo 68 si interviene con alcuni adeguamenti, resi necessari dalla nuova fisionomia assunta dalle pene sostitutive, nonché con alcuni altri aggiornamenti (lettera r).

Già la norma originaria, di cui si è conservato l’impianto, prevedeva espressamente delle cause di sospensione dell’esecuzione della pena sostitutiva, attinenti alla condotta del condannato, precedente o successiva al provvedimento di sostituzione della pena detentiva breve, diverse dalle violazioni delle prescrizioni connesse alla pena stessa, ma soprattutto sfociate in provvedimenti restrittivi o limitativi della libertà personale. Da qui, il provvedimento di sospensione dell’esecuzione, ma non di revoca della pena sostitutiva.

Il primo comma, infatti, prevede che in caso di notifica di un ordine di carcerazione o di consegna, di arresto (anche nei casi non flagranti previsti dalla legge), di fermo del condannato o di applicazione, anche provvisoria, di una misura di sicurezza detentiva la pena sostitutiva venga sospesa, ma non revocata. In tal modo, si afferma il criterio della prevalenza della esecuzione carceraria sulla pena sostitutiva, mentre in caso di misura di sicurezza detentiva concorre anche il criterio della maggiore pericolosità sociale del soggetto.

In modo speculare e coerente con il medesimo criterio, il secondo comma dispone che l’esecuzione della semilibertà, della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità nei confronti dell’imputato che, per altra causa, si trovi detenuto o internato non sospende l’esecuzione di pene detentive o l’esecuzione, anche provvisoria, di misure di sicurezza detentive, né il corso della custodia cautelare.

Il terzo comma è sostanzialmente inalterato e concerne la determinazione della pena sostitutiva residua da espiare ed inserisce soltanto l’indicazione della competenza concorrente del giudice della cognizione, e non solo del magistrato di sorveglianza, per l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità a lui demandata.

Anche il quarto comma è inalterato nella sostanza e riguarda la disciplina della nuova decorrenza delle pene sostitutive, indicate in generale. L’ultimo inciso, relativo alla eventuale necessità di tempo e di viaggio per riprendere la sottoposizione alla pena sostitutiva presso il proprio domicilio dopo un periodo di detenzione altrove, tiene conto delle attuali condizioni di trasporto, che sono largamente più agevoli e celeri di quelle del 1981.

L’intervento in esame ha carattere procedurale e pertanto non comporta effetti negativi per la finanza pubblica, essendo teso a disciplinare aspetti peculiari legati la sospensione dell’esecuzione delle pene sostitutive.

L’originario articolo 69 della legge n. 689/1981, rubricato “sospensione disposta a favore del condannato”, disciplina oggi limitate cause di sospensione della semidetenzione e della libertà controllata, solo per motivi che siano, ad un tempo, di particolare rilievo e attinenti al lavoro, allo studio o alla famiglia del condannato (lettera s ). Gli ultimi due commi disciplinano altre cause di sospensione, richiamando solo i casi di cui all’articolo 147 n. 2) e 3) c.p., attinenti alle condizioni di grave infermità fisica del condannato ovvero la condizione di madre di prole inferiore a tre anni.

Ancora una volta, la nuova fisionomia delle pene sostitutive e l’impatto che esse determinano sia sul sistema normativo, sia sui diritti dei condannati, ha imposto una importante opera di adeguamento e di aggiornamento della disciplina della “sospensione in favore del condannato”, in applicazione del criterio di delega di cui all’art. 1, co. 1 e 3 l. n. 134/2021, che consente interventi di coordinamento con la collegata legislazione vigente; nonché del criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17 lett. f) l. cit., che consente di mutuare la disciplina sostanziale e processuale delle misure alternative della semilibertà e della detenzione domiciliare, previste dalla legge di ordinamento penitenziario, e del lavoro di pubblica utilità del Giudice di pace.

Si è quindi ritenuto di agire lungo le seguenti linee di intervento:

  1. a) utilizzare la denominazione di “licenza”, mutuata dalla misura alternativa della semilibertà, per le esigenze soggettive e di vita del condannato in espiazione delle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare;
  2. b) mantenere l’espressione “sospensione” per i casi di malattia o di altra condizione soggettiva della persona;
  3. c) ampliare il novero dei casi sia di licenza per ragioni personali e di vita, sia di sospensione per i casi previsti non solo dall’articolo 147 c.p., ma anche dall’articolo 146 c.p., che sarebbe irragionevole escludere;
  4. d) limitare a quarantacinque giorni all’anno, ovviamente frazionabili, la fruizione delle licenze della semilibertà e della detenzione domiciliare sostitutive, mutuando il tetto massimo delle licenze della semilibertà alternativa stabilito dall’articolo 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
  5. e) disciplinare in modo autonomo, ma coerente con le altre disposizioni, le cause di licenza e di sospensione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, in ragione delle peculiarità di quella pena.

Dall’applicazione di tali linee sono derivate le seguenti disposizioni, che si trattano schematicamente.

Il primo comma indica le cause di licenza del semilibero e del detenuto domiciliare individuate in “giustificati motivi, attinenti alla salute, al lavoro, allo studio, alla formazione, alla famiglia o alle relazioni affettive”; stabilisce il tetto massimo di quarantacinque giorni e rinvia opportunamente alla disciplina dell’articolo 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354 per regolare il tempo di non sottoposizione agli obblighi, salvo richiamare l’autonoma disciplina per l’eventuale mancato rientro dalla licenza, di cui all’articolo 66 primo comma.

Il secondo comma richiama per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo le stesse cause di sospensione delle altre pene, ma aggiunge le “cause riconducibili all’attività dei soggetti di cui all’articolo 56 bis”, vale a dire chiusure degli uffici, delle attività o dell’azienda del datore di lavoro per ferie o altri periodi di temporanea sospensione dell’attività; anche in questo caso, si richiama la specifica disciplina per l’eventuale mancato rientro dalla licenza, di cui all’articolo 66 secondo comma.

Il terzo comma disciplina la sospensione per infermità grave e per le altre cause soggettive di cui agli articoli 146 e 147 c.p., richiamandone la disciplina; inoltre, in analogia a quanto previsto dall’articolo 47 ter, co. 1 ter l. n. 354/1975 (c.d. detenzione domiciliare umanitaria), nel raro caso di residua pericolosità del condannato alla pena della semilibertà sostitutiva, è previsto che la misura più afflittiva, che comporta una permanenza in carcere, sia sostituita dalla detenzione domiciliare, alla quale ovviamente si potranno associare tutte le autorizzazioni e le facoltà strumentali alla cura della salute o alle esigenze della condannata madre; è pacifico che in questo ultimo caso, la detenzione domiciliare comporta espiazione della pena; si precisa che la competenza a provvedere è in capo al magistrato di sorveglianza in via esclusiva.

Infine, il quarto comma adegua la disposizione precedente alle diverse peculiarità del lavoro di pubblica utilità, che – essendo pena espiata con ampi margini di libertà – può essere legittimamente sospesa solo quando le condizioni soggettive del condannato “non sono compatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa”; in questo caso, la competenza è ovviamente del giudice di cognizione che ha applicato la pena sostitutiva.

La disposizione in esame ha natura ordinamentale, in quanto si propone di realizzare un puntuale adeguamento e aggiornamento della disciplina, in materia di licenze ai condannati alla semilibertà e alla detenzione domiciliare e di sospensione delle pene sostitutive disposta a favore del condannato, alla nuova fisionomia delle pene sostitutive.

Pertanto, dall’attuazione delle disposizioni esaminate non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, potendo le attività connesse essere garantite con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

La disposizione inserita all’articolo 70 integra e adegua alle nuove pene sostitutive la disciplina già esistente dell’esecuzione di pene concorrenti, di cui all’articolo 70 della legge 689/1981, il cui schema di fondo e la stessa denominazione della rubrica vengono mantenuti (lettera t). Rimane, infatti, inalterato il generale e fondamentale rinvio alle norme del concorso materiale di reati di cui agli articoli da 70 a 80 del codice penale, nonché alla disciplina omonima dell’esecuzione di pene concorrenti, di cui all’articolo 663 c.p.p. per le pene detentive.

L’intervento non incide sui principi consolidati sia dell’unitarietà della esecuzione delle pene concorrenti, di cui agli articoli 73 e 76 c.p., sia della applicazione distinta di pene di specie diversa, emergente dagli articoli 74 e 75 c.p., sia infine della decrescente afflittività nell’ordine cronologico dell’esecuzione delle pene, previsto proprio dalla norma in esame e riportato nel quarto comma della nuova disposizione.

Viene ribadito, e in parte rimodulato, anche il criterio del limite massimo di cumulabilità di pene sostitutive, fissato coerentemente con la definizione di “pena breve” fino a anni quattro, affinché il concorso di pene sostitutive non consenta al condannato di beneficare della sostituzione di una pena detentiva che, una volta cumulata, supera il tetto massimo della “pena breve”.

In applicazione di tali principi e criteri, la norma in esame è stata rimodellata come segue.

Il primo comma è stato modificato solo utilizzando il lessico delle nuove pene sostitutive, integrando con il decreto penale di condanna e aggiornando il rinvio al vigente articolo 663 c.p.p. e non più all’abrogato articolo 582 c.p.p., dello stesso tenore letterale.

Il secondo comma, invece, costituisce espressione dello stesso principio che fissa un limite per le pene sostitutive concorrenti e disciplina il cumulo, anche eterogeneo, di pene sostitutive, ma complessivamente inferiori ad anni quattro (il terzo comma – v. infra – disciplina il caso opposto). Quindi, in ossequio al criterio della applicazione distinta di pene di specie diversa, quando “il cumulo delle pene detentive sostituite non eccede complessivamente la durata di quattro anni, si applicano le singole pene sostitutive distintamente”. In proposito, si semplifica il meccanismo del previgente secondo comma dell’articolo 70, che applicava le sanzioni sostitutive “a scaglioni”, ammettendo tale applicazione distinta “anche oltre i limiti di cui all’articolo 53 per la pena pecuniaria e per il lavoro di pubblica utilità”. In altre parole, si è osservato che la specifica e complessa fisionomia di ciascuna pena sostitutiva, in caso di superamento dei limiti interni alla pena sostitutiva per effetto del cumulo, avrebbe potuto determinare un nuovo e straordinario intervento dell’ufficio di esecuzione penale esterna e una peculiare decisione del pubblico ministero, che avrebbe potuto mutare la natura di una pena sostitutiva, per esempio il lavoro di pubblica utilità, trasformandolo in una detenzione domiciliare, che ha presupposti di fatto e giuridici assai differenti.

Il terzo comma, come anticipato, disciplina il caso contrario, in cui per effetto del cumulo materiale di pene sostitutive venga superato il limite della “pena breve” pari ad anni quattro. Resta in vigore, pertanto, la precedente disposizione, per cui “si applica per intero la pena sostituita”. Anche in questo caso, si realizza un temperamento ispirato all’equità ed alla ragionevolezza, per cui viene fatto salvo il caso in cui “la pena residua da eseguire non sia superiore ad anni quattro” per effetto di detrazioni di pena presofferta a vario titolo.

Il quarto comma costituisce la piana applicazione del criterio della decrescente afflittività nell’ordine cronologico dell’esecuzione delle pene, sia esterno, per cui si applicano per prime le pene detentive; sia interno, per cui le pene sostitutive si applicano secondo l’ordine di maggiore sacrificio della libertà personale.

L’intervento in esame ha natura procedurale e non comporta profili di onerosità per la finanza pubblica, trattandosi di una rivisitazione della disciplina già esistente dell’esecuzione delle pene concorrenti (cumulo delle pene sostitutive), di cui si mantiene inalterata struttura di fondo con la particolarità di applicare le singole pene sostitutive distintamente quando il cumulo delle pene detentive non supera il limite della durata dei quattro anni.

La norma contenuta nell’articolo 71 prevede il regime di conversione delle pene pecuniarie sostitutive delle pene detentive successivamente all’accertamento dell’insolvenza o dell’insolvibilità del condannato, rivestendo un ruolo centrale nel riformato sistema, disponendo l’applicazione della disciplina più severa di cui all’art. 102, ovvero di quella più mite di cui all’art. 103 (lettera u). In questa prospettiva, rivestirà un ruolo centrale anche la corretta e motivata applicazione dei criteri di commisurazione della pena pecuniaria, di cui all’art. 133 bis c.p. da parte del giudice, che può ridurre i casi di conversione per insolvibilità, a beneficio dell’efficienza complessiva dell’esecuzione penale e, quindi, del processo. In linea generale, comunque, si afferma il principio di prevalenza del pagamento della pena pecuniaria, sia come misura alternativa alla pena detentiva sia come misura da prediligere rispetto alla conversione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, tuttavia in caso di insolvenza o insolvibilità come previste dai nuovi articoli 102 e 103. Quindi, in caso di insolvenza, quando cioè vi sia un comportamento colpevole del condannato che non risponde del pagamento totale o rateale pur avendo risorse economiche e patrimoniali a disposizione, la pena pecuniaria si convertirà nelle pene sostitutive della semilibertà o detenzione domiciliare sostitutiva. In caso di insolvibilità e, dunque, di comportamento incolpevole del condannato, sarà applicata la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Da segnalare, come già evidenziato per le considerazioni effettuate all’art. 660 c.p.p. cui si rinvia, che anche per quanto riguarda la conversione in esame (da pena pecuniaria a pena sostitutiva) il valore giornaliero individuato nel minimo e nel massimo, sono commisurati sulla base degli stessi parametri di cui all’art. 56 quater e, dunque, indipendenti dalla somma indicata dall’articolo 135 del Codice penale. La misura fissata dal giudice per l’applicazione della pena pecuniaria riguardo alla quota giornaliera da corrispondere è nuovamente riconvertita e moltiplicata per il numero dei giorni di applicazione della pena sostitutiva.

Occorre, da ultimo, evidenziare fra gli effetti positivi dell’applicazione di tali disposizioni quello della potenziale deflazione sul piano processuale e sul piano penitenziario, in termini di maggiore speditezza a livello procedurale e di minor spreco di risorse finanziarie in termini di minori costi sostenuti per il mantenimento del soggetto all’interno del circuito carcerario.

L’articolo 72 viene riformato in attuazione dell’art. 1, co. 17, lett. n) della l. n. 134/2021, che delega il Governo a mutuare dalla l. n. 354/1975 e dal d.lgs. n. 274/2000 la disciplina relativa alla responsabilità penale per la violazione degli obblighi relativi alle pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità (lettera v). Il legislatore delegato è pertanto chiamato, nella sostanza, ad estendere alle nuove pene sostitutive le norme incriminatrici previste nei citati testi normativi, rispettivamente, per la violazione delle prescrizioni relative alle misure alternative della semilibertà e della detenzione domiciliare e della pena principale del lavoro di pubblica utilità. Ciò per rafforzare, in chiave preventiva, l’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni connesse alle pene sostitutive. Le modifiche all’art. 72 sono inoltre volte a disciplinare alcune ipotesi di revoca, ulteriori rispetto a quelle dell’art. 66, correlate al compimento di reati da parte del condannato durante l’esecuzione delle pene sostitutive.

Il primo comma punisce con la reclusione da uno a tre anni, comminata dal primo comma del richiamato art. 385 c.p. (delitto di evasione), “il condannato alla pena sostitutiva della semilibertà o della detenzione domiciliare che per più di dodici ore, senza giustificato motivo, rimane assente dall’istituto di pena ovvero si allontana da uno dei luoghi indicati nell’articolo 56”. La norma incriminatrice viene mutuata, per la semilibertà sostitutiva, dall’art. 51, co. 3 l. n. 354/1975; per la detenzione domiciliare sostitutiva, dall’art. 47 ter, co. 8 l. n. 354/1975. Ciò in attuazione del già menzionato criterio di delega di cui all’art. 1, co. 17, lett. n) l. n. 134/2021 che, per un evidente refuso (per omissione), quanto alla detenzione domiciliare richiama l’art. 47 l. n. 354/1975 anziché l’art. 47 ter. Il mancato rientro in carcere del semilibero, o l’allontanamento dal luogo di esecuzione della pena del detenuto domiciliare, se ingiustificati e protratti per più di dodici ore, integrano una condotta penalmente rilevante di evasione. Ciò che vale per le misure alternative alla detenzione è ragionevole che valga anche per le pene sostitutive, e che sia sanzionato con la stessa pena, a parità di disvalore del fatto.

L’ultimo periodo del primo comma – mutuando la disciplina delle richiamate disposizioni della legge sull’ordinamento penitenziario – rende applicabile l’ultimo comma dell’art. 385 c.p., che configura una circostanza attenuante ad efficacia comune per il caso in cui l’evaso, dalla semilibertà e della detenzione domiciliare, si costituisca in carcere prima della condanna.

È giusto il caso di precisare, come già avviene in relazione alle corrispondenti misure alternative alla detenzione, che il mancato rientro nell’istituto di pena, o l’allontanamento dal domicilio, che si protraggano per meno di dodici ore, sono valutati quali violazioni di obblighi e prescrizioni connessi alle pene sostitutive, che ne possono comportare la revoca ai sensi dell’art. 66.

Il secondo comma, punisce con la reclusione fino a un anno, cioè con la pena comminata dal richiamato art. 56 d.lgs. n. 274/2000, “il condannato alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità che, senza giustificato motivo, non si reca nel luogo in cui deve svolgere il lavoro ovvero lo abbandona”. La norma incriminatrice viene mutuata dall’art. 56 d.lgs. n. 274/2000, in attuazione dell’art. 1, co. 17, lett. n) l. n. 134/2021.

Il terzo comma introduce un’ipotesi di revoca della pena sostitutiva – relativa a semilibertà, detenzione domiciliare e lavoro di pubblica utilità – conseguente alla condanna (da intendersi come definitiva) per uno dei delitti di cui al primo e al secondo comma. La disciplina va coordinata con quella generale, in tema di revoca, prevista dall’art. 66. Si fa peraltro salva l’ipotesi, rimessa alla valutazione del giudice, che il fatto sia di lieve entità.

Il quarto comma riformula la disciplina prevista dal vigente primo comma dell’art. 72 stabilendo che la condanna a pena detentiva per un delitto non colposo commesso durante l’esecuzione di una pena sostitutiva, diversa dalla pena pecuniaria, ne determina la revoca e la conversione per la parte residua nella pena detentiva sostituita, quando la condotta tenuta appare incompatibile con la prosecuzione della pena sostitutiva, tenuto conto dei criteri di cui all’articolo 58. L’ipotesi di revoca è correlata alla condanna, definitiva, per un delitto doloso (o preterintenzionale) commesso durante l’esecuzione della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva o del LPU sostitutivo. Non rilevano la condanna alla sola pena pecuniaria per qualsiasi reato, né la condanna a pena detentiva per delitti colposi o per contravvenzioni. Si è inteso limitare la revoca all’ipotesi di condanna per i reati più gravi – i delitti – e, in particolare, per quelli commessi con dolo durante l’esecuzione delle predette pene sostitutive, manifestando così un comportamento incompatibile con la prosecuzione della pena sostitutiva. Onde evitare rigidi automatismi, si è peraltro previsto, in linea con un orientamento rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale, che la revoca può essere disposta solo quando, secondo la valutazione del giudice, la condotta tenuta appare incompatibile con la prosecuzione della pena sostitutiva, tenuto conto dei criteri di cui all’art. 58. L’esclusione di automatismi e l’irrilevanza della condanna per delitti colposi e contravvenzioni è suggerita dall’attenzione che, come già segnalato, si deve porre per evitare che le pene sostitutive delle pene detentive brevi, attraverso meccanismi di revoca non limitati nella loro operatività, secondo una logica di extrema ratio, possano paradossalmente aumentare i tassi di incarcerazione e il sovraffollamento carcerario. In tale ottica si giustifica la scelta di riformare in senso restrittivo la disciplina del vigente art. 72, co. 1, che attribuisce rilievo, ai fini della revoca, alla condanna a pena detentiva per qualsiasi delitto commesso successivamente alla sostituzione della pena, nonché a condanne per reati commessi prima della sostituzione della pena detentiva, con rigidi automatismi connessi a situazioni di recidiva, distonici rispetto al rinnovato sistema delle pene sostitutive delle pene detentive brevi e agli obiettivi della l. n. 134/2021.

Il quinto comma riforma infine l’attuale secondo comma dell’art. 72 aggiornando la disciplina processuale che fa da pendant alla disposizione di cui al quarto comma: si stabilisce che la cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna di cui al quarto comma informa senza indugio il magistrato di sorveglianza competente per l’esecuzione della detenzione domiciliare sostitutiva o per la semilibertà sostitutiva, ovvero il giudice competente per l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo.

La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto tali disposizioni sono mutuate dalla disciplina relativa alla responsabilità penale per la violazione degli obblighi relativi alle pene sostitutive della semilibertà, detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità dettata dalla L. 354/1975 e dal D.lgs. n.274/2000.

Gli adempimenti connessi alle attività previste dalla presente norma potranno essere fronteggiati con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

L’intervento sostituisce integralmente il testo dell’originario articolo 75, che ha perso ragion d’essere a seguito dell’abolizione della libertà controllata (lettera z). Si ribadisce espressamente l’applicabilità delle pene sostitutive della legge 689 del 1981 agli imputati minorenni, secondo quanto già si ricava, oltre che dall’art. 75, dall’art. 30 d.P.R. n. 448/1988. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, nel 2021 i minorenni in carico ai servizi sociali minorili per l’esecuzione di sanzioni sostitutive di pene detentive sono stati 27: un numero non elevato – realizzandosi di norma il recupero sociale dei minori con strumenti diversi e di minore impatto sulla libertà personale, di più frequente applicazione – ma comunque significativo. D’altra parte, escludere l’applicabilità delle pene sostitutive per i minorenni – cioè l’opportunità, per il giudice, di valutare quelle pene quale più idonea risposta dell’ordinamento, nel caso concreto, alla domanda di reinserimento sociale e rieducazione del minore autore di reato – contrasterebbe con i principi di cui agli artt. 3, 27, co. 3 e 31 Cost. Di qui la scelta di ribadire l’applicabilità delle pene sostitutive ai minorenni. L’intervento è coordinato con quelli relativi alla legislazione in materia di giustizia penale minorile – art. 30 d.P.R. n. 448/1988 e artt. 11 e 24 d.lgs. n. 272/1989 – per i quali v. infra.

L’intervento in esame ha carattere ordinamentale, confermando l’assenza di onerosità a carico della finanza pubblica, prevedendo l’applicabilità delle pene sostitutive della legge 689/1981 in quanto compatibili anche agli imputati minorenni.

Si evidenzia, pertanto, che dall’attuazione delle disposizioni esaminate non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, potendo essere – anche in ambito minorile – garantite le attività collegate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente

L’intervento inserisce un nuovo articolo 75 bis per recepire quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 284 del 29 giugno 1995, che dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 53 della legge n. 689 del 1981 “nella parte in cui non prevede l’applicabilità delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi ai reati militari, secondo i principi di cui in motivazione” (lettera aa). La sostituzione dell’art. 53, ad opera del presente intervento riformatore, in uno con il sostanziale e ampio riassetto della disciplina in materia di pene sostitutive, può rendere dubbia la perdurante efficacia del dictum della Corte costituzionale. Di qui, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge delega, l’opportunità di tradurre in norma di legge il principio affermato dalla Corte costituzionale, nel contesto di una sentenza che – come sottolinea il dispositivo, richiamando la motivazione – si preoccupa di condizionare la compatibilità delle pene sostitutive applicate in concreto alla posizione soggettiva del condannato.

L’intervento in esame ha carattere ordinamentale, confermando l’assenza di onerosità a carico della finanza pubblica, prevedendo l’applicabilità delle pene sostitutive della legge 689/1981, in quanto compatibili anche ai reati militari.

Si evidenzia, pertanto, che dall’attuazione delle disposizioni esaminate non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, potendo essere – anche in ambito militare – garantite le attività collegate con il ricorso alle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente

La disposizione inserita all’articolo 76 rende applicabili alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, in quanto compatibili, alcune norme della legge sull’ordinamento penitenziario (l. n. 354/1975) (lettera bb). Uno dei cardini della legge delega in materia di riforma e rivitalizzazione delle pene sostitutive previste dalla l. n. 689/1981 è costituito, infatti, dall’anticipazione alla fase della cognizione di istituti tipici dell’ordinamento penitenziario, applicati comunemente dalla magistratura di sorveglianza come alternativa alla pena detentiva. In particolare, l’art. 1, co. 17 lett. f) l. n. 134/2021 delega il Governo a mutuare la disciplina sostanziale e processuale delle misure alternative della semilibertà e della detenzione domiciliare, previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario, e del lavoro di pubblica utilità irrogato quale pena principale dal giudice di pace, al fine di delineare le nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi. Ne consegue la necessità di allineare alcuni istituti tipici delle misure alternative dell’ordinamento penitenziario al sistema delle pene sostitutive, sia per integrare e dare coerenza alla disciplina delle pene sostitutive, sia per evitare possibili disparità di trattamento irragionevoli tra condannati in espiazione di pena sostitutiva e condannati in espiazione di pena detentiva attraverso misure alternative alla detenzione.

Si è pertanto ritenuto opportuno prevedere dei richiami espliciti ad alcune norme della l. n. 354/1975, pertinenti anche alle pene sostitutive.

In primo luogo, si prevede l’applicabilità alle pene sostitutive della liberazione anticipata di cui all’art. 54 l. n. 354/1975. Tale istituto, finalizzato a un più efficace reinserimento nella società, comporta una riduzione di 45 giorni di pena per ogni semestre per i condannati in espiazione di pena detentiva che abbiano dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. Si tratta di un istituto premiale che, ad un tempo, assicura l’effettività dell’esecuzione della pena e del trattamento rieducativo, avendo il condannato l’interesse ad anticipare il momento finale dell’esecuzione della pena aderendo al trattamento stesso. Tale disposizione, in particolare, estende la liberazione anticipata all’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova del suo concreto recupero sociale: “all’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena di cui all’articolo 54. Si applicano gli articoli 69, comma 8, e 69-bis nonché l’articolo 54, comma 3”. Secondo la giurisprudenza, la liberazione anticipata si applica anche alle sanzioni sostitutive della legge n. 689/1981. Ai sensi dell’art. 57, co. 1, per ogni effetto giuridico – e, pertanto, anche ai fini della liberazione anticipata – la semidetenzione e la libertà controllata   si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena. Analogo principio viene ribadito nel riformulato art. 57, co. 1 in rapporto alle nuove pene sostitutive, il che rende ragionevole confermare espressamente l’applicabilità della liberazione anticipata. Ciò viene fatto richiamando il citato art. 47, co. 12 bis ord. penit. Pur riferendosi tale disposizione all’affidamento in prova al servizio sociale, essa, presupponendo espressamente l’osservazione del condannato in esecuzione penale esterna, e non in carcere, rappresenta un modello di disciplina adattabile (oltre che alle altre misure alternative) alle pene sostitutive. Il richiamo a detta disposizione comprende anche le disposizioni da questa richiamate sulle forme del provvedimento e sul diritto di reclamo. A conferma dell’opportunità della scelta di ammettere espressamente la liberazione anticipata per le pene sostitutive delle pene detentive brevi va osservato, infine, come la scelta opposta avrebbe effetti negativi sulle potenzialità deflative delle pene stesse, anche in relazione ai riti alternativi e alla previsione della inappellabilità delle sentenze di condanna al LPU. Per il condannato a pena detentiva, infatti, risulterebbe soluzione più favorevole l’accesso a misure alternative alla detenzione, per le quali la liberazione anticipata è ammessa. Viceversa, la riduzione di pena per la liberazione anticipata può contribuire al successo applicativo delle pene sostitutive, anche in rapporto alla possibilità di anticipare il momento in cui, ai sensi del nuovo art. 47, co. 3 ter l. n. 354/1975, è possibile per il condannato chiedere l’affidamento in prova al servizio sociale.

Oltre a quelle in tema di liberazione anticipata, vengono rese applicabili ulteriori disposizioni dell’ordinamento penitenziario. Tra queste, l’art. 51 bis, che disciplina la sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà durante l’esecuzione di una misura alternativa alla detenzione. La norma affida al magistrato di sorveglianza la valutazione della sussistenza delle condizioni di permanenza dell’applicabilità della misura in esecuzione ovvero la loro mancanza con cessazione della misura. Si reputa opportuno affidare al magistrato ovvero al giudice preposti all’esecuzione delle pene sostitutive anche la valutazione degli effetti del sopravvenire di un nuovo titolo esecutivo di pena sostitutiva, applicando i criteri previsti dall’art. 70.

Ancora, si rende applicabile alle pene sostitutive l’art. 51 quater, inserito dal d.lgs. n. 123/2018, che prevede in linea generale l’esecuzione anche delle pene accessorie, in caso di applicazione di una misura alternativa, ma soprattutto fa salva la facoltà del giudice che ha applicato la misura di disporne la sospensione, tenuto conto delle esigenze di reinserimento sociale del condannato. In altre parole, il legislatore ha preso atto che alcune pene accessorie, soprattutto interdittive dell’esercizio di una professione o un’arte, o dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese, possano essere incompatibili in concreto con l’attività lavorativa del condannato, che anche nelle pene sostitutive costituisce lo strumento primario di reinserimento sociale. La possibilità di sospendere l’esecuzione delle pene accessorie rappresenta un incentivo alla sostituzione della pena detentiva e, pertanto, nella prospettiva della riforma, è funzionale agli effetti deflativi connessi alle pene sostitutive.

Viene infine reso applicabile l’art. 53 bis l. n. 354/1975, che considera il tempo trascorso dal condannato in licenza come tempo di espiazione della pena a tutti gli effetti, salvo gravi mancanze o comportamenti che dimostrano che il beneficio non è meritato. Il beneficio previsto dalla norma si presta ad essere applicato anche ai periodi di licenza relativi alle pene sostitutive.

La presente disposizione ha natura ordinamentale e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, richiamando la possibilità di applicare alle pene sostitutive previste nel presente Capo, in quanto compatibili, le disposizioni dell’ordinamento penitenziario e in particolare gli articoli 47, comma 12-bis, 51-bi, 51-quater e 53 bis della legge 26 luglio 1975, n.354. Agli adempimenti connessi alle attività declinate nel presente articolo potrà provvedersi mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Tali interventi andrebbero ben oltre i limiti della legge delega e non possono pertanto essere realizzati in questa sede, alla quale è deputato un primo ma fondamentale passo nel processo di rivitalizzazione della pena pecuniaria, nella direzione di un recupero di effettività: la riforma del procedimento di esecuzione e di conversione, in caso di mancato pagamento. Al fine di rendere chiarire le criticità e le problematiche del sistema di conversione delle pene pecuniarie si riportano i criteri della legge delega (art. 1, co. 16) che prevedono infatti di:

  1. a) razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie;
  2. b) rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato;
  3. c) prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione della pena pecuniaria e la sua conversione in caso di mancato pagamento. L’attuale sistema di esecuzione della pena pecuniaria concepisce la stessa come un credito che lo Stato – attraverso una agenzia a ciò incaricata – deve riscuotere attraverso l’iscrizione a ruolo e una complessa procedura amministrativa regolata dal testo unico sulle spese di giustizia (d.P.R. n. 115/2002). Multa e ammenda, nel nostro ordinamento, rappresentano crediti per lo Stato e corrispondenti debiti per il condannato, al pari delle più diverse spese di giustizia: dal contributo unificato per il processo civile, alle spese per le copie degli atti giudiziari e per i diritti di cancelleria, alle spese processuali e alle sanzioni processuali (ad es., per la inammissibilità dei ricorsi per cassazione). A ciascuna di queste e altre voci corrisponde un codice tributo che alimenta una complessa procedura di riscossione, che vede coinvolti più soggetti:

– la cancelleria del giudice dell’esecuzione, che dopo la definitività della sentenza, compila un’apposita scheda comprensiva delle varie voci di credito relative al fascicolo processuale;

– Equitalia Giustizia, società partecipata dal Ministero dell’economia e delle finanze, sottoposta al controllo del Ministero della giustizia, che, sulla base di un’apposita convenzione, acquisisce il fascicolo e la scheda trasmessa dall’A.G., procede alla quantificazione del credito e all’iscrizione a ruolo;

– Ader (Agenzia delle Entrate – Riscossione), che procede infine alla riscossione del credito.

Il risultato, testimoniato dai dati sopra riportati, è che la procedura, nonostante gli sforzi organizzativi e l’impegno dei soggetti istituzionali coinvolti, non produce risultati efficienti e che, paradossalmente, i costi che lo Stato sostiene per recuperare le spese di giustizia, comprese le pene pecuniarie, finiscono per rappresentare una sorta di condanna per lo Stato, costretto a inseguire i creditori – compresi gli autori di reato condannati alla multa o all’ammenda –, per lo più senza frutto. Lo Stato non sempre riesce a chiedere conto delle spese di giustizia e, quando vi riesce, non sempre riesce a riscuotere il relativo credito, in modo forzato o meno. L’attuale sistema di esecuzione/conversione distingue due situazioni: a) l’insolvenza e b) l’insolvibilità. Quando non riesce a riscuotere la pena pecuniaria, l’agente addetto alla riscossione trasmette gli atti al pubblico ministero il quale, a sua volta, attiva la procedura di conversione della pena pecuniaria in una pena limitativa della libertà personale, cui provvede il magistrato di sorveglianza (artt. 660 e 678, co. 1 bis c.p.p.). La conversione è tuttavia prevista dall’art. 102 l. n. 689/1981 per il solo caso di insolvibilità del condannato, cioè di impossibilità di pagare la pena pecuniaria. Se il condannato, invece, può pagare e non paga, la pena pecuniaria non si converte e lo Stato continua a cercare, per lo più invano, di riscuoterla.

E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei”. A fronte del fallimento dell’attuale e tradizionale sistema di esecuzione della pena pecuniaria, testimoniato impietosamente dalle statistiche, è ormai indifferibile una radicale riforma, che prendendo ispirazione da altri ordinamenti abbandoni l’impostazione civilistica della pena pecuniaria come credito da riscuotere, previa iscrizione a ruolo. Le pene pecuniarie si distinguono dalle spese di giustizia perché non costituiscono comuni crediti fiscali: sono vere e proprie pene, provviste di un carattere afflittivo che non viene meno per il fatto che da esse deriva un reddito per l’Erario.

Interventi necessari, pur minimali, potrebbero essere svolti solo sul piano amministrativo, scorporando le pene pecuniarie dalla massa indistinta dei crediti di giustizia e creando per esse un canale di riscossione privilegiato e più rapido (trattandosi di un credito già quantificato del giudice nella sentenza o nel decreto di condanna). Senonché, lo stato di inefficienza del sistema di esecuzione delle pene pecuniarie è tale da richiedere un intervento più radicale, in linea con la legge delega. Nella tradizione del nostro ordinamento, l’esecuzione della pena pecuniaria passa attraverso l’iscrizione a ruolo del credito e il pagamento, preceduto da intimazione del relativo precetto. In caso di mancato pagamento si distinguono due strade e corrispondenti situazioni: l’insolvenza e l’insolvibilità. Il mancato pagamento determina una condizione di insolvenza a fronte della quale lo Stato si attiva per eseguire coattivamente la pena pecuniaria, mediante esecuzione forzata sui beni del condannato. Se, però, il pagamento è impossibile, in ragione delle condizioni economiche del condannato, si determina una condizione di insolvibilità, che comporta la conversione della pena pecuniaria in una pena restrittiva della libertà personale, che rappresenta una modalità alternativa di espiazione della pena. L’impossibilità di limitare la libertà patrimoniale del condannato muta il bersaglio della pena, che si indirizza sulla libertà personale, secondo determinati criteri di ragguaglio tra pene eterogenee (cfr. l’art. 135 c.p.). Ciò finché perduva l’impossibilità di pagamento: il condannato, infatti, poteva sempre far cessare la pena sostituita pagando la multa e l’ammenda, dedotta la parte corrispondente alla detenzione sofferta.

Al modello qui abbozzato risponde il Codice penale del 1889 (c.d Codice Zanardelli: art. 19), che prevedeva per il solo caso di insolvibilità del condannato la conversione della multa in detenzione o, su richiesta, in lavoro di pubblica utilità. Nessuna conversione era prevista per il mero insolvente, sul presupposto che, essendo possibile la riscossione del credito, lo Stato si sarebbe dovuto attivare per realizzarla coattivamente.

Il Codice penale del 1930 (c.d. Codice Rocco: art. 136) ha replicato questo modello inasprendolo attraverso l’eliminazione della possibilità di sostituire la detenzione con il lavoro di pubblica utilità. La conversione della pena pecuniaria in pena detentiva continuava ad essere prevista per il solo insolvibile e non anche per l’insolvente.

Il legislatore approntò dunque una nuova disciplina, ancora una volta senza discostarsi dal classico modello che prevede la conversione solo in caso di insolvibilità del condannato. La legge n. 689 del 1981 introdusse nell’art. 102, quali pene da conversione, la libertà controllata e (a richiesta) il lavoro sostitutivo (già previsto dal Codice del 1889 e che fu pertanto ripristinato tra le pene da conversione). La possibilità di chiedere il lavoro sostitutivo, al posto della libertà controllata, era originariamente limitata a ipotesi in cui la pena pecuniaria da convertire fosse di basso importo (corrispondente ad attuali 516 euro: cfr. art. 102, co. 2 l. n. 689/1981). Tale limite fa rimosso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 206/1996, sicché, oggi, pene da conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato sono la libertà controllata o, a richiesta, il lavoro sostitutivo. Nella prassi, il lavoro non è quasi mai richiesto, essendo assai più conveniente, per il condannato, la pena della libertà controllata. Secondo dati del Ministero della Giustizia, Direzione Generale di Statistica e Analisi Organizzativa, alla fine del 2021 risultavano in esecuzione – e in carico alla magistratura di sorveglianza – 21.595 provvedimenti di libertà controllata per conversione di pena pecuniaria e solo 18 provvedimenti di lavoro sostitutivo. La pena da conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità è pertanto di fatto, oggi, la libertà controllata, le cui prescrizioni sono disciplinate dall’art. 55 l. n. 689/1991 e che ruota attorno all’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza.

Dai dati statistici risulta dunque che le pene pecuniarie raramente vengono eseguite, anche coattivamente, nei confronti di chi può pagarle e, che, non di frequente ma in modo comunque significativo, vengono convertite in mera libertà controllata nei confronti dei soli condannati insolvibili. La legge commina pecuniaria, a volte molto severe, che in gran parte dei casi non vengono pagate e, quando si convertono, comportano poco più di un quotidiano obbligo di firma, con annessi oneri a carico dello Stato per il controllo delle prescrizioni, da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, e per la gestione dei procedimenti, da parte della magistratura di sorveglianza. La ricerca di un possibile nuovo modello di esecuzione e conversione della pena pecuniaria, secondo i criteri della legge delega, può giovarsi della tradizione e dell’esperienza di altri ordinamenti europei, per tradizioni giuridiche e costituzionali vicini al nostro.

Un simile modello, di impronta evidentemente endo-penalistica, promette tassi di riscossione elevati e maggiore effettività della pena pecuniaria, quale credibile alternativa alla pena detentiva. Per tali ragioni si ritiene che possa essere adottato anche nel nostro ordinamento, con gli opportuni adattamenti suggeriti dai nostri principi costituzionali.

Prima di illustrare nel dettaglio la disciplina che si introduce, in attuazione della legge delega n. 134/2021, è bene premettere che una conversione di secondo livello, in pena detentiva, è prevista anche nel nostro ordinamento dall’art. 108 l. n. 689/1981 per il caso di inosservanza delle prescrizioni della libertà controllata o del lavoro sostitutivo da parte del condannato insolvibile (unico destinatario delle pene da conversione della pena pecuniaria non eseguita

Alla sintesi programmatica contenuta nei punti sopra illustrati, corrispondono le modifiche apportate alle disposizioni di legge e testi normativi, vale a dire: 1) del codice penale; 2) del codice di procedura penale; 3) delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale; 4) degli articoli della legge 24 novembre 1981, n. 689; 5) del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274; 6) della legge 26 luglio 1975, n. 354; 7) del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313; 8) del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 e 9) della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

La lettera dd) si riferisce alla modifica operata all’articolo 102, che disciplina l’ipotesi del mancato pagamento colpevole della pena pecuniaria principale – multa o ammenda. L’ipotesi del mancato pagamento incolpevole, per insolvibilità del condannato, è regolata dal successivo art. 103.

Ai sensi del primo comma, il mancato pagamento della multa o dell’ammenda, entro il termine di cui all’articolo 660 del codice di procedura penale (90 giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione del pubblico ministero; 30 giorni in caso di pagamento rateale), ne comporta la conversione nella semilibertà sostitutiva.

La conversione in caso di mancato pagamento colpevole – da parte di chi non paga la multa e l’ammenda, pur potendolo fare – è una novità introdotta dal presente decreto. La legge minaccia la conversione in una pena limitativa della libertà personale, più grave della pena pecuniaria, per assicurare l’effettività del pagamento della pena pecuniaria stessa. A differenza delle pene detentive, infatti, per essere eseguite le pene pecuniarie richiedono la collaborazione del condannato. Il fallimento del sistema di recupero crediti, che ha tradizionalmente seguito il nostro ordinamento, dimostra come sia opportuno e necessario indurre il condannato al pagamento, onde evitare conseguenze peggiori.

Le pene da conversione della pena pecuniaria ineseguita assolvono a una duplice funzione: sanzionano sia il mancato pagamento (se colpevole), sia il reato commesso, sostituendosi alla pena pecuniaria principale, rimasta ineseguita. Alla luce dei principi costituzionali, e nei limiti della legge delega, è pertanto necessario adeguare la disciplina della conversione tanto alla colpevolezza del condannato, riferita al mancato pagamento, quanto alla gravità del reato commesso.

Sotto il primo profilo, la scelta è di ribadire, anche per la conversione delle pene pecuniarie principali, come per quelle sostitutive (art. 71), la distinzione tra le ipotesi di mancato pagamento colpevole e incolpevole (per insolvibilità del condannato). Le due ipotesi sono disciplinate, rispettivamente, dagli articoli 102 e 103. La pena da conversione più grave – la semilibertà – è prevista in caso di mancato pagamento colpevole. La pena da conversione meno grave – il lavoro di pubblica utilità (e, in subordine, solo in caso di opposizione al lavoro, la detenzione domiciliare) – è prevista invece per l’ipotesi del mancato pagamento incolpevole (dovuto a insolvibilità, cioè alle condizioni economiche e patrimoniali del condannato).

Sotto il secondo profilo, vengono introdotti nel secondo comma limiti massimi di durata della semilibertà, diversamente calibrati a seconda della gravità del reato commesso, riferita alla natura delittuosa o contravvenzionale. Va a tal proposito premesso che – in difetto di diverse indicazioni da parte della legge delega – il ragguaglio tra la pena pecuniaria e la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva deve necessariamente essere effettuato a norma dell’articolo 135 del codice penale, che individua in modo rigido il valore di 250 euro (o frazione), equivalente, per quanto qui rileva, a un giorno di semilibertà. Ciò detto, si stabilisce che in ogni caso la semilibertà non può avere durata superiore a quattro anni, se la pena convertita è quella della multa, e a due anni, se la pena convertita è quella dell’ammenda. Le pene superiori a tali limiti, all’esito del ragguaglio, dovranno pertanto essere

ricondotte ai limiti stessi. L’introduzione di limiti massimi di durata della pena da conversione non è d’altra parte una novità, nel nostro ordinamento, essendo già previsti nel vigente art. 103 l. n. 689/1981 limiti massimi di durata della libertà controllata e del lavoro sostitutivo, diversi a seconda che la conversione riguardi la multa o l’ammenda. Ancor prima, nell’originario art. 136 c.p., si prevedevano limiti massimi alla conversione della multa e dell’ammenda nelle corrispondenti pene detentive della reclusione e dell’arresto. In particolare, il limite massimo di quattro anni riferito alla multa (in rapporto al quale viene individuato, in misura proporzionalmente ridotta, della metà, quello di due anni riferito all’ammenda) corrisponde al limite massimo della pena detentiva sostituibile con la semilibertà (cfr. art. 53) e rappresenta pertanto un limite ragionevole e coerente, a livello sistematico, con la disciplina delineata dalla legge delega (art. 1, co. 17, lett. e).

La necessità di introdurre limiti massimi di durata delle pene da conversione è imposta dall’esigenza di evitare l’applicazione di pene sproporzionate rispetto al reato commesso. Basti pensare che, senza la previsione di quei limiti, 5 milioni di multa, inflitti quale pena massima edittale per il delitto di manipolazione del mercato ex art. 185 d.lgs. n. 58/1998, si convertirebbero in oltre 54 anni di semilibertà, anziché in 4 anni. E va altresì considerato come pene di considerevole durata, ben maggiore ai suddetti limiti, potrebbero altrimenti conseguire alla conversione di pene pecuniarie proporzionali come, ad esempio, quelle previste dall’art. 291 bis d.P.R. n. 43/1973 per il contrabbando di tabacchi lavorati esteri (5 euro per ogni grammo convenzionale di prodotto) o dall’art. 22, co. 12 d.lgs. n. 286/1998 per l’occupazione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno (5.000 euro per ogni lavoratore impiegato).

Quanto alla durata della pena da conversione, va d’altra parte considerato che la stessa (v., infra, il quarto comma) resta sempre nella disponibilità del condannato che, pagando anche a rate la multa o l’ammenda – cioè la pena principale irrogata con la sentenza di condanna per il reato commesso, commisurata alla relativa gravità, nonché alle condizioni economiche e patrimoniali –, può far cessare in ogni momento l’esecuzione della semilibertà.

La previsione di limiti minimi risponde all’esigenza di evitare l’esecuzione della semilibertà per un ridottissimo numero di giorni (finanche uno solo), a detrimento delle finalità perseguite dalla pena da conversione. Basti pensare, ad esempio, che la pena massima edittale della multa per il furto semplice (art. 624 c.p.), pari a 516 euro, sarebbe convertibile ex art. 135 c.p. in soli 3 giorni di semilibertà. In assenza di indicazioni espresse nella legge delega, i limiti minimi di durata della semilibertà, quale pena da conversione, vengono individuati in quelli previsti, rispettivamente negli artt. 23 e 25 c.p., per la durata minima della reclusione e dell’arresto, comminate quali pene principali (e alle quali, ad ogni effetto giuridico, equivale la semilibertà: cfr. art. 57, co. 2). La pena pecuniaria massima per il furto semplice sarà così convertita in quindici giorni di semilibertà. Tale soluzione è coerente con il sistema, che individua limiti minimi di durata delle pene principali detentive, cui equivale la semilibertà, applicata qui in sostituzione di una pena pecuniaria principale rimasta deliberatamente non eseguita da parte del condannato. Tali limiti minimi di durata sono coessenziali al contenuto della pena e devono essere ribaditi, non solo per delineare un contenuto sanzionatorio minimo del mancato pagamento colpevole, ma anche per evitare l’applicazione e la gestione di una pena detentiva di brevissima durata, incapace di assolvere a finalità specialpreventive.

Il terzo comma stabilisce che se è stato disposto il pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale, la conversione ha luogo per la parte residua della pena pecuniaria non eseguita.

Il quarto comma, infine, stabilisce come si è detto che il condannato può sempre far cessare l’esecuzione della semilibertà pagando, anche a rate, la multa o l’ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della pena da conversione espiata. La previsione è modellata su quella già prevista originariamente dall’art. 102, co. 4 l. n. 689/1981 per l’ipotesi di conversione per insolvibilità del condannato. Riferita al diverso caso di conversione per insolvenza, la disposizione, in linea con le finalità della legge delega, mira qui a rafforzare il carattere cogente del pagamento e l’effettività della pena pecuniaria, come anche della sua riscossione. La conversione in pena limitativa della libertà personale è in ragione del mancato pagamento; se questo avviene, seppure ove necessario a rate, essa non ha più ragion d’essere. La previsione dell’ammissione al pagamento a rate, pur dopo la mancata esecuzione della pena pecuniaria, rappresenta la disponibilità massima dello Stato nei confronti del condannato, che potendo pagare la multa o l’ammenda, in ragione delle proprie condizioni economiche e patrimoniali, non solo deve farlo, ma ha anche convenienza a farlo.

In linea generale, si rappresenta che la disposizione afferma il principio di prevalenza del pagamento della pena pecuniaria, sia come misura alternativa alla pena detentiva sia come misura da prediligere rispetto alla conversione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi. In tali casi, però, il ragguaglio tra pena pecuniaria e pena detentiva è eseguito secondo i principi dettati dall’articolo 135 c.p., ma, ad ogni modo si assicura che la norma ha carattere precettivo e procedurale e non determina un aggravio di oneri per la finanza pubblica, anzi, per i motivi e le considerazioni svolte agli articoli 136 c.p., 660 c.p.p. e 71 della legge 689/81, dall’attuazione dell’articolo in esame potranno derivare effetti positivi per le casse dell’Erario.

Alla lettera ff) con l’articolo 103 si disciplina l’ipotesi del mancato pagamento incolpevole della pena pecuniaria entro il termine di novanta giorni (trenta in caso di pagamento rateale) di cui all’articolo 660 del codice di procedura penale. La condizione di insolvibilità, richiamata espressamente in rubrica, è definita nel primo comma facendo riferimento a condizioni economiche e patrimoniali del condannato, al momento dell’esecuzione, che rendono impossibile il pagamento della multa o dell’ammenda. Per quanto la commisurazione della pena pecuniaria, secondo i criteri dell’art. 133 bis c.p., debba tenere conto delle condizioni economiche e patrimoniali del condannato, è sempre possibile, come testimonia la prassi, che al momento dell’esecuzione – a distanza di mesi o anni – questi non abbia oggettivamente la possibilità di pagare la multa o l’ammenda, non disponendo di redditi o beni sufficienti. E’ una situazione purtroppo ricorrente in rapporto a talune forme di criminalità, che coinvolgono persone ai margini della società e che spesso vivono in condizioni di indigenza. In questo caso, la conversione della pena pecuniaria non sanziona il mancato pagamento – appunto perché incolpevole –, ma realizza una mera sostituzione della pena principale pecuniaria, comminata dal giudice di cognizione per il reato commesso, con altra pena che il condannato abbia la possibilità di eseguire. Ciò giustifica e rende ragionevole la complessiva minore severità della disciplina della conversione della pena pecuniaria per insolvibilità del condannato, rispetto alla corrispondente disciplina, prevista per il caso di mancato pagamento colpevole, da parte di chi è e rimane insolvente, pur potendo adempiere all’obbligo di pagare la pena pecuniaria.

La pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato è convertita nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo di cui all’art. 56 bis ovvero, se il condannato si oppone, nella detenzione domiciliare sostitutiva di cui all’art. 56. Abolita la libertà controllata, pena da conversione ordinaria diventa il lavoro di pubblica utilità che, già nella versione originaria della legge n. 689 del 1981 (art. 105) e, ancor prima, nel codice penale del 1889, è la tradizionale pena da conversione per insolvibilità del condannato. Chi non può pagare la multa o l’ammenda, infatti, può pagare il debito con la giustizia – ed espiare pertanto la pena – lavorando senza retribuzione a beneficio dello Stato, di enti pubblici e della collettività in genere. In linea con altre disposizioni che, nel nostro ordinamento, subordinano l’applicazione del LPU alla richiesta o alla non opposizione del condannato, si prevede tuttavia che, ove questi, per qualsiasi ragione, si opponga alla conversione della pena pecuniaria nel LPU, si applichi la detenzione domiciliare sostitutiva.

Il secondo comma stabilisce che il ragguaglio si esegue in ogni caso a norma dell’articolo 135 del codice penale. Si tratta della stessa soluzione che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 1/2012, trova applicazione prima della presente riforma per la conversione della pena pecuniaria nella libertà controllata; soluzione che, come sottolinea la dottrina, sarebbe ragionevole estendere anche alla conversione in lavoro sostitutivo, che a norma dell’art. 102, co. 3 viene effettuata calcolando 25 euro di pena pecuniaria per ogni giorno di lavoro sostitutivo (pari di norma a una giornata lavorativa alla settimana: cfr. art. 105, co. 2). La disparità tra i criteri di conversione della pena pecuniaria in libertà controllata e in lavoro sostitutivo è oggi evidente quanto irragionevole: dieci giorni di lavoro sostitutivo – pena maggiormente afflittiva – corrispondono a 250 euro e a un solo giorno di libertà controllata (pena molto meno afflittiva). Ciò spiega perché, secondo i dati del Ministero della Giustizia, Direzione Generale di Statistica e Analisi Organizzativa, alla fine del 2021 risultavano in esecuzione 21.595 provvedimenti di libertà controllata per conversione di pena pecuniaria e solo 18 provvedimenti di lavoro sostitutivo. Parificare il criterio di ragguaglio, ai fini della conversione, oltre ad essere coerente con la scelta effettuata nell’art. 102 per la conversione nella semilibertà, evita disparità di trattamento tra la conversione in LPU e la conversione in detenzione domiciliare e consente di rilanciare il LPU quale equa pena da conversione per insolvibilità del condannato, restituendo al tempo stesso alla pena da conversione un contenuto sanzionatorio più adeguato e una migliore idoneità specialpreventiva.

Viene ribadito per esigenze di precisione che, come già prevede l’art. 56 bis, co. 3, un giorno di lavoro di pubblica utilità sostitutivo consiste nella prestazione di due ore di lavoro. Una multa di 25.000 euro, ad esempio, in caso di insolvibilità del condannato sarà convertita in 100 giorni di LPU, pari a 200 ore di lavoro.

Riproponendo un modello di disciplina già previsto, prima della presente riforma, dall’art. 102 della l. n. 689/1981, vengono poi previsti limiti massima di durata delle pene da conversione. Per evitare pene sproporzionate (come già si è detto a proposito dell’art. 102), si stabilisce che in ogni caso il lavoro di pubblica utilità sostitutivo e la detenzione domiciliare sostitutiva non possono avere durata superiore a due anni, se la pena convertita è quella della multa, e ad un anno, se la pena convertita è quella dell’ammenda. Si tratta di limiti di durata massima ridotti della metà rispetto a quelli previsti dall’art. 102 per la semilibertà, in caso di conversione della pena pecuniaria a carico dell’insolvente. Ciò, come si è detto, si spiega in ragione del fatto che la conversione per insolvibilità non sanziona il mancato pagamento, essendo questo incolpevole. Rispetto ai limiti massimi di durata della libertà controllata e del lavoro sostitutivo, previsti dal sostituito testo dell’art. 102, si introducono limiti di durata maggiore. L’opportunità di elevare tali limiti discende non solo dal coordinamento con l’art. 102, ma anche dalla considerazione che essi sono stati aggiornati a seguito dell’aumento, notevole soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, dei criteri di ragguaglio di cui all’art. 102, co. 3 l. n. 689/1981 e all’art. 135 c.p.

Come nell’art. 102, e per le stesse ragioni considerate a proposito di quella disposizione, vengono altresì introdotti limiti minimi di durata del LPU e della detenzione domiciliare, pari a 5 giorni, se la conversione riguarda l’ammenda, e a 15 giorni, se la conversione riguarda la multa.

Il terzo comma, infine, richiama il terzo e il quarto comma dell’articolo 102: se è stato disposto il pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale, la conversione ha luogo per la parte residua della pena pecuniaria; il condannato può sempre far cessare l’esecuzione del LPU pagando la multa o l’ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della pena da conversione espiata. A tal fine può essere ammesso al pagamento rateale, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale.

In linea generale, si rappresenta che la disposizione afferma il principio di prevalenza del pagamento della pena pecuniaria, sia come misura alternativa alla pena detentiva sia come misura da prediligere rispetto alla conversione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi. In tali casi, però, il ragguaglio tra pena pecuniaria e pena detentiva è eseguito secondo i principi dettati dall’articolo 135 c.p., ma, ad ogni modo si assicura che la norma ha carattere precettivo e procedurale e non determina un aggravio di oneri per la finanza pubblica, anzi, per i motivi e le considerazioni svolte agli articoli 136 c.p., 660 c.p.p. e 71 e 102 della legge 689/81, dall’attuazione dell’articolo in esame potranno derivare effetti positivi per le casse dell’Erario.

La disposizione inserita all’articolo 103-bis esclude l’applicabilità delle misure alternative alla detenzione alle pene da conversione della pena pecuniaria non eseguita e, in particolare, alle misure detentive della semilibertà e della detenzione domiciliare (lettera gg). La ratio dell’esclusione è analoga a quella prevista dall’art. 67. Semilibertà e detenzione domiciliare sono pene dal contenuto analogo a quelle delle omonime misure alternative alla detenzione, mentre l’affidamento in prova al servizio sociale è misura dal contenuto meno afflittivo delle pene da conversione, la cui applicabilità ne minerebbe l’efficacia specialpreventiva. Il condannato a pena pecuniaria potrebbe infatti sottrarsi al pagamento confidando nella concessione dell’affidamento in prova, in luogo della semilibertà. A differenza di quanto previsto nell’art. 67, non si richiama l’art. 47, co. 3 ter l. n. 354/1975; non si fa cioè salva la possibilità di concedere l’affidamento in prova al servizio sociale dopo l’esecuzione di almeno metà della semilibertà o della detenzione domiciliare sostitutive. Quella previsione si giustifica infatti solo in un sistema, come quello delle pene sostitutive delle pene detentive, che prevede l’assenso all’applicazione della pena, di immediata esecuzione, che implica la rinuncia alla sospensione dell’ordine di esecuzione e alla possibilità di chiedere la meno grave misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. Del tutto diverso è il sistema delle pene da conversione della pena pecuniaria, che sono applicate a seguito della mancata esecuzione di una pena principale.

Peraltro, in caso di comminatoria di pene congiunte, l’art. 47, co. 12 l. n. 354/1975, nel testo modificato dal presente decreto, prevede che l’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, concesso in relazione alla pena detentiva, possa comportare, in caso di disagiate condizioni economiche, l’estinzione della pena pecuniaria non riscossa ovvero della pena sostitutiva nella quale sia stata convertita la pena pecuniaria non eseguita.

La disposizione, che è ispirata al criterio di rendere effettiva l’esecuzione della pena, è diretta ad escludere qualsiasi sorta di meccanismo premiale nei confronti di chiunque – per motivi di insolvenza o insolvibilità che abbiano portato alla conversione delle pene pecuniarie sostitutive in pene sostitutive delle pene detentive brevi (semilibertà e detenzione domiciliare sostitutive e lavoro di pubblica utilità sostitutivo) – non rispetti i programmi e le prescrizioni dettate con l’applicazione delle pene sostitutive, vietando l’accesso alle misure alternative alla detenzione, che hanno ben altra finalità. La norma, comunque, ha natura ordinamentale e precettiva e non determina effetti negativi per la finanza pubblica. Si ribadisce quanto detto riguardo all’articolo 103 cui si rinvia.

L’articolo 103-ter ha una funzione di chiusura della disciplina delle pene da conversione della pena pecuniaria, e di coordinamento con la disciplina delle pene sostitutive prevista dal Capo III della l. n. 689/1981 (lettera gg). Le pene da conversione, disciplinate dal Capo IV, sono le stesse pene sostitutive di cui al Capo III: semilibertà, detenzione domiciliare, LPU. Di qui la necessità di rendere applicabili, in quanto compatibili e non espressamente derogate, la disciplina del Capo III nonché delle ulteriori disposizioni di legge, ovunque previste, che si riferiscono alle corrispondenti pene sostitutive (ivi comprese quelle del codice di procedura penale). Si pensi, tra l’altro, alle disposizioni relative alle singole pene sostitutive (artt. 55, 56, 56 bis), alle prescrizioni ad esse comuni (art. 56 ter), agli effetti e ai criteri di ragguaglio (art. 57). Per quanto riguarda le disposizioni applicabili in materia di esecuzione v., infra, l’art. 107.

La disposizione ha carattere ordinamentale e disciplina e coordina il sistema di conversione delle pene pecuniarie e delle pene sostitutive e non rileva sotto il profilo finanziario.

La disposizione di cui all’articolo 102-quater disciplina l’applicazione delle pene da conversione nei confronti degli imputati minorenni (lettera gg). Essa è ispirata a un generale favor per i minori, in linea con i principi del sistema penale, che suggerisce opportune deroghe alla disciplina ordinaria, per mitigarne gli effetti.

Il primo comma stabilisce che la pena pecuniaria, anche sostitutiva, applicata per un reato commesso da persona minore di età, in caso di mancato pagamento si converte nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo, se vi è il consenso del minore non più soggetto ad obbligo di istruzione. Diversamente si converte nella detenzione domiciliare sostitutiva. A differenza di quanto avviene per gli adulti, non si distingue tra mancato pagamento colpevole e incolpevole, ai fini dell’individuazione della pena da conversione. Si ritiene infatti opportuno applicare in ogni caso pene da conversione che prevedano l’esecuzione nella comunità, e non in carcere, in quanto maggiormente idonee alle esigenze di formazione e rieducazione dei minori e con minore impatto sugli stessi.

Il secondo comma, in deroga alla disciplina degli artt. 102 e 103, stabilisce limiti di massima di durata delle pene da conversioni più ridotti, da un lato, e diversificati a seconda della natura colpevole o meno del mancato pagamento, dall’altra parte. Si recupera così, sotto il profilo della durata massima, la differenza di disciplina – e di rigore sanzionatorio – tra mancato pagamento colpevole e meno.

La durata della pena da conversione non può superare un anno, se la pena convertita è la multa, ovvero sei mesi, se la pena convertita è l’arresto. Tuttavia, in caso di insolvibilità del condannato la durata massima della pena da conversione non può superare sei mesi, se la pena convertita è la multa, ovvero tre mesi, se la pena convertita è l’arresto.

Il terzo comma stabilisce che si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 71, 102 e 103 (cioè la disciplina prevista per gli adulti in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria, anche sostitutiva), nonché l’articolo 103 ter (che rende applicabili, in quanto compatibili e non espressamente derogate, le disposizioni relative al LPU e alla detenzione domiciliare). Si applica altresì, in quanto compatibile con il processo penale a carico di minorenni, l’art. 660 c.p.p., relativo all’esecuzione della pena pecuniaria, anche sostitutiva. E’ invece espressamente esclusa l’applicabilità dell’art. 103 bis e il minore può essere affidato in prova al servizio sociale ai sensi del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante la disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni.

E’ il caso di sottolineare come sarebbe opportuno rimeditare a monte la ragion d’essere e il ruolo della pena pecuniaria nel diritto penale minorile, in considerazione della capacità economica e patrimoniale dei minori, normalmente ridotta, e della disciplina relativa alla capacità di agire. Ciò esula, tuttavia, dai limiti consentiti al presente intervento normativo.Si tratta di una disposizione che modula il sistema di applicabilità delle pene pecuniarie e delle pene sostitutive alle esigenze e garanzie apprestate ai minori. Per questo motivo, sono imposti dei limiti di durata alle pene convertite e da convertire sia principali che sostitutive, mentre è prevista la deroga al regime generale di cui all’art. 103 bis della legge 689/81 per l’applicabilità della misura alternativa dell’affidamento al servizio sociale anche se è in esecuzione la pena sostitutiva della detenzione domiciliare. Per il resto si ribadiscono le considerazioni effettuate agli articoli 136 c.p., 660 c.p.p. e 71 e 102 della legge 689/81, rappresentando che dall’attuazione dell’articolo in esame potranno derivare effetti positivi per le casse dell’Erario.

L’intervento sostituisce il testo dell’articolo 107, aggiornando le disposizioni relative all’esecuzione delle pene da conversione della pena pecuniaria (lettera hh). Competente per (l’applicazione e per) l’esecuzione delle pene stesse è il magistrato di sorveglianza (cfr. art. 678, co. 1 bis c.p.p). Per l’esecuzione della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva e del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, quali pene conseguenti alla conversione della multa o dell’ammenda, si applicano gli articoli 62 (esecuzione della semilibertà e della detenzione domiciliare sostitutive), 63 (esecuzione del lavoro di pubblica utilità sostitutivo), 64 (modifica delle modalità di esecuzione delle pene sostitutive), 65 (controllo sull’adempimento delle prescrizioni), 68 (sospensione dell’esecuzione delle pene sostitutive) e 69 (licenze ai condannati alla semilibertà e alla detenzione domiciliare. Sospensione delle pene sostitutive disposta a favore del condannato). Le medesime disposizioni sono richiamate dall’art. 660, co. 13 del codice di procedura penale. Stante la natura procedurale delle disposizioni, si segnala l’assenza di effetti negativi per la finanza pubblica, rappresentando, altresì, che agli adempimenti connessi alle attività sopraindicate si potrà provvedere mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, in analogia a quanto avviene in materia di misure alternative alla detenzione. Si ribadiscono, ad ogni modo, le considerazioni effettuate riguardo agli articoli che disciplinano le citate pene sostitutive cui si rinvia integralmente.

L’intervento aggiorna la disciplina prevista dall’articolo 108 per il caso di inosservanza delle prescrizioni relative alle pene da conversione della pena pecuniaria non eseguita (lettera ii).

Il primo comma stabilisce, in linea con quanto previsto dall’art. 66 in tema di inosservanza delle prescrizioni relative alle pene sostitutive delle pene detentive, che la mancata esecuzione delle pene conseguenti alla conversione della pena pecuniaria, anche sostitutiva di una pena detentiva, ovvero la violazione grave o reiterata degli obblighi e delle prescrizioni ad esse inerenti, ne comporta la revoca e la parte residua si converte in uguale periodo di reclusione o di arresto, a seconda della specie della pena pecuniaria originariamente inflitta. Si ribadisce pertanto la possibilità di una conversione di secondo livello della pena pecuniaria in pena detentiva, già prevista per il caso di inosservanza della libertà controllata e del lavoro sostitutivo dall’art. 108, prima del presente intervento. Senonché, in linea con quanto previsto nell’art. 66, si precisa che la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità possono essere convertiti in altra pena sostitutiva più grave: la detenzione domiciliare e la semilibertà, in caso di lavoro di pubblica utilità; la semilibertà, in caso di detenzione domiciliare. Per il criterio di scelta delle pene sostitutive da conversione (di secondo livello) troverà applicazione l’articolo 58. Competente alla conversione è magistrato di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’articolo 678, comma 1 bis del codice di procedura penale. Si applicano, in quanto compatibili, il secondo e il terzo comma dell’articolo 66 per quanto riguarda le comunicazioni dell’inosservanza delle prescrizioni al magistrato di sorveglianza e il procedimento per la revoca e la conversione della pena.

Il secondo comma richiama la disciplina del primo e del secondo comma dell’art. 72 per quanto riguarda le ipotesi di responsabilità penale conseguente alla violazione degli obblighi delle pene sostitutive.

Stante la natura procedurale delle disposizioni, si segnala l’assenza di effetti negativi per la finanza pubblica, rappresentando, altresì, che agli adempimenti connessi alle attività sopraindicate si potrà provvedere mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, in analogia a quanto avviene in materia di misure alternative alla detenzione. Si ribadiscono, ad ogni modo, le considerazioni effettuate riguardo agli articoli che disciplinano le citate pene sostitutive cui si rinvia integralmente.

 

ART. 72

 (Modifiche al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274)

 

La lettera a) interviene sul comma 4 dell’articolo 29 del d.lvo n. 274 del 2000, nell’ambito della disciplina dell’udienza di comparizione delle parti, con l’opportuna sostituzione del riferimento ai centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio con gli istituendi Centri per la giustizia riparativa presenti nel territorio.

Si tratta di una modifica ordinamentale tesa ad armonizzare le diverse normative alla luce degli interventi realizzati in materia di giustizia riparativa.

Con la lettera b) viene introdotto al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 l’articolo 42-bis al fine di assicurare il coordinamento tra il d.lgs. n. 274/2000 e la disciplina dell’esecuzione delle pene pecuniarie prevista dal codice di procedura penale. Si ritiene opportuno conservare la competenza del magistrato di sorveglianza anche in rapporto all’esecuzione delle pene pecuniarie irrogate dal giudice di pace, senza pertanto riproporre il modello di disciplina di cui all’abrogato art. 42 d.lgs. n. 274/2000, che affidava invece al giudice di pace l’accertamento dell’insolvibilità, la rateizzazione e la conversione delle pene stesse.

La norma ha carattere ordinamentale e procedurale e realizza un’armonizzazione del sistema delle pene pecuniarie previste da altre disposizioni legislative, dalla stessa, pertanto, non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La lettera c) inserisce una modifica del sistema generale di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie rende necessario un intervento di modifica della disciplina speciale prevista dall’articolo 55 d.lgs. n. 274/2000, per i reati di competenza del giudice di pace; intervento ancor più opportuno se si considera che tali reati sono normalmente puniti con la pena pecuniaria. Proprio il rilievo della mancanza di pene detentive, nell’arsenale sanzionatorio del giudice di pace, suggerisce di conservare la disciplina speciale introdotta con il d.lgs. n. 274/2000 per il caso della conversione conseguente a mancato pagamento della multa o dell’ammenda.

Gli interventi sul primo comma mutano, da un lato, la denominazione del lavoro sostitutivo in lavoro di pubblica utilità, per ragioni di uniformità della terminologia (v. art. 103 l. n. 689/1981 e art. 54 d.lgs. n. 274/2000) e, dall’altro lato, danno rilievo al termine per il pagamento di cui all’art. 660 c.p.p.

L’intervento sul secondo comma eleva da 12 a 250 euro il criterio di ragguaglio tra pena pecuniaria e lavoro di pubblica utilità. Si tratta di una modifica necessaria per evitare disparità di trattamento rispetto al criterio di ragguaglio previsto dall’art. 103 l. n. 689/1981 per i reati competenza del tribunale. La pena pecuniaria di uguale ammontare, irrogata per un reato di competenza del giudice di pace, sarebbe altrimenti convertita in un numero di giorni di lavoro di gran lunga superiore.1000 euro di multa, ad esempio, equivalgono a 4 giorni di LPU per i reati di competenza del tribunale (cfr. art. 103 l. n. 689/1981); se si confermasse il criterio di ragguaglio di 12 euro, per i reati di competenza del giudice di pace (meno gravi e attribuiti alla competenza del giudice onorario), 1.000 euro sarebbero convertiti in 8r giorni di LPU, dando luogo a una irragionevole disparità di trattamento. Analogo intervento è effettuato sul quinto comma, quanto al ragguaglio tra permanenza domiciliare e pena pecuniaria. In tal caso, l’esigenza è quella di parificare il criterio di ragguaglio con quello previsto dagli artt. 102 e 103 per la detenzione domiciliare, onde evitare irragionevoli disparità di trattamento.

L’intervento sul terzo comma si limita a cambiare la denominazione della pena da conversione da lavoro sostitutivo in lavoro di pubblica utilità e ad aggiornare il rinvio al comma 5, che cambia numerazione in comma 6.

L’intervento sul quarto comma aggiunge l’ipotesi del mancato pagamento per insolvenza a quella del mancato pagamento per insolvibilità, oggetto del primo comma. In tal caso, pena da conversione è la permanenza domiciliare, che continua altresì ad applicarsi se il condannato in condizioni di insolvibilità non richiede la conversione in lavoro di pubblica utilità.

Per l’intervento sul quinto comma, v. supra.

Il sesto comma, infine, ribadisce quanto in precedenza stabilito dal terzo comma, estendendo la previsione alla permanenza domiciliare (e, quindi, al condannato meramente insolvente).

In linea generale, si rappresenta che anche riguardo ai procedimenti davanti al giudice di pace, la disposizione afferma il principio di prevalenza del pagamento della pena pecuniaria, come misura da prediligere rispetto alla pene sostitutive delle pene detentive brevi. In tali casi, però, il ragguaglio tra le pene è eseguito secondo i principi dettati dall’articolo 135 c.p., con commisurazione e parametrazione degli importi e dei valori alle giornate di lavoro di pubblica utilità , di semilibertà e detenzione sostitutive. Ad ogni modo si assicura che la norma ha carattere precettivo e procedurale e non determina un aggravio di oneri per la finanza pubblica, anzi, per i motivi e le considerazioni svolte agli articoli 136 c.p., 660 c.p.p. e 71, 102 e 103 della legge 689/81, dall’attuazione dell’articolo in esame potranno derivare effetti positivi per le casse dell’Erario.

 

ART. 73

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448)

 

Gli interventi, da leggersi assieme a quello relativo all’art. 75 l. n. 689/1981, coordinano il processo penale a carico di minorenne con la riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, di cui agli artt. 53 s. l. n. 689/1981. L’aggiornamento della disciplina dell’articolo 30 del d.P.R. n. 448/1988 si impone in quanto l’art. 1, co. 17, lett. a) e b) della legge delega n. 134/2021 prevede l’abolizione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata e la modifica delle disposizioni di legge, “ovunque previste, che si riferiscono alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”.

L’attuale disciplina del processo penale a carico di minorenni prevede la possibilità di sostituire la pena detentiva applicata, entro il limite di due anni, con la semidetenzione e con la libertà controllata, sanzioni sostitutive che trovano la loro disciplina nella citata l. n. 689/1981 e che sono abolite dall’intervento di riforma, che estende da due a quattro anni il limite massimo di pena detentiva inflitta sostituibile con una delle nuove pene sostitutive (semilibertà sostitutiva, detenzione domiciliare sostitutiva, lavoro di pubblica utilità sostitutivo). Per coordinare le disciplina previste per gli adulti e per i minorenni, e per evitare irragionevoli disparità di trattamento a danno degli imputati minorenni, si interviene sull’art. 30 del d.P.R. n. 448/1988 estendendo anche nei loro confronti da due a quattro anni il limite di pena detentiva sostituibile e si prevede espressamente l’applicabilità nel processo penale minorile delle nuove pene sostitutive. La scelta è coerente con il generale favor dell’ordinamento nei confronti di alternative al carcere per i minori autori di reato ed è in linea con l’assetto dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, delineato dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, che contempla la detenzione domiciliare e la semilibertà tra le “misure penali di comunità”. La modifica normativa consente di anticipare nel giudizio di cognizione l’applicazione di analoghe misure penali di comunità a titolo di pene sostitutive di una pena detentiva breve, come per gli imputati maggiorenni. Essa consente inoltre di introdurre tra le pene sostitutive per i minorenni il lavoro di pubblica utilità, oggi applicabile dal tribunale dei minorenni come pena principale solo limitatamente ai reati di competenza del giudice di pace.

Viene espressamente stabilita la possibilità di sostituire la pena detentiva inflitta entro il limite di un anno con la pena pecuniaria.Va infatti precisato che, ferma l’applicabilità anche nel processo minorile, in quanto compatibili, delle disposizioni del Capo III della legge n. 689 del 1981, ora espressamente confermata dal nuovo terzo comma, l’articolo 30 aveva la funzione di introdurre una disciplina di favore per i minorenni, prevedendo limiti più elevati di pena detentiva sostituibile con la semidetenzione e con la libertà controllata: due anni, in luogo, rispettivamente, di sei mesi e di tre mesi, come originariamente e ancora nel 1988 previsto dall’art. 53 della legge n. 689/1981. In assenza di una delega legislativa in tal senso, il legislatore delegato non può stabilire più ampi limiti di pena detentiva sostituibile e l’art. 30 del d.P.R. n. 448/1988, come modificato, assolve alla funzione di disposizione di coordinamento tra il processo penale per i minorenni e il nuovo sistema delle pene sostitutive di cui alla legge n. 689 del 1981. Il coordinamento processuale è già assicurato dall’invariata previsione del secondo comma e dalla regola generale che rende applicabili, in quanto compatibili, al processo per i minorenni, le disposizioni del codice di procedura penale (art. 1 d.P.R. n. 448/1988). In deroga alla disciplina generale, si è ritenuto opportuno conservare la regola sull’esercizio del potere discrezionale del giudice, di cui all’ultima parte del primo comma, e prevedere come limite all’applicabilità del lavoro di pubblica utilità l’adempimento dell’obbligo di istruzione da parte del minore. Tale pena sostitutiva, infatti, in linea il divieto di lavoro minorile (cfr. art. 32 CDFUE) può essere applicata solo con il consenso del minore che non sia più soggetto all’obbligo di istruzione, cioè dopo il compimento dei sedici anni.

Nel terzo comma si richiama la disciplina del Capo III della legge n. 689 del 1981, in quanto compatibile, e si precisa che le funzioni attribuite in quella legge all’ufficio di esecuzione penale esterna sono esercitate, dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia. Viene espressamente ribadita, nei confronti dei minori, l’applicazione dell’art. 59 della legge n. 689 del 1981, che prevede alcune condizioni soggettive per l’applicazione delle pene sostitutive, con efficacia preclusiva. L’esclusione di tali preclusioni, quando di tratta di sostituire la pena detentiva applicata a un minore, è imposta da una interpretazione costituzionalmente orientata della legge delega.

Nel quarto comma si precisa che l’esecuzione delle pene sostitutive della pena detentiva, per un reato commesso dal minore, può proseguire dopo il compimento della maggiore età; in tal caso, in analogia a quanto disposto per le misure di comunità dall’art. 12, co. 5 del d.lgs. n. 121 del 2018, si prevede per l’esecuzione la competenza del magistrato di sorveglianza minorile fino al compimento dei venticinque anni di età. La disposizione va coordinata con l’art. 272 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 172, ai sensi del quale le sanzioni sostitutive – pene sostitutive, secondo la denominazione adottata dalla legge n. 689 del 1981 – si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell’esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di età, sempre che non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative ovvero quando le predette finalità non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto.

Le presenti disposizioni hanno natura procedurale e non presentano profili di onerosità per la finanza pubblica, essendo interventi di coordinamento legislativo in materia di processo penale a carico dei minorenni con la riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, tant’è che alcune sono di natura lessicale.

Al riguardo si segnala che le attività previste dalla presente disposizione sono gestite dai servizi minorili dell’amministrazione giudiziaria e pertanto, gli adempimenti connessi potranno fronteggiare con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

 

ART. 74

 (Modifiche al decreto legislativo28 luglio 1989, n. 272)

 

L’articolo 74  pone un coordinamento fra l’esecuzione delle pene sostitutive della pena detentiva, per un reato commesso dal minore, che può proseguire dopo il compimento della maggiore età ( in tal caso, in analogia a quanto disposto per le misure di comunità dall’art. 12, co. 5 del d.lgs. n. 121 del 2018, si prevede per l’esecuzione la competenza del magistrato di sorveglianza minorile fino al compimento dei venticinque anni di età) e la disposizione dell’art. 272 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 172, ai sensi del quale le sanzioni sostitutive – pene sostitutive, secondo la denominazione adottata dalla legge n. 689 del 1981 – si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell’esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di età, sempre che non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative ovvero quando le predette finalità non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto.

Le presenti disposizioni hanno natura procedurale e non presentano profili di onerosità per la finanza pubblica, essendo interventi di coordinamento legislativo in materia di processo penale a carico dei minorenni con la riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, tant’è che alcune sono di natura lessicale.

Al riguardo si segnala che le attività previste dalla presente disposizione sono gestite dai servizi minorili dell’amministrazione giudiziaria e pertanto, gli adempimenti connessi potranno fronteggiare con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

 

 

ART. 75

(Modifiche alla legge 28 aprile 2014, n. 67)

 

L’intervento  di modifca all’articolo 7 della legge 28 aprile 2014, n. 67 disposto con l’articolo 75, estende l’oggetto della relazione annuale alle Commissioni parlamentari del Ministro della Giustizia, oltre che all’attuazione della messa alla prova, alle pene sostitutive e allo stato generale dell’esecuzione penale esterna, valorizzata dalla riforma. La riforma si preoccupa così di monitorare l’applicazione delle alternative al processo e al carcere, anche in vista della loro capacità deflativa e del raggiungimento degli obiettivi del PNRR.

La presente disposizione ha natura ordinamentale e non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in quanto con essa s’intende monitorare da una parte il raggiungimento degli obiettivi di deflazione processuale e penitenziaria, dall’altra l’adeguatezza della struttura dell’Ufficio di esecuzione penale esterna atteso che è il soggetto istituzionale più coinvolto nella realizzazione della riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi.

 

ART. 76

 (Modifiche al codice penale militare di pace, approvato con Regio Decreto 20 febbraio 1941, n. 303)

 

L’articolo 76 apporta modificazioni alle disposizioni del codice penale militare di pace di cui al R.D. 20 febbraio 1941, n. 303.

Al riguardo si interviene per inserire la non applicazione dell’articolo 131-bis in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità dei fatti alle fattispecie delittuose disciplinate negli articoli 174 (in tema di rivolta nella sola ipotesi di delitto tentato)  e 215 in materia di peculato militare.

Infine,viene previsto l’inserimento di un nuovo articolo 261-quinquies che disciplina il malfunzionamento dei sistemi informatici degli uffici giudiziari militari in analogia a quanto già disciplinato per gli uffici giudiziari ordinari.

Gli interventi in esame hanno natura ordinamentale e procedurale e non presentano effetti negativi per la finanza pubblica.

 

 

 

ART. 77

(Modifiche alla Legge 9 dicembre 1941, n. 1383)

 

Con l’articolo 77 si inserisce all’articolo 3 della Legge 9 dicembre 1941 n. 1383 relativo ai reati commessi da militari, un ulteriore comma dopo il terzo, prevedendo che non si applicano le disposizioni disciplinate dall’articolo 131-bis in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità dei fatti.

La disposizione in esame ha natura ordinamentale e precettiva e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

ART. 78

(Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354)

 

Con l’articolo 78 vengono introdotte le necessarie disposizioni modificative della legge 26 luglio 1975, n. 354, per disciplinare la condizione dei soggetti che partecipino ai programmi di giustizia riparativa, a cominciare da quanto previsto nell’articolo 13 a cui nell’ambito delle norme sull’individualizzazione del trattamento viene inserita quella per la quale, nei confronti dei condannati e degli internati è favorito il ricorso a programmi di giustizia riparativa, anche in relazione ai conflitti sorti all’interno della comunità penitenziaria.

Si segnala l’introduzione dell’articolo 15-bis con cui si intende, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario inserire una norma dedicata alla giustizia riparativa attribuendo in tal modo, uno specifico

rilievo ai percorsi riparativi pur complementari al percorso penitenziario volto primariamente alla risocializzazione del condannato, tenendo conto anche dell’interesse delle vittime. I programmi di giustizia riparativa devono poter essere offerti a tutti i condannati e gli internati, debitamente informati della possibilità di accedervi in ogni momento, siano essi ristretti in carcere ovvero liberi in attesa di essere ammessi ad una delle misure alternative previste dall’articolo 656 comma 5 c.p.p., e sono avviati spontaneamente e liberamente, anche su impulso della magistratura di sorveglianza, la quale per i detenuti conserva il potere, ex articolo 69 comma 5 O.P. sull’approvazione del programma di trattamento che contenga esplicitamente l’indicazione dell’avvio, su richiesta o con il consenso dell’interessato, ad un programma di giustizia riparativa. Si rappresenta che il percorso riparativo potrà proseguire anche dopo la scarcerazione qualora i partecipanti vi consentano, consentendo così il compimento del progetto riparativo che ha un potenziale di efficacia trattamentale elevato in termini risocializzanti dal momento che da un lato, agisce sui fattori criminali e, dall’altro lato, tiene conto del bisogno di riconoscimento e di riparazione espresso dalle vittime. Per quanto riguarda la valutazione dell’esito riparativo raggiunto, si è previsto in analogia a quanto disciplinato dall’articolo 13-bis, dal tenore generale, che la partecipazione e l’esito favorevole ad un programma di giustizia riparativa sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, nonché della liberazione condizionale. Si prevede altresì che in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo, non si debba tenere conto.

In coerenza con quanto rappresentato si pone l’inserimento nel comma 12 dell’articolo 47 o.p., che disciplina l’affidamento in prova al servizio sociale del condannato, della previsione che consente la valutazione dello svolgimento di un programma di giustizia riparativa e l’esito riparativo, ai fini dell’estinzione della pena detentiva ed ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue.

La disposizione in esame è di natura ordinamentale e procedurale e non produce effetti negativi per la finanza pubblica, in quanto è tesa a recepire nel corpo delle norme dell’Ordinamento penitenziario le più rilevanti novità in tema di giustizia riparativa.

 

ART. 79

 (Relazione annuale al Parlamento sullo stato dell’esecuzione delle pene pecuniarie)

 

Analogamente a quanto è stato fatto in passato in relazione ad alcune rilevanti riforme del sistema sanzionatorio, come nel caso dell’introduzione della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (cfr. art. 7, co. 2 l. n. 67/2014, come modificato dal presente decreto in rapporto alla riforma delle pene sostitutive delle pene detentive brevi), con l’articolo 79 si introduce la previsione di una relazione annuale del Ministro della giustizia alle competenti Commissioni parlamentari in merito all’attuazione del presente decreto in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie. Nel contesto di un intervento che mira all’efficienza del processo penale, è opportuno prevedere un monitoraggio continuo dell’attuazione dell’impatto della riforma, onde valutarne gli effetti in sede amministrativa e legislativa.

A tal fine si prevede che al fine di un compiuto monitoraggio, in funzione del raggiungimento degli obiettivi di effettività ed efficienza perseguiti dal presente decreto, i dati statistici relativi alle sentenze e ai decreti di condanna a pena pecuniaria, anche sostitutiva, alla riscossione, alla rateizzazione, alla sospensione condizionale e alla conversione, per insolvenza o insolvibilità del condannato, alla estinzione per esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi dell’articolo 47 comma 12 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e alla prescrizione ai sensi degli articoli 172 e 173 del codice penale, sono pubblicati periodicamente sul sito del Ministero della Giustizia e sono trasmessi annualmente al Parlamento, unitamente alla relazione di cui sopra.

La disposizione ha carattere ordinamentale e non determina oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, considerato anche i nuovi compiti del Dipartimento per la transizione digitale, analisi statistica e politiche di coesione che assorbe la Direzione generale di statistica competente istituzionalmente a fornire i suddetti dati e ad effettuare il relativo monitoraggio.

 

 

 

ART. 80

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115)

 

Il primo intervento, alla lettera a)  dell’articolo 80, realizzato sul primo comma dell’articolo 1, del D.P.R. 115/2002, è teso ad escludere le pene pecuniarie dall’ambito di applicazione delle disposizioni del t.u. in materia di spese di giustizia. Esso è consequenziale alla scelta di abbandonare, per l’esecuzione della pena pecuniaria, il sistema dell’iscrizione a ruolo e del recupero crediti. La disposizione ha carattere ordinamentale e non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica.

Gli interventi successivi sull’articolo 200, comma 1, sull’articolo 211, comma 1 e sull’articolo 235, commi 1 e 2, proseguono – sulla stessa linea del comma 1 – nell’esclusione delle pene pecuniarie dall’ambito di applicazione della disciplina del t.u. in materia di spese di giustizia, relative al recupero delle spese nel processo penale, realizzando gli stessi obiettivi del primo intervento.

Le disposizioni hanno carattere ordinamentale e precettivo ed sono suscettibili di determinare effetti positivi per le casse dell’erario. Si rinvia a quanto rappresentato nelle disposizioni di cui agli articoli 136 c.p., 660 c.p.p. e 71, 102 e 103 della legge 689/81.

 

 

ART. 81

(Modifiche alla legge 24 dicembre 2007, n. 244)

 

L’intervento sull’articolo 81 è teso ad eliminare la previsione relativa alle pene pecuniarie previste dall’articolo 1,comma 367 della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

L’intervento è consequenziale alla scelta di abbandonare, per l’esecuzione della pena pecuniaria, il sistema dell’iscrizione a ruolo e del recupero crediti. La procedura per la conversione delle pene pecuniarie è ora regolata dall’art. 660 c.p.p.

Si interviene, in particolare, sulla disposizione di fonte primaria che autorizza il Ministero della giustizia a stipulare con una società (Equitalia Giustizia S.p.A., costituita in data 29 aprile 2008) convenzioni per la gestione del credito relativo, tra l’altro, alle pene pecuniarie. La relativa voce di credito viene ora espunta dalla disposizione. Sarà di conseguenza necessario aggiornare le convenzioni stipulate dal Ministero della giustizia ai sensi della disposizione qui novellata, che continuerà ad applicarsi, peraltro, in relazione all’attività di recupero dei crediti derivanti dalle pene pecuniarie applicate per reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto.

La disposizione ha carattere ordinamentale e precettivo che non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica.

 

 

ART. 82

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313)

 

L’intervento sull’art. 3 del testo unico in materia di casellario giudiziale inserito all’articolo 82, amplia il novero dei provvedimenti iscrivibili per esigenze di coordinamento con la riformata disciplina delle pene sostitutive e delle pene da conversione delle pene pecuniarie non eseguite.

Nella lettera g) ci si limita ad aggiungere una nuova ipotesi di conversione delle pene sostitutive, prevista dall’art. 72, co. 4 l. n. 689/1981.

Nella nuova lettera g-bis) si prevede l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti di conversione della pena pecuniaria non eseguita, sia essa sostitutiva (art. 71), ovvero principale (artt. 102 e 103 l. n. 689/1981), ovvero irrogata dal giudice di pace (art. 55 d.lgs. n. 274/2000). E’ inoltre prevista l’iscrizione del provvedimento di conversione c.d. di secondo grado (per inosservanza della pena da conversione: art. 108).

La disposizione ha carattere ordinamentale e procedurale e non rileva sotto il profilo finanziario.

 

 

ART. 83

 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448)

 

L’articolo 83 contiene la necessaria modifica all’articolo 28, comma 2 del DPR 448/1988, in tema di sospensione del processo e messa alla prova, al fine di adeguare la disciplina vigente, anche per i minorenni, alle linee direttrici in tema di partecipazione ai programmi di giustizia riparativa previste dal presente provvedimento.

La norma che ha carattere ordinamentale e precettivo consentirà, già nel primo semestre successivo all’entrata in vigore del provvedimento in esame, la realizzazione di programmi di giustizia riparativa.

 

 

ART. 84

(Modifiche al decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121)

 Con l’articolo 84 si interviene sul decreto legislativo n. 121 del 2018, sostituendo, all’interno del comma 2 dell’articolo 1, i percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato, con i programmi di giustizia riparativa, inserendo in tal modo l’opportuno richiamo nella previsione in esame, ai più ampi temi contenuti nella presente riforma di giustizia riparativa in materia penale.

In particolare, con l’inserimento dell’articolo 1-bis vengono dettate disposizioni relativamente all’accesso ai programmi di giustizia riparativa a favore dei minorenni condannati, tendendo sempre presente che il giudice valuterà la partecipazione al programma di giustizia riparativa e all’eventuale esito riparativo, precisando al riguardo che non si tiene conto della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo.

La disposizione ha natura ordinamentale e precettiva e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

 

 

ART. 85

(Disposizioni transitorie in materia di modifica del regime di procedibilità)

In attuazione della delega attribuita al Governo ai sensi dell’art. 1, comma 15, lett. a) e b), della legge n. 134 del 2021, con l’articolo 85 è stato ampliato il catalogo dei reati per cui si procede a querela di parte. Data la natura mista – processuale e sostanziale – della querela, in difetto di disposizioni transitorie, l’azione penale relativa ai reati originariamente perseguibili d’ufficio, commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo – e con esso “diventati” perseguibili a querela di parte – diventerebbe improcedibile per mancata proposizione della querela (in applicazione del principio di retroattività del trattamento penale di favore che trova una delle fonti normative di rango primario nell’art. 2, comma 2, c.p.). Tuttavia, l’improcedibilità dell’azione penale, in questo caso, sarebbe legata ad un factum principis, del tutto estraneo alla sfera di volontà della persona offesa che, conseguentemente, vedrebbe diminuire le proprie possibilità di tutela giudiziaria per fatto incolpevole.

Si tratta di un esito che rischia dunque di “trascurare” le ragioni della persona offesa, il cui ruolo deve essere invece adeguatamente valorizzato e tutelato (secondo svariate linee normative, anche di carattere sovranazionale, affermatesi negli ultimi anni e secondo diversi principi e criteri direttivi dettati dalla legge delega).

La necessità di scongiurare un risultato normativo che sacrifichi le ragioni della persona offesa dal reato per fatto “incolpevole” costituisce dunque una ragionevole (art. 3 Cost.) giustificazione per introdurre una deroga al principio di retroattività dei trattamenti penali di favore.

A fronte di una pluralità di possibili scelte in materia di disposizioni transitorie, si è prediletto un modello che appare capace di regolamentare in modo equilibrato i diritti delle persone offese da reato con gli auspicati effetti deflativi che si perseguono con la novella.

Si tratta di una disposizione transitoria che, del resto, ricalca lo schema adottato dagli interventi più significativi registratisi negli ultimi quarant’anni di esperienza normativa che sono stati già sopra ricordati: i predetti interventi normativi, infatti, hanno associato – all’ampliamento del catalogo di reati perseguibili a querela – l’introduzione di disposizioni transitorie modellate su uno schema (sostanzialmente sovrapponibile), per il quale: a) nei casi di reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge che amplia il catalogo dei reati perseguibili a querela e “diventati” perseguibili a querela per effetto di quest’ultima, nel caso non sia ancora incardinato un procedimento penale, il termine per proporre querela decorre dall’entrata in vigore della novella; b) nel caso sia già incardinato un procedimento penale (relativo ad un reato che, in origine, era perseguibile d’ufficio), la disposizione transitoria prevede che l’autorità giudiziaria informi la persona offesa della facoltà di esercitare il diritto di querela (con decorrenza del termine per la sua proposizione a partire dal giorno in cui la persona offesa è stata informata).

Nella prospettiva degli obiettivi di deflazione processuale e di incentivo di condotte riparatorie o risarcitorie, perseguito dalla legge delega, va d’altra parte considerato come l’immediata applicazione del mutato regime di procedibilità a querela, per reati procedibili d’ufficio, può comportare un significativo impatto sulla definizione dei procedimenti in forma alternativa (remissione della querela e applicazione dell’istituto di cui all’art. 162 ter c.p.). Sotto il profilo finanziario, si rappresenta che le disposizioni sono di carattere procedurale, integrando la necessità di effettuare le notifiche sul mutamento dell’avvio dell’iter processuale alle parti offese per consentire loro di produrre la querela o della facoltà di esercitarla nei modi e nei tempi fissati dalle norme esaminate. Tuttavia, poiché si tratta di adempimenti istituzionali, già ordinariamente effettuati, peraltro per via telematica dal personale addetto alle cancellerie, si assicura che gli oneri ad essi connessi potranno essere fronteggiati con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

 

ART. 86

(Disposizioni transitorie in materia di notificazioni al querelante)

 

La quasi totalità delle modificazioni relative alle disposizioni processuali non richiedono l’emanazione di disposizioni transitorie, valendo per esse il principio del tempus regit actum. Si impone tuttavia l’introduzione di una disposizione di carattere transitorio, quale quella prevista dall’articolo 86, relativamente alle modalità di notificazione degli atti in favore del querelante.

La disposizione transitoria prevede – per l’art. 153 bis, comma 6, c.p.p. che si propone di introdurre nello schema di decreto legislativo – una deroga al principio del tempus regit actum. La ratio (e la necessità) della disposizione transitoria è legata al fatto che la modalità di notificazione semplificata (con deposito dell’atto da notificare in cancelleria) costituisce la conseguenza di un mancato assolvimento dell’obbligo legale di dichiarare/eleggere domicilio. Tuttavia, non si può trascurare che tale obbligo legale non sussisteva prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo. Appare dunque logico che la modalità di notificazione “semplificata” – che è la conseguenza procedimentale di una mancata o inidonea dichiarazione di domicilio – possa determinarsi nei soli casi in cui l’obbligo legale di dichiarare o eleggere valido domicilio già esisteva.

La disposizione transitoria è limitata ai casi di mancata dichiarazione o elezione di domicilio o di assenza di difensore e prevede la notifica nelle forme ordinarie (ora codificate dall’art. 154 c.p.p.).

Nella formulazione qui proposta, la disposizione transitoria non si applica (e dunque è possibile la modalità di notificazione “semplificata” con deposito dell’atto in cancelleria) per i casi di elezione di domicilio insufficiente o inidonea (ciò in ragione del fatto che – dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo – il querelante può conformare il proprio comportamento alle previsioni di legge e in considerazione del fatto che l’elezione di domicilio insufficiente o inidonea è comunque frutto di un contegno riferibile e soggettivamente imputabile alla sfera di dominio del querelante). In analogia a quanto sopra detto riguardo alle norme transitorie in materia di modifica del regime di procedibilità, si rappresenta che anche queste disposizioni sono di carattere procedurale, integrando la necessità di effettuare le notifiche ai querelanti che non abbiano effettuato la dichiarazione o elezione di domicilio o in caso di insufficiente indicazione. Le notifiche sono effettuate, in tali ipotesi, nelle forme ordinarie previste dal vigente art. 157 c.p.p. tramite ufficiale giudiziario, secondo quanto previsto nel citato articolo. Si ribadisce, pertanto, che trattandosi di adempimenti istituzionali, già ordinariamente effettuati, gli oneri ad essi connessi potranno essere fronteggiati con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica.

ART. 87

(Disposizioni transitorie in materia di processo penale telematico)

In attuazione dei criteri di delega citati, con l’articolo 87 si è ritenuto di formulare una norma transitoria con la quale si prevede che:

– con decreto del Ministro della giustizia  da adottarsi entro il 31 dicembre 2023 ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definite le regole tecniche riguardanti i depositi, le comunicazioni e le notificazioni telematiche degli atti del procedimento penale, anche modificando, ove necessario, il regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44 e, in ogni caso, assicurando la conformità al principio di idoneità del mezzo e a quello della certezza del compimento dell’atto (comma 1).

– nel rispetto delle disposizioni del decreto delegato e del regolamento di cui al comma 1, ulteriori regole tecniche possano essere adottate con atto dirigenziale del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia (comma 2);

– con decreto del Ministro della giustizia da adottarsi entro il 31 dicembre 2023 ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, siano individuati gli uffici giudiziari e le tipologie di atti per cui possano essere adottate anche modalità non telematiche di deposito, comunicazione o notificazione, nonché i termini di transizione al nuovo regime di deposito, comunicazione e notificazione (comma 3).

Sono state poi indicate partitamente, nei successivi commi 4, 5 e 6, le disposizioni normative la cui operatività è necessariamente condizionata ai tempi ed ai contenuti dei regolamenti sopra indicati.

Infine, al comma 7 si prevede che le disposizioni del presente articolo si applicano anche in relazione agli atti del procedimento penale militare, ma i regolamenti di cui ai commi 1 e 3 sono adottati, entro il 31 dicembre 2023, con decreto del Ministro della difesa, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Consiglio della magistratura militare. Le ulteriori regole tecniche di cui al comma 2 possono essere adottate, d’intesa con il Consiglio della magistratura militare, con atto dirigenziale del responsabile della transizione al digitale del Ministero della difesa.

Nella concezione di un processo penale telematico finalizzato ad agevolare la gestione e il trasporto della conoscenza dalle fonti di produzione (atti e documenti) ai centri decisionali, nel rispetto delle regole classiche di formazione e valutazione delle prove, l’approccio più convincente non può che essere quello “service oriented”: “scambiare” lo sforzo degli users per il passaggio alla nuova soluzione organizzativa tecnologica proposta offrendo un “servizio” immediatamente percettibile come beneficio.

Ne consegue che, ad una – nuova – condotta doverosa richiesta a tutti gli attori del processo (ovvero creare e utilizzare atti e documenti informatici), si deve collegare un immediato servizio offerto dal sistema all’user che interagisce e collabora.

Occorre, quindi, individuare – nelle nuove modalità del processo telematico – quelle norme che introducono degli obblighi, o comunque delle modalità operative di fatto esclusive (ad esempio, deposito esclusivamente telematico): esse, infatti, presuppongono l’allestimento quelle misure organizzative (di struttura, hardware e software, di formazione, di fruibilità) tali da assicurare il pieno funzionamento del sistema; qualora la nuova forma di organizzazione sia solo facoltativa, non si generano momenti bloccanti nello svolgimento del procedimento penale (sarà sempre possibile optare per la forma classica – analogica – se la soluzione tecnologica digitale non è – per qualsiasi motivo.

In tal senso, occorre rinviare per i profili finanziari alle disposizioni in materia di processo penale telematico.

ART. 88

 (Disposizioni transitorie in materia di restituzione nel termine)

 

ART. 89

(Disposizioni transitorie in materia di assenza)

 Gli articoli 88 e 89 dettano disposizioni transitorie rispettivamente in materia di restituzione nel termine e in materia di assenza, al fine di garantire una maggiore tutela degli interessi delle parti.

La norma ha natura procedurale ed è tesa a creare un coordinamento tra le norme relative agli istituti penali e processuali.

 

 

ART. 90

(Disposizioni transitorie in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato)

 

L’articolo 90 prevede di incidere sulla stratificazione dell’arretrato pendente presso gli uffici giudiziari e sulla durata media dei procedimenti pendenti in primo e secondo grado. Nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, il Primo presidente presso la Corte di cassazione ha offerto dati che indicano come la gestione delle pendenze e la durata media dei procedimenti manifesti significative criticità tanto nella fase di primo grado, quanto in quella di secondo grado (durata media dei processi penali stimata – come dato nazionale – rispettivamente in 439 e in 956 giorni; v. tabelle a pagina 49 della citata relazione).

L’introduzione di una norma di diritto transitorio che renda possibile la sospensione del processo con messa alla prova anche ai reati ai quali il presente decreto legislativo ne estende l’applicabilità, ha – come effetto favorevole – la riduzione del numero dei giudizi di primo e secondo grado che debbono giungere ad una sentenza di merito e in proiezione, può determinare una riduzione del numero e della durata media dei processi in grado di appello (sia per effetto della definizione dei processi oggi pendenti in appello con l’istituto della messa alla prova, sia per effetto del minor numero di impugnazioni per i processi così definiti che oggi sono pendenti in primo grado).

La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in quanto è tesa a dettare una disciplina transitoria in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.

 

 

ART. 91

(Disposizioni transitorie in materia di rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo)

Con l’articolo 91 contiene l’indicazione del criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 13, lett. o) va nel senso di superare l’assetto binario – da un lato, revisione europea e, dall’altro, incidente di esecuzione – fissato dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, a favore di un unico rimedio di nuovo conio, che affidi sempre alla Corte di cassazione la valutazione del dictum europeo, con un vaglio preliminare sul vizio accertato dalla Corte di Strasburgo.

L’istituto deve dare esecuzione al triplice obbligo di neutralizzazione e rivalutazione della sentenza e di riapertura del procedimento derivante dalla sentenza europea di condanna alla restitutio in integrum, conservando però un ragionevole margine di apprezzamento a tutela del giudicato nazionale.

Per questo, trattandosi di rimedio diverso, richiede una disciplina autonoma e differente rispetto alla ordinaria revisione. Sulla scorta di tale considerazione, si è ritenuto di collocare la disciplina in un nuovo titolo III-bis, sotto la rubrica Rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, ponendo al comma 1  i casi in cui è possibile attivare il rimedio in questione e i soggetti legittimati, individuati esclusivamente nel ricorrente in sede europea, con conseguente esclusione dei terzi non impugnanti che avrebbero potuto vantare la medesima violazione. Ai commi 2 e 3  si disciplinano essenzialmente i profili procedurali della richiesta, mentre al comma 4 si disciplinano le modalità di trattazione della revisione europea, richiamando il giudizio camerale previsto dall’art. 611. E’ integralmente richiamata la disposizione dell’articolo 635, in tema di sospensione della pena o della misura di sicurezza.

Come disposto al comma 5, superato il vaglio di ammissibilità, l’oggetto della valutazione rimessa alla Cassazione riguarderà l’individuazione della “incidenza effettiva” che la violazione convenzionale ha prodotto sulla condanna, cui seguirà la scelta in ordine allo strumento più adatto per rimuovere gli effetti pregiudizievoli, ivi inclusa – se del caso – la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna. Solo qualora la Corte di cassazione non sia in grado di provvedere direttamente, trasmetterà gli atti al giudice dell’esecuzione oppure, secondo le evenienze, disporrà la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione, stabilendo se e in quale parte gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi conservino efficacia.

Nei commi 6 e 7 vengono disciplinate talune delle conseguenze della riapertura del processo. In particolare, quanto alla prescrizione, la pronuncia di riapertura del processo viene sostanzialmente assimilata all’annullamento agli effetti di cui all’articolo 161-bis del codice penale, essendosi previsto che la prescrizione riprenda a decorrere – a far tempo dalla pronuncia della Corte – quando la riapertura del processo venga disposta davanti al giudice di primo grado (comma 6). Ancor più evidente il meccanismo di assimilazione ai fini dell’improcedibilità. In tal caso, infatti, per l’ipotesi di riapertura del processo innanzi alla corte di appello, si è dettata una disposizione perfettamente corrispondente a quella prevista dall’art. 344-bis, comma 8, con la sola differenza che il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all’articolo 128 (comma 7).

Al comma 8 si attua la previsione del criterio di delega, laddove si fa riferimento alla necessità di regolamentare i rapporti del rimedio in esame con la rescissione del giudicato. Al riguardo, si è ritenuto maggiormente coerente con la ratio della delega stabilire che le disposizioni sin qui esaminate trovino applicazione anche quando la violazione accertata dalla Corte europea riguardi il diritto dell’imputato di partecipare al processo.

Ulteriore conseguenza della riapertura del processo è la “riassunzione” della qualità di imputato, che viene disciplinata con apposita modifica della disposizione di cui all’articolo 60 del codice.

Con le disposizioni transitorie, inserite nel presente articolo, si è provveduto a regolare i possibili profili di diritto intertemporale, stabilendosi in particolare:

– che nelle ipotesi in cui, in epoca anteriore all’entrata in vigore del presente decreto, sia divenuta definitiva la decisione con cui la Corte europea ha accertato la violazione, ovvero la Corte europea abbia disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato, il termine di 180 giorni per la proposizione del nuovo rimedio decorra dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto;

– che, per i reati commessi in data anteriore al 1° gennaio 2020 (ovvero prima della legge n. 3/2019, che ha introdotto il cd. blocco della prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di primo grado) la prescrizione riprenda il suo corso in ogni caso in cui la Corte di cassazione disponga la riapertura del processo, e non solo allorquando quest’ultima venga disposta innanzi al giudice di primo grado.

La disposizione ha natura ordinamentale e procedurale e non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in quanto è tesa a dettare una disciplina transitoria in materia di rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

ART. 92

(Disposizioni transitorie in materia di giustizia riparativa. Servizi esistenti)

 L’articolo 92, in particolare, si occupa dei servizi di giustizia riparativa penale esistenti, stabilendo che, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, ciascuna Conferenza locale proceda alla ricognizione delle realtà pubbliche oppure private che operino in virtù di convenzioni con il Ministero della giustizia ovvero di protocolli d’intesa con gli uffici giudiziari o altri soggetti pubblici. Al riguardo si precisa che, nella valutazione da compiere la Conferenza locale dovrà tenere conto del profilo dei mediatori e dell’esperienza maturata nell’ultimo quinquennio e della coerenza delle prestazioni erogate con le disposizioni dettate dagli articoli 42, 64 e 93.

Le norme che hanno carattere ordinamentale e precettivo consentiranno, già nel primo semestre successivo all’entrata in vigore del provvedimento in esame, la realizzazione di programmi di giustizia riparativa.

 

 

ART. 93

(Disposizioni transitorie in materia di giustizia riparativa. Inserimento nell’elenco dei mediatori)

Proprio ai mediatori e ai requisiti per l’inserimento, in via transitoria, nell’elenco la cui vigilanza è affidata al Ministero della Giustizia è riservato l’articolo 93. Nello specifico si prevede la possibilità di iscrizione nell’elenco dei mediatori esperti per tre categorie di soggetti: – 1)  mediatori dei servizi di giustizia riparativa già esistenti, a condizione che dimostrino di aver completato un percorso formativo alla giustizia riparativa e siano in possesso di un’esperienza almeno quinquennale, anche a titolo volontario e gratuito, acquisita nel decennio precedente alla data di entrata in vigore del decreto; – 2) soggetti formatisi grazie a corsi strutturati in termini uguali o superiori – per durata, materie, combinazione di attività teoriche, pratiche e tirocinio – alla formazione prevista dal decreto legislativo è dettata dall’opportunità di reperire mediatori nelle more della messa a sistema della giustizia riparativa in materia penale; – 3) funzionari del Ministero della giustizia in servizio presso i servizi minorili della giustizia o presso gli uffici di esecuzione penale esterna, a condizione che abbiano completato un percorso formativo alla giustizia riparativa in materia penale e siano in possesso di un’adeguata esperienza almeno quinquennale, acquisita in materia nel decennio precedente alla data di entrata in vigore del decreto.

Per consentire il raggiungimento degli obiettivi di avvio e sviluppo dei programmi di giustizia riparativa, valorizzando le esperienze presenti a livello territoriale e fornire l’attività di supporto agli uffici coinvolti con scambio di dati e notizie informative per uniformare le azioni di giustizia riparativa promosse dagli enti locali sul territorio, potranno essere realizzate interventi di natura formativa per rappresentare gli aspetti operativi della gestione del programma di giustizia riparativa nella quale saranno coinvolti tutti i soggetti che interverranno nella procedura di riparazione.

I commi 2 e 3 prevedono che l’inserimento nell’elenco dei mediatori di cui al comma 1 avviene, dietro presentazione della documentazione comprovante i requisiti, e, nel caso previsto alla lettera b) attraverso il superamento di una prova valutativa, le cui modalità di svolgimento e di valutazione saranno stabilite con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con  il Ministro dell’università e della ricerca.

Al riguardo, si rappresenta che gli oneri connessi alla partecipazione alla predetta prova sono posti a carico dei partecipanti, quale versamento di un contributo a titolo di sostenimento delle spese di organizzazione e svolgimento dell’esame, alla stregua di quanto accade per le prove abilitative e concorsuali e saranno regolamentati con il medesimo decreto di cui si detto sopra.

Le disposizioni contenute nel presente articolo hanno l’obiettivo di salvaguardare il patrimonio di esperienze e servizi qualificati esistenti in diversi luoghi del territorio nazionale, già operativi e conformi agli standard europei e internazionali, e di individuare le competenze e i requisiti necessari per lo svolgimento dei compiti assegnati ai mediatori esperti dalle disposizioni del decreto, individuando figure professionali già operanti e in grado di assicurare dei servizi di comprovata qualità. Le norme che hanno carattere ordinamentale e precettivo consentiranno, già nel primo semestre successivo all’entrata in vigore del provvedimento in esame, la realizzazione di programmi di giustizia riparativa.

 

 ART. 94

(Disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni)

L’articolo 94 detta disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni –  disciplinate dal sistema previsto nell’art. 510 c.p.p.,  – nel cui ambito si è pienamente prevista, in attuazione della delega, la necessità della registrazione audiovisiva (in aggiunta alla modalità ordinaria di documentazione) per tutti gli atti processuali destinati a raccogliere le dichiarazioni di persone che possono o devono riferire sui fatti (compresi periti e consulenti tecnici, protagonisti secondo la più recente giurisprudenza di prove dichiarative in senso proprio).

Stante la natura ordinamentale e precettiva, non si rinvengono profili di onerosità per la finanza pubblica.

 

ART. 95

(Disposizioni transitorie relative alla legge 24 novembre 1981, n. 689)

L’articolo 95 è dedicato al regime transitorio, che è opportuno introdurre a fronte di un intervento di portata ampia e sistematica come quello di riforma delle pene sostitutive. Le modifiche normative che riguardano il sistema sanzionatorio hanno pacificamente natura sostanziale e, pertanto, sono soggette al principio di irretroattività in malam partem e di retroattività in bonam partem. Le disposizioni che elevano il limite della pena detentiva sostituibile sono più favorevoli al reo e devono essere applicabili retroattivamente, salvo il limite del giudicato (art. 2, co. 4 c.p.).

Il primo comma prevede espressamente, a tal proposito, che le norme previste dal Capo III della legge n. 689/1981, se più favorevoli all’agente, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del presente decreto. Si prevede inoltre, quanto al giudizio di legittimità, che il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni, all’esito di un procedimento pendente innanzi la Corte di cassazione all’entrata in vigore del presente decreto, può presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive di cui al Capo III della legge n. 689/1981 al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’articolo 666 del codice di procedura penale, entro trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza. Nel giudizio di esecuzione si applicano in quanto compatibili le norme del Capo III della legge n. 689/1981 e del codice di procedura penale relative alle pene sostitutive. In caso di annullamento con rinvio provvede il giudice del rinvio.

L’applicabilità delle nuove pene sostitutive nei giudizi di impugnazione può apparire distonica; è tuttavia imposta dal rispetto del principio di retroattività della lex mitior – una diversa scelta si esporrebbe al rischio di una dichiarazione di illegittimità costituzionale – e, comunque, promette possibili effetti deflativi (ad es., nel contesto del c.d. patteggiamento in appello).

Il secondo comma, in attuazione dell’art. 1, co. 17, lett. a), si fa carico degli effetti conseguenti alla abolizione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata di cui agli articoli 53, 55 e 56 della l. n. 689/1981, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del presente decreto. In assenza di una disposizione transitoria, fermo il limite del giudicato (cfr. art. 2, co. 4 c.p.), l’abolizione delle predette sanzioni sostitutive comporterebbe la cessazione dell’esecuzione di quanti vi sono sottoposti nel momento dell’entrata in vigore della riforma. Tale esito sarebbe tuttavia irragionevole: tali pene sostitutive vengono abolite per introdurne di nuove, al loro posto. Non è venuto in alcun modo meno il disvalore penale del fatto per il quale è in esecuzione la pena (non vi è alcuna abolitio criminis), né la valutazione sulla meritevolezza e il bisogno di punire il fatto, con una pena sostitutiva della pena detentiva. La ragione dell’abolizione è da rinvenirsi solo nel rinnovamento della tipologia delle pene sostitutive. Si è perciò ritenuto di introdurre una deroga al principio di retroattività della lex mitior – abolitrice delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata – stabilendo che alle medesime sanzioni sostitutive, già disposte al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, continuano ad applicarsi le norme previgenti. Si è peraltro previsto che, tuttavia, i condannati alla semidetenzione possono chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nella pena sostitutiva della semilibertà, che presenta contenuti analoghi (e più favorevoli, quanto, ad es., al numero minimo da trascorrere in istituto). Si tratta di una deroga sorretta da ragionevoli motivi e, pertanto, ammessa al metro del principio costituzionale di retroattività della legge penale. Va comunque segnalato il limitato impatto della disposizione transitoria, considerato che il 15 maggio 2022 si trovavano in esecuzione della semidetenzione solo 5 persone, mentre solo 98 erano sottoposte alla libertà controllata.

Il terzo comma mira a consentire l’immediata applicazione della nuova pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, senza attendere l’adozione del decreto attuativo di cui all’art. 56 bis della legge n. 689/1981. Si prevede espressamente che sino all’entrata in vigore del decreto stesso si applicano i decreti del Ministro della giustizia 26 marzo 2001 e 8 giugno 2015 n. 88, in quanto compatibili. Il rinvio è ai decreti ministeriali che disciplinano, rispettivamente, le modalità di svolgimento del LPU pena principale irrogabile dal giudice di pace e del LPU quale contenuto obbligatorio della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato. Il rinvio è altresì funzionale a estendere alla nuova previsione del LPU sostitutivo la disciplina delle convenzioni in essere per l’esecuzione del LPU nelle altre due menzionate vesti.

L’intervento normativo in esame, stante la natura ordinamentale, non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in quanto è teso ad introdurre un regime transitorio a fronte di una modifica sistemica come quella rappresentata dalla riforma delle pene sostitutive.

 

ART. 96

 (Disposizioni transitorie in materia di estinzione delle contravvenzioni)

L’articolo 96 introduce la disciplina transitoria relativa alla causa estintiva delle contravvenzioni di cui all’art. 1, co. 23 della legge delega, che si caratterizza per una compenetrazione di aspetti di diritto processuale con aspetti di diritto sostanziale.

Il primo comma esclude che la disciplina delle nuove cause estintive previste in materia di igiene, produzione, tracciabilità e vendita di alimenti e bevande di cui alla legge 283/1962, trovino applicazione ai procedimenti che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, non si trovino più nella fase delle indagini preliminari, perché è già stata esercitata l’azione penale.

Per espressa previsione del legislatore (art. 1, co. 23 della legge delega), la causa estintiva è “destinata a operare nella fase delle indagini preliminari” ed è in considerazione di ciò concepita e strutturata per operare solo in quella fase, nella quale deve dispiegare i propri effetti deflativi, ai quali è connesso il trattamento di favore accordato dall’ordinamento e che si conclude con la richiesta di archiviazione del pubblico ministero e la successiva declaratoria di estinzione del reato, da parte del giudice per le indagini preliminari. La deroga al principio di retroattività della lex mitior, che indubbiamente riguarda le cause di estinzione del reato, è pertanto ragionevole e compatibile con l’art. 3 Cost., essendo la causa estintiva costruita, appunto, per operare solo nella fase delle indagini preliminari. Se ne ha conferma dalla sentenza della Corte costituzionale n. 238/2020, che, proprio in ragione di analoghe considerazioni, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 318-octies d.lgs. n. 152/2006, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione”. D’altra parte, come sempre si legge nella citata sentenza della Corte costituzionale, la mancata applicazione retroattiva della nuova disciplina in tema di estinzione delle contravvenzioni “ai procedimenti in relazione ai quali sia già stata esercitata l’azione penale alla data di entrata in vigore della disposizione stessa è pienamente ragionevole, non potendosi ipotizzare – senza smentire le ragioni di speditezza processuale alle quali anche è ispirata la norma – una regressione del processo alla fase delle indagini preliminari al solo fine di attivare il meccanismo premiale suddetto con l’indicazione, ora per allora, di prescrizioni ad opera dell’organo di vigilanza o della polizia giudiziaria. Del resto, il contravventore che comunque abbia eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato può avere comunque accesso all’oblazione prevista dall’art. 162-bis c.p.”.

Nei procedimenti che, all’entrata in vigore del presente decreto, si trovano nella fase delle indagini preliminari, senza che sia stata ancora esercitata l’azione penale, potrà pertanto trovare applicazione la nuova disciplina introdotta con il decreto stesso e il pubblico ministero potrà investire l’organo accertatore/di vigilanza per le determinazioni inerenti alla prescrizione, attivando così la procedura in vista dell’estinzione del reato.

Il secondo comma detta poi una disciplina transitoria in materia di lavoro di pubblica utilità, funzionale all’immediata applicazione della nuova disciplina. Si prevede che, nelle more dell’adozione del decreto di cui agli articoli 12-quinquies, comma 4 della legge 30 aprile 1962 n. 283 si applicano, in quanto compatibili, i decreti del Ministro della giustizia 26 marzo 2001 e 8 giugno 2015 n. 88 adottati, rispettivamente, per il lavoro di pubblica utilità quale pena principale irrogabile dal giudice di pace e quale contenuto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato. Il richiamo di tali decreti ministeriali è rilevante anche ai fini dell’individuazione degli enti convenzionati presso i quali l’attività lavorativa può essere prestata.

L’intervento normativo in esame non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, in quanto ha natura ordinamentale, essendo diretto a dettare la disciplina transitoria relativamente alla causa estintiva delle contravvenzioni in attuazione ai principi e criteri della delega indicati all’articolo 1, comma 23, delineandone i confini della operatività della disciplina nella sola fase delle indagini preliminari e individuando, per quanto riguarda le modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità, i decreti ministeriali attualmente vigenti, al fine di evitare un vulnus normativo.

 

 

ART. 97

(Disposizioni transitorie in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie)

L’articolo 97 detta la disciplina transitoria in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie e non presenta profili di onerosità per la finanza pubblica, atteso il carattere precettivo della norma, tesa a perseguire i principi del diritto e successione delle leggi nel tempo secondo il brocardo “tempus regit actum”.

 

ART. 98

(Abrogazioni)

L’articolo 98 detta la necessaria disicplina delle abrogazioni, volta ad evitare duplicazioni di norme o dubbi interpretativi nell’attuazione della norme in materia penale ed ha natura ordinamentale e precettiva  e non comporta oneri per la finanza pubblica.

 

 ART. 99

(Disposizioni finanziarie)

L’articolo 99 detta le disposizioni finanziarie relative al presento decreto legislativo, prevedendo che l’attuazione delle stesse da parte delle amministrazioni interessate avvenga nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, salvo quanto previsto all’articolo 67 in materia di giustizia riparativa.