1. È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica.
2. Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.
3. Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.
4. La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato.
Ritenuto in fatto
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, in data 18 gennaio 2013, richiese il sequestro preventivo di un immobile abitativo avente un valore di Euro 486.000 di proprietà di G.L. , persona sottoposta ad indagini per il reato previsto dall’art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in quanto, nella qualità di legale rappresentante della Trento Pack s.r.l., aveva omesso di versare per i periodi di imposta 2009 e 2010 l’imposta sul valore aggiunto per complessivi Euro 455.827,27. Il debito di imposta, al netto delle rate versate, in conseguenza di un accordo con l’Agenzia delle entrate per il rientro dei debiti tributari, ammontava ad Euro 332.228,52.
2. Con ordinanza del 22 gennaio 2013 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trento rigettò la richiesta del P.M. assumendo che non era stata evidenziata alcuna ragione di periculum.
3. Avverso tale provvedimento il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento interpose appello deducendo la sussistenza del fumus commissi delicti (in ragione degli omessi versamenti di imposta nei termini) e del periculum (implicito nella confiscabilità di beni per equivalente, posto che nei casi di cui all’art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si applica l’art. 322-ter cod. pen. in forza del rinvio operato dall’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244).
4. Nel corso del procedimento cautelare d’appello l’indagato (il quale, sentito dalla polizia giudiziaria, aveva ammesso il fatto contestato sostenendo che: la società si era trovata in gravi difficoltà economiche dal luglio del 2008 a causa della perdita di un cliente importante; ciò aveva prodotto una mancanza di liquidità; aveva usato le risorse per pagare i fornitori e i dipendenti, piuttosto che adempiere le obbligazioni verso l’erario), assumeva: a) di non aver personalmente conseguito alcun profitto del reato, confluito alla società; b) che, perciò, nessuna confisca avrebbe potuto essere disposta nei suoi confronti; c) che il pagamento rateale concordato tra la società e l’Agenzia delle Entrate aveva fatto venir meno le ragioni del sequestro; d) che il patrimonio della società, soggetto beneficiario del profitto del reato, poteva, per la sua consistenza, essere sottoposto a sequestro; e) che mancava l’elemento soggettivo del reato in considerazione delle cause che avevano portato al mancato versamento della imposta e all’accordo successivo con l’erario.
5. Il Tribunale di Trento, con ordinanza del 12 febbraio 2013, accoglieva l’appello proposto dal Pubblico Ministero e disponeva il sequestro preventivo per equivalente dell’immobile di proprietà di G. fino a concorrenza della somma di Euro 332.228,52.
Il Tribunale riteneva che:
a) il piano di rientro del debito concordato dalla società con l’Agenzia delle Entrate non comportava né l’estinzione del reato, né l’impossibilità del sequestro, atteso che fino a quando il versamento non fosse stato completo il destinatario del provvedimento di sequestro avrebbe continuato ad avere la disponibilità ancorché parziale del profitto del reato, potendosi al più procedere ad una riduzione dell’oggetto del sequestro in conseguenza dei versamenti effettuati;
b) quanto alle questioni relative alla “coobbligata società, sotto il profilo della dedotta capienza del patrimonio sociale, degli utili dell’ultimo esercizio, della eventuale scelta di non sottoporre a pignoramento i beni sociali”, “il sequestro per equivalente funzionale alla confisca, avendo natura provvisoria, può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, anche se poi il provvedimento definitivo di confisca, rivestendo invece natura sanzionatoria, non può essere duplicato o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso profitto”;
c) nessun rilievo aveva il fatto che l’immobile sequestrato fosse stato acquistato da G.L. nel 1987, cioè prima della commissione dei reati contestati, poiché il sequestro era finalizzato alla confisca per equivalente;
d) il profitto derivante dai reati contestati doveva essere identificato “con l’importo dell’iva evasa” e che, non risultando “agli atti beni confiscabili in capo al prevenuto che costituiscano il profitto della condotta”, si poteva procedere al sequestro per equivalente degli altri beni nella disponibilità dell’indagato;
e) infondato doveva considerarsi l’assunto difensivo basato sulla prospettata assenza di dolo, atteso che questo non poteva “dirsi escluso in presenza di ulteriori finalità dell’azione o di ulteriori profitti”, costituiti dalla prospettata esigenza di far fronte alle necessità della impresa;
f) il periculum coincideva con la confiscabilità del bene per equivalente.
6. Ha presentato ricorso per cassazione la persona sottoposta ad indagini personalmente deducendo quattro motivi.
6.1. Con il primo motivo l’indagato sostiene che il Pubblico Ministero, nella sua originaria domanda indirizzata al Giudice per le indagini preliminari, si era limitato a chiedere il sequestro preventivo e che, invece, solo con l’atto di appello aveva fatto riferimento al sequestro per equivalente “con ciò modificando di fatto l’originaria domanda in corso di procedura e privando così la difesa di un grado di giudizio”.
Si osserva che il mutamento della domanda non poteva considerarsi irrilevante nella specie, atteso che, ove si fosse proceduto in appello facendo riferimento al sequestro preventivo funzionale alla confisca diretta del profitto del reato, come il Pubblico Ministero aveva inteso fare nella domanda originaria, il Tribunale non avrebbe potuto poi sequestrare l’abitazione da lui acquistata nel 1987, cioè un bene del tutto privo di pertinenzialità con il reato.
Secondo il ricorrente, il Pubblico Ministero non avrebbe potuto mutare la originaria richiesta di sequestro preventivo, a rigetto ottenuto, veicolando altra e diversa richiesta di sequestro per equivalente a mezzo di appello contro l’ordinanza di rigetto. Sulla base di tali presupposti ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata per l’inammissibilità (o l’invalidità) della richiesta formulata con l’appello, non formulata in precedenza.
6.2. Il secondo motivo di ricorso è proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen..
Sotto un primo profilo, il ricorrente deduce che non si sarebbe potuto procedere al sequestro per equivalente nei suoi confronti, in quanto il Pubblico Ministero e, successivamente, il Tribunale avrebbe dovuto prima verificare la possibilità di procedere al sequestro diretto del profitto del reato nei confronti della società.
Il Tribunale, avendo omesso tale verifica, aveva violato l’art. 322-ter cod. pen. nella parte in cui tale norma richiede, per procedere al sequestro per equivalente, che sia accertata la impossibilità di procedere in via diretta sui cespiti della società; e in caso di impossibilità di confisca diretta si sarebbe dovuto procedere al sequestro per equivalente nei confronti della società.
In ogni caso il Tribunale avrebbe dovuto spiegare perché doveva ritenersi impossibile la confisca diretta presso la società della somma corrispondente all’imposta evasa, non potendo detta impossibilità essere costituita dal fatto che il Pubblico Ministero non avesse chiesto alcunché.
Viene precisato che: a) il ricorrente non aveva conseguito materialmente alcun profitto dal reato contestatogli; b) la somma non corrisposta all’erario era stata utilizzata dalla società per pagare i dipendenti; c) nel caso di reato tributario commesso dall’amministratore di una società, questa non può essere considerata terza estranea, quando, come nel caso di specie, il profitto rimane nelle casse sociali, e ciò pur se non è prevista una sua responsabilità amministrativa.
Il ricorrente sostiene di essere stato attinto da una misura cautelare, in forza di un profitto ictu oculi percepito esclusivamente da un terzo, nei cui confronti avrebbe potuto essere disposta la confisca diretta del profitto del reato che, a suo dire, si troverebbe ancora interamente nel patrimonio della società.
6.3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 322-ter cod. pen. per essere l’ordinanza impugnata fondata su motivazione meramente apparente; si deduce, in particolare, il vizio del provvedimento impugnato nella parte relativa al periculum che, secondo il ricorrente, non poteva essere considerato coincidente con la mera confiscabilità del bene.
Il Tribunale non aveva considerato in motivazione, al fine di escludere la sussistenza del requisito del periculum, una serie di elementi concreti, e cioè: a) la società aveva concordato un piano di rientro volto a garantire il pagamento delle imposte evase; b) la società aveva in corso pagamenti rateali per il rientro del debito; c) l’intervenuta ammissione dell’addebito da parte dell’indagato; d) i motivi che avevano indotto la società a non corrispondere l’imposta, cioè la situazione di crisi economica e il mancato conseguimento personale di alcun profitto da parte del ricorrente.
6.4. Con il quarto motivo viene dedotto il vizio di motivazione del provvedimento impugnato in relazione al fumus commissi delicti, nella parte relativa al dolo del reato contestato, con particolare riguardo alla volontarietà della omissione, essendosi trovato il ricorrente nella sostanziale impossibilità di compiere la azione doverosa.
7. La Terza Sezione della Corte di cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza n. 46726 del 30 ottobre 2013, depositata il 22 novembre 2013, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, sul presupposto dell’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sulla questione così indicata: “se sia possibile o meno aggredire direttamente i beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante della stessa”.
La Terza Sezione ha evidenziato come, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente possa essere disposto non solo per il prezzo, ma anche per il profitto del reato, “in ragione dell’integrale rinvio alle disposizioni di cui all’art. 322-ter del codice penale, contenuto nell’art. 1, comma 143, della legge n. 204 del 2007 e come tale indirizzo giurisprudenziale sia stato confermato dalla modifica apportata all’art. 322-ter cod. pen. dall’art. 1, comma 75, lett. o) della legge 6 novembre 2012, n. 190”, che ha espressamente esteso l’ambito della confisca per i delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 cod. pen. anche al profitto.
Per l’ordinanza di rimessione, il secondo motivo di ricorso implicherebbe la soluzione della questione di diritto indicata, sulla quale si registrerebbe un contrasto di giurisprudenza.
Secondo alcune pronunce, infatti, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente potrebbe avere ad oggetto i beni di una persona giuridica anche al di fuori dei casi in cui la sua creazione sia finalizzata a farvi confluire i profitti degli illeciti fiscali quale società-schermo.
A fondamento dell’indirizzo in questione vi sarebbe il dato obiettivo per cui, sebbene il reato tributario sia addebitabile all’indagato, le conseguenze patrimoniali ricadono sul patrimonio della persona giuridica a favore della quale l’autore del reato ha agito, salvo che non vi sia la prova della rottura del rapporto di immedesimazione organica tra la persona fisica e la società.
Proprio tale considerazione, secondo la Sezione rimettente, renderebbe non necessario, ai fini del sequestro per equivalente dei beni della persona giuridica, che questa sia responsabile ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Secondo l’impostazione in esame, la società, ancorché non sia possibile configurare una sua responsabilità per il reato commesso dall’amministratore, non potrebbe comunque essere considerata terza estranea al reato, partecipando invece essa alla utilizzazione degli incrementi che ne sono derivati, per il fatto di essere rimasto il profitto nelle casse dell’ente medesimo.
Si valorizza inoltre il dato per cui, in generale, la legge consente la confisca diretta dei beni, che costituiscono il profitto del reato, anche nel caso in cui si trovino nel patrimonio di terzi soggetti, indipendentemente dal fatto che il terzo sia un concorrente nel reato, e, nel caso si tratti di società, prescindendo dalla previsione o meno di responsabilità amministrativa per il reato medesimo. In tale contesto, l’orientamento richiamato precisa peraltro come, per procedere al sequestro funzionale alla confisca per equivalente, sia necessario verificare, motivando adeguatamente sul punto, la impossibilità di una confisca diretta dei beni costituenti il profitto del reato.
Secondo altro e contrastante indirizzo giurisprudenziale, prosegue l’ordinanza di rimessione, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente dei beni appartenenti alla persona giuridica, non sarebbe ammissibile nel caso in cui si proceda per violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, e ciò perché gli artt. 24 e seguenti del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non prevedono i reati tributari tra le fattispecie che giustificano l’adozione del provvedimento di confisca (e quindi di quello di sequestro alla confisca finalizzato).
Tale principio sarebbe superabile solo nel caso in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti, dato che ogni cosa fittiziamente intestata alla società è immediatamente riconducibile alla disponibilità dell’autore del reato.
Tale soluzione sarebbe inevitabile anche se la normativa vigente non sarebbe scevra da profili di irragionevolezza, poiché, mentre nei casi di reati tributari compiuti nell’ambito di fenomeni associativi a carattere transnazionale, sarebbe possibile disporre, ai sensi dell’art. 10 della legge 16 marzo 2006, n. 146, la confisca per equivalente dei beni della società coinvolta, diversamente avverrebbe in assenza del carattere della transnazionalità dell’illecito, anche a fronte di un ammontare maggiore della imposta evasa.
8. Il Primo Presidente, con decreto del 28 novembre 2013, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione dello stesso l’odierna udienza camerale.
Considerato in diritto
2.1. La risoluzione di tale questione presuppone una disamina della disciplina della confisca del profitto di reato (e del sequestro preventivo finalizzato alla confisca stessa) nei reati tributari.
2.2. Va ricordato che il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74), che si consuma con il mancato pagamento dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila, entro la scadenza del termine per il pagamento dell’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successivo, non si pone in rapporto di specialità ma diprogressione illecita con l’art. 13, comma primo, d.lgs. n. 471 del 1997, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico dell’imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile I.V.A., con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, Rv. 255757).
2.3. L’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244 prevede: “Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322-ter del codice penale”.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato. (Sez. 3, n. 35807 del 07/07/2010, Bellonzi, Rv. 248618. In motivazione la Corte ha precisato che l’integrale rinvio alle disposizioni di cui all’articolo 322-ter cod. pen., contenuto nell’art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, trova applicazione non solo il primo ma anche il secondo comma della norma codicistica).
La stessa Terza Sezione ha successivamente precisato che il principio rimane valido anche dopo le modifiche apportate all’art. 322-ter cod. pen. dalla legge n. 190 del 2012 (Sez. 3, n. 23108 del 23/04/2013, Nacci, Rv. 255446).
Stante l’espresso richiamo, contenuto nell’art. 322-ter cod. pen. alla confisca diretta, è all’evidenza applicabile altresì la confisca di cui all’art. 240 cod. pen. al profitto di reato.
2.4. Quanto alla determinazione del profitto in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario. (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036 in tema di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 d.lgs n. 74 del 2000).
Nello stesso senso è stato chiarito che, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nelle forme per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all’erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo del reato. (Sez. 3, n. 33184 del 12/06/2013, Abrusci, Rv. 256850; conf. nn. 33185, 33186, 33187, 33188 del 2013 non massimate).
2.5. Va anzitutto sottolineato che la confisca diretta del profitto di reato è istituto ben distinto dalla confisca per equivalente.
Deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che, nel caso in cui il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art. 322-ter, comma primo, cod. pen. il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato. (Sez. 6, n. 30966 del 14/06/2007, Puliga, Rv. 236984).
Qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare. (Sez. 3, n. 1261 del 25/09/2012, dep. 2013, Marseglia, Rv. 254175. Fattispecie in tema di reati tributari).
È pertanto ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi. (Sez. 6, n. 23773 del 25/03/2003, Madaffari, Rv. 225757).
Infatti, in tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa. (Sez. 2, n. 45389 del 06/11/2008, Perino, Rv. 241973).
La trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa. (Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994, dep. 1995, Giacalone, Rv. 200855. Affermando siffatto principio la Cassazione ha ritenuto che legittimamente fosse stato disposto dal g.i.p. il sequestro preventivo di un appartamento che, in base ad elementi allo stato apprezzabili, era risultato acquistato con i proventi del reato di concussione).
Le Sezioni Unite avevano, del resto, ritenuto che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., costituisce “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo. (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700: fattispecie in tema di concussione nella quale il danaro era stato richiesto da un ufficiale di p.g. per l’acquisto di un immobile).
In tutte le ipotesi sopra richiamate non si è in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto di reato, possibile ai sensi dell’art. 240 cod. pen. ed imposta dall’art. 322-ter cod. pen., prima di procedere alla confisca per equivalente del profitto di reato.
2.6. La confisca del profitto di reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica, quando il profitto sia rimasto nella disponibilità della stessa.
A tale riguardo va infatti rammentato che, a norma dell’art. 6, comma 5, d.lgs. n. 231 del 2001, anche nei confronti degli enti per i quali non sia applicabile la confisca-sanzione di cui all’art. 19 dello stesso decreto per essere stati efficacemente attuati i modelli organizzativi per impedire la commissione di reati da parte dei rappresentanti dell’ente, è “comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”. Si tratta, come è evidente, di una previsione di carattere generale che impone la confisca, diretta o per equivalente, del profitto derivante da reato, secondo una prospettiva non di tipo sanzionatorio, essendo fuori discussione la “irresponsabilità” dell’ente, ma di ripristino dell’ordine economico perturbato dal reato, che comunque ha determinato una illegittima locupletazione per l’ente, ad “obiettivo” vantaggio del quale il reato è stato commesso dal suo rappresentante. Nel rimarcare la peculiarità di tale figura di confisca, infatti, questa Corte non ha mancato di sottolineare che “in questo specifico caso, dovendosi – di norma – escludere un necessario profilo di intrinseca pericolosità della res oggetto di espropriazione, la confisca assume più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire (sia pure incolpevolmente) un profitto geneticamente illecito” (cfr. Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti s.p.a., Rv. 239925).
2.7. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, sia pure transitoriamente, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili per qualsiasi ragione. (Sez. 3, n. 30930 del 05/05/2009, Pierro, Rv. 244934).
Sotto questo profilo è necessario tuttavia chiarire che, versandosi in materia di misura cautelare reale, non è possibile pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato, giacché, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela.
Infatti, quando il sequestro interviene in una fase iniziale del procedimento, non è, di solito, ancora possibile stabilire se sia possibile o meno la confisca dei beni che costituiscono il prezzo od il profitto di reato, previa loro certa individuazione.
È perciò legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni costituenti profitto illecito anche quando l’impossibilità del loro reperimento sia anche soltanto transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura. (Sez. 2, n. 2823 del 10/12/2008, dep. 2009, Schiattarella, Rv. 242653).
Del resto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, ex art. 322-ter cod. pen., del profitto del reato può essere disposto anche solo parzialmente nella forma per equivalente, qualora non tutti i beni costituenti l’utilità economica tratta dall’attività illecita risultino individuabili. (Sez. 2, n. 11590 del 09/02/2011, Sciammetta, Rv. 249883).
2.8. Si deve invece ritenere che non sia possibile la confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi da suoi organi, salva l’ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisca come effettivo titolare, come affermato in numerose pronunzie (Sez. 3, n. 42476 del 20/09/2013, Salvatori, Rv. 257353; Sez. 3, n. 42638 del 26/09/2013, Preziosi; Sez. 3, n. 42350 del 10/07/2013, Stigelbauer, Rv. 257129; Sez. 3, n. 33182 del 14/05/2013, De Salvia, Rv. 255871, già citata; Sez. 3, n. 15349 del 23/10/2012, dep. 2013, Gimeli, Rv. 254739; Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit s.p.a., Rv. 254796; Sez. 3, n. 33371 del 04/07/2012, Failli; Sez. 3, n. 25774 del 14/06/2012, Amoddio, Rv. 253062; Sez. 6, n. 42703 del 12/10/2010, Giani). In una simile ipotesi, infatti, la trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura della interposizione fittizia; con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in “apparente” vantaggio dell’ente ma, nella sostanza, a favore proprio.
Le Sezioni Unite non ritengono fondato il diverso orientamento espresso in talune pronunzie.
La tesi della possibilità di procedere alla confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per reati tributari attribuiti al legale rappresentante è stata sostenuta sull’assunto che tale possibilità “deriva proprio dal rapporto organico esistente tra il soggetto indagato e detta società” (così Sez. 3, n. 26389 del 09/06/2011, Occhipinti, Rv. 250679), ovvero sull’assunto che “nei rapporti tra… la persona fisica, alla quale è addebitato il reato, e la persona giuridica, chiamata a risponderne, non può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel reato stesso, secondo il quale a ciascun concorrente devono imputarsi le conseguenze di esso” (così Sez. 3, n. 17485 del 11/04/2012, Maione, n.m.).
Inoltre è stato affermato che è possibile la confisca per equivalente dei beni della società, allorché l’autore del reato ne abbia la disponibilità (Sez. 3, n. 28731 del 07/06/2011, Società cooperativa Burlando, n.m.).
Il primo argomento trascura che il rapporto fra ente ed un suo organo, di per sé, non è suscettibile di fondare l’estensione della confisca per equivalente, che si basa su specifiche disposizioni di legge, tanto più che è persino possibile che la persona giuridica, attraverso altri organi, promuova azione di responsabilità verso il suo amministratore che l’ha esposta a responsabilità (civile) conseguente a reato.
Il secondo argomento da per presupposto quello che dovrebbe essere dimostrato e cioè che la società sia concorrente nel reato.
Nel vigente ordinamento, è prevista solo una responsabilità amministrativa e non una responsabilità penale degli enti (ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), sicché comunque la società non è mai autore del reato e concorrente nello stesso.
In ogni caso il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti conseguente a reato, non contempla i reati tributari fra quelli per cui è prevista tale responsabilità amministrativa della persona giuridica.
La confisca per equivalente sui beni della società non può fondarsi neppure sull’assunto che l’autore del reato ne abbia la disponibilità in quanto amministratore (salva sempre l’ipotesi in cui la società sia un mero schermo fittizio), essendo tale disponibilità nell’interesse dell’ente e non dell’amministratore.
Sul punto è sufficiente rilevare che l’eventuale appropriazione indebita di beni della persona giuridica da parte di un amministratore può integrare il reato di cui all’art. 646 cod. pen. aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 11, cod. pen. e quindi perseguibile d’ufficio, stante la distinzione fra il patrimonio della persona giuridica e quello dei suoi amministratori.
Una volta esclusa la fondatezza di tali argomenti, è necessario verificare se vi sia una base normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi.
Anzitutto, come già notato, tale confisca (ed il sequestro alla stessa finalizzato) non può avvenire ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato d.lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l’adozione del provvedimento, con esclusione dell’ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti. (Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit, Rv. 254796).
L’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, non contiene una previsione autonoma di confisca per equivalente, ma si limita a richiamare l’art. 322-ter cod. pen..
La confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica non può fondarsi neppure sull’art. 322-ter cod. pen., dal momento che la citata disposizione si applica all’autore del reato e, come si è detto, la persona giuridica non può essere considerata tale.
L’art. 11 della legge 16 marzo 2006, n. 146, che prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, per i reati di cui all’art. 3 della stessa legge, cioè i reati transnazionali, non riguarda l’ipotesi della quale ci si occupa nel presente procedimento.
Si deve altresì escludere che sia possibile una interpretazione analogica delle citate disposizioni.
L’analogia sarebbe in malam partem e come tale non consentita in sede penale.
Infatti le Sezioni Unite hanno già chiarito che la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, legge 27 dicembre 2007, n. 244, ha natura eminentemente sanzionatoria (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037).
2.9. Le Sezioni Unite sono consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell’ordinanza di rimessione, anche perché il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto l’art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007.
Infatti è possibile, attraverso l’intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all’ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa logica che ha mosso il legislatore nell’introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell’interesse ed a vantaggio dell’ente medesimo.
Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale il secondo comma dell’art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189).
Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
2.10. Devono pertanto essere affermati i seguenti principi di diritto:
“È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.
“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”.
“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”.
“La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.
2.11. Tutto ciò premesso, si deve rilevare che, nel caso in esame, è lo stesso ricorrente ad evidenziare che il profitto del reato fu utilizzato dalla Trento Pack s.r.l. per il pagamento dei dipendenti e per mantenere l’impresa in vita (p. 8, 9, 17 e 19 del ricorso) e l’assenza del profitto o comunque di adeguate disponibilità finanziarie in capo alla predetta società è confermata dalla ulteriore affermazione, contenuta nel ricorso, dell’essere intervenuto un accordo con l’Agenzia delle Entrate per un rientro rateale delle somme ancora dovute (p. 1, 2, 15 e 16 del ricorso).
Appare pertanto priva del presupposto di fatto, sulla scorta delle stesse deduzioni del ricorrente, la doglianza relativa alla mancata ricerca del profitto presso la società.
Anche a prescindere dalla considerazione che, in materia di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione è consentito solo per violazione di legge e non per vizio di motivazione (rilevando soltanto la assoluta mancanza o apparenza della motivazione ai sensi dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen.), la motivazione da parte del Tribunale, sul punto della impossibilità della confisca diretta, è implicita, posto che la impossibilità non era controversa ed anzi dedotta dallo stesso ricorrente nella memoria presentata in sede di giudizio di appello il cui contenuto è richiamato nell’ordinanza impugnata anche in punto di sottoscrizione di un piano di rientro (p. 2 ordinanza impugnata).
Nessuna rilevanza ha il fatto che il Tribunale non abbia motivato in punto di non applicabilità della confisca per equivalente su altri beni della società perché il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza. (Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123).
Non sussiste alcuna violazione di legge nel caso in esame, per le considerazioni esposte sulla non applicabilità della confisca per equivalente ai beni della persona giuridica in materia di reati tributari commessi dagli organi della stessa.
3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti.
Il sequestro disposto ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., a differenza del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., ha ad oggetto l’equivalente del profitto del reato, e quindi anche cose che non hanno rapporti con la pericolosità individuale del soggetto, e non sono collegate con il singolo reato; in tal caso, il periculum coincide con la confiscabilità del bene. (Sez. 2, n. 1454 del 11/12/2007, dep. 2008, Battaglia, Rv. 239433).
Le doglianze svolte nel terzo motivo di ricorso riguardano circostanze diverse dalla necessità di prevenire il rischio di sottrazione del bene sequestrato alla confisca e non sono idonee ad inficiare l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.
Nella richiesta di sequestro preventivo il Procuratore della Repubblica ha decurtato dall’ammontare del profitto individuato le somme già corrisposte all’Agenzia delle Entrate, secondo il piano di rientro, determinandolo non nell’intera imposta non versata, ma in quella minore di Euro 332.228,52 e per tale ammontare il Tribunale ha disposto il sequestro preventivo, sicché neppure sotto tale profilo può ritenersi che l’intervenuto accordo tra la società Trento Pack e l’erario per un piano di rientro rateale impedisca la confisca del bene ed il sequestro alla stessa finalizzato.
Ha correttamente osservato il Tribunale che le ragioni del sequestro possono venire meno solo con il completamento del pagamento rateale concordato (p. 2 ordinanza impugnata).
4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La destinazione ad altro impiego di somme incassate, a titolo di I.V.A., per conto dell’erario ed a questo spettanti, è avvenuta consapevolmente, per stessa ammissione del ricorrente.
Del resto la giurisprudenza di legittimità ha osservato, quanto al reato di omesso versamento, da parte del sostituto d’imposta, delle ritenute operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti che esso si consuma alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale anche per i versamenti omessi, antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 414, della legge n. 311 del 2004, introduttiva dell’art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000, nel periodo di imposta 2004 e per i quali le scadenze periodiche mensili siano già maturate, senza con ciò venirsi a violare il principio di irretroattività della norma penale, (v. Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv. 255760).
Il Tribunale ha anche correttamente segnalato che la crisi economica o l’inadempimento di terzi non sono elementi idonei ad integrare lo stato di necessità (p. 4 ordinanza impugnata).
5. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1.000 alla cassa delle ammende.