Deve ribadirsi la rilevanza penale a titolo di peculato delle condotte di omesso versamento della tassa di soggiorno, commesse in epoca anteriore alla novatio legis di cui all’art. 180, comma 3, D.L. 19 maggio 2020, n. 34.
L’art. 180, comm 3, non ha modificato la fattispecie astratta del peculato. Tale norma ha fatto venir meno “in concreto” la qualifica soggettiva pubblicistica del gestore, ma non ha di certo alterato la definizione stessa di incaricato di pubblico servizio.
Dal raffronto delle due fattispecie è evidente che il legislatore non ha inteso incidere su un “elemento strutturale” del delitto di peculato, ma è intervenuto modificando lo status di fatto del gestore rispetto alla tassa di soggiorno: dal ruolo di incaricato o soltanto di custode del denaro pubblico incassato per conto del comune a quello di soggetto obbligato solidalmente al versamento della imposta.
Si tratta in definitiva di fattispecie tra loro eterogenee: l’una destinata ad operare in rapporto al vecchio regime dell’imposta di soggiorno – e alla qualifica pubblicistica dell’albergatore (e del denaro incassato), l’altra in relazione al nuovo regime dell’imposta stessa – e alla qualifica privatistica dell’albergatore (e del denaro incassato).
Coerente a tale diverso assetto è il disvalore del fatto e quindi la diversa risposta punitiva, restando pur sempre nell’area penale il comportamento di colui che, in ragione del servizio pubblico svolto, si sia appropriato di denaro che, al momento dell’incasso, era della pubblica amministrazione.
Non può ritenersi infine che l’art. 180 cit., sia in realtà una norma interpretativa, che abbia inteso cioè vincolare il giudice nella qualificazione giuridica del rapporto tributario sottostante alla tassa di soggiorno, non risultante da una norma specifica e ricostruito sulla base dei principi generali.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Torino confermava la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino che aveva condannato, all’esito di rito abbreviato, B.R. per il reato di cui all’art. 314 c.p..
All’imputato era stato contestato di essersi appropriato, in qualità di legale rappresentante dell’hotel (omissis) , della somma di Euro 5.472, incassata dal medesimo dai clienti della struttura a titolo di imposta di soggiorno (fatto commesso dal (omissis) ).
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, denunciando, a mezzo di difensore, i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 187, 191, 192, 350, 357, 442 e 546 c.p.p. e artt. 81 e 314 c.p..
La Corte di appello ha basato la condanna del ricorrente su un accertamento di tipo induttivo effettuato in sede tributaria dalla Guardia di Finanza, invertendo l’onere della prova quanto alla dimostrazione dell’effettivo versamento da parte dei clienti dell’imposta di soggiorno all’albergatore.
Sotto altro verso i giudici di merito hanno utilizzato una dichiarazione resa dal ricorrente alla polizia giudiziaria trasfusa nell’annotazione dei finanzieri senza essere oggetto di un separato verbale redatto ai sensi dell’art. 350 c.p.p. e quindi inesistente ed inutilizzabile (in tal senso, si è pronunciata la Corte di cassazione con sentenza n. 12752 del 2019).
3. In data 29 settembre 2020 il difensore del ricorrente ha fatto pervenire una nota con la quale, nel riportarsi integralmente ai motivi di ricorso, fa presente che il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato a seguito dell’entrata in vigore della novella di cui al D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, comma 3, ultimo periodo (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19) convertito, con modificazioni, dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, che sanziona la condotta di omesso versamento della imposta di soggiorno con la sola sanzione amministrativa, prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L’esame del ricorso impone preliminarmente di affrontare la questione, evidenziata dal difensore e in ogni caso rilevabile d’ufficio, degli effetti derivanti dal citato D.L. n. 34 del 2020, art. 180, comma 3.
2. Tale disposizione ha interpolato la disciplina in tema di imposta di soggiorno dettata dal D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4.
2.1. Prima di esaminare le modifiche introdotte nel corpo dell’art. 4 è opportuno esaminare la portata della normativa previgente e la giurisprudenza formatasi in tema di illecita appropriazione da parte del gestore delle strutture ricettive della imposta di soggiorno riscossa dai clienti in esse alloggiati.
Il suddetto decreto legislativo ha dettato all’art. 4 disposizioni in ordine alla imposta di soggiorno, stabilendo al comma 1 che i comuni capoluogo di provincia, le unioni di comuni nonché i comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte possono istituire, con deliberazione del consiglio, un’imposta di soggiorno a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul proprio territorio, da applicare, secondo criteri di gradualità in proporzione al prezzo, sino a 5 Euro per notte di soggiorno, il cui gettito è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali.
Quanto alle modalità applicative della imposta, il comma 3 prevede che “con regolamento da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 1, d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali” doveva essere dettata la disciplina generale di attuazione e che, in conformità con quanto stabilito nel predetto regolamento, i comuni, con “proprio regolamento da adottare ai sensi del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 52, sentite le associazioni maggiormente rappresentative dei titolari delle strutture ricettive” avevano facoltà di disporre ulteriori modalità applicative del tributo, nonché di prevedere esenzioni e riduzioni per particolari fattispecie o per determinati periodi di tempo e che, nel caso di mancata emanazione del regolamento generale, i comuni potevano comunque adottare gli atti previsti dal presente articolo.
Il regolamento generale non è stato mai emanato e ad oggi gli enti locali indicati al citato art. 4, comma 1, hanno disciplinato le modalità attuative dell’imposta, una volta istituita, con un proprio regolamento.
Stante la riserva di legge posta dall’art. 13 Cost., in materia tributaria e l’espresso richiamo del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 52, che disciplina la potestà regolamentare comunale in materia tributaria, alla normativa regolamentare andava sottratta la disciplina degli aspetti fondamentali dei tributi (“Le province ed i comuni possono disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e della aliquota massima dei singoli tributi, nel rispetto delle esigenze di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti. Per quanto non regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti”).
2.2. Sulla base della normativa così delineata dall’art. 4 cit., la giurisprudenza di legittimità era ferma nel ritenere che veniva ad integrare il reato di peculato la condotta posta in essere dal gestore di una struttura ricettiva che si appropriava delle somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno, omettendo di riversarle al Comune, in quanto lo svolgimento dell’attività ausiliaria di responsabile del versamento, strumentale all’esecuzione dell’obbligazione tributaria intercorrente tra l’ente impositore e il cliente della struttura, determinava l’attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al privato cui era demandata la materiale riscossione dell’imposta (per tutte, Sez. 6, n. 27707 del 26/03/2019; Norsa, Rv. 276220; Sez. 6, n. 32058 del 17/05/2018, Locane, Rv. 273446).
2.2.1. Questa esegesi si fondava sui seguenti argomenti.
L’art. 4 costituisce la base normativa del tributo, disciplinandone gli aspetti essenziali, mentre le disposizioni regolamentari hanno soltanto il compito di specificare le modalità attuative.
Sulla base della norma primaria, l’unico soggetto obbligato al versamento della imposta prevista dall’art. 4 è l’ospite della struttura ricettiva.
Peraltro, la norma in esame ha posto in capo al soggetto passivo dell’imposta di soggiorno il solo obbligo del pagamento dell’imposta, non stabilendo a suo carico alcun obbligo ulteriore, in ordine sia alla dichiarazione che alle modalità di versamento del tributo.
A tal fine, gli enti locali hanno con proprio regolamento dettato la disciplina attuativa, stabilendo il più delle volte a carico del gestore della struttura ricettiva oneri accessori, strumentali e funzionali all’esazione dell’obbligazione tributaria, non potendo invece assegnare compiti di sostituzione o di responsabilità impositiva, dai quali sarebbero conseguiti ipotesi di solidarietà tributaria, coperti dalla riserva di legge.
Si tratta, in particolare, di compiti relativi all’informazione, al calcolo dell’imposta dovuta, all’incasso dell’imposta, alla conservazione e compilazione della modulistica, all’obbligo di riversamento delle somme riscosse a titolo di imposta, nonché ai connessi obblighi dichiarativi e certificativi.
I controlli effettuati sul gestore attengono essenzialmente ad aspetti quali la corretta liquidazione del tributo, l’integrale e fedele rendicontazione dell’imposta incassata e il suo integrale riversamento al comune di appartenenza.
Quindi il rapporto tributario intercorre esclusivamente tra il Comune (come soggetto attivo) e colui che alloggia nella struttura ricettiva (il soggetto passivo), mentre il comune si rapporta con il gestore non come soggetto del rapporto tributario, bensì quale destinatario giuridico delle somme incassate dal gestore a titolo di imposta di soggiorno, nell’ambito di una relazione completamente avulsa dal rapporto tributario, sebbene ad esso funzionalmente orientata e correlata.
Il rapporto intercorrente tra il Comune ed il gestore va inquadrato pertanto nell’ambito dei generali principi in materia di maneggio di denaro pubblico.
Viene in considerazione la normativa generale sancita dal R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 74, comma 1 e R.D. 23 maggio 1924, n. 827, art. 178, i cui principii sono peraltro ribaditi nel D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che, in particolare, all’art. 93, comma 2, che “il tesoriere ed ogni altro agente contabile che abbia maneggio di pubblico denaro o sia incaricato della gestione dei beni degli enti locali, nonché coloro che si ingeriscano negli incarichi attribuiti a detti agenti devono rendere il conto della loro gestione e sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei conti secondo le norme e le procedure previste dalle leggi vigenti”.
Tale principio generale dell’ordinamento trova conferma anche nel D.Lgs. 23 giugno 2011, n. 118, entrato in vigore dal 10 agosto 2011, che nel dettare “Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni degli Enti locali e dei loro organismi”, nell’allegato n. 4/2, al punto 4.2, dispone espressamente che: “Gli incaricati della riscossione assumono la figura di agente contabile e sono soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, a cui devono rendere il conto giudiziale…. Agli stessi obblighi sono sottoposti tutti coloro che, anche senza legale autorizzazione, si ingeriscono di fatto, negli incarichi attribuiti agli agenti anzidetti (…). Gli agenti contabili devono tenere un registro giornaliero delle riscossioni e versare all’amministrazione per la quale operano gli introiti riscossi secondo la cadenza fissata dal regolamento di contabilità. Il regolamento di contabilità disciplina le modalità di esercizio del riscontro contabile e le modalità di riscossione e successivo versamento in tesoreria delle entrate a mezzo degli agenti della riscossione”.
2.2.2. Da tali premesse, la Suprema Corte riteneva che il gestore venisse a rivestire la qualità di incaricato di pubblico servizio, nel caso in cui, anche in assenza di un preventivo, specifico incarico da parte della pubblica amministrazione, avesse proceduto effettivamente e materialmente alla riscossione della imposta di soggiorno, in considerazione della natura prettamente pubblicistica della sua attività, direttamente disciplinata dalle norme di diritto pubblico istitutive della relativa imposta.
Essenziale quindi era che in relazione al maneggio di denaro si fosse costituita una relazione tra ente di pertinenza ed altro soggetto, divenendo agente contabile anche il soggetto che avesse di fatto maneggio di denaro pubblico.
2.3. La suddetta esegesi ha trovato il conforto anche della giurisprudenza contabile, amministrativa e civile.
Le Sezioni riunite della Corte dei Conti in sede giurisdizionale (n. 22/2016/QM del 8 giugno 2015, dep. 22 settembre 2016) hanno affermato che “I soggetti operanti presso le strutture ricettive, ove incaricati – sulla base dei regolamenti comunali previsti dal D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 4, comma 3, – della riscossione e poi del riversamento nelle casse comunali dell’imposta di soggiorno corrisposta da coloro che alloggiano in dette strutture, assumono la funzione di agenti contabili, tenuti conseguentemente alla resa del conto giudiziale della gestione svolta”.
Tale pronuncia ha rimarcato che la riserva di legge posta dall’art. 23 Cost., in materia di imposizione tributaria comporta che sia solo la norma primaria a disciplinare gli aspetti essenziali del tributo, stabilendo non solo il presupposto e la misura del tributo, ma anche il soggetto attivo e quello passivo dell’imposizione tributaria, aspetti, questi, sui quali non poteva giammai incidere la normativa regolamentare di attuazione.
Secondo i Giudici contabili, i regolamenti comunali instaurano espressamente tra il gestore ed il Comune un rapporto di servizio con compiti eminentemente contabili e di “servizio”, affidando ad un soggetto, estraneo al rapporto tributario, una serie di attività obbligatorie e funzionali alla realizzazione della potestà impositiva dell’ente locale, tra le quali si pongono centralmente i compiti di riscossione dell’imposta ed il suo riversamento nelle casse comunali.
A loro volta, i Giudici amministrativi hanno in molteplici pronunce dichiarato illegittime le disposizioni dei regolamenti comunali che hanno attribuito ai gestori la qualifica di responsabile o sostituto di imposta, in caso di mancato pagamento dell’imposta da parte del cliente, ritenendo recuperabili gli importi dovuti e non corrisposti soltanto nei confronti dei soggetti passivi individuati dalla norma primaria (TAR Sicilia, Sez. III, 31/10/2012, n. 2174; TAR Veneto, Sez. III, 10/05/2012, n. 653; TAR Puglia, 30/04/2012, n. 748 e 736).
In sede di riparto di giurisdizione, anche le Sezioni Unite civili di questa Corte hanno fatto propri i suddetti principi (Sez. U civ., n. 19654 del 24/07/2018, Rv. 649978), ribadendo che tra il gestore della struttura ricettiva (o “albergatore”) ed il Comune si instaura un rapporto di servizio pubblico con compiti eminentemente contabili, che implicano il maneggio di denaro pubblico, con la conseguenza che ogni controversia intercorrente con l’ente impositore avente ad oggetto la verifica dei rapporti di dare e avere, e il risultato finale di tali rapporti, dà luogo ad un giudizio di conto, sul quale sussiste, pertanto, la giurisdizione della Corte dei Conti.
2.4. Da ultimo, è appena il caso di rilevare che la bozza di regolamento di attuazione predisposta dal Consiglio dei Ministri, ma poi non approvata, definiva le competenza del gestore delle attività ricettive in armonia con i compiti di servizio delineati dalla giurisprudenza, che non potevano essere considerati di sostituto o responsabile dell’imposta posta a carico del pernottante (“Il gestore: a) presenta le dichiarazioni annuali; b) riscuote dal soggetto passivo e riversa al Comune; c) è soggetto ad attività di controllo e sanzionatile per omissioni dichiarative e di versamento; d) deve essere previamente interpellato, tramite le organizzazioni nella fase amministrativa d’istituzione del tributo e anche nella fase di adeguamento dei regolamenti già emessi e per le eventuali variazioni in tema di presentazione di dichiarazioni, versamenti e rimborsi”).
3. Su tale quadro normativo e giurisprudenziale è intervenuta la novella del 2020.
Il D.L. n. 34 del 2020, art. 180, comma 3, ha stabilito l’inserimento all’interno del D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 4, dopo il comma 1-bis, di un nuovo comma 1-ter, che così recita nel testo risultante dalla Legge di Conversione n. 77 del 2020:
“Il gestore della struttura ricettiva è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno di cui al comma 1 e del contributo di soggiorno di cui al D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 14, comma 16, lett. e), convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione della dichiarazione, nonché degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale. La dichiarazione deve essere presentata cumulativamente ed esclusivamente in via telematica entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui si è verificato il presupposto impositivo, secondo le modalità approvate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Per l’omessa o infedele presentazione della dichiarazione da parte del responsabile si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma dal 100 al 200 per cento dell’importo dovuto. Per l’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno e del contributo di soggiorno si applica la sanzione amministrativa di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13”.
La norma ha quindi in primo luogo modificato sostanzialmente il rapporto intercorrente tra il gestore della struttura ricettiva e l’ente impositore, che da rapporto di “servizio” per la riscossione dell’imposta è divenuto un rapporto di natura tributaria in cui il gestore ha assunto il ruolo di “responsabile d’imposta”, pur rimanendo il soggetto principale legittimato passivamente colui che alloggia nella struttura ricettiva, come si evince dal fatto che il legislatore non ha modificato l’art. 4 cit., comma 1 e ha previsto a favore del gestore il diritto di rivalsa per l’intero del tributo pagato nei confronti dei “soggetti passivi”.
La previsione della solidarietà tributaria ha la funzione di rafforzamento della garanzia di raggiungimento dell’obiettivo di preservare l’integrità dei flussi tributari scaturenti dall’esercizio della struttura ricettiva e dell’introito del tributo, onerandone quei soggetti che, in virtù della relazione con il soggetto obbligato principale, sono posti nella condizione di garantirne l’effettivo integrale pagamento.
La figura del “responsabile di imposta” si rinviene nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 64.
Tale norma disciplina il diritto di rivalsa di chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte “in luogo di altri” (il sostituto) o “insieme con altri” (il responsabile) per fatti o situazioni a questi riferibili.
I caratteri strutturali della responsabilità d’imposta, il cui tratto saliente va individuato nell’esigenza di assicurare la tutela dell’interesse pubblico alla percezione dei tributi mediante l’ampliamento del novero dei “debitori di imposta”, sono dunque l’obbligazione imposta dalla legge di adempimento della prestazione tributaria, l’esclusiva riferibilità ad altri del fatto che costituisce il presupposto del tributo e il vincolo di solidarietà con l’obbligazione del soggetto a cui il presupposto è riferibile.
Caratteri, questi, riscontrabili nella nuova disciplina della imposta di soggiorno, come risultante dalla novella del 2020.
Il legislatore ha anche previsto, in continuità con altre forme di solidarietà tributaria, la sanzione amministrativa di tipo pecuniario nei casi di omessa o infedele dichiarazione, nonché di “omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno”, rinviando in quest’ultima evenienza alla sanzione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13.
Quest’ultimo decreto, che ha riformato le sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, all’art. 13 disciplina le sanzioni per i casi di ritardati od omessi versamenti diretti, da calcolarsi in proporzione all’importo non versato e al ritardo eventualmente effettuato nel versamento.
4. Così tracciato il quadro complessivo dell’intervento normativo del 2020, va quindi affrontata la questione degli effetti da esso scaturenti sulla fattispecie penale del peculato con particolare riferimento alle condotte consumate nella vigenza della precedente disciplina della imposta di soggiorno.
In mancanza di disposizioni transitorie, si tratta quindi di stabilire se la normativa da ultimo intervenuta abbia o meno trasformato con effetto retroattivo la condotta di “omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno” da parte del gestore, prima punita a titolo di peculato, in un illecito amministrativo-tributario.
Come si è già anticipato, la nuova norma ha trasformato radicalmente il ruolo assunto dal gestore rispetto alla imposta di soggiorno: da quello di eventuale incaricato dai regolamenti comunali del pubblico servizio per la riscossione e versamento del tributo nelle casse comunali, al gestore è stata ex novo attribuita una obbligazione tributaria, che lo espone direttamente con altri (con diritto di rivalsa) alla responsabilità del versamento dell’imposta.
Quindi è stata attratta nel capo dell’illecito amministrativo-tributario una diversa condotta rispetto a quella rilevante penalmente in passato: nella attuale fattispecie prevista dall’art. 4 cit. non vi è più un agente, estraneo al rapporto tributario, che si appropria della imposta della quale era incaricato della riscossione e del versamento, bensì si è in presenza di un soggetto privato, che è obbligato con altri, che omette di versare la imposta stessa.
Così inquadrata la successione delle leggi, il Collegio ritiene che vada escluso che la modifica del quadro di riferimento normativo di natura extrapenale che regola il versamento dell’imposta di soggiorno abbia comportato un fenomeno di abolitio criminis delle condotte di peculato commesse in precedenza.
5. La soluzione della questione deve confrontarsi con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità ed in particolare dai vari arresti delle Sezioni Unite di questa Corte in tema di effetti penali della successione di leggi extrapenali.
In linea generale si è affermato (in particolare, tra le tante, Sez. U., n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv 224607) che il fenomeno successorio deve essere accertato secondo il criterio del “confronto strutturale” tra fattispecie legali astratte (c.d. doppia incriminabilità in astratto), senza che sia necessario, di regola, fare ricorso ai criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità di offesa.
Si tratta di un criterio che la giurisprudenza ha ritenuto applicabile non solo per le modifiche immediate (quelle, cioè, che incidono direttamente sul testo della norma incriminatrice), ma anche nell’ipotesi delle cosiddette modifiche “mediate”.
Alla luce del criterio strutturale, va dunque verificato se le modifiche di norme diverse dalla norma incriminatrice, in vario modo richiamate a sua integrazione, determinino una modifica rilevante agli effetti penali della fattispecie incriminatrice con conseguente applicazione del principio di retroattività o se piuttosto, stante l’identità della norma incriminatrice, tali variazioni possano considerarsi irrilevanti rispetto agli effetti penali.
La giurisprudenza ha in primo luogo chiarito quali siano le norme extrapenali “integratrici” della fattispecie penale la cui modificazione può comportare la abolitio criminis.
A tal fine va richiamata la sentenza Magera delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, Rv. 238197) che ha affermato:
– nell’ambito della fattispecie penale le norme extrapenali non svolgono tutte la stessa funzione, dovendosi distinguere le norme “integratrici” della fattispecie penale e quelle che tali non possono essere considerate;
– una nuova legge extrapenale può avere, di regola, un effetto retroattivo, solo se integra la fattispecie penale, venendo a partecipare della sua natura, e ciò avviene, come nel caso delle disposizioni definitorie, se la disposizione extrapenale può sostituire idealmente la parte della disposizione penale che la richiama”, ovvero, come nel caso delle norme penali in bianco, se costituisce addirittura il precetto;
– tale distinzione è addirittura imposta dalla legge, come dimostra l’art. 47 c.p., comma 3, quando occorre decidere se un errore su una legge diversa da quella penale escluda o meno la punibilità; nell’art. 47 c.p., il legislatore ha riconosciuto l’esistenza di leggi diverse da quelle penali, alle quali ha ricollegato un diverso trattamento dell’errore, e non è arbitrario pensare che anche agli effetti dell’art. 2 c.p., le leggi diverse da quelle penali possano avere trattamenti diversi.
Ebbene, coniugando il criterio strutturale alla suddetta distinzione, la sentenza Magera ha affermato:
– allorché abbia luogo una successione nel tempo di leggi extrapenali richiamate dalla disposizione incriminatrice, l’eventuale effetto di abolitio criminis va individuato mediante un raffronto tra le fattispecie astratte risultanti dalle disposizioni succedutesi; e non quindi con riferimento alla possibilità di ricondurre il fatto concreto all’una o all’altra fattispecie, non essendo sufficiente la verifica che esso non costituirebbe astrattamente reato nel momento in cui viene giudicato, ma occorrendo anche stabilire se la norma extrapenale modificata svolga, in collegamento con la disposizione incriminatrice, un ruolo tale da far ritenere che, pur essendo quest’ultima rimasta letteralmente immutata, la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma penale e quella extrapenale sia cambiata e non sia più configurabile come reato;
– in questo caso ci si trova in presenza di abolitio criminis parziale, analoga a quella che si verifica quando è la stessa disposizione penale ad essere modificata con l’esclusione di una porzione di fattispecie che prima ne faceva parte;
– diversamente deve concludersi se la successione avvenuta tra norme extrapenali non incide sulla fattispecie astratta, ma comporta più semplicemente un caso in cui “in concreto” il reato non è più configurabile, quando rispetto alla norma incriminatrice la modificazione della norma extrapenale comporta solo una nuova e diversa “situazione di fatto”;
– l’applicazione dell’art. 2 c.p., rispetto a leggi extrapenali non integratrici del precetto penale e prive di retroattività sarebbe ingiustificata e potrebbe dar luogo a uno sfasamento tra la disciplina extrapenale e quella penale, se per la seconda dovesse valere la regola della retroattività, esclusa invece per la prima.
Accanto al criterio strutturale, la sentenza Magera, se pur incidentalmente, ha richiamato un altro criterio di accertamento:
– oltre che rispetto alle norme integratrici di quelle penali, l’art. 2 c.p., può trovare applicazione rispetto a norme extrapenali che siano esse stesse, esplicitamente o implicitamente, retroattive, quando nella fattispecie penale non rilevano solo per la qualificazione di un elemento (come nel caso di abolitio criminis del reato oggetto di incolpazione nel reato di calunnia, irrilevante per la sua integrazione), ma per “l’assetto giuridico” che realizzano (come nel caso dell’abolizione del delitto-scopo dell’associazione per delinquere).
Sul tema è intervenuta in seguito la sentenza Niccoli (Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398), con la quale le Sezioni unite hanno dato continuità ai principi espressi dalla sentenza Magera, così affermando:
– per stabilire se nella vicenda in esame si verta in tema di aboliti criminis, rilevante ex art. 2 c.p., comma 2, occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per sé rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi;
– non possono dirsi norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale quelle che incidono non su un “dato strutturale” del paradigma della fattispecie, ma sulle sole “condizioni di fatto” che dalla quelle norme derivi.
Principi, questi, sviluppati anche dalla successiva sentenza delle Sezioni unite Rizzoli (Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585), che ha ribadito il principio in materia di successione di leggi penali, secondo cui in caso di modifica della norma incriminatrice, per accertare se ricorra o meno “abolitio criminis” è sufficiente procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, senza la necessità di ricercare conferme della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa, atteso che tale confronto permette in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando così radicalmente la figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie.
La sentenza Rizzoli ha così argomentato:
– l’aboliti criminis, quale effetto del fenomeno di diritto intertemporale, consegue alla corrispondente modifica normativa della fattispecie legale astratta;
– soltanto nell’ipotesi della trasformazione dell’illecito penale in illecito amministrativo (c.d. depenalizzazione) l’abolizione del reato si realizza, per lo più, sostituendo la nuova sanzione (amministrativa) a quella precedente (penale) e incidendo, quindi, certamente sulla norma incriminatrice ma non anche sulla struttura della fattispecie;
– è attraverso la fattispecie legale astratta che il legislatore individua i fatti ritenuti meritevoli del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea col “giudizio di disvalore astratto espresso dalla legge precedente”. Incisivamente si è detto che “la funzione della fattispecie legale è duplice: non solo strumento di selezione dei fatti penalmente rilevanti, ma anche strumento di de-selezione dei fatti stessi”;
– l’interprete, quindi, per accertare l’abolitio criminis, deve procedere al “confronto strutturale” tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, quella precedente e quella successiva all’intervento del legislatore, al fine di verificare la sussistenza di uno spazio comune alle dette fattispecie, senza la necessità di ricercare conferme della continuità, facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa, inidonei ad assicurare approdi interpretativi sicuri;
– se l’intervento legislativo posteriore “altera la fisionomia della fattispecie”, nel senso che sopprime un “elemento strutturale” della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci si trova – di norma – di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis, il fatto cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante per effetto dell’abrogazione di quell’elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore insito nella scelta di politica criminale; in questo caso, non può non trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 2 c.p., comma 2;
– la ratio della retroattività della legge abolitrice del reato va individuata nell’esigenza di giustizia e di ragionevolezza, non potendosi tollerare di continuare a punire chi in passato ha commesso un fatto che l’ordinamento non ritiene più meritevole o bisognoso di pena. Il principio di retroattività della legge abolitrice, anche se non inderogabile a differenza di quello della irretroattività della legge sfavorevole, finisce per acquisire rilievo costituzionale sotto il profilo dell’art. 3 della Carta Fondamentale (principio di uguaglianza) e si impone anche in forza del modello di “diritto penale del fatto” accolto nel nostro ordinamento.
6. Sintetizzando quanto sopra premesso, va quindi rilevato che il criterio strutturale consente di dare rilievo alla “funzione” della modifica normativa di incidere sulla fattispecie legale astratta.
Modifiche mediate che possono incidere sugli elementi strutturali del reato, come quelle sul soggetto attivo.
Proprio su questo campo le Sezioni unite hanno ritenuto che la perdita dello status di cittadino extracomunitario per effetto dell’adesione del suo Stato di cittadinanza all’Unione Europea non venisse ad integrare un fenomeno di abolitio criminis del reato di inosservanza dell’ordine di allontanamento dallo Stato impartito dal questore, perché il novum non veniva ad integrare il precetto penale (che vedeva come soggetto attivo pur sempre il cittadino extracomunitario), ma soltanto ad incidere su un mero dato di fatto.
La Suprema Corte ha osservato che la situazione di fatto e di diritto antecedente all’adesione e quella successiva erano diverse e richiedevano quindi logicamente risposte punitive diverse.
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi in relazione al novum apportato dall’art. 180 cit., che non ha modificato la fattispecie astratta del peculato.
Tale norma ha fatto venir meno “in concreto” la qualifica soggettiva pubblicistica del gestore, ma non ha di certo alterato la definizione stessa di incaricato di pubblico servizio.
Dal raffronto delle due fattispecie è evidente che il legislatore non ha inteso incidere su un “elemento strutturale” del delitto di peculato, ma è intervenuto modificando lo status di fatto del gestore rispetto alla tassa di soggiorno: dal ruolo di incaricato o soltanto di custode del denaro pubblico incassato per conto del comune a quello di soggetto obbligato solidalmente al versamento della imposta.
Si tratta in definitiva di fattispecie tra loro eterogenee: l’una destinata ad operare in rapporto al vecchio regime dell’imposta di soggiorno – e alla qualifica pubblicistica dell’albergatore (e del denaro incassato), l’altra in relazione al nuovo regime dell’imposta stessa – e alla qualifica privatistica dell’albergatore (e del denaro incassato).
Coerente a tale diverso assetto è il disvalore del fatto e quindi la diversa risposta punitiva, restando pur sempre nell’area penale il comportamento di colui che, in ragione del servizio pubblico svolto, si sia appropriato di denaro che, al momento dell’incasso, era della pubblica amministrazione.
7. Non può ritenersi infine che l’art. 180 cit., sia in realtà una norma interpretativa, che abbia inteso cioè vincolare il giudice nella qualificazione giuridica del rapporto tributario sottostante alla tassa di soggiorno, non risultante da una norma specifica e ricostruito sulla base dei principi generali.
Una siffatta soluzione richiama quanto a suo tempo affermato dalla sentenza delle Sezioni Unite Tuzet (Sez. U, n. 8342 del 23/05/1987. Tuzet, Rv. 176404), con la quale si è ritenuta rilevante, ai fini della abolitio criminis in tema di peculato, la diversa qualificazione data ai dipendenti bancari, che avevano perso la qualità di incaricati di pubblico servizio: in tal caso le Sezioni unite hanno rilevato che la diversa qualificazione, più che di una modificazione normativa, era stato il frutto di una diversa interpretazione, alla quale andava riconosciuto valore retroattivo, come avviene normalmente per le operazioni interpretative.
Nel caso in esame, una siffatta interpretazione “autentica” con effetto retroattivo non è praticabile per una serie di ragioni.
In primo luogo, essa risulterebbe contraria ai principi costituzionali in tema di riserva di legge in materia tributaria, che impone al legislatore di individuare con sufficiente analiticità gli elementi essenziali della stessa prestazione (presupposto d’imposta, base imponibile, soggetti obbligati, indici di capacità contributiva) (tra tante, Corte Cost. n. 69 del 2017).
Anche D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, sopra richiamato che disciplina la potestà regolamentare comunale in materia tributaria, richiamato dall’art. 4 cit., stabilisce che tale potestà non possa estendersi all’individuazione dei soggetti passivi.
Il silenzio del legislatore in altri termini quanto all’imputazione in capo al gestore del rapporto tributario assume un significato non diversamente interpretabile.
Ma vi sono anche argomenti che fanno protendere per un consapevole silenzio del legislatore.
Si tratta delle plurime occasioni nelle quali il legislatore ha riformato l’imposta di soggiorno di cui all’art. 4 cit., lasciando tuttavia volutamente inalterata la disciplina relativa al gestore delle strutture ricettive.
Significativa è la novella dell’art. 4 introdotta dal D.L. 22 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, che, nell’ambito di disposizioni in materia di “semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”, ha introdotto (comma 3-bis) la “imposta di sbarco” (ora denominata “contributo di sbarco”) che i comuni, che hanno sede giuridica nelle isole minori e i comuni nel cui territorio insistono isole minori, possono istituire “in alternativa all’imposta di soggiorno di cui al comma 1”.
In tal caso, il legislatore ha inteso istituire il nuovo tributo con modalità (e conseguenze) del tutto analoghe rispetto a quelle ora previste anche per il gestore, definendo espressamente la compagnia di navigazione come “responsabile di imposta”, mantenendo tuttavia sino alla novella del 2020 una disciplina volutamente differenziata per l’imposta di soggiorno.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che l’imposta di sbarco, sia pur presentando analogie con la “tassa di soggiorno” e, potendosi sostituire ad essa, sia da considerare una imposta “nuova”, basata su presupposti alternativi a quelli dell’imposta di soggiorno (Sez. 5 civ., n. 31800 del 05/12/2019, Rv. 656027).
Nella stessa linea di differenziare espressamente il regime della imposta di soggiorno da altre forme di tributi comunali connessi ad analoghi presupposti si pone il D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito nella L. 21 giugno 2017, n. 96, che ha previsto la responsabilità del pagamento dell’imposta di soggiorno a carico di coloro che incassano, anche quali intermediari, i corrispettivi ed i canoni relativi alle locazioni brevi.
Non da ultimo, va rilevato che una interpretazione autentica abrogans da parte del legislatore, non accompagnata da disposizioni transitorie, avrebbe l’effetto illogico ed irragionevole di privare per il passato del tutto di sanzione (anche amministrativa o tributaria) la condotta del gestore che ha omesso il versamento dell’imposta – anche se effettivamente riscossa dal cliente.
Come ha chiarito la giurisprudenza (Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012; Campagne, Rv. 252694), il principio di cui all’art. 2 c.p.p., comma 4, (retroattività della legge più favorevole al reo) non è stato recepito nella L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 e non è estensibile alla disciplina della “successione” dell’illecito amministrativo rispetto all’illecito penale, essendo, invece, necessarie apposite norme, affidate alla discrezionalità del legislatore ordinario (pur sempre nel rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.), per poter superare l’autonomo principio d’irretroattività, che per l’illecito tributario trova la sua costituzionalizzazione nell’art. 23 Cost..
8. È appena il caso di precisare che, in mancanza del presupposto costituito dall’identità del fatto, non può venire in considerazione per le condotte pregresse neppure il principio di specialità previsto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9, secondo il quale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”.
9. Conclusivamente, per il complesso delle suddette argomentazioni, deve ribadirsi la rilevanza penale a titolo di peculato delle condotte, tra cui quella ascritta al ricorrente, commesse in epoca anteriore alla novatio legis di cui all’art. 180, comma 4, cit.
10. Passando quindi ad esaminare i motivi di ricorso, devono ritenersi infondate le critiche del ricorrente.
10.1. Quanto alla prova del peculato, va osservato che la Corte di appello ha accertato la avvenuta riscossione della imposta ad opera del ricorrente non sulla base di un ragionamento meramente induttivo, mutuando le regole dell’accertamento tributario, bensì fondandosi su convergenti elementi indiziari, costituiti da un lato dal comportamento del ricorrente – che alla contestazione aveva provveduto a versare la somma senza nulla obiettare – e dall’altro dalle dichiarazioni rese dal medesimo durante l’accertamento fiscale, quanto al valore non dirimente della dicitura “tassa di soggiorno” apposta sulle ricevute (indipendentemente dalla dicitura, la ricevuta era, secondo il ricorrente, sempre comprensiva della tassa di soggiorno).
Va a tal riguardo rammentato che, in tema di prova indiziaria, alla Corte di Cassazione compete il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi, nonché la verifica della completezza, della correttezza e della logicità del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario, ma non, anche, un nuovo accertamento che ripeta l’esperienza conoscitiva del giudice del merito (tra tante, Sez. 5, n. 602 del 14/11/2013, dep. 2014, Ungureanu, Rv. 258677).
Così delimitato il controllo di legittimità le censure appaiono prive di fondamento, posto che la Corte di appello ha dato conto della gravità, precisione e concordanza degli indizi, con ragionamento non manifestamente illogico.
10.2. Quanto poi alla correttezza del ragionamento probatorio, il rilievo è generico.
Va rammentato, in tema di attività ispettive di vigilanza di natura amministrativa, che il momento a partire dal quale, nel corso di tale attività, sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale è quello nel quale è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata (Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019, Di Vico, Rv. 276679).
In particolare, va tenuto presente che le Sezioni unite hanno affermato che il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato ed il connesso divieto di utilizzazione si applicano alla testimonianza resa da un ispettore del lavoro su quanto a lui riferito da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell’attività ispettiva, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni, ciononostante, siano state assunte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa, atteso che il significato dell’espressione “quando (…) emergano indizi di reato” – contenuta nell’art. 220 disp. att. c.p.p. e tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell’ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale – deve intendersi nel senso che presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 c.p.p., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).
La censura difensiva presuppone quindi che nell’inchiesta amministrativa si fosse già delineato, nei termini indicati dalle Sezioni Unite, al momento della dichiarazione resa dal ricorrente, un fatto di rilievo penale inteso questo nella sua completezza come descritto nella fattispecie normativa.
Va a tal riguardo rammentato che la regola per cui la inutilizzabilità può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento deve essere raccordata alla norma che limita la cognizione della corte di cassazione, oltre i confini del “devolutum”, alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto.
Ne consegue che non possono essere proposte – come nelle specie – per la prima volta, nel giudizio di legittimità, questioni di inutilizzabilità la cui valutazione richieda accertamenti di merito, che come tali devono essere necessariamente sollecitati nel giudizio di appello (tra tante, Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, Tomasi, Rv. 269891).
11. Sulla base di quanto premesso, il ricorso va rigettato con le conseguenze di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.