CAUSALITA’ DELL’AMIANTO: ANCORA SULLA NATURA DOSE-DIPENDENTE DEL MESOTELIOMA E SUL RAPPORTO TRA GIUDICE E LEGGE SCIENTIFICA

1. Il giudice di merito, tramite una documentata analisi della letteratura scientifica in materia, con l’ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, è tenuto a valutare l’attendibilità di una determinata teoria attraverso la rigorosa verifica di una serie di parametri oggettivi, tra cui la validità degli studi che la sorreggono, le basi fattuali su cui gli stessi sono stati condotti, l’ampiezza e la serietà della ricerca, le sue finalità, il grado di consenso che raccoglie nella comunità scientifica e l’autorevolezza e l’indipendenza di chi ha elaborato detta tesi.

 

2. Sul piano della causalità generale dell’esposizione all’amianto, la teoria dose-correlata, prescelta e accreditata in particolare dalla III Consensus Conference (e recepita nella sentenza impugnata), indica il susseguirsi di due fasi distinte: quella della c.d. induzione (a sua volta distinta in iniziazione e promozione) in cui ogni successiva esposizione è rilevante sul piano causale ai fini del prodursi del mesotelioma pleurico maligno; e la fase della c.d. progressione, o latenza
in cui il processo carcinogenetico è irreversibile e ogni successiva esposizione all’amianto è ormai irrilevante. Lo spartiacque fra le due fasi – ossia il momento in cui termina la fase dell’induzione e quello dopo il quale si colloca la fase della progressione o latenza clinica – è costituito dal c.d. failure time, che segna il momento a partire dal quale le ulteriori esposizioni all’amianto sono prive di rilevanza causale.
Nel caso in cui – come nella specie – le vittime siano state esposte all’amianto per periodi assai prolungati in cui si siano succeduti più titolari di posizioni di garanzia, all’interno dei quali si colloca quello in cui gli imputati avevano assunto la qualità di garanti, occorre stabilire se sia possibile affermare che quest’ultimo periodo fosse sovrapponibile in tutto o in parte con la fase dell’induzione: quesito alla cui risposta è legata, sul piano logico, la possibilità di attribuire rilievo eziologico alle condotte commissive od omissive attribuite agli imputati in quella fase.

 

3. In tema di accertamento del rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, per affermare la responsabilità dell’imputato fondata sull’effetto acceleratore sul mesotelioma della esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell’insorgenza della malattia, il giudice, avendo la relativa legge scientifica di copertura natura probabilistica, deve verificare se l’abbreviazione della latenza della malattia si sia verificata effettivamente nei singoli casi al suo esame, essendo a tal fine necessarie informazioni cronologiche che consentano di affermare che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione e dovendo altresì essere noti e presenti nella concreta vicenda processuale i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo. È, in altri termini, necessario acquisire processualmente la certezza (dandone poi adeguatamente conto in motivazione) che, nel periodo di assunzione della posizione di garanzia da parte del soggetto chiamato a rispondere degli esiti letali dell’esposizione, quest’ultima fosse causalmente idonea ai fini della patogenesi e dell’accelerazione del decorso infausto della malattia. Ciò che può avvenire unicamente sulla base di tesi qualificate ed accreditate dalla comunità scientifica, idonee come tali a dare copertura logica all’accertamento processuale; e, ad esempio – nel caso di adesione alla teoria dose – correlata e ai risultati della III Consensus – collocando con certezza il c.d. failure time o nel corso del periodo in cui il garante espletava le sue funzioni, o “a valle” di tale periodo.

 

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Milano, in data 21 marzo 2019, ha parzialmente riformato la sentenza con la quale, in data 10 febbraio 2017, il Tribunale di Pavia, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia e alle correlate statuizioni civili e accessorie C.M. e M.L. , in relazione a molteplici ipotesi di omicidio colposo loro contestate con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni: ipotesi che, sinteticamente, erano correlate alla posizione di garanzia loro rispettivamente attribuita -in relazione alle funzioni apicali da loro rispettivamente ricoperte – nell’ambito di diverse articolazioni del gruppo Fibronit, e che si assumevano causate dalla diffusione di polveri sottili di amianto oggetto delle lavorazioni presso lo stabilimento Fibronit di (…). Gli effetti diffusivi delle polveri di amianto provocavano, secondo l’assunto accusatorio, patologie asbesto – correlate con esiti letali non solo ai danni di dipendenti dello stabilimento, ma anche ai danni di persone estranee alle lavorazioni ma che risiedevano a una distanza di poche centinaia di metri dalla fabbrica, o che comunque avevano avuto contatti con particelle di amianto provenienti dal suddetto stabilimento.
Più precisamente, quanto al C. , la posizione di garanzia a lui attribuita è stata correlata alla sua qualità di consigliere della Cementifera Italiana Fibronit dal 4 febbraio 1977 al 31 agosto 1981, e della Finanziaria Fibronit dal 1 settembre 1981 al 5 dicembre 1987, nonché di amministratore delegato della Finanziaria Fibronit dal 16 dicembre 1987 al 29 giugno 1996 e della Fibronit s.p.a. dal 1 settembre 1981 al 18 dicembre 1985.
Quanto al M. la posizione di garanzia a lui attribuita è stata correlata alla sua qualità di consigliere Fibronit s.p.a. dal 19 dicembre 1985 al 28 giugno 1987 e di direttore dello stabilimento di (…) dal 1 settembre 1981 al 18 dicembre 1985.
1.1. Il giudizio abbreviato nei confronti del C. e del M. era stato celebrato sotto la condizione di una duplice perizia: veniva infatti espletata avanti il Tribunale una perizia collegiale di igiene del lavoro (c.d. perizia (omissis) ) e una perizia collegiale medico-legale (a cura del collegio peritale O. -G. -P. ).
In primo grado i due sunnominati imputati erano stati riconosciuti responsabili dei delitti di omicidio colposo loro ascritti in danno di V.A., M.A.V., L.A., E.M., C.F., P.A., G.D.C., G.F., D.P., L.M., A.C., S. O., C. M., C. C., G.G., L.B. e A. M. (capo C), E.M. (capo D), G.G. e G.A.(capo F), A.B. (capo G), G.M. cl. 1922 e A.V. (+Altri) M.A.V., G.G., G.M. e A.V., riducendo per l’effetto la pena loro applicata in primo grado e confermando nel resto la sentenza appellata.
1.2. A parte le declaratorie di prescrizione, ha sostanzialmente trovato conferma l’impianto accusatorio basato sulla situazione di grave e generalizzato inquinamento ambientale registrata a (…) come conseguenza esclusiva della presenza dello stabilimento (che lavorava direttamente l’amianto e produceva manufatti in cemento-amianto), all’interno del quale il personale operava senza il rispetto di alcuna norma di sicurezza e senza alcuna informazione sui pericoli derivanti dall’esposizione all’asbesto, usufruendo per tutta protezione di fragili mascherine di carta. La pericolosità dell’amianto, osserva la Corte di merito, era già ben nota allorché i due imputati ricoprirono le rispettive posizioni di garanzia; ma le norme relative alla protezione dei lavoratori e dei residenti restavano costantemente violate, sia pure a fronte di alcuni interventi per impianti di aspirazione e riduzione del tenore di fibre nell’aria, giudicati tuttavia insufficienti dai periti.
In estrema sintesi, e con specifico riguardo alla patogenesi del mesotelioma pleurico (forma tumorale sostanzialmente nnonofattoriale), la decisione della Corte distrettuale è stata adottata sulla base dei criteri indicati dalla III Consensus Conference, prendendo specificamente in considerazione la fase dell’induzione (comprensiva dell’iniziazione, in cui l’agente cancerogeno aggredisce le cellule; e della promozione, in cui le cellule iniziano a proliferare): come noto, in base alla teoria dose-correlata, durante questa fase assumono rilevanza eziologica tutte le esposizioni del soggetto all’amianto. La fase dell’induzione si conclude con il failure time, seguito dalla c.d. progressione (o latenza clinica): una fase, quest’ultima, in cui il processo carcinogenetico è ormai irreversibile, con conseguente indifferenza delle successive esposizioni all’asbesto.
Sulla base di indicazioni peritali, la Corte di merito ha affermato che il periodo in cui l’esposizione all’amianto assume rilievo ai fini della patogenesi si protrae per un ampio arco temporale, che ha inizio alcuni decenni prima della diagnosi (ossia del momento di riconoscibilità clinica del mesotelioma); mentre la latenza clinica ha, secondo il consulente tecnico del P.M. prof. M.C. , una durata di circa 10 anni prima che il tumore di prime cellule maturi e divenga clinicamente riconoscibile (ciò che avviene di solito a breve distanza temporale dal decesso); con la conseguenza che, sempre secondo la tesi accolta dalla Corte territoriale, sono causalmente rilevanti tutte le esposizioni verificatesi in epoca anteriore ai 10 anni precedenti alla manifestazione clinica della malattia. Di qui, una volta applicato questo criterio ai singoli casi onde appurare la causalità individuale, la Corte di merito giunge ad affermare la penale responsabilità dei due imputati in relazione all’epoca in cui essi assunsero qualifiche apicali, sovrapposta all’esposizione all’asbesto delle vittime.
2. Avverso la prefata sentenza d’appello ricorrono sia il C. , sia il M..
3. Il ricorso del C. si articola in cinque ampi motivi.
3.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in relazione a una pluralità di elementi.
In primo luogo, lamenta l’erroneo percorso argomentativo della Corte a proposito dell’estensione del periodo in cui il C. ricoprì una posizione di garanzia rilevante ai fini dell’imputazione: posizione che al più, obietta il ricorrente, può farsi coincidere con il periodo dal 30 agosto 1981 al 18 dicembre 1985 in cui il C. ricoprì la carica di amministratore delegato della Fibronit, ma non certo nella fase antecedente (in cui egli era mero consigliere di amministrazione, sprovvisto di concreti poteri decisionali) nè in quella successiva, in cui, pur facendo parte del board della Finanziaria Fibronit, non aveva più compiti inerenti alla manutenzione e alla verifica degli impianti dello stabilimento di (…). E, anche nel periodo 1981 – 1985, il C. non avrebbe potuto tenere un comportamento diverso, a considerare che nel Consiglio di amministrazione sedeva anche la proprietà dell’azienda (come riconosciuto giudizialmente dalla Corte d’appello di Milano nei riguardi dei coimputati D.P. e B. , separatamente giudicati, che ricoprivano come lui la carica di amministratori della società).
In secondo luogo, il ricorrente censura – con dovizia di argomenti – il percorso argomentativo della Corte d’appello a proposito della causalità generale e con specifico riguardo alla durata della c.d. latenza clinica del mesotelioma: durata che la Corte di merito, valorizzando un cenno fatto a tale profilo dal C.T. prof. M. durante il suo esame, ha ritenuto di indicare in circa 10 – 12 anni al massimo, applicando poi tale arco temporale a ritroso a tutte le vittime. Il ricorrente lamenta che tale elemento, sul quale si basa nell’essenziale l’affermazione di penale responsabilità del C. (che ricoprì la posizione di garanzia a lui assegnata in epoca antecedente i 10 anni dalla diagnosi di mesotelioma delle vittime, dunque in coincidenza con la fase di ritenuta induzione della neoplasia), esula radicalmente da quelli sui quali vi è generalizzata condivisione da parte di tutti gli esperti intervenuti nel presente giudizio, nessuno dei quali ritiene scientificamente provata tale stima temporale, che oltretutto non è neppure frutto dei lavori della III Consensus Conference. In realtà, spiega il ricorrente, la stima della durata media di 10 anni della latenza clinica è probabilmente frutto di un equivoco: ossia di una valutazione espressa dai consulenti tecnici del P.M. secondo i quali – tenuto conto dell’impossibilità di distinguere il tempo di induzione dal tempo di latenza clinica – l’unico elemento oggettivo (ossia la durata della latenza convenzionale, compresa tra la prima esposizione e la diagnosi di mesotelioma) è stato misurato, nel minimo, in 10 – 15 anni; con la conseguenza che è, semmai, possibile ricavare il termine di durata minimo della latenza clinica, ma non quello massimo. Inoltre, prosegue il ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata è pure affetta da illogicità laddove, dopo avere ammesso l’impossibilità scientifica di individuare la durata del periodo di induzione e di collocare il failure time, pretende di stabilire con certezza la durata della fase successiva (ossia la latenza clinica).
In terzo luogo, il ricorrente affronta il tema della causalità individuale per censurare anche sotto questo profilo il percorso argomentativo della sentenza impugnata, che non ha considerato nè la maggior valenza causale delle prime esposizioni alle fibre di asbesto, nè la differente (e assai migliorata) situazione della concentrazione e del controllo della dispersione delle fibre di amianto nel periodo in cui il C. assunse la posizione di garanzia, dovuta ai rilevantissimi investimenti sostenuti dalla società in quel periodo. Vengono poi passati in rassegna i singoli casi, in cui si evidenziano nell’essenziale i dati relativi all’inizio dell’esposizione delle vittime (assai più forte e largamente antecedente, in generale, rispetto al momento di assunzione della carica di amministratore delegato di Fibronit da parte del C. ) e al protrarsi del periodo di latenza convenzionale per molti decenni. Oltre ai numerosi casi di decessi a causa di mesotelioma pleurico, il ricorrente analizza gli unici due casi (G.A. e G.L. ) in cui il C. è stato riconosciuto responsabile di decessi per asbestosi: in questi casi, sottolinea l’esponente, non valgono le teorie riguardanti il mesotelioma pleurico, accolte tuttavia dalla Corte di merito anche per ciò che riguarda il G. e il G. , con percorso argomentativo che viene perciò censurato nel ricorso.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso, si denuncia vizio di motivazione con riguardo alla declaratoria di prescrizione del reato in relazione ai decessi di V.A. , (+Altri) , riguardo ai quali – osserva il ricorrente – non può in primo luogo dirsi provato che la causa del decesso fosse realmente il mesotelioma pleurico (nessuna delle suddette vittime fu sottoposta ad autopsia); e per il resto valgono considerazioni analoghe a quelle svolte a proposito delle altre morti per mesotelioma per cui v’è condanna (di cui al primo motivo di ricorso) in base alle quali non vi è alcuna certezza in ordine alla rilevanza dell’esposizione ad amianto delle vittime durante il periodo in cui il C. assunse la posizione di garante.
3.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in relazione alla mancata integrazione della perizia medico – legale, finalizzata a verificare la correttezza della diagnosi relativa alle cause di decesso delle vittime per le quali la diagnosi di mesotelioma e/o di asbestosi non risulta effettuata secondo le linee guida internazionali oggi vigenti; confutando l’argomento della Corte di merito, secondo la quale l’integrazione della perizia sarebbe stata incompatibile con il rito abbreviato prescelto e la prova della morte delle vittime per mesotelioma pleurico si ricaverebbe dall’esame autoptico dei tessuti, il ricorrente premette che il rito abbreviato era stato ammesso sotto condizione di stabilire, attraverso una perizia medico-legale, quali fossero state le cause del decesso delle persone offese; ed osserva che la perizia disposta dal Tribunale non ha fornito al riguardo risposte sufficientemente certe. Quanto alla prova della patologia responsabile del decesso, il ricorrente rileva che su 5 delle 27 vittime non fu eseguita alcuna autopsia; e che per il resto non furono osservate le linee guida internazionali, come sarebbe stato necessario per evitare falsi positivi.
3.4. Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione a proposito del mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche, in ordine al quale la Corte non ha preso in esame le lagnanze formulate in appello dall’odierno ricorrente; nonché in ordine all’individuazione del reato più grave, che la Corte ha ritenuto essere quello commesso in danno di C.P.R. (in quanto ultimo dei decessi ascritti all’imputato) in violazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p.; ed infine, in ordine alla determinazione della riduzione della pena per effetto della declaratoria di prescrizione di alcuni reati.
3.5. Con il quinto e ultimo motivo il deducente lamenta vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della disciplina del concorso formale di reati (ovvero di quella di cui all’art. 589 c.p., u.c.) tra i fatti oggetto del presente processo e quelli di cui:
– al procedimento n. 2221/03 R.G.N. R. Procura di Massa (definito con sentenza n. 34/06 emessa il 20 febbraio 2006 dal G.u.p. del Tribunale di Massa) riferito ai decessi e alle lesioni conseguenti alle esposizioni all’asbesto presso la Fibronit di (…);
– al procedimento n. 4178/13 R.G.N. R. Procura di Bari, definito con sentenza n. 2446/2015 emessa il 18 novembre 2015 dal G.u.p. del Tribunale di Bari per un decesso conseguente a esposizioni all’asbesto patite presso lo stabilimento Fibronit di (…);
– al procedimento n. 2252/2013 R.G.N. R. Procura di Massa (definito con sentenza n. 87/2016 emessa il 14 aprile 2016 dal G.u.p. del Tribunale di Massa) riferito a lesioni conseguenti alle esposizioni all’asbesto presso la Fibronit di (…).
4. Il ricorso di M.L. , corredato da una breve premessa, si articola in tre ampi motivi.
4.1. Con il primo motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione a una pluralità di aspetti.
In primo luogo, il ricorrente lamenta il percorso argomentativo della Corte di merito a proposito della sussistenza di “disastrose” condizioni igienico ambientali nello stabilimento di (…). Non si è tenuto conto, secondo il deducente, che, in realtà, la grave situazione presente nell’insediamento produttivo riguardava essenzialmente il periodo antecedente, fino alla metà degli anni settanta, e non quello in cui il M. assunse la carica di direttore dello stabilimento (1981 – 1985), mentre in epoca successiva sono stati riferiti dai dipendenti solo alcuni episodi risalenti al periodo dal 1988 in poi. Dal 1972 vennero acquisiti i soli dati oggettivi (rilevazioni ambientali) relativi alle condizioni igienico ambientali del sito, e nel 1981 venne anche installato un impianto funzionante a totale ciclo in depressione con prelievo di sacchi (in plastica) con ventose; ma tali elementi non sono stati considerati dalla Corte ambrosiana, che si è affidata a ricordi generici e approssimativi. In definitiva, non vi sono evidenze che consentano di riferire le condizioni di degrado igienico – ambientale dello stabilimento al periodo in cui il M. assunse la posizione di garanzia; ed oltretutto le valutazioni circa le condizioni dello stabilimento rilevate con le indagini ambientali sono state effettuate in base a criteri introdotti 15 anni dopo. Quanto alla violazione degli obblighi di informazione da parte degli imputati, il ricorrente lamenta che non si è tenuto conto della trasmissione al Consiglio di fabbrica, fin dal 1972, di una relazione sulle condizioni igienico ambientali dello stabilimento da parte dell’Istituto di Igiene dell’Università di Pavia, allegata alla consulenza della difesa; e che non è stata considerata la documentazione relativa alla messa a disposizione dei dipendenti di dispositivi di protezione e alle istruzioni al riguardo impartite al personale. Del pari, prosegue il ricorrente, si è ignorato il dato documentale (convenzione tra la Fibronit e il consiglio di fabbrica del 20 novembre 1981) riferito all’affidamento al Dott. R. delle visite mediche al personale, a norma dell’art. 30 del CCNL, nonché all’effettuazione di prove di funzionalità respiratoria e di prove ambientali. Vengono poi esaminate dal ricorrente le valutazioni operate dalla Corte di merito in ordine ad alcune fonti di prova, per ravvisarne il travisamento (ss.ii. Lanni; clausola di esonero inserita nell’appalto di affidamento a ditte esterne dello smaltimento rifiuti; riferimenti alla polverosità degli ambienti di lavoro e alle misurazioni ambientali da parte dei periti B. e W. ). Il ricorrente fa poi notare, riprendendo in ciò la consulenza tecnica della difesa, che le regole cautelari varate negli anni 50 (e richiamate nell’imputazione) erano mirate alla prevenzione dell’asbestosi polmonare – patologia dose-dipendente – ma non del mesotelioma pleurico; e che solo alla fine degli anni 80 furono immessi sul mercato dispositivi di protezione in grado di proteggere dalle polveri ultrafini.
Un secondo aspetto affrontato nel motivo di ricorso in esame riguarda la posizione di garanzia attribuita al M., legata al suo ruolo di direttore dello stabilimento di (…) dal 1981 al 1985 e poi, fino al 1987, di consigliere della Fibronit. Nè il Tribunale, nè la Corte d’appello – lamenta il deducente – si sono posti il problema dell’effettività di poteri gestionali in capo all’odierno ricorrente e alla facoltà di adottare scelte gestionali di fondo. In particolare non si è tenuto conto che l’affidamento al M. della qualità di “rappresentante stabile della dipendenza di (…)” (unitamente all’ing. S. , che con il M. condivideva l’incarico) era legato all’attribuzione al medesimo dei requisiti per esprimere “in modo uniforme e in ogni circostanza la volontà della Società”. Anche nell’articolazione delle doglianze in esame – come già si è visto a proposito del ricorso C. – vi è il rimando alle reali responsabilità gestionali in Fibronit, ravvisabili in capo al vero board decisionale della Società (e in specie ai vertici della finanziaria del gruppo). Perciò il M. non disponeva di effettivi poteri gestionali; durante il periodo 1981-1985 le sue mansioni, anche in base alle ss.ii. rese dai dipendenti dello stabilimento, erano quelle di capo turno, capo reparto ecc., ma non di responsabile dello stabilimento; anche la documentazione prodotta agli atti non consente di affermare che egli esercitasse concretamente tale funzione. Nel successivo periodo in cui il M. fu consigliere della Fibronit (19851987) non fu mai neppure convocato un C.d.A.. Anche sotto tali profili tuttavia, lamenta il ricorrente, le lagnanze difensive sono state ignorate dalla Corte di merito, che si è misurata unicamente sulle cariche formalmente ricoperte dal M..
Un terzo aspetto affrontato nel motivo di ricorso in esame è costituito dalla causalità generale dell’insorgere del mesotelioma pleurico a seguito di esposizione ad amianto e, in specie, alla correlazione causale dei decessi legati a tale patologia con il periodo in cui il M. avrebbe ricoperto la posizione di garanzia assegnatagli. Muovendo dai dubbi manifestati in sede scientifica a proposito dell’identificabilità dell’esposizione all’amianto causalmente responsabile dell’insorgere del mesotelioma – stante la natura ubiquitaria della presenza di amianto negli anni passati -, il ricorrente affronta il tema dell’individuazione, nei casi considerati, del periodo di induzione (all’interno del quale le esposizioni all’amianto assumono rilievo eziologico) e della ricavabilità a ritroso di tale periodo sulla base di quello di latenza vera (o clinica), che la Corte di merito stima in circa 10 anni sulla base delle controverse affermazioni del prof. M. . Sia pure con un tessuto argomentativo ulteriormente arricchito da alcune considerazioni di ordine tecnico, le censure articolate sulla questione dall’esponente ricalcano nella sostanza quelle, formulate su analogo profilo, nel ricorso C. , precedentemente esaminate (e alle quali perciò si rinvia).
Anche sull’ulteriore aspetto relativo alla causalità individuale (ossia all’applicazione ai casi concreti dei criteri generali elaborati dalla Corte di merito, a loro volta – come si è visto – oggetto di censura) il ricorrente, richiamando le condizioni caratterizzanti la presunta esposizione al contagio delle singole vittime, formula censure sostanzialmente sovrapponibili a quelle formulate nel ricorso C. a proposito dei singoli casi; alle quali può, anche in questo caso, farsi rinvio. Lo stesso è a dirsi per quanto concerne il decesso di G.A. , morto per asbestosi, ma riguardo al quale (osserva il ricorrente, come già fatto nel ricorso del coimputato C. ) la Corte ha adoperato del tutto erroneamente gli stessi criteri di valutazione adottati per i decessi per mesotelioma pleurico.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia vizio della motivazione con riguardo alla declaratoria di prescrizione del reato quanto alle posizioni di V.A. , (+Altri) ; il ricorrente articola, per ciascuno dei casi in esame, considerazioni del tutto analoghe a quelle spese in riferimento al nesso causale individuale per gli altri casi, confutandone la sussistenza e perorando perciò il proscioglimento dell’imputato nel merito, in termini analoghi a quanto aveva già fatto, nel secondo motivo di lagnanza, il coimputato C. .
4.3. Con il terzo e ultimo motivo di ricorso si lamenta vizio di motivazione a proposito del mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche, alla quantificazione della pena base in tre anni di reclusione e alla quantificazione della pena irrogata: statuizioni giudicate non consone rispetto alla posizione del M..
5. Da ultimo va dato atto che la costituita parte civile INAIL, in persona del Presidente pro tempore e per il tramite del suo difensore di fiducia, ha depositato in Cancelleria, in data 3 agosto 2020, una memoria difensiva a conclusione della quale ha insistito per la conferma della sentenza impugnata e per il rigetto dei ricorsi. Analogamente l’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, con memoria depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2020, ha chiesto che i ricorsi vengano dichiarati inammissibili o, comunque, rigettati.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Prima di affrontare i profili attinenti alla fondatezza o meno dei motivi di ricorso, è opportuno premettere che nel caso di specie non vi è sostanzialmente contestazione, se non per marginali profili, circa la riferibilità causale alle emissioni dello stabilimento Fibronit di (…) dell’insorgenza delle patologie asbesto-correlate che trassero a morte le numerose vittime. Manca, in generale, una qualsiasi prospettazione di decorsi causali alternativi.
Va peraltro tenuto presente che le emissioni di asbesto, che interessarono non solo i lavoratori dipendenti dalla Fibronit ma anche i loro familiari ed inoltre alcuni soggetti residenti in prossimità dello stabilimento di (…), iniziarono – in base ai dati disponibili e recepiti nella sentenza impugnata – nel 1932. Risulta, sulla base della perizia B. – W. richiamata dalla Corte ambrosiana, che vi fu un primo periodo (fino al 1975 – 1980) in cui le condizioni di degrado e di mancanza di sicurezza dello stabilimento erano particolarmente accentuate; mentre nel periodo successivo furono effettuati investimenti per impianti di aspirazione e riduzione del livello di fibre nell’aria, sebbene essi siano stati reputati insufficienti e le deposizioni a sommarie informazioni di alcuni dipendenti (richiamate alle pagine da 21 a 24 della sentenza impugnata) abbiano riferito di guasti e malfunzionamenti anche frequenti in tale periodo (i quali peraltro si collocano per lo più dopo il 1988 – 1990).
2. In tale quadro, assumono preliminare rilievo – ai fini della risoluzione del problema della c.d. causalità generale – le posizioni di garanzia rispettivamente assunte dal C. e dal M., la cui attribuzione è però oggetto di censure nel primo motivo di ambo i ricorsi: i quali, va precisato fin d’ora, presentano già a tale riguardo alcuni elementi di parziale fondatezza.
Alla questione dell’assunzione della qualità di garanti da parte dei due odierni ricorrenti la sentenza impugnata dedica nell’essenziale le pagine da 29 a 31.
La posizione di garanzia del C. – sostanzialmente pacifica quanto al periodo 1981/1985 – viene estesa all’indietro quanto meno al 1977 (anno in cui il C. assunse la qualità di amministratore delegato della Fibronit Cementifera) mentre per il periodo successivo vi è un riferimento a quanto riportato in una nota della Guardia di Finanza del 18 febbraio 1990 circa i poteri attribuiti all’imputato di “fare quanto si renderà necessario ed opportuno per l’ordinaria amministrazione della società”, senza ulteriori specificazioni, neppure circa l’arco temporale in cui il C. avrebbe esercitato tali poteri.
Quanto al M., la sua posizione di garanzia viene fatta coincidere con il periodo (1981/1985) in cui egli ricoprì la carica di rappresentante dello stabilimento Fibronit di (…) e capo reparto (funzioni che, secondo la Corte di merito, erano assimilabili a quelle di direttore dello stabilimento, anche sulla base di alcune deposizioni di lavoratori che indicavano il M. quale soggetto che avrebbe condiviso la qualità di responsabile dello stabilimento con il Dott. S.D.A. ). Per il successivo periodo 1985/1987 la Corte di merito fa unicamente riferimento alla qualifica di consigliere d’amministrazione della Fibronit s.p.a. attribuita al M..
Non è molto più circostanziato il percorso argomentativo seguito al riguardo dal Tribunale di Pavia.
La sentenza di primo grado, dopo avere ricordato quali fossero le cariche rispettivamente ricoperte dal C. e dal M. come da imputazione (pag. 191), si limita, quanto al primo, ad affermare testualmente (p. 193) che egli appare “già “prima facie” come uno dei “dominus” nel board della società e, come tale, egli è stato in grado di determinare le politiche aziendali e produttive nell’arco temporale di interesse per questo processo”; quanto al M., evidenzia (ibidem) che egli, nel periodo in cui fu direttore dello stabilimento, avrebbe potuto almeno fermare medio tempore la produzione e comandare l’allontanamento cautelativo delle maestranze in occasione dei frequenti guasti alle tubature, ed avrebbe altresì potuto apportare “innumerevoli migliorie” su un ciclo produttivo definito come “sgangherato” (nelle pagine precedenti, peraltro – vds. pp. da 140 a 144 -, la stessa sentenza aveva descritto gli esiti dei monitoraggi effettuati dopo il 1981 sulle condizioni dello stabilimento, dando atto di un miglioramento – significativo, anche se giudicato insufficiente – delle condizioni di salubrità dell’impianto e, in specie, di una riduzione delle concentrazioni di fibre di amianto rilevate).
Peraltro, può ritenersi che il percorso argomentativo della sentenza impugnata e di quella di primo grado sia sufficiente con riguardo al periodo compreso tra il 1981 e il 1985: periodo nel quale, rispettivamente, il C. ha praticamente ammesso la sua qualità di garante (nella posizione di amministratore delegato della società) pur allegando la sua sostanziale mancanza di poteri in seno al consiglio di amministrazione; e il M. ha espletato funzioni assimilabili a quelle di direttore dello stabilimento (in ordine alle quali si rimanda, tra le tante, a Sez. 4 -, Sentenza n. 8094 del 16/11/2018, dep. 2019, Stricchi, Rv. 275151) e comunque, come evidenziato da parte dei giudici di merito, era effettivamente nelle condizioni di attivarsi – quanto meno inviando le necessarie segnalazioni e sollecitazioni ai vertici aziendali – per ottenere un (ulteriore e decisivo) miglioramento delle condizioni sanitarie all’interno dell’impianto.
Quanto ai rimanenti periodi, la sentenza impugnata – come, pervero, quella di primo grado – sconta un deficit motivazionale, limitandosi a prendere atto della formale attribuzione al C. e al M. di funzioni “apicali” e non avendo cura di esaminare in modo puntuale gli effettivi poteri di gestione dei due imputati, nelle rispettive qualità; inoltre, come già si è accennato, la Corte ambrosiana, alle pagine da 21 a 24, richiama le deposizioni di alcuni lavoratori che tuttavia si riferiscono essenzialmente a malfunzionamenti che si collocano per lo più in periodi diversi da quelli oggetto di considerazione.
Per quanto in particolare attiene al C. , il mero riferimento al suo inserimento nel board societario non è appagante, a considerare che, sebbene sia vero che possono assumere posizioni di garanzia anche i componenti del comitato esecutivo (c.d. board) di una società, tali posizioni sono condizionate al fatto che sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell’ambito operativo della società, con particolare riferimento alle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro (cfr., condivisibilmente, Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti e altri, Rv. 271719: fattispecie in cui è stata confermata la sentenza che aveva assolto i componenti del comitato esecutivo di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, sia perché il comitato non si era mai riunito, sia perché attribuzioni e poteri erano stati “di fatto, in modo sostanziale” delegati all’amministratore delegato e a determinati soggetti non componenti del comitato esecutivo nè membri del consiglio d’amministrazione).
Quanto al M., è parimenti del tutto carente l’incedere argomentativo delle sentenze di primo grado e di appello per il periodo successivo al 1985, in cui il ricorrente era mero componente del consiglio di amministrazione, che peraltro in tale periodo neppure si sarebbe riunito.
3. Ma è soprattutto sul piano dell’esame della patogenesi generale (in relazione, cioè, alla generalità dei casi di mesotelioma) che la motivazione della sentenza impugnata risulta del tutto insufficiente.
Invero, va premesso che, pur essendo pacifica la riferibilità causale delle morti da mesotelioma alle emissioni di polveri di amianto all’interno e all’esterno dello stabilimento di (…), si pone nell’ambito di questo giudizio – come in numerosi altri precedenti riferiti a patologie asbesto-correlate – la necessità di verificare la correlazione tra tale riferibilità causale e quanto accaduto nel periodo in cui gli imputati ricoprirono la posizione di garanti, a fronte del succedersi di posizioni di garanzia in costanza di esposizione delle vittime all’amianto.
Dato per acquisito, infatti, che la posizione di garanti può essere ravvisata in modo sostanzialmente certo, sia in capo al M. che in capo al C. , nel periodo compreso tra il 1981 e il 1985, si tratta di vedere se, alla stregua del percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito, tale periodo coincida in modo certo ed evidente, in tutto o in parte, non solo con la generica esposizione delle vittime all’amianto, ma anche con un’esposizione eziologicamente rilevante ai fini della patogenesi: in una parola, con la fase della c.d. induzione.
Può infatti affermarsi che – pur nella varietà di posizioni e teorie scientifiche discusse nel corso del giudizio, illustrate in particolare nella sentenza di primo grado – vi è, al riguardo, un punto fermo sostanzialmente pacifico, ossia che, sul piano della causalità generale dell’esposizione all’amianto, la teoria dose-correlata, prescelta e accreditata in particolare dalla III Consensus Conference (e recepita nella sentenza impugnata), indica il susseguirsi di due fasi distinte: quella della c.d. induzione (a sua volta distinta in iniziazione e promozione) in cui ogni successiva esposizione è rilevante sul piano causale ai fini del prodursi del mesotelioma pleurico maligno; e la fase della c.d. progressione, o latenza
in cui il processo carcinogenetico è irreversibile e ogni successiva esposizione all’amianto è ormai irrilevante. Lo spartiacque fra le due fasi – ossia il momento in cui termina la fase dell’induzione e quello dopo il quale si colloca la fase della progressione o latenza clinica – è costituito dal c.d. failure time, che segna il momento a partire dal quale le ulteriori esposizioni all’amianto sono prive di rilevanza causale.
Nel caso in cui – come nella specie – le vittime siano state esposte all’amianto per periodi assai prolungati in cui si siano succeduti più titolari di posizioni di garanzia, all’interno dei quali si colloca quello in cui gli imputati avevano assunto la qualità di garanti, occorre stabilire se sia possibile affermare che quest’ultimo periodo fosse sovrapponibile in tutto o in parte con la fase dell’induzione: quesito alla cui risposta è legata, sul piano logico, la possibilità di attribuire rilievo eziologico alle condotte commissive od omissive attribuite agli imputati in quella fase.
Per dare una risposta certa a tale quesito occorrerebbe in sostanza stabilire con ragionevole certezza che il failure time sì sarebbe collocato o nel corso del periodo in cui il C. e il M. esercitarono funzioni di garanti, o successivamente a tale periodo.
Il punto è, insomma, costituito dalla possibilità o meno di dare una collocazione temporale sufficientemente precisa al failure time, sulla base di una legge scientifica di copertura che possa dirsi univocamente conducente in tal senso, o quanto meno su una consolidata regola di esperienza.
Tale problema chiama in causa, una volta di più, quello più generale della rilevanza della prova scientifica.
4. In proposito risulta necessario fare capo alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza, secondo la quale il giudice di merito, tramite una documentata analisi della letteratura scientifica in materia, con l’ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, è tenuto a valutare l’attendibilità di una determinata teoria attraverso la rigorosa verifica di una serie di parametri oggettivi, tra cui la validità degli studi che la sorreggono, le basi fattuali su cui gli stessi sono stati condotti, l’ampiezza e la serietà della ricerca, le sue finalità, il grado di consenso che raccoglie nella comunità scientifica e l’autorevolezza e l’indipendenza di chi ha elaborato detta tesi (Sez. 3, Sentenza n. 11451 del 06/11/2018, dep. 2019, Chianura, Rv. 275174; in termini sostanzialmente analoghi Sez. 4, Sentenza n. 22022 del 22/02/2018, Tupini e altri, Rv. 273586).
È poi chiaro che i surrichiamati principi devono essere raccordati con quelli diffusamente accolti dalla giurisprudenza di legittimità in tema di nesso causale, affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza Franzese e più volte ribaditi e precisati in successive pronunzie anche apicali.
Si ricorderà, invero, che la Sentenza Franzese enunciò il principio di diritto secondo il quale “il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata (…) la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.
Dunque, sul piano generale, l’individuazione del nesso causale deve muovere dall’accertamento (di una generalizzata regola di esperienza o) di una legge scientifica di copertura, la quale a seconda dei casi può essere universale o statistica con non trascurabili conseguenze ai fini della validazione dell’una o dell’altra, soprattutto in relazione all’applicazione al caso concreto (Sez. 4, Sentenza n. 4793 del 06/12/1990, dep. 1991, Bonetti e altri, Rv. 191789).
Il nodo fondamentale da sciogliere, sotto il profilo dell’accertamento del nesso causale tra le condotte contestate e l’evento costituito dall’insorgere di patologie asbesto – correlate, è stato individuato puntualmente dalla sentenza Cozzini, che tuttora costituisce un imprescindibile punto di riferimento in subiecta materia. Vi si afferma, in particolare, che l’affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l’evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa, all’amianto, sostanza oggettivamente nociva, è condizionata all’accertamento: (a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività dannosa e l’iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico (Sez. 4, Sentenza n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943; tra le tante conformi si veda ad es. Sez. 4, Sentenza n. 18933 del 27/02/2014, Negroni e altri, Rv. 262139).
Esaminando la questione sul piano generale, l’individuazione del nesso causale deve quindi muovere dall’accertamento (di una generalizzata regola di esperienza o) di una legge scientifica di copertura, la quale a seconda dei casi può essere universale o statistica, dove per legge scientifica universale si intende quella in base alla quale la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento; per legge scientifica statistica si intende invece quella in base alla quale il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi, con la conseguenza che queste ultime sono tanto più dotate di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e sono suscettive di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili (così, da ultimo, Sez. 4, n. 43665 del 28/10/2019, Alzati e altri, n. m.).
5. Tanto precisato, possiamo ora accostarci più direttamente al tema della selezione delle leggi scientifiche di copertura in materia di esposizione all’amianto: nell’ovvia consapevolezza che la ricerca della legge scientifica di copertura riguarda non la nocività dell’esposizione all’amianto (dato, questo, pacifico e incontrovertibile), ma la rilevanza causale del succedersi di ciascuna delle singole esposizioni (c.d. effetto acceleratore) in relazione alle singole fasi in cui si sviluppano gli effetti dell’esposizione protratta all’amianto, in funzione dell’individuazione dei soggetti responsabili nell’ambito dei periodi di esposizione “causalmente rilevante”.
È utile richiamare a tal fine l’indirizzo in base al quale, in tema di accertamento del rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, per affermare la responsabilità dell’imputato fondata sull’effetto acceleratore sul mesotelioma della esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell’insorgenza della malattia, il giudice, avendo la relativa legge scientifica di copertura natura probabilistica, deve verificare se l’abbreviazione della latenza della malattia si sia verificata effettivamente nei singoli casi al suo esame, essendo a tal fine necessarie informazioni cronologiche che consentano di affermare che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione e dovendo altresì essere noti e presenti nella concreta vicenda processuale i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo (Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 – dep. 2018, Cirocco e altri, Rv. 273095).
È, in poveri termini, necessario acquisire processualmente la certezza (dandone poi adeguatamente conto in motivazione) che, nel periodo di assunzione della posizione di garanzia da parte del soggetto chiamato a rispondere degli esiti letali dell’esposizione, quest’ultima fosse causalmente idonea ai fini della patogenesi e dell’accelerazione del decorso infausto della malattia. Ciò che può avvenire unicamente sulla base di tesi qualificate ed accreditate dalla comunità scientifica, idonee come tali a dare copertura logica all’accertamento processuale; e, ad esempio – nel caso di adesione alla già ricordata teoria dose – correlata e ai risultati della III Consensus – collocando con certezza il c.d. failure time o nel corso del periodo in cui il garante espletava le sue funzioni, o “a valle” di tale periodo.
6. Un discorso a parte meritano le considerazioni critiche – sviluppate anche nel corso della discussione all’odierna udienza – rivolte all’indirizzo della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel caso in cui risulti impossibile l’individuazione del momento di innesco irreversibile della malattia, nonché causalmente irrilevante ogni esposizione successiva a tale momento, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell’imputato è necessaria l’integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell’attività lavorativa della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall’imputato nei confronti della stessa (Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019, Abbona, Rv. 276339).
Tale indirizzo, che muove all’evidenza dal mai abbastanza ribadito principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, è collegato a specifiche situazioni concrete, è condizionato all’ipotesi in cui non sia processualmente possibile individuare il c.d. failure time: in tale ipotesi, si vuole affermare con l’indirizzo in esame, la soluzione univoca può raggiungersi solo nel caso dell’unicità del garante: ipotesi nella quale non si pone neppure la necessità di ricercare, e di collocare temporalmente, il momento in cui le successive esposizioni all’amianto perdono rilevanza patogenetica.
Di contro, nel caso di specie, stante il succedersi di una pluralità di garanti in costanza di esposizione all’amianto delle vittime (sia interne che estranee alle lavorazioni, ma sicuramente tutte ammalatesi in dipendenza delle emissioni di polveri di amianto nello/dallo stabilimento Fibronit di (…)), la possibilità di argomentare su basi scientifiche l’affermazione individuale di responsabilità è prioritariamente e necessariamente legata alla soluzione del problema di fondo, costituito dalla possibilità o meno di individuare, anche sul piano temporale, il discrimen tra la fase di induzione e quella di latenza clinica, in modo da accertare (e da argomentare) la sovrapponibilità almeno parziale fra la posizione di garanzia concretamente assunta dagli imputati e il protrarsi di un’esposizione all’amianto causalmente rilevante nel progredire delle patologie contratte dalle persone offese.
S’intende che tale problema di fondo può trovare adeguata soluzione, nell’ambito della singola vicenda processuale, selezionando e quindi individuando la legge scientifica di copertura ritenuta idonea; facendo buon governo, in sede applicativa, dei principi che la sorreggono; e dando veste argomentativa alla soluzione così raggiunta, alla luce delle emergenze fattuali ricavabili dall’istruttoria e caratterizzanti il caso concreto, nell’ambito delle quali collocare i suddetti principi.
7. Venendo al caso di specie, la questione appena enunciata, come correttamente prospettato dai ricorrenti, viene affrontata, sia dalla Corte ambrosiana, sia – in primo grado – dal Tribunale di Pavia, senza l’adeguato supporto della corretta enunciazione della legge scientifica di copertura e della relativa applicazione in relazione alle acquisizioni probatorie.
Ed invero, deve constatarsi che la sentenza impugnata colloca bensì il c.d. failure time “a ritroso” prima delle diagnosi di mesotelioma pleurico, nel tentativo di definire l’arco temporale indicato come “latenza clinica”; ma lo fa – in modo sostanzialmente esclusivo – mediante un breve richiamo (non già all’enunciazione – adeguatamente puntuale e argomentata – della pure evocata legge scientifica di copertura, sibbene) alle dichiarazioni rese dal C.T. del P.M. M.C. all’udienza del 26 giugno 2015, in cui si accenna brevemente – e in modo del tutto svincolato da connotazioni realmente “scientifiche” – al fatto che l’esposizione della vittima all’amianto negli ultimi 8 – 10 anni (prima della riconoscibilità clinica) sarebbe irrilevante (p. 33 sentenza impugnata); su tale base, pervero affatto sommaria e apodittica, la Corte ambrosiana giunge ad affermare che “deve sicuramente essere esclusa la rilevanza causale delle esposizioni verificatesi quantomeno nei 10 anni precedenti alla manifestazione clinica della malattia, mentre, invece, sono rilevanti causalmente le esposizioni verificatesi in precedenza” (p. 34 sentenza impugnata).
Neppure la lettura della sentenza di primo grado (che, vertendosi in un’ipotesi di “doppia conforme”, costituisce un unicum argomentativo con quella d’appello: cfr. Sez. 3, Sentenza n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595) fornisce elementi chiarificatori sul punto; ed anzi, se possibile, innesca ulteriori fattori di dubbio.
Invero, il Tribunale di Pavia, dopo un’ampia e documentata disamina delle valutazioni medico – legali circa le cause, le metodiche di diagnosi e l’evoluzione attesa delle patologie asbesto correlate (pp. 171 – 185 sentenza di primo grado), conclude che, “attesa la mancanza, allo stato dell’arte, di una solida spiegazione tossicologica, e l’equivocità o quantomeno la plurivocità del dato epidemiologico, che l’argomento della relazione tra dose di asbesto assorbita e rischio di mesotelioma pleurico non può considerarsi come un campo di indagine chiarito dalla scienza in modo definitivo” (p. 185), per poi pervenire all’affermazione in base alla quale “la dicotomia tra la teoria della “trigger dose” (…) e quella del modello multistadio della cancerogenesi (…) appare artificiosa. E ciò per il semplice fatto che al momento non si conoscono le precise dinamiche dell’innesco causale. Risulta del tutto arbitrario privilegiare una visione a scapito dell’altra, ben potendo le stesse spiegare “pro quota” una parte delle malattie effettivamente insorte” (pp. 188 – 189). Epperò, dopo tali affermazioni, il Tribunale pavese osserva (p. 189) che “la considerazione del lungo periodo di latenza e dell’effetto riparazione di cui si è dianzi detto tenderebbero a far privilegiare il modello multistadio”, salvo poi rilevare che i consulenti delle parti “hanno convenuto per la plausibilità di un criterio di interpretazione, forse sincretico ma efficace” in base al quale viene preso a riferimento un periodo di latenza di circa 40 anni, all’interno del quale vi sarebbe “una fase di induzione, o di vera latenza, che si estende tra i dieci e i venti anni in cui le esposizioni successive hanno una loro efficienza rispetto alla produzione dell’evento”, senza dimenticare che secondo il c.d. modello di Peto vi è una particolare rilevanza delle prime esposizioni successive ai 20 – 25 anni di età, con scarso rilievo delle esposizioni successive. Sulla “plausibilità” di tale criterio di interpretazione, osserva ancora il Tribunale, anche i consulenti della difesa hanno convenuto, evidenziando però che “la vera questione posta da questa linea di analisi è a questo punto data dall’indeterminatezza della prima esposizione e, soprattutto, del vero periodo di latenza”: questione, quest’ultima, che lo stesso Tribunale indica come quella cruciale, rinviandone però l’esame nell’analisi della causalità particolare, ossia del singolo caso.
Ma, nella disamina delle singole vicende, con formula standardizzata il Tribunale si limita a fare apodittico riferimento ai “tempi di latenza associati all’insorgenza del mesotelioma (da 10 – 15 anni a 60 – 70)”, senza ulteriori specificazioni e senza alcun corredo motivazionale a fronte di tale affermazione.
8. Orbene, va chiarito una volta di più che alla Corte regolatrice non spetta il compito di individuare ed enunciare i criteri scientifici che presiedono alla ricostruzione del nesso causale (sia sotto il profilo della causalità generale, sia sul piano della causalità individuale); ma quello di verificare se la decisione impugnata abbia adeguatamente argomentato circa la validità dei criteri scientifici adottati a tal fine, anche in termini di condivisione degli stessi presso la comunità scientifica di riferimento. Ed invero, “la valutazione metodologica affidata alla Corte di legittimità circa l’approccio del giudice di merito al sapere scientifico passa, necessariamente, per il controllo di tale approccio sotto il profilo dell’osservanza dei criteri e delle modalità di individuazione e di selezione della legge scientifica di copertura. Questo significa che, nello scrutinio della decisione impugnata, la Corte regolatrice può e deve esaminare il ragionamento seguito dal giudice di merito, anche alla luce dei contributi peritali e dei consulenti di parte acquisiti nel corso del giudizio, circa la validità di una determinata legge scientifica, il grado di riconoscimento che essa riscuote presso gli studiosi di settore, la sua applicabilità al caso concreto; nonché, eventualmente, circa l’applicazione dei criteri di scelta di una legge scientifica di copertura rispetto ad altre, in base ai quali essa venga ritenuta maggiormente attendibile” (così la già citata Sez. 4, n. 43665 del 28/10/2019, Alzati e altri, n. m.).
Ciò posto, non sembra occorrano eccessivi sforzi argomentativi per ritenere affatto insoddisfacente il percorso argomentativo seguito tanto dal Tribunale, quanto dalla Corte d’appello, in ordine alla “questione cruciale” della determinazione del “vero periodo di latenza”. Con l’ulteriore avvertenza che, da un lato, il riferimento della sentenza impugnata a un failure time che si collocherebbe circa 10 anni prima della diagnosi tumorale è, come si è visto, del tutto apodittico e risulta affidato nel presente giudizio a un mero riferimento, non meglio chiarito o argomentato, del C.T. M. a tale ipotesi, in sede di esame in aula; e, dall’altro, esso non risulta in alcun modo decifrabile neppure alla luce della lettura della sentenza di primo grado, dalla quale semmai sembrerebbe emergere una tempistica diversa (vi si parla della sostanziale concordanza tra consulenti tecnici in ordine alla “plausibilità” di un periodo di latenza “convenzionale” di 40 anni, all’interno del quale assumerebbe rilevanza causale una fase di “induzione” di durata compresa tra dieci e venti anni).
Invero, dando per scontato che tutte le vittime abbiano contratto il mesotelioma pleurico a causa delle polveri di amianto disperse nello (o dallo) stabilimento di (…) (con conseguente esclusione di decorsi causali alternativi), si rileva che l’arco temporale all’interno del quale si colloca, nei singoli casi, l’esposizione all’amianto è in tutti i casi assai ampio, e non è dato determinare con univoca certezza se il periodo 1981/1985 (in cui, secondo quanto si è detto, ambedue gli imputati ricoprirono posizioni di garanzia) abbia o meno trovato collocazione all’interno della fase di induzione delle singole cancerogenesi.
9. Quanto precede può meglio apprezzarsi considerando i dati schematici che seguono, relativi ai singoli casi di morte da mesotelioma pleurico per cui v’è condanna e, per ciascuno, all’arco temporale compreso tra la prima esposizione e la diagnosi, con indicazione della data del successivo decesso:
A.L. : prima esposizione 1951 – diagnosi 5 aprile 2005 – decesso 21 giugno 2005;
M.E. : prima esposizione 1953 – diagnosi agosto 2005 – decesso 9 settembre 2005;
F.C. : prima esposizione 1964 – diagnosi non indicata – decesso 31 dicembre 2005;
A.P. : prima esposizione alla nascita (9 aprile 1940) – diagnosi 23 dicembre 2004 – decesso 22 giugno 2006;
D.C.G. : prima esposizione 1962 – diagnosi 15 novembre 2005 – decesso 28 gennaio 2006;
F.G. : prima esposizione 1954 – diagnosi 6 ottobre 2005 decesso 12 agosto 2006;
P.D. : prima esposizione 1953 – diagnosi 2 aprile 2003 decesso 10 settembre 2006;
M.L. : prima esposizione 1946 – diagnosi 19 settembre 2005 decesso 6 maggio 2007;
C.A. : prima esposizione 1970 – diagnosi non indicata decesso 8 luglio 2007;
O.S. : prima esposizione 1959 – diagnosi 2007 – decesso 7 gennaio 2008;
M.C. : prima esposizione 1963 – diagnosi 2007 – decesso 18 luglio 2008;
C.C. : prima esposizione 1932 – diagnosi 28 gennaio 2006 – decesso 3 novembre 2008;
G.G. : prima esposizione 1963 – diagnosi giugno 2007 decesso 7 novembre 2008;
B.L. : prima esposizione 1932 – diagnosi non indicata – decesso 5 gennaio 2009;
M.A. : prima esposizione 1961 – diagnosi non indicata decesso 26 gennaio 2009;
M.E. : prima esposizione ritenuta rilevante 1965 – diagnosi 2004 – decesso 7 gennaio 2009;
R.E. : prima esposizione 1958 – diagnosi non indicata – decesso 24 settembre 2005;
B.A. : prima esposizione 1971 – diagnosi 2006 – decesso 5 marzo 2007;
A.T. : prima esposizione dalla nascita (29 ottobre 1960) diagnosi non indicata (anche se con manifestazione clinica collocata nel 2004) – decesso 7 dicembre 2005;
C.P.R. : esposizione collegata al lavaggio degli indumenti del padre, dipendente Fibronit dal 1959 al 1979, nonché al lavoro presso un’agenzia di assicurazioni a poca distanza dallo stabilimento per 5 mesi, nel 1980 – diagnosi collocata nel 2006 – decesso il 28 agosto 2009.
Discorso in parte diverso deve farsi per i due casi di decesso da asbestosi (anziché da mesotelioma pleurico) per i quali v’è condanna (ci si riferisce ad G.A. e G.L. ). Come correttamente osservato dai ricorrenti, nei riguardi di costoro i giudici di merito non hanno operato alcuna distinzione metodologica, nella ricostruzione del nesso causale, ma si sono contentati di correlare la patologia e il conseguente decesso alla loro esposizione all’asbesto presso la Fibronit, ove il G. (che non aveva mai abitato a (…) e che morì nel 2008) lavorò dal 1958 al 1987, e il G. (che invece vi aveva sempre abitato, a 500 metri di distanza dallo stabilimento, fino alla morte, avvenuta il 9 agosto 2005) aveva lavorato dal 1947 al 1980. Alcuna indagine risulta operata, nè alcuno sforzo argomentativo risulta compiuto nella sentenza impugnata, a proposito della rilevanza eziologica dell’esposizione all’amianto, ai fini del decesso delle due vittime da ultimo menzionate, nel periodo in cui i due ricorrenti rivestirono posizioni di garanzia.
10. Le osservazioni che precedono, e che investono nella loro interezza l’ordito motivazionale della sentenza impugnata aderente alla tesi accusatoria, assorbono le ulteriori questioni, imponendo l’annullamento della sentenza medesima.
Nondimeno appare opportuna una breve disamina di un ulteriore profilo, costituito dall’eventuale decorso della prescrizione dei reati: un profilo che i ricorrenti affrontano ad altri fini, ma che va qui esaminato sotto una diversa angolatura e su scala più generale.
Conviene tenere conto, a tal fine, di alcuni elementi rilevanti.
In primo luogo deve considerarsi che, nei due gradi di giudizio di merito, gli odierni ricorrenti sono stati condannati alla pena ritenuta di giustizia previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza rispetto all’aggravante di cui all’art. 589 c.p., comma 2, che trova applicazione nel caso di specie. È all’uopo sufficiente il richiamo alla giurisprudenza della Corte di legittimità in base alla quale è configurabile l’aggravante del fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro prevista dall’art. 589 c.p., comma 2, quando il datore di lavoro non abbia predisposto misure di protezione a tutela della salute dei lavoratori soggetti all’esposizione a sostanze fortemente tossiche, a seguito della quale gli stessi abbiano contratto patologie tumorali (Sez. 4, Sentenza n. 8641 del 11/02/2010, Truzzi e altro, Rv. 246423).
Va poi considerato che, secondo un recente orientamento giurisprudenziale, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale nel caso di condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza della legge più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della cessazione della condotta (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 13582 del 23/01/2019, Grandi, Rv. 275800; e Sez. 4, Sentenza n. 16026 del 20/12/2018, dep. 2019, Iacono, Rv. 275711).
Tanto premesso, occorre considerare che, laddove si prendessero in considerazione – ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere le disposizioni applicabili al momento dell’evento – morte (sulla base della regola stabilita dall’art. 158 c.p., che prende a riferimento come dies a quo per la decorrenza della prescrizione il giorno della consumazione dei singoli reati), occorrerebbe in astratto distinguere fra i decessi verificatisi sotto il vigore della legge ex Cirielli (ossia dall’8 dicembre 2005) e quelli verificatisi in epoca antecedente.
In relazione ai primi, non sarebbe possibile tenere conto della concessione delle attenuanti generiche, ma solo del raddoppio del termine, di cui all’art. 157 c.p., comma 6, (che porterebbe così il tempo minimo necessario a prescrivere a 12 anni, che diventerebbero 15 per l’aumento di un quarto di cui all’art. 161 c.p., comma 2, dovuto ai fatti interruttivi.
In relazione ai secondi, la concessione delle attenuanti generiche equivalenti assumerebbe invece rilievo, ma non comporterebbe alcuna diminuzione nel termine di prescrizione in allora vigente, giacché l’equivalenza delle circostanze non incide nella specie sul massimo edittale. Con la conseguenza che, rimanendo quest’ultimo fissato in cinque anni, il tempo necessario a prescrivere secondo la normativa ante Cirielli sarebbe nel minimo di 10 anni, con l’aumento della metà (ossia fino a 15 anni) per effetto dei fatti interruttivi, secondo le regole in allora vigenti.
Nel caso in cui, invece, si ritenesse di prendere a riferimento in tutti i casi la normativa in tema di prescrizione vigente al tempo delle condotte contestate agli imputati, varrebbero per tutti i reati le regole da ultimo citate (ossia termine minimo di prescrizione di 10 anni, aumentato a 15 per i fatti interruttivi).
In definitiva, il termine massimo di prescrizione (considerati i fatti interruttivi) è, in tutti i casi, pari a quindici anni, decorrenti ex art. 158 c.p. dal giorno di consumazione dei singoli reati: e, dunque, per ciascuna delle vittime, dal giorno del decesso.
In tutti i casi, inoltre, non si considerano periodi di sospensione del corso della prescrizione, salvo quelli di cui al D.L. n. 18 del 2020, art. 83 convertito con L. 27/2020, riferiti all’emergenza sanitaria da coronavirus: riguardo ai quali, peraltro, la compiuta determinazione è soggetta al vaglio della Corte Costituzionale, che a seguito di ordinanza di rimessione pronunziata dalle Sezioni Unite della Corte il 24 settembre scorso – si pronuncerà il 18 novembre prossimo, con particolare riguardo alla questione di legittimità riferita alla sospensione del termine di prescrizione di cui alla L. n. 27 del 2020, art. 83, comma 3-bis; di tal che in relazione a nessuna delle date di decesso delle persone offese è ad oggi possibile dichiarare l’estinzione del reato.
11. Pertanto, avuto riguardo alle argomentazioni dianzi esposte, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, cui si demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti per il presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo giudizio, ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità.