Il d.l. 4 maggio 2023 n. 48 (conv. dalla l. 3 luglio 2023, n. 85) , oltre ad introdurre il reddito di inclusione (in sostituzione del reddito di cittadinanza), si è premurato di inserire all’art. 13 alcune disposizioni transitorie fra cui quella che prevede che al “vecchio” beneficio di cui all’art. 1 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (il reddito di cittadinanza, appunto) «continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023».
L’art. 7 cit. stabilisce che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
L’art. 8 d.l. n. 48/2023 prevede un’analoga fattispecie, ma riferita al reddito di inclusione, con l’impossibilità, quindi, data l’eterogeneità strutturale e l’assenza di un rapporto di specialità, di ravvisare un fenomeno di continuità normativa con la previgente fattispecie.
Con l’abrogazione del reddito di cittadinanza, si è verificato un fenomeno di abrogatio cum abolitio. Come è stato evidenziato in dottrina, l’unico precetto che potrebbe “sopravvivere” grazie all’espansione di altra fattispecie preesistente sarebbe quello dell’indebita percezione di cui all’art. 316 ter c.p.; tuttavia, a ben vedere, l’indebita percezione del reddito di cittadinanza mai potrebbe essere sussunta in tale disposizione codicistica posto che mai i ratei di tale beneficio condurrebbero a superare la soglia di rilevanza penale pari a € 3.999,968 (di qui l’utilità concreta dell’introduzione della norma ad hoc per i percettori del reddito di cittadinanza).
Da qui la scelta legislativa di introdurre una deroga al principio di retroattività della lex mitior, che, come è noto, è principio derogabile, purché la deroga sia ragionevole (nel caso di specie appare giustificata da esigenze di equità (prevenendo la revoca a tappetto delle sentenze di condanna fino ad ora emesse) e dalla necessità di evitare spinte criminogene a fronte dell’annunciata abolizione del reddito di cittadinanza.