Cass. civile, Sez. III, 15 maggio 2023, n. 13203
A) Preliminarmente si dà atto che questa stessa Sezione, con recente ordinanza n. 5222 dello scorso 10 febbraio, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della questione relativa alla sussidiarietà dell’azione di ingiustificato arricchimento.
Ad analoga conclusione ora la Corte non perviene in considerazione della diversità delle questioni sottese: nel giudizio di legittimità, nel quale è intervenuta la rimessione degli atti, la questione in esame era se è esperibile l’azione di ingiustificato arricchimento anche quando l’avente diritto ha a sua disposizione un’azione basata su una clausola generale (quale quella della buona fede); mentre nel presente giudizio è controversa l’esperibilità della suddetta azione quando, precedentemente, sia stata proposta una domanda fondata su un titolo contrattuale, ma detta domanda sia stata respinta nel merito, per assenza del contratto posto a fondamento della domanda stessa.
B) Ciò posto, il Collegio, per dare una risposta alla questione oggetto del presente giudizio, richiamata la rassegna giurisprudenziale operata nella suddetta ordinanza di rimessione, rileva che la ratio della natura sussidiaria dell’azione in esame riposta (in via alternativa, ma talvolta anche congiuntamente): a) nell’esigenza di evitare che, attraverso il cumulo delle azioni, possano aversi duplicazioni di tutela; b) nella necessità di evitare che l’avente diritto, mediante l’esercizio dell’azione di ingiustificato arricchimento, possa sottrarsi alle conseguenze del rigetto della diversa azione contrattuale che l’ordinamento gli concede a tutela del diritto; c) nella esigenza di evitare che colui che ha fondato il suo diritto su un contratto, che è risultato nullo (per contrarietà a norme imperative o di ordine pubblico), possa comunque coltivare la sua pretesa sia pure attraverso altro titolo.
Orbene, nel caso di specie, non ricorre nessuna delle suddette tre ratio: non la prima, in quanto nel primo processo l’azione contrattuale era stata respinta nel merito; non la seconda, in quanto
detto rigetto era stato giustificato dalla ritenuta inesistenza del titolo contrattuale; non la terza, in quanto nel caso di specie l’attore ha chiesto il rimborso delle spese sostenute per il riavvio dell’azienda prima della stipulazione del contratto di affitto e tale sua pretesa non è preclusa da nessuna norma imperativa o di ordine pubblico.
Pertanto, se è vero che l’esercizio dell’azione ex art. 2041 c.c. è in grado di produrre un aggiramento della decisione di rigetto dell’azione contrattuale è altrettanto vero che ciò non accade sempre e comunque.
Al riguardo, invero, occorre distinguere i casi nei quali, come quello in esame, l’azione contrattuale è stata rigettata per inesistenza del titolo contrattuale posto a fondamento dalla domanda, da tutti gli altri casi, nei quali l’azione contrattuale è stata respinta per qualsiasi
altra ragione (di rito o di merito, ma comunque diversa dall’inesistenza del titolo): nei primi colui che ha agito in giudizio non poteva proporre una azione di ingiustificato arricchimento, in quanto
per l’appunto, per far valere la sua pretesa, disponeva di una azione contrattuale (che, tuttavia, è stata poi respinta per ragioni di rito o di merito, ma comunque non per inesistenza del titolo); al contrario, nei casi in cui l’azione contrattuale è stata rigettata per inesistenza del titolo, sarebbe contraddittorio sostenere che la proposizione di una azione, che presuppone la non esistenza di un contratto, possa essere impedita da una pronuncia che abbia per l’appunto dichiarato la non esistenza di un contratto; d’altronde, se al rigetto del rimedio contrattuale, determinato dall’inesistenza del titolo, potesse conseguire l’improponibilità del rimedio sussidiario, costituito dall’azione di arricchimento, l’avente diritto sarebbe privato di qualsiasi strumento processuale per ottenere il rimborso del pregiudizio subito.