Cons. Stato, Sez. IV, 23 luglio 2020, n. 4710 – Pres. Maruotti, Est. Conforti
1. L’allegazione e la prova della lesione del godimento del bene sono sufficienti a comprovare la sussistenza del danno patrimoniale.
Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e, dunque, facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si traduca, di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche, della sua mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione descrittiva, può essere definita come una “posta attiva potenziale” della sfera giuridica dell’interessato, cioé dei molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago, che si traggono dall’essere nella disponibilità del bene.
Qualora risulti allegata o provata la temporanea privazione del godimento di un bene, ciò costituisce sempre una lesione del diritto soggettivo da cui scaturisce, di regola, un danno risarcibile, ferma restando la possibilità di provare le ulteriori poste di danno sofferto in relazione al mancato uso profittevole del bene medesimo. Chi ha sofferto l’occupazione illegittima di un proprio bene, e se ne ritiene danneggiato, potrà allegare conseguenze economiche più puntuali e significative rispetto a quelle genericamente ravvisate nella perdita temporanea del godimento del bene, così come, viceversa, l’amministrazione potrà invece dedurre circostanze o avvenimenti volti a smentire la sussistenza di conseguenze economiche pregiudizievoli o volti a ridimensionarle nella loro entità.
2. Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”, circa il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”, circa il profilo del quantum.
A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle regole che presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).
3. Per il caso rilevante nel presente giudizio – di occupazione senza titolo preordinata all’esproprio, poi seguita dalla restituzione dell’area – in assenza di specifiche disposizioni di legge trovano invece applicazione, in sede di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133 del codice del processo amministrativo, i sopra richiamati articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile.
Va dunque esclusa l’applicabilità del criterio sancito, per altro contesto e con diverse finalità, dall’art. 42 bis, comma 3, ultimo periodo, del d.P.R. n. 327 del 2001, per quantificare il danno subito in vicende analoghe a quella in esame.
Ravvisata l’inapplicabilità in via automatica dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri – da riservarsi dunque ai casi da esso disciplinati – per la quantificazione del danno, in difetto di una prova più puntuale sulle poste negative legate al mero mancato godimento dell’immobile, possa farsi applicazione di altri criteri equitativi.
Nel compiere tale valutazione, il giudice amministrativo deve tenere conto delle circostanze salienti relative al caso di specie, come emergenti dalle allegazioni delle parti e dagli atti di causa, così da liquidare un danno, che rispecchi, nella misura maggiore possibile, il pregiudizio economico sofferto.
Esemplificativamente, potrà tenersi conto della maggiore o minore estensione dell’area occupata, della durata dell’occupazione, dell’uso che fino a quel momento ne aveva fatto il suo proprietario, di circostanze attinenti al proprietario (se, ad es., è un imprenditore o un agricoltore o comunque è un soggetto che impiega o può impiegare proficuamente quel bene per scopi produttivi) oppure al bene stesso (destinazione urbanistica del bene occupato, il contesto territoriale e il tessuto economico in cui esso è inserito, la possibilità, in atto o in potenza, di adoperare quel bene per scopi economici o di svago).
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1065 del 2018, proposto dal signor Adriano Rodomonti, nella qualità di erede della signora Lidia Paoletti, rappresentato e difeso dall’avvocato Carlo Scarpantoni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Teramo, via Torre Bruciata, nn. 17/21;
contro
Il Comune di Teramo, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Alessandra Gussago, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo, n. 492 del 2017, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Teramo;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2020 il consigliere Michele Conforti e uditi per le parti l’avvocato Carlo Scarpantoni e l’avvocato Francesco Verrastro, su delega dell’avvocato Alessandra Gussago;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
- L’odierno appellante deduce di essere proprietario di un fondo sito in Teramo, sottoposto, per una sua parte, dal Comune appellato, ad un procedimento espropriativo per la realizzazione di un’arteria stradale e a due provvedimenti di occupazione d’urgenza (il primo emesso in data 14 agosto 2009; il secondo emesso in data 1° giugno 2010), succedutisi nel tempo e preordinati all’esecuzione dell’opera pubblica.
1.1. I provvedimenti di occupazione d’urgenza venivano fatti oggetto di impugnativa da parte del proprietario del bene e, uno dei due, anche dal proprietario di un altro fondo coinvolto nel procedimento, in un autonomo giudizio.
1.2. Proprio con la sentenza n. 128 del 2011, pronunciata nell’ambito del giudizio intentato dall’altro proprietario leso dai provvedimenti del Comune di Teramo, il Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo annullava, per illegittimità derivata, il provvedimento di occupazione d’urgenza prot. 31432 del 1° giugno 2010.
Con la sentenza n. 438 del 2013, il Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo dichiarava improcedibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di occupazione d’urgenza prot. 42226 del 14 agosto 2009.
1.3. Il fondo veniva poi restituito in data 8 settembre 2014, senza che su di esso fosse stata realizzata alcuna opera pubblica o qualsivoglia modificazione.
1.4. In prime cure, l’appellante, premessa l’illegittimità di entrambi i decreti di occupazione del fondo, ha domandato il risarcimento per la sua occupazione, quantificando il relativo danno attraverso una perizia di parte, che ha applicato il criterio forfetario previsto dall’art. 42 bis, comma 3, D. Lgs. n. 327 del 2001 (T.U. sugli espropri).
1.5. Il Comune intimato, costituitosi in giudizio, ha invece sostenuto che, in mancanza dell’annullamento del primo provvedimento di occupazione d’urgenza, per il periodo preso in considerazione da questo provvedimento non si possa ritenere sussistente una occupazione senza titolo, sicché non vi sarebbe un danno risarcibile e, comunque, non sarebbe applicabile l’art. 42 bis D. Lgs. n. 327 del 2001.
Inoltre, il Comune ha osservato che non sarebbe mai stato effettuato un vero e proprio spossessamento del bene ad opera dell’amministrazione, sicché, malgrado l’emanazione dei provvedimenti, il bene sarebbe rimasto nella piena disponibilità del suo proprietario e sarebbe stato restituito, infatti, privo di qualsivoglia modificazione dello stato dei luoghi.
Il Comune ha infine affermato che la quantificazione del presunto danno non potrebbe avvenire tenendo conto della destinazione astratta dell’area, ma del suo uso concreto e, dunque, tenendo conto che dal verbale di immissione in possesso risultava che si trattava di un’area incolta e a basso potenziale produttivo.
- Con la sentenza gravata, il Tribunale amministrativo ha statuito che la prima occupazione – durata dal 15 settembre 2009 al 1° dicembre 2009 – si è svolta sulla base di un provvedimento legittimo, non colpito da alcun annullamento e non caducato retroattivamente dall’adozione di un nuovo provvedimento di occupazione d’urgenza.
Circa il secondo periodo di occupazione d’urgenza, disposto con il provvedimento n. 31432 del 2010 – durato dal 29 giugno 2010 all’8 settembre 2013 -, il Tribunale amministrativo ne ha sancito l’illiceità, in considerazione dell’annullamento degli atti, disposto dal T.a.r. con la sentenza n. 128 del 2011, non condannando tuttavia il Comune a risarcire il relativo danno, poiché ne sarebbe mancata la prova.
Il T.a.r. ha infatti ritenuto non applicabile al caso di specie il disposto di cui all’art. 42 bis D. Lgs. n. 327 del 2001, evidenziando che non si verte nella fattispecie ivi disciplinate e che le sue disposizioni, in quanto eccezionali, non sarebbero suscettibili di applicazione analogica.
Il T.a.r. ha affermato che la prova del danno sarebbe dunque mancata, poiché l’interessato si sarebbe limitato a produrre una consulenza tecnica che, individuato il valore venale del bene, avrebbe poi fatto applicazione del criterio posto dall’art. 42 bis D. Lgs. n. 327 del 2001, tuttavia, non pertinente al caso di specie.
A conclusioni analoghe il T.a.r. giunge con riferimento alla domanda risarcitoria formulata con riferimento a quella porzione di terreno, non oggetto di occupazione, ma che il ricorrente aveva allegato di non aver poter utilizzare, a causa della parziale occupazione dell’altra parte del fondo.
- La sentenza del T.a.r. è stata impugnata dal proprietario del bene.
3.1. Si è costituito in giudizio il Comune di Teramo, che ha resistito all’appello, evidenziando: la legittimità del primo atto di occupazione, mai annullato in sede giurisdizionale o amministrativa; la mancata prova del danno sofferto, che non può ritenersi in re ipsa; l’inapplicabilità dei criteri di determinazione dell’indennizzo per illecita occupazione del fondo alla stregua dell’art. 42 bis D. Lgs. n. 327 del 2001; le potenzialità economiche del fondo residuo, non menomato dall’occupazione posta in essere dall’amministrazione.
3.2. Nel corso del giudizio le parti hanno ulteriormente illustrato le rispettive posizioni con ulteriori scritti difensivi.
- All’udienza del 13 febbraio 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
- Avverso la sentenza di primo grado, parte appellante ha formulato le seguenti censure.
5.1. Con il primo motivo di appello, ci si duole della circostanza che, contrariamente a quanto statuito dalla sentenza gravata, il primo provvedimento di occupazione d’urgenza sia da considerarsi illegittimo, in quanto anch’esso oggetto di una tale declaratoria, contenuta nella sentenza n. 128 del 2011.
Si contesta poi, in punto di fatto, la circostanza che la prima occupazione sarebbe durata fino al 1° dicembre 2009, poiché, al contrario, la vera e propria restituzione del bene sarebbe avvenuta soltanto successivamente, in data 8 settembre 2013, come comprovato dal verbale di riammissione nel possesso.
5.2. Con il secondo motivo, si contesta la sentenza per aver ritenuto sfornita di prova la domanda risarcitoria riguardante sia il fondo occupato che quello residuo e inutilizzabile.
A tal fine ci si duole che il T.a.r. non avrebbe tenuto nella giusta considerazione l’istanza di rilascio di permesso di costruire che l’appellante avrebbe depositato presso il Comune intimato e che avrebbe avuto esito negativo a causa della perdurante occupazione del suo terreno.
Il danno, dunque, consisterebbe nel non aver potuto sfruttare la vocazione edificatoria del fondo per il periodo in cui l’occupazione si è protratta.
5.3. Con il terzo motivo, parte appellante ripropone, criticamente, la tesi concernente l’applicabilità dell’art. 42 bis, comma 3, D. Lgs. n. 327 del 2001.
5.4. Con la quarta doglianza, si insiste per la condanna al risarcimento del danno in relazione alla parte del suolo che non è stata oggetto di occupazione illegittima da parte dell’amministrazione, ma che, tuttavia, a causa dell’unitarietà ‘economica’ del bene non avrebbe trovato un impiego redditizio.
5.5. Con la quinta ed ultima censura, si domanda il riconoscimento della rivalutazione e degli interessi sulle somme riconosciute a titolo di risarcimento del danno.
- Passate in rassegna le censure articolate avverso la sentenza di primo grado, può procedersi al loro esame nell’ordine di esposizione dell’appellante.
- Quanto al primo motivo, esso è infondato.
Il Collegio ritiene di condividere la motivazione con la quale il Tribunale amministrativo regionale ha respinto la deduzione di parte ricorrente, statuendo che non vi sia stata una declaratoria di illegittimità del primo provvedimento di occupazione del suo fondo.
Dalla lettura della sentenza n. 438 del 2013, che ha dichiarato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse del primo ricorso, non si evince alcuna statuizione nel senso indicato dall’odierno appellante, suscettibile di assumere sul punto la valenza di re-giudicata in senso sostanziale.
In quel giudizio, infatti, il Tribunale amministrativo, constatata l’adozione di un ulteriore decreto di occupazione di urgenza, sostitutivo del primo, si è limitato a dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse ad una pronuncia sui profili di illegittimità paventati nel ricorso (e neppure la cessata materia del contendere, ciò che avrebbe comportato la necessità di interpretarne l’effettivo contenuto), senza effettivamente approfondirne la fondatezza.
Per il relativo periodo di occupazione riferibile all’ordinanza di occupazione d’urgenza non annullata, si applicano dunque le disposizioni dell’art. 50 del d.P.R. n. 327 del 2001.
Il primo motivo di appello va pertanto respinto.
- Circa il secondo motivo, l’interessato deduce che il T.a.r. non avrebbe tenuto in adeguata considerazione il fatto che, a causa dell’occupazione, egli non ha potuto sfruttare le potenzialità edificatorie del fondo.
In particolare, egli evidenzia che “non si è limitato ad allegare al fascicolo di causa la relazione peritale di stima ma, con l’istanza del 31 gennaio 2017, ha depositato in giudizio la domanda di permesso di costruire ed il progetto relativo alla costruzione di n. 1 edificio plurifamiliare”, la quale “non veniva evasa dal Comune in quanto l’area di localizzazione del fabbricato non era nel 2011 nella disponibilità del proprietario essendo stata già occupata dall’ente”.
Secondo l’appellante, egli “ha fornito ex actis la prova sia di voler sfruttare la sua proprietà immobiliare per la costruzione di un fabbricato residenziale sia di non aver raggiunto l’obiettivo per l’intervenuta occupazione della stessa e tale prova, in quanto documentata dalla richiesta di permesso edilizio rende ammissibile l’azione risarcitoria esercitata con il ricorso giurisdizionale”.
L’appellante lamenta, dunque, di aver fornito la prova dell’utilità economica pregiudicata dalle due occupazioni dell’area di sua proprietà, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza gravata.
8.1. La censura è inammissibile e infondata.
8.1.1. Il motivo di appello in esame è inammissibile ai sensi dell’art. 104 c.p.a., che pone un divieto di allegazione di fatti che vadano a prospettare, per la prima volta, in appello, una censura non articolata in precedenza e che costituirebbe, dunque, un nuovo tema di indagine da esaminare in un unico grado di giudizio, con violazione della regola del doppio grado del giudizio amministrativo, sancita dall’art. 125 Cost. e dal c.p.a.
Come più volte ribadito da questo Consiglio, il ricorrente, una volta delimitato il thema decidendum con i motivi di impugnazione articolati in primo grado, non può ampliare lo stesso nel giudizio d’appello (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2020, n. 714).
Applicando la regola al caso in esame, va evidenziato che il ricorso introduttivo del giudizio non contiene l’esposizione dei fatti e le correlate deduzioni in diritto che l’appellante espone nel secondo motivo di appello.
Esso va dunque dichiarato inammissibile.
8.1.2. Quanto ai profili di infondatezza, ritiene il Collegio che le ragioni preclusive dell’accoglimento della istanza a suo tempo presentata, per il rilascio del permesso, hanno rilievo con riferimento al procedimento così attivato, sicché non possono essere addotte in questa sede per ottenere un risarcimento del danno per ‘violazione dello ius aedificandi’.
In ogni caso, la dedotta circostanza – secondo cui, durante il protrarsi dell’occupazione del bene da parte dell’amministrazione, non si sarebbe potuto sfruttare lo jus aedificandi connesso al fondo – non costituisce, di per sé, una lesione suscettibile di essere risarcita per equivalente, in assenza dell’allegazione di un effettivo pregiudizio economico prodottosi nel patrimonio dell’agente a causa di questa circostanza.
Affinché la lesione di una situazione giuridica di vantaggio possa essere risarcita è necessario, invero, che si dia prova delle conseguenze sul piano patrimoniale subite dal suo titolare (Cass. civ., Sez. III, 24 aprile 2019, n. 11203; Sez. III ord., 4 dicembre 2018, n. 31233; Sez. III, 25 maggio 2018, n. 13071; Sez. I, 11 aprile 2018, n. 9004; Sez. III, 31 ottobre 2019, n. 7448; Sez. V, 09 luglio 2018, n. 4191; Sez. V, 19 marzo 2018, n. 1741; Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751).
Per di più, poiché da tempo è venuta meno l’occupazione sine titulo, l’interessato può formulare eventuali istanze, che vanno esaminate secondo le regole generali, sicché anche sotto tale profilo non si può ravvisare alcun profilo di ‘danno risarcibile arrecato allo ius aedificandi’.
Del resto, in questa sede neppure si può incidentalmente accertare se la dedotta edificabilità risultava effettivamente sussistente.
8.2. In definitiva, dunque, il secondo motivo di appello va respinto per le ragioni evidenziate.
- Può procedersi oltre all’esame del terzo motivo di appello, congiuntamente ai motivi successivi. Con essi, in sintesi, si censura la sentenza di primo grado riproponendosi, in chiave critica, la domanda di applicazione, in via equitativa, del parametro del cinque per cento annuo del valore venale del bene, sancito dall’art. 42 bisdel d.P.R. n. 327 del 2001, cui potrebbe farsi riferimento, secondo l’appellante, per liquidare il danno da temporanea perdita o mancato godimento del bene di cui si ha la proprietà.
La domanda risarcitoria viene formulata anche con riferimento alla porzione del bene non occupata (quarto motivo) e si domanda, infine, sulla somma eventualmente liquidata, il riconoscimento della spettanza della rivalutazione e degli interessi (quinto motivo).
9.1. I motivi di appello sono fondati nei limiti che si vanno a chiarire.
Il comma 3 dell’art. 42 bis del t.u. sugli espropri dispone che: “Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.
Tale disposizione ha un campo di applicazione imprescindibilmente legato all’applicazione del comma 1 dell’art. 42 bis, il quale, come ribadito da questo Consiglio, in Adunanza Plenaria, ha disciplinato un procedimento semplificato da seguire quando l’amministrazione disponga l’acquisizione al proprio patrimonio di un bene che possieda, senza titolo, per un interesse pubblico, e che sia stato modificato nella sua originaria consistenza.
Si tratta di una normativa dal preciso ambito di applicazione, che delinea una “fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 20 gennaio 2020, n. 4, v., in particolare, punto 16.2.3.; Corte Cost., 30 aprile 2015, n. 71).
Relativamente alla questione se il parametro del 5 per cento annuo (previsto dal comma 3) sia applicabile anche quando l’area sia restituita al proprietario, il Collegio è consapevole che alcuni precedenti della Sezione – richiamati dall’appellante – hanno liquidato proprio in base a tale parametro, in via equitativa, il danno patito dal privato per l’occupazione senza titolo (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 27 maggio 2019, n. 3428; Sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2765 ; Sez. IV, 23 settembre 2016, n. 3929; Sez. IV, 28 gennaio 2016 n. 329; Sez. IV, 2 novembre 2011, n. 5844).
9.2. La Sezione, tuttavia, dopo maturo esame e re melius perpensa, ritiene che questa impostazione vada tuttavia rimeditata.
- Logicamente, prima ancora di esaminare l’applicabilità del comma 3 sopra riportato per quantificare il danno fatto valere nel presente giudizio, il Collegio ritiene che vada comunque approfondito se sia configurabile una responsabilità risarcitoria e, in particolare, un danno derivante dall’occupazione senza titolo di un fondo, allorché, nel giudizio, il ricorrente si sia limitato ad allegare la mera lesione della facoltà di godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti.
Nel caso in esame, per l’appunto, in prime cure, l’interessato ha descritto la lesione arrecata al suo diritto di proprietà, lamentando che l’occupazione del bene da parte del Comune avrebbe cagionato il suo mancato godimento per tutto il periodo in cui l’occupazione si è protratta.
È necessario domandarsi, dunque, preliminarmente, se, in ragione della allegazione ‘estremamente sintetica’ del pregiudizio sofferto (ampliata in questo secondo grado di processo), possa comunque riconoscersi l’esistenza di un danno risarcibile, inteso come conseguenza pregiudizievole, economicamente valutabile, verificatasi nel patrimonio di chi asserisce di avere subito la lesione di una sua situazione giuridica soggettiva.
In base alle allegazioni dell’interessato, questo pregiudizio viene infatti a coincidere con la lesione di una delle due facoltà del diritto di proprietà – quella di godimento – in cui, tradizionalmente e usualmente, si articola il contenuto di questa situazione giuridica soggettiva.
Da tale compromissione, nondimeno, non si fa scaturire una conseguenza pregiudizievole specifica, quale sarebbe il non aver potuto trarre profitto da un uso – e, dunque, da un godimento – diretto o indiretto del bene (ad es., adibendolo ad una proficua coltivazione oppure concedendolo in locazione [per chi ritiene che quest’ultima ipotesi costituisca esplicazione della facoltà di godimento e non di quella di disposizione]).
- L’orientamento di questo Consiglio incline all’applicazione del criterio dettato dall’art. 42 bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, per l’aspetto relativo alla quantificazione del danno (per fattispecie diverse da quelle disciplinate dal medesimo art. 42 bis, e in particolare per i casi di rilevata spettanza di un risarcimento, nelle ipotesi di restituzione dell’area o di constatato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione in assenza dell’atto formale di acquisizione), ha riguardato i profili relativi all’ “an”: si è affermato che, in presenza della lesione o della compressione della facoltà di godimento derivanti dall’occupazione senza titolo, non fosse necessario assolvere ad un onere di descrizione – del pregiudizio patrimoniale sofferto – particolarmente particolareggiato e dettagliato, per ammetterne la sussistenza.
A tale semplificazione degli oneri di allegazione e di prova della sussistenza del danno patrimoniale, seguiva quella relativa alla quantificazione attuata con l’applicazione dell’art. 42 bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001.
Si accoglieva, dunque, un’impostazione particolarmente favorevole al proprietario sia sul versante dell’allegazione e della prova dell’an del danno, che sul versante relativo al quantum.
- La Sezione ritiene che si possa dare continuità a questo orientamento solo per quanto riguarda l’andel danno: si può ritenere sufficientemente provata la sussistenza di un danno patrimoniale per il solo fatto che il proprietario di un bene ne abbia sofferto lo spossessamento e ne abbia dunque perduto, temporaneamente, il godimento.
Non rileva in questa sede approfondire la questione se la lesione così arrecata al diritto di proprietà costituisca un c.d. “danno-evento”, circa il profilo dell’an, oppure un danno conseguenza “in re ipsa”, circa il profilo del quantum.
A fronte di un sistema normativo articolato e composito, sovranazionale e nazionale, scandito da norme di rango diverso, che attribuisce una consistente e multiforme tutela al diritto di proprietà, mediante la previsioni di differenti rimedi, il quadro degli oneri probatori gravanti su chi si assume danneggiato va “semplificato”, nel rispetto delle regole che presidiano il processo, al fine di dare piena attuazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a.).
L’allegazione della perdita temporanea della facoltà di godimento costituisce non soltanto un profilo rilevante ai fini della descrizione della lesione occorsa alla situazione giuridica soggettiva, che si assume violata, ma anche un aspetto dirimente per gli aspetti correlati ai pregiudizi economici che da quella lesione sono scaturiti.
- Secondo una valutazione basata sull’id quod plerumque accidit e, dunque, facendosi applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), può evidenziarsi come la perdita del godimento del bene si traduca, di regola, nella perdita del valore d’uso di quel bene o, anche, della sua mera “disponibilità statica”; di quella che, con locuzione descrittiva, può essere definita come una “posta attiva potenziale” della sfera giuridica dell’interessato, cioé dei molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago, che si traggono dall’essere nella disponibilità del bene.
13.1. Pur se con riguardo alla diversa fattispecie del ritardo del pagamento di un’obbligazione pecuniaria, la Corte di Cassazione (Sez. Unite, 16 luglio 2008, n. 19499) ha fornito importanti principi in materia di prova:
– ha ammesso che si possa fornire la prova della sussistenza del maggior danno attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici, con tecniche di semplificazione dell’istruzione probatoria variate nel corso del tempo e adattate al mutare del contesto economico-sociale;
– ha affermato che “è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell’onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l’esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l’onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell’esperienza positiva”;
– ha dunque ritenuto che, poiché di regola del bene-denaro si fa un uso remunerativo o proficuo, si può presumere l’esistenza del (maggior) danno occorso e di quantificarlo attraverso un criterio equitativamente determinato.
13.2. Il principio di diritto suesposto risulta applicabile – ai sensi degli articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile e con le precisazioni di seguito esposte – anche quando l’Amministrazione abbia temporaneamente occupato senza titolo un bene altrui (e non lo abbia formalmente acquisito in applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), nel corso di un procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto d’esproprio o con un accordo di cessione.
Anche in tal caso, per un certo lasso di tempo, è configurabile il ‘mancato godimento’ di un bene (il fondo illegittimamente occupato) del quale, usualmente, il titolare può fare un uso remunerativo o proficuo: anzi, mentre la mera disponibilità del denaro di per sé non soddisfa esigenze ed aspirazioni personali, la mera disponibilità di un proprio fondo ne consente molteplici impieghi, profittevoli o anche solo di svago (come si è evidenziato nel precedente punto 13).
- Vi è inoltre un’ulteriore ragione di ordine sistematico che induce a ritenere provato il pregiudizio economico, pur in assenza di ulteriori e più specifiche allegazioni rispetto alla dimostrata occupazione senza titolo.
14.1. L’art. 50, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, dispone che, “Nel caso di occupazione di un’area, è dovuta al proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua”.
14.2. Anche per tale caso, il legislatore ha posto uno specifico criterio di quantificazione preventiva e forfetaria del pregiudizio economico conseguente alla emanazione del provvedimento autoritativo di occupazione d’urgenza, sul presupposto che la perdita del godimento del bene di cui si è proprietari sia inevitabilmente foriero (anche) di un pregiudizio di natura economica.
- Del resto, la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di Cassazione ha sempre ritenuto risarcibili i danni patiti dal proprietario, in caso di occupazioni connesse a procedimenti di esproprio poi non conclusi o conclusi con atti poi annullati, anche laddove l’unico pregiudizio allegato era stato individuato nella compressione della facoltà di godimento.
- La Sezione ritiene, dunque, che qualora risulti allegata o provata la temporanea privazione del godimento di un bene, ciò costituisca sempre una lesione del diritto soggettivo da cui scaturisce, di regola, un danno risarcibile, ferma restando la possibilità di provare le ulteriori poste di danno sofferto in relazione al mancato uso profittevole del bene medesimo.
- Si tratta, giova ribadirlo, di una semplificazione probatoria, attuata mediante l’applicazione dell’istituto delle presunzioni semplici.
Chi ha sofferto l’occupazione illegittima di un proprio bene, e se ne ritiene danneggiato, potrà allegare conseguenze economiche più puntuali e significative rispetto a quelle genericamente ravvisate nella perdita temporanea del godimento del bene, così come, viceversa, l’amministrazione potrà invece dedurre circostanze o avvenimenti volti a smentire la sussistenza di conseguenze economiche pregiudizievoli o volti a ridimensionarle nella loro entità (sul punto è consolidato l’indirizzo della giurisprudenza più recente, cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5703 del 2019; sez. IV, n. 3428 del 2019; sez. IV, n. 2765 del 2018; sez. IV, n. 2285 del 2018; sez. IV n. 5262 del 2017; sez. IV, n. 897 del 2017; sez. IV, n. 4636 del 2016; Cass. civ., sez. I, n. 29990 del 2018; sez. I, n. 5687 del 2017; sez. III, n. 16670 del 2016).
- Ritenuto dunque che l’allegazione e la prova della lesione del godimento del bene siano sufficienti a comprovare la sussistenza del danno patrimoniale, occorre esaminare le problematiche relative alla sua quantificazione.
In particolare, vanno ora esposte le motivazioni per le quali la Sezione ritiene che vada rimeditato il richiamato precedente orientamento che liquidava in via automatica il danno derivante dal mero mancato godimento del bene immobile occupato utilizzando, a titolo equitativo ex art. 1226 c.c., il parametro del 5% di cui al più volte menzionato art. 42 bis, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001.
- E’ evidente che l’applicazione del comma 3, ultimo periodo, dell’art. 42 bisdel d.P.R. n. 327 del 2001, già in considerazione del suo testo letterale, non risulta disciplinare una fattispecie di illecito aquiliano rientrante nel genusdell’art. 2043 c.c..
Il comma 3, che prevede la corresponsione di questa somma a titolo indennitario per l’occupazione senza titolo subita dal proprietario, è infatti inserito nell’ambito di una disciplina interamente finalizzata a disciplinare le conseguenze dell’emanazione del provvedimento di acquisizione.
Il comma 3, dunque, correla, in modo evidente, la liquidazione forfetaria del danno da occupazione senza titolo – nella misura ivi prevista – esclusivamente all’eventualità che venga emanato il provvedimento di acquisizione.
- Anche da un punto di vista sistematico, vi sono elementi che inducono ad escludere che si possa applicare, come una sorta di automatismo, il comma 3 dell’art. 42 bisdel testo unico sugli espropri per quantificare il risarcimento del danno da occupazione illegittima di un fondo, nel caso in un cui sia mancato il provvedimento di acquisizione al patrimonio indisponibile.
20.1. “La disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportate la cessazione dell’illecito permanente” (v. punto 16.2.3. della richiamata sentenza della Adunanza Plenaria n. 4 del 2020).
Tale affermazione evidenzia che l’art. 42 bis ha uno specifico ambito di operatività e che il comma 3 ha disciplinato le conseguenze patrimoniali dell’emanazione dell’atto di acquisizione, con disposizioni speciali – insuscettibili di applicazione analogica – riguardanti la spettanza di un importo forfettario a titolo di danno non patrimoniale, nonché la spettanza di un importo pari al cinque per cento annuo del valore del bene, per il periodo in cui l’occupazione risulti stata effettuata senza titolo.
Il comma 3 dell’art. 42 bis ha disciplinato una fattispecie complessa caratterizzata da una originaria condotta contra ius (l’occupazione senza titolo), cui è seguita l’emanazione di un provvedimento secundum ius (l’atto di acquisizione) e rispetto alla quale al proprietario – che perda tale qualità – spettano importi (per la cui quantificazione sussiste la giurisdizione del giudice civile) sia per la condotta contra ius (il risarcimento forfettizzato del danno non patrimoniale e la misura del cinque per cento annuo a seguito dell’occupazione senza titolo), sia per l’emanazione del provvedimento secundum ius (l’indennizzo pari al controvalore del bene).
Il medesimo comma 3 non si applica, invece, quando si sia verificata l’occupazione senza titolo di un fondo e, però, manchi l’emanazione del provvedimento di acquisizione del bene.
20.2. Va poi esclusa l’applicazione automatica, sia pure in via analogica, del comma 3 dell’art. 42 bis, anche per un’altra ragione.
L’applicazione analogica postula la lacuna della disciplina nella quale si invoca l’analogia.
Nella fattispecie in esame, non sussiste alcuna lacuna legislativa.
Si è verificato infatti un illecito disciplinato dall’art. 2043 del codice civile (applicabile per il fatto che l’Amministrazione ha deciso di restituire l’area a suo tempo occupata), sicché si applicano tutte le disposizioni riguardanti l’illecito aquiliano.
20.3. Anche sul piano dell’interpretazione teleologica, vi sono chiari elementi che inducono a rimeditare l’orientamento sinora seguito sul rilievo dell’applicazione automatica del parametro del cinque per cento.
La liquidazione forfetaria prevista dal comma 3 spetta nell’ambito di un procedimento finalizzato ad adeguare la situazione di diritto a quella di fatto, nel rispetto del principio di legalità sostanziale più volte ribadito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Nel disciplinare questo potere, il legislatore ha inteso dunque porre una serie di misure volte a differenziare l’ordinario procedimento di espropriazione, da questo procedimento di espropriazione “semplificato”, al fine di rendere il primo più vantaggioso per l’amministrazione e il secondo, invece, più oneroso, così da assicurarne il rapporto regola-eccezione.
Una simile finalità non potrebbe ritrovarsi, invece, al di fuori della fattispecie descritta, con riferimento a quella che è un’ordinaria azione risarcitoria, per illegittima compressione di una delle facoltà del diritto dominicale su un fondo.
20.4. In altri termini, e per sintetizzare, osserva la Sezione che, per il caso di occupazione di un fondo preordinata all’esproprio, il legislatore ha preso in espressa considerazione due specifiche fattispecie, per determinare il quantum spettante al proprietario:
- a) nel caso di occupazione preordinata all’esproprio supportata dalla relativa ordinanza (in cui la condotta risulta secundum ius), si applica l’articolo 50, comma 1, del testo unico sugli espropri, sicché l’Amministrazione deve preventivare tra i costi da affrontare anche quelli – quantificati dal legislatore – da sostenere per il pagamento di quanto spetti al proprietario per il periodo di occupazione anteriore al conseguimento del titolo di proprietà (costi di evidente notevole entità, in un’ottica di disincentivazione di tale preventiva occupazione, non disciplinata dall’originario testo unico approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, ma ridisciplinata prima della sua entrata in vigore);
- b) nel caso di occupazione senza titolo, seguita dall’emanazione dell’atto di acquisizione da parte dell’Autorità che utilizza il bene (in cui la condotta inizialmente risulta contra iuse poi è seguita dal provvedimento che adegua la situazione di diritto a quella di fatto), si applica l’art. 42 bis, comma 3, del medesimo testo unico, sicché l’Amministrazione deve preventivare tra i costi da affrontare anche quelli – quantificati dal legislatore – da sostenere per risarcire il danno arrecato per il periodo d’occupazione (con costi di evidente notevole entità, in un sistema nel quale ha avuto decisiva rilevanza la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, volta a disincentivare la verificazione di tali illeciti e ad attribuire al proprietario leso un quid pluris, anche con l’integrazione del quantumspettante rispetto a quanto ordinariamente spetti nel caso di emanazione del decreto di esproprio),
Per il caso rilevante nel presente giudizio – di occupazione senza titolo preordinata all’esproprio, poi seguita dalla restituzione dell’area – in assenza di specifiche disposizioni di legge trovano invece applicazione, in sede di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133 del codice del processo amministrativo, i sopra richiamati articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile.
- Va dunque esclusa l’applicabilità del criterio sancito, per altro contesto e con diverse finalità, dall’art. 42 bis, comma 3, ultimo periodo, del d.P.R. n. 327 del 2001, per quantificare il danno subito in vicende analoghe a quella in esame.
- Ravvisata l’inapplicabilità in via automatica dell’art. 42 bisdel testo unico sugli espropri – da riservarsi dunque ai casi da esso disciplinati – ritiene il Collegio che, per la quantificazione del danno, in difetto di una prova più puntuale sulle poste negative legate al mero mancato godimento dell’immobile, possa farsi applicazione di altri criteri equitativi.
22.1. Nel compiere tale valutazione, il giudice amministrativo deve tenere conto delle circostanze salienti relative al caso di specie, come emergenti dalle allegazioni delle parti e dagli atti di causa, così da liquidare un danno, che rispecchi, nella misura maggiore possibile, il pregiudizio economico sofferto.
22.2. Esemplificativamente, potrà tenersi conto della maggiore o minore estensione dell’area occupata, della durata dell’occupazione, dell’uso che fino a quel momento ne aveva fatto il suo proprietario, di circostanze attinenti al proprietario (se, ad es., è un imprenditore o un agricoltore o comunque è un soggetto che impiega o può impiegare proficuamente quel bene per scopi produttivi) oppure al bene stesso (destinazione urbanistica del bene occupato, il contesto territoriale e il tessuto economico in cui esso è inserito, la possibilità, in atto o in potenza, di adoperare quel bene per scopi economici o di svago).
22.3. Relativamente al caso di specie, sui profili relativi alla vocazione edificatoria del fondo – pure allegati dal proprietario del bene, ma incidenti sul mancato esercizio della facoltà di godimento del bene – il Collegio si è già diffusamente espresso in precedenza, quando si è esaminato, per respingerlo, il secondo motivo di appello, evidenziandosi che la compressione della facoltà di godimento non ha inciso in modo definitivo sullo jus aedificandi, né ha prodotto – per quel che si ricava dagli atti del giudizio – una compromissione o una diminuzione di questa potenzialità di questo aspetto o altra lesione economicamente valutabile.
Non risultano, inoltre, allegate, da parte del proprietario del bene, ulteriori circostanze utili a quantificare il danno occorso in maniera più specifica.
Di rilievo è invece la contraria circostanza allegata dall’amministrazione comunale, la quale ha evidenziato che, al momento dell’immissione nel possesso, l’area occupata era incolta e a basso potenziale produttivo.
22.4. Questo Consiglio ritiene allora che:
– allorquando si intraprende la via dell’equità, non esiste un solo criterio utile che consenta di farne applicazione, ma ve ne sono molteplici;
– specie in tema di risarcimento del danno da perdita della disponibilità di un immobile, quelli maggiormente diffusi sono incentrati sul c.d. valore locativo o sul saggio legale annuale di interessi computato sul valore venale del bene;
– la Sezione, tuttavia, anche per ragioni di economia dei mezzi processuali e di correntezza amministrativa, propende per un criterio equitativo puro ancorato all’esemplificativa indicazione dei criteri sopra richiamati;
– in linea di principio, anche per evitare il differimento della definizione della controversia, è preferibile che, in sede di liquidazione equitativa del danno, il giudice amministrativo quantifichi l’importo nel suo preciso ammontare (evitando così la fissazione di parametri più o meno determinati o comunque opinabili, la cui applicazione implica ulteriori insorgenze di controversie sulla successiva quantificazione, se del caso, in sede di giudizio d’ottemperanza, pur se nulla vieta la fissazione di un parametro percentuale che possa tenere anche conto dei tassi annui degli interessi legali);
– nella specie, è equo quantificare il danno subito, per l’occupazione illegittima del fondo protrattasi dal 29 giugno 2010 al 3 settembre 2013, in una somma di euro cinquemila, complessivamente determinata al momento di pubblicazione della presente sentenza.
Tale quantificazione si giustifica, alla luce dei criteri suesposti, in considerazione delle seguenti considerazioni:
– il pregiudizio lamentato è semplicemente quelle relativo alla perdita del mero godimento del bene, non essendone stato (ammissibilmente e fondatamente) allegato uno più specifico;
– il bene in questione, al momento dell’occupazione e in precedenza, non era adibito ad alcun uso produttivo;
– il bene occupato non si prestava neppure ad usi di mero svago o diletto, trattandosi, come emerge dal verbale di immissione in possesso, di un fondo sul quale “insistono sterpaglie ed arbusti”;
– l’occupazione si è protratta per un tempo non eccessivamente lungo ed è stata seguita da una restituzione disposta in sede amministrativa;
– non rileva in questa sede la dedotta vocazione edificatoria;
– l’istanza per il rilascio del permesso di costruire non può rilevare quale possibile prova da far valere nel giudizio risarcitorio, non essendovi concreti elementi che inducano a ritenere che vi fosse una reale intenzione di procedere allo sfruttamento delle potenzialità edificatorie del fondo (e d’altra parte non risulta che, dopo la restituzione del terreno, vi siano state iniziative in questo senso).
- Relativamente al danno asseritamente subito con riferimento alla porzione residua del fondo, ritiene il Collegio che esso non spetti, in ragione di quanto dedotto proprio dal ricorrente, circa la qualificazione del fondo come un “unicum sotto il profilo sia funzionale che economico”, sicché la somma riconosciuta è suscettibile di risarcire tutti gli aspetti patrimonialmente apprezzabili, poiché essi non possono che considerarsi unitariamente.
- L’importo risarcitorio così liquidato si deve intendere quantificato al valore attuale (ovvero al momento della pubblicazione della sentenza) – secondo il criterio della taxatio reiutilizzabile in tutti i casi di risarcimento del danno da illecito aquiliano, con l’utilizzo dell’equità integrativa di cui all’art. 1226 c.c. – e quindi comprensivo degli accessori quali gli interessi compensativi e la rivalutazione monetaria del debito di valore (Cons. Stato, sez. IV, n. 3105 del 2018; sez. IV, n. 2778 del 2018; sez. IV, n. 2765 del 2018; sez. IV, 5262 del 2017; sez. IV, n. 897 del 2017; sez. IV, n. 4636 del 2016): dalla data di pubblicazione della presente decisione decorreranno, sulla somma così individuata, gli interessi al tasso legale.
- Vanno dunque in parte accolti il terzo e il quinto motivo di appello, mentre va respinto il quarto.
- In conclusione, l’appello va accolto nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, sicché – in parziale riforma della sentenza impugnata – va in parte accolto il ricorso di primo grado.
- Le spese dei due gradi del giudizio possono essere compensate, in considerazione della novità della questione.
Vanno posti a carico del Comune gli importi effettivamente versati dall’appellante a titolo di contributo unificato nel corso dei due gradi del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 1065 del 2018, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti e nei sensi chiariti in motivazione, e, per l’effetto, condanna il Comune di Teramo al risarcimento del danno, liquidato complessivamente nell’importo di euro cinquemila, oltre gli interessi legali decorrenti dalla data di pubblicazione della presente sentenza.
Spese compensate dei due gradi del giudizio.
Dispone che il Comune rimborsi all’appellante quanto effettivamente versato a titolo di contributo unificato nel corso dei due gradi del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2020, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Luca Lamberti, Consigliere
Nicola D’Angelo, Consigliere
Silvia Martino, Consigliere
Michele Conforti, Consigliere, Estensore