In caso di occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a.. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001; ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto».
FATTO e DIRITTO
1. Con decreto del Presidente della Giunta regionale della Sardegna n. 5/1199/249 del 18 luglio 1977, l’ente ospedaliero “Ospedali Riuniti” Cagliari veniva autorizzato ad occupare d’urgenza, tra gli altri, i terreni di proprietà della signora Maria Chiara Scano, siti in agro del Comune di Selargius distinti al foglio 42 mappale 607 di mq 280 e mappale 379 di mq 680, per la realizzazione del “Nuovo Ospedale Civile”, opera da considerarsi «di pubblica utilità e di urgente ed indifferibile esecuzione» (come da progetto in precedenza approvato con la deliberazione del Comitato tecnico regionale dei ll.pp. n. 449/11121 del 18 maggio 1977).
1.1. Al decreto di occupazione d’urgenza, tuttavia, non faceva seguito il provvedimento finale d’esproprio, pur in presenza dell’effettiva utilizzazione e della trasformazione delle aree, attestata dalla conclusione dei lavori in data 15 luglio 1981 con la realizzazione del complesso ospedaliero (cfr. certificato di ultimazione dei lavori del 24 luglio 1981, in atti), avvenuta entro il termine finale di occupazione delle aree del 1° settembre 1983.
1.2. In ragione di ciò, l’Azienda U.S.L. n. 21 di Cagliari, succeduta ex lege agli “Ospedali Riuniti”, approvava, con delibera dell’amministratore straordinario n. 1043 del 14 ottobre 1991, gli schemi di un accordo bonario-cessione volontaria delle aree già occupate per la realizzazione dell’ospedale in questione.
Tuttavia tale deliberazione, a causa delle riscontrate difficoltà di finanziamento, veniva in seguito annullata con provvedimento dell’amministratore straordinario n. 1784 del 21 novembre 1991.
2. Con atto di citazione notificato il 24 giugno 1999, gli eredi della signora Scano convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale ordinario di Cagliari – Sezione civile, l’Azienda sanitaria locale n. 8 (succeduta alla A.S.L. 21) – Gestione liquidatoria, nonché l’Azienda generale ospedaliera Brotzu, chiedendo:
– in via principale, la condanna degli enti convenuti al pagamento delle somme indicate nell’atto di transazione per la cessione dei terreni in questione;
– in via subordinata, nell’ipotesi in cui la transazione non fosse riconosciuta vincolante e opponibile, la condanna dei suddetti enti al pagamento della «somma corrispondente al valore di mercato dei terreni illegittimamente occupati , oltre al risarcimento del danno patito e patiendo», ovvero, «in via alternativa alle conclusioni subordinate che precedono», al «risarcimento del danno patito e patiendo anch’esso nella misura che verrà determinata nel presente giudizio anche secondo equità»;
– «in ogni caso», la condanna degli enti «alla corresponsione della indennità conseguente alla patita occupazione abusiva» (v. così, testualmente, l’atto di citazione).
2.1. Con la sentenza n. 2860 del 22 novembre 2006, il Tribunale ordinario di Cagliari respingeva la domanda principale e dichiarava prescritto il diritto al risarcimento del danno, sulla base della seguente motivazione:
(i) il contratto di transazione non risultava perfezionato, atteso che le comunicazioni prodotte «non contengono la manifestazione di volontà né l’oggetto», con la conseguente infondatezza della domanda proposta in via principale;
(ii) con riguardo «alla domanda subordinata di risarcimento del danno per effetto dell’illecita occupazione del suolo da parte della P.A.», rilevava che:
– «deve trovare accoglimento l’eccezione di prescrizione tempestivamente sollevata dalla convenuta», dovendosi ritenere integrata la fattispecie della cd. occupazione appropriativa o acquisitiva, poiché, «per affermazione degli stessi attori, l’occupazione materiale dell’area era stata preceduta dal decreto di occupazione d’urgenza, il quale presuppone una valida dichiarazione di pubblica utilità, che gli attori non hanno contestato», con la conseguenza che il termine di prescrizione quinquennale, decorrente dalla scadenza del termine di occupazione (nella specie, fissato al 1° settembre 1983), risultava ampiamente decorso al momento della notificazione dell’atto di citazione;
– infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito, «l’occupazione di un suolo privato da parte di un ente pubblico, nell’ambito di un procedimento espropriativo introdotto da una valida dichiarazione di pubblica utilità e la sua irreversibile trasformazione mediante destinazione ad opera pubblica, senza che intervenga tempestivamente un valido provvedimento ablativo, determinano l’acquisizione della proprietà dell’immobile in favore della pubblica amministrazione, la quale è tenuta a rispondere del danno causato al privato»;
– «i converso, l’occupazione del fondo di proprietà privata non assistita da valido titolo o quando sia illecita l’intera procedura ablatoria determina l’inoperatività dell’istituto dell’occupazione appropriativa, cosicché è consentito al privato, durante l’illegittima occupazione, il potere di esperire i rimedi reipersecutori a tutela della non perduta proprietà ovvero di esercitare l’azione risarcitoria, ponendo in essere un meccanismo abdicatorio, in luogo della possibile tutela restitutoria, ciò che comporta un’implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. Cass. Sez. Un. 4.3.1997, n. 1907; Cass. Sez. I, 16.7.1997, n. 6515; Cass. Sez. I, 30.1.2001, n. 1266)» (v. così, testualmente, la citata sentenza).
2.2. La sentenza, non impugnata, passava in giudicato.
3. Gli eredi (anche indiretti, per passaggi successivi) dell’originaria proprietaria, indicati in epigrafe, con ricorso notificato il 31 agosto 2018 e depositato il 3 settembre 2018 adivano il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna e, in ragione della protratta occupazione dei terreni sine titulo per il mancato completamento della procedura ablatoria e della loro trasformazione, chiedevano:
– accertarsi l’illegittima occupazione dei terreni «di proprietà dei ricorrenti» da parte dell’Azienda ospedaliera Brotzu (indicata come legittimata passiva unitamente all’Azienda per la tutela della salute Sardegna – A.T.S. e alla Regione Sardegna);
– condannarsi le amministrazioni appellate, eventualmente anche in solido, «al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino, ed alla corresponsione dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, con rivalutazione ed interessi legali» (v. così, testualmente, le conclusioni del ricorso introduttivo, espressamente confermate nella memoria del 5 febbraio 2019, p. 5);
– con espressa riserva «di formulare domanda di rinuncia abdicativa e conseguente risarcimento di tutti i danni, in sede di memoria per l’udienza di merito, anche alla luce dell’evoluzione in materia che la giurisprudenza dovesse seguire nel corso del presente giudizio» (v. p. 11 del ricorso introduttivo).
3.1. Il TAR, con la sentenza in epigrafe (n. 408 del 13 maggio 2019) – dichiaratamente prescindendo dall’esame delle eccezioni di carenza di legittimazione passiva sollevata dalle amministrazioni resistenti, in applicazione del cd. ‘primato della ragione più liquida’ –, accoglieva l’eccezione di giudicato sollevata dalle amministrazioni resistenti in relazione alla sentenza n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari, rilevando che:
– i ricorrenti, nel giudizio civile, optando per la richiesta di risarcimento per equivalente da perdita della proprietà e da occupazione abusiva, «avevano sostanzialmente abdicato alla richiesta di restituzione del bene, concordando nel ritenere che l’opera realizzata (Ospedale) aveva reso irreversibile il mutamento dei luoghi ed impediva, in concreto, la restituzione dei terreni (960 mq in totale)»;
– il giudice civile, con la sentenza di rigetto, applicando l’istituto dell’occupazione appropriativa, aveva ritenuto prescritte tutte le pretese risarcitorie, sviluppate nelle loro diverse forme (per equivalente, da perdita della proprietà, e per l’occupazione protratta senza titolo);
– non era condivisibile la tesi dei ricorrenti, per cui la proposta domanda restitutoria fosse diversa, per petitum e causa petendi, rispetto alle domande proposte in sede civile;
– infatti i ricorrenti, con il ricorso all’esame, avevano «sostanzialmente» riproposto le domande che sono state già oggetto della causa civile, definita con pronuncia passata in giudicato, la quale, pertanto, copriva anche le pretese oggetto del presente giudizio;
– «non sussiste dunque spazio per un rinnovata domanda (neppure sotto forma di rilascio), in quanto la pretesa della parte ricorrente era già stata quantificata in termini di “corrispettivo”, rapportato al valore del bene. Tradotta, cioè, in obbligazione pecuniaria», sicché «le eccezioni di giudicato-prescrizione, formulate dalle controparti (amministrazioni), vanno accolte, sussistendo la sentenza negativa, impeditiva, del 2006, divenuta irrevocabile, riferita alle medesime pretese patrimoniali» (v. così, testualmente, la sentenza del TAR).
4. Avverso tale sentenza hanno interposto appello gli originari ricorrenti, deducendo un unico complesso motivo, rubricato «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 del Codice Civile. Erroneità nei presupposti di fatto e normativi. Violazione e/o falsa applicazione di legge, T.U. delle Espropriazioni», in particolare assumendo la diversità della domanda proposta nel giudizio civile rispetto a quella proposta nel presente giudizio e il conseguente erroneo accoglimento dell’eccezione di giudicato, in quanto:
– nella domanda proposta nel giudizio civile, la causa petendi era costituita dall’integrazione della fattispecie, di creazione giurisprudenziale, della cd. occupazione acquisitiva, perfezionatasi in conseguenza dell’irreversibile trasformazione del fondo attraverso la realizzazione dell’opera pubblica, sicché il petitum (mediato) non poteva che consistere nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente da perdita della proprietà, a fronte dell’impossibilità – in vigenza di detto istituto di creazione giurisprudenziale – di richiedere la restituzione del bene previa rimessione in pristino;
– invece, nella domanda svolta nel presente giudizio amministrativo, la causa petendi è costituita dalla persistente illegittima occupazione dell’immobile che, in seguito al superamento del citato istituto di creazione giurisprudenziale, integra un illecito permanente (attesa l’inidoneità dell’irreversibile trasformazione del bene a determinare l’effetto acquisitivo in capo all’amministrazione), mentre il petitum (mediato) è rappresentato dalla domanda restitutoria e di risarcimento dei danni da illegittima occupazione, con rivalutazione ed interessi legali.
Nella sostanza, a dire degli appellanti, mentre essi all’epoca della proposizione della domanda dinanzi al giudice civile – per la prassi nazionale e il diritto vivente costituito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (a partire dalla sentenza Sez. Un. n. 1464/1983) – potevano chiedere non la restituzione del bene, ma unicamente il risarcimento del danno per equivalente, attualmente, per effetto del mutato quadro normativo e giurisprudenziale, potrebbero finalmente proporre la domanda di restituzione del bene, che nulla avrebbe a che vedere – attesa la diversità di petitum e causa petendi – con quella risarcitoria proposta in sede civile, precisando altresì che «la domanda restitutoria, configurandosi sostanzialmente in una azione di rivendicazione, non è soggetta ad alcun termine di prescrizione» (v. così, testualmente, p. 14 del ricorso in appello).
Gli appellanti chiedono pertanto, in riforma dell’impugnata sentenza, previo accertamento dell’illegittima occupazione delle aree in questione, la condanna delle amministrazioni appellate «al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio del terreno, previa rimessione in pristino, ed alla corresponsione ai ricorrenti dei danni conseguenti alla illegittima occupazione» (v. così, testualmente, le conclusioni rassegnate nel ricorso in appello).
4.1. Si sono costituite in giudizio, con atti separati, l’Azienda ospedaliera Brotzu, l’A.T.S. e la Regione Sardegna, contestando la fondatezza dell’appello e chiedendone la reiezione, nonché rinnovando le eccezioni di giudicato e di prescrizione già sollevate in primo grado.
Le amministrazioni appellate riproponevano altresì le eccezioni di carenza di legittimazione passiva: le prime due, sotto il profilo che ai sensi dell’art. 66 l. n. 833/1978 e della l. reg. n. 13/1981 (Individuazione, costituzione ed organizzazione delle Unità sanitarie locali, in attuazione della legge 23 dicembre 1978, n. 833) sarebbero stati trasferiti ai singoli comuni tutti i rapporti giuridici relativi alle attività svolte dai soppressi enti ospedalieri, con la conseguente legittimazione passiva esclusiva del Comune di Selargius, terzo estraneo al giudizio; la Regione, assumendo di aver esercitato nella procedura espropriativa de qua esclusivamente potestà autorizzatorie, mentre l’illecita occupazione dell’area andava imputata esclusivamente all’inerzia dell’ente ospedaliero espropriante “Ospedali riuniti Cagliari” e agli enti che ad esso erano succeduti.
5. All’esito dell’udienza pubblica del 9 luglio 2020 la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, investita della causa d’appello, ha pronunciato l’ordinanza n. 6531/2020, con la quale, ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm., ha rimesso la causa all’Adunanza plenaria sulle seguenti questioni:
«a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ – sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;
b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;
c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio, per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);
d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente)».
5.1 La Sezione premette che la questione dirimente ai fini della decisione, preliminare alla individuazione dei legittimati passivi delle richieste oggetto del giudizio, attiene alla rilevanza del giudicato civile di rigetto formatosi sulla domanda di risarcimento per equivalente ed alla efficacia dello stesso rispetto alla domanda di risarcimento in forma specifica, intentata successivamente dinanzi al giudice amministrativo.
La Sezione rimettente rileva che la soluzione della questione presuppone:
– per un verso, la corretta definizione del rapporto tra le due forme di tutela esperite nei due giudizi, quali azioni distinte e autonome ovvero quali modalità alternative di attuazione dell’unitaria obbligazione risarcitoria (tenendo altresì conto dei principi affermati dall’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, circa la possibilità di convertire – anche in sede d’appello – la domanda di restituzione, basata sulla lesione del diritto di proprietà, nella domanda di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, basata sulla lesione dell’interesse legittimo pretensivo disciplinato da tale disposizione);
– per altro verso, l’individuazione degli effetti delle novità normative, nonché del cambiamento dell’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulle forme di tutela esperibili avverso l’occupazione sine titulo di immobili da parte della pubblica amministrazione, per individuare se la domanda formulata in primo grado sia «nuova» rispetto a quella decisa dal giudice civile, il che dovrebbe ritenersi determinante per verificare se nel caso di specie sia ravvisabile una res iudicata preclusiva della medesima domanda di primo grado.
La Sezione rileva altresì che tale questione va inquadrata nell’ambito della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato che, in linea di principio, ha nettamente rimarcato come – a seguito dapprima dell’introduzione dell’art. 43, e poi dell’art. 42-bis, del d.P.R. n. 327/2001 – il proprietario, in assenza di un provvedimento di acquisizione, può sempre agire per la restituzione del bene, sia con riferimento alle fattispecie successive all’entrata in vigore del d.P.R. n. 327/2001 che in relazione alle fattispecie pregresse, poiché il citato testo unico non consente più di dare seguito nell’ordinamento nazionale – e nella sede della ormai prevista giurisdizione amministrativa esclusiva – alla prassi più volte censurata dalla Corte EDU (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2; Cons. Stato, Sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582; Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303).
5.2 Indi la Sezione rimarca come sulla questione come sopra delineata siano emersi due contrastanti orientamenti in seno al Consiglio di Stato e alla giurisprudenza amministrativa, come di seguito sintetizzabili.
5.2.1 Secondo un primo orientamento (compendiato nelle sentenze Cons. Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466; id. 29 aprile 2014, n. 2232; id., 4 febbraio 2008, n. 303):
– non potrebbe essere accolta una domanda che – a fronte della sussistenza di un giudicato in senso tecnico in ordine all’avvenuto concretarsi del fenomeno acquisitivo a titolo originario dell’area in favore dell’amministrazione – intenda ottenere l’applicazione ‘ora per allora’ di un diverso orientamento giurisprudenziale, successivamente affermatosi sotto la spinta della Corte EDU, e di un antitetico quadro legislativo introdotto dal legislatore nazionale, appunto, per conformarsi ai precetti della Corte (Cons. Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466);
– non potrebbe trovare applicazione l’istituto di cui all’art. 43 d.P.R. n. 327/2001, qualora l’azione intentata dal privato dinanzi al giudice civile per la corresponsione dei danni in misura pari al controvalore venale dell’immobile – sul presupposto che l’area era divenuta di proprietà pubblica per effetto della cd. occupazione acquisitiva – sia stata respinta, con sentenza passata in giudicato, per prescrizione quinquennale: ciò, sulla base della considerazione che «l’art. 43 del testo unico non si applica quando l’Amministrazione già risulti titolare dell’area (nella specie, in base ad una sentenza del giudice civile che abbia espressamente ravvisato tale titolarità, con una statuizione inequivocabile su cui è formato il giudicato)», nonché con richiamo al principio dell’irretrattabilità del giudicato, a sua volta espressione del principio generalissimo della certezza dei rapporti giuridici, operante non solo nell’ordinamento interno ma anche in quello internazionale (Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303);
– la procedura dell’acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 potrebbe trovare applicazione solo dove vi sia ancora da acquisire alla proprietà pubblica il bene occupato senza titolo, da cui deriva l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di applicare il meccanismo di acquisizione nei casi in cui l’amministrazione già risulti titolare dell’area espropriata in base ad una sentenza del giudice civile che abbia espressamente ravvisato tale titolarità, con una statuizione inequivocabile su cui si sia formato il giudicato (Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2232).
5.2.2 Un diverso orientamento sarebbe invece evincibile dalla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830 – pronunciata su una complessa vicenda, sostanziale e processuale, ricostruita in modo articolato ai §§ 9.1 ss. nella ordinanza di rimessione (che s’intendono qui richiamati per ragioni di sinteticità) –, la quale, nel caso concreto, aveva escluso la configurabilità di un giudicato preclusivo dell’azionato diritto alla restituzione delle aree illegittimamente espropriate per la mancata adozione del decreto di esproprio e dell’annullamento di quello adottato in sanatoria. In quel caso, erano intervenuti sia un giudicato civile, con cui era stata respinta la domanda di risarcimento dei danni per l’occupazione dei terreni in assenza dell’approvazione del piano di zona e la conseguente mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, ritenuta infondata a fronte della sussistenza di idonei provvedimenti legittimanti l’occupazione d’urgenza, sia un giudicato amministrativo, con cui erano stati annullati tutti gli atti che le amministrazioni avevano emesso ‘a sanatoria’ tra il 1993 e il 1996 per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Anche in tale caso – come nel caso sub iudice –, l’amministrazione non aveva proposto una formale domanda di accertamento dell’acquisto della proprietà, con un ricorso o una domanda riconvenzionale, sicché il giudicato non poteva ritenersi formato sul ‘regime proprietario’ dei beni. Appare quindi quantomeno dubbio, se la mera pronuncia (di rigetto) sulla domanda di risarcimento per equivalente, sulla quale si è formato il giudicato, sia di per sé idonea a determinare il passaggio della proprietà in capo all’amministrazione per ‘accessione invertita’ o ‘espropriazione sostanziale’ (sia per inidoneità in sé, per la mancanza di un univoco dispositivo traslativo della sentenza del giudice civile, sia per l’assenza – constatata in base all’attuale quadro normativo – di una disposizione attributiva dello stesso potere al giudice civile di disporre l’alienazione), con la conseguenza che andrebbe ritenuto tuttora persistente l’illecito.
Secondo la Sezione rimettente, seguendo tale orientamento, in ultima analisi la domanda di restituzione, proposta successivamente alla formazione del giudicato che abbia respinto la domanda risarcitoria per prescrizione dell’azione, dovrebbe essere considerata ammissibile, con l’ulteriore conseguenza che potrebbero ritenersi sussistenti i presupposti per l’esercizio del potere-dovere di effettuare la scelta disciplinata dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
Altro precedente richiamato nell’ordinanza di rimessione quale espressione del secondo orientamento giurisprudenziale è costituito dalla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 13 marzo 2020, n. 1827, relativa ad una vicenda di occupazione senza titolo di fondi, pure risalente agli anni in cui la giurisprudenza civile seguiva la prassi della cd. occupazione acquisitiva. Tale sentenza ha deciso un caso in cui la questione centrale del giudizio riguardava il se il giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria, per rilevata prescrizione, avesse determinato il trasferimento del diritto di proprietà a favore dell’amministrazione, dovendosi decidere se il trasferimento del diritto avesse costituito o meno il presupposto logico-giuridico della statuizione relativa alla prescrizione del diritto al risarcimento dei danni e se ci fosse sul punto un decisum. In tale caso – sulla cui esatta ricostruzione si richiamano le esposizioni di cui al § 10 dell’ordinanza di rimessione –, la sentenza del Consiglio di Stato, di accoglimento dell’appello della parte privata, ha escluso che il giudice civile avesse affermato la sussistenza dell’acquisto da parte dell’amministrazione della proprietà dell’area per cd. occupazione acquisitiva e che pertanto si fosse formato un giudicato, sia pure implicito, sul punto.
Osserva, in conclusione, la Sezione rimettente che, in quest’ultimo caso, non appare essere stata affrontata funditus la questione se la formazione del giudicato (di reiezione) sulla domanda risarcitoria costituisse di per sé un ostacolo alla successiva proposizione della domanda di risarcimento in forma specifica ovvero della domanda di emanazione del provvedimento discrezionale ex art. 42-bis cit., avendone ravvisato la mancanza del presupposto (la formazione del giudicato preclusivo).
5.3 Sulle premesse di cui sopra, la Sezione rimettente, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio, rileva che:
– da un lato, non vi è stata alcuna statuizione in ordine al trasferimento della proprietà dei fondi, mai essendo stata avanzata una richiesta di accertamento (o una domanda riconvenzionale) in tal senso nel corso del giudizio civile: circostanza, del resto, confermata dalla perdurante doppia intestazione dei terreni in questione presente al catasto (in favore sia della signora Maria Chiara Scano che dell’Azienda Brotzu), come riportato dagli appellanti;
– dall’altro, alla luce delle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 2, 3 e 4 del 2020, non è giuridicamente configurabile la c.d. rinuncia abdicativa (intesa come modalità alternativa di cessazione dell’illecito derivante dall’occupazione illegittima), peraltro neanche dedotta dalle parti in causa (pur se evocata nella stessa sentenza impugnata in questa sede).
Aggiunge la Sezione che la decisione in un senso o nell’altro – sulla formazione di un giudicato civile preclusivo della domanda di tutela avente per oggetto la restituzione (o l’applicabilità dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2021) – determinerebbe le seguenti conseguenze, ben prospettate dalle parti:
– per un verso, qualora, dando priorità all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, si ritenesse sussistente tale giudicato preclusivo (avente per oggetto soltanto la domanda risarcitoria per equivalente, ma da estendere in via interpretativa al regime proprietario del bene), i privati – che hanno subito l’occupazione senza titolo del bene sul quale è stato realizzato il complesso ospedaliero – resterebbero privi di un ristoro effettivo: il giudicato di rigetto dell’azione risarcitoria dovrebbe così essere inteso nel senso che gli interessati non potrebbero agire per ottenere la restituzione del bene e neppure per ottenere dall’amministrazione che utilizza il bene l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001;
– tale conclusione potrebbe tuttavia risultare inappagante, sia perché basata su una rilevanza ultra vires del giudicato del giudice civile (concernente la domanda risarcitoria per equivalente e non anche quella di restituzione, basata su una diversa causa petendi e comportante comunque un diverso petitum), sia perché il giudice civile ha ritenuto di decidere la controversia sulla base di una prassi e di un diritto vivente in contrasto con le previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché attributivi di rilievo giuridico alla cd. occupazione appropriativa o acquisitiva, quando si riteneva che solo l’azione di risarcimento del danno per equivalente poteva essere esperibile;
– per altro verso, volendo invece dare rilievo al principio di effettività della tutela del diritto di proprietà, si dovrebbe interpretare letteralmente, o restrittivamente, la sentenza su cui si è formato il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente;
– tuttavia, anche tale soluzione potrebbe risultare non del tutto appagante, poiché si consentirebbe – dopo tale giudicato – di intentare l’azione restitutoria (basata quanto meno sulla diversità del petitum) ovvero di chiedere l’adozione del provvedimento discrezionale ex art. 42-bis (quale titolare dell’interesse legittimo da esso tutelato), malgrado a suo tempo non fosse stato proposto un ricorso alla CEDU dopo l’esito contrario del giudizio civile.
Indi la Sezione rimettente, ai §§ 13 ss. dell’ordinanza, ai fini dell’inquadramento della questione svolge una serie di considerazioni in ordine alle seguenti problematiche:
– in ordine al rapporto, sul piano sostanziale e processuale, tra risarcimento per equivalente pecuniario e risarcimento in forma specifica, dovendosi in particolare valutare se possa essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire, a rigore, anche le pretese oggetto del presente giudizio;
– in ordine al rapporto tra giudicato nazionale e diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
– in ordine al rapporto tra giudicato civile formatosi sulla domanda di risarcimento e l’istituto di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, segnatamente con riguardo al rapporto tra domanda di restituzione e domanda di applicazione del citato art. 42-bis con lo strumentario offerto dall’ordinamento processuale amministrativo, anche alla luce degli arresti dell’Adunanza plenaria nn. 2, 3 e 4 del 2020 che hanno prospettato la possibilità di una riconversione della domanda risarcitoria, per equivalente e/o in forma specifica, in domanda di applicazione dell’art. 42-bis, sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria in accoglimento dell’eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42-bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi (basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis).
La Sezione rimettente conclude, affermando che deve essere risolta la questione, se vi sia coincidenza della domanda risarcitoria con la domanda restitutoria, valutando se vada constatato un effetto preclusivo del giudicato civile, anche sulla base delle seguenti considerazioni sistematiche:
– quando era seguita dal giudice civile la prassi nazionale della cd. occupazione acquisitiva, la domanda risarcitoria per equivalente risultava l’unica ‘in astratto’ utilmente esperibile dal privato il cui bene fosse occupato illecitamente;
– ‘in concreto’, per di più neppure in realtà sussisteva sempre la possibilità giuridica di ottenere il risarcimento del danno per equivalente, dal momento che – mentre prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 1464 del 1983 era pacifico che non poteva decorrere alcun termine di prescrizione quinquennale della domanda, per la natura permanente dell’illecito consistente nella occupazione senza titolo – l’overruling disposto da tale sentenza ha in sostanza eliminato irrimediabilmente la tutela risarcitoria per equivalente, per i proprietari che prima di essa ritenevano inapplicabile il termine di prescrizione, in ragione della natura permanente dell’illecito, e non avevano curato la periodica trasmissione di atti interruttivi della prescrizione;
– peraltro, al fine di individuare quale sia nella specie l’ambito di operatività del giudicato civile, occorre altresì interrogarsi, se un tale effetto preclusivo sia necessariamente subordinato alla presenza della formale o quanto meno chiara e inequivocabile statuizione, nella pronuncia del giudice civile divenuta irrevocabile, sull’avvenuto trasferimento del bene in capo all’amministrazione a seguito dell’irreversibile trasformazione del bene, in considerazione della prassi allora seguita;
– si potrebbe ritenere ancora controverso il caso, come quello di specie, in cui una formale statuizione in tal senso non vi è stata, sebbene la pronuncia giurisdizionale abbia respinto la domanda risarcitoria per prescrizione sul presupposto (rivelatosi retrospettivamente inconfigurabile) dell’operatività della cd. occupazione acquisitiva.
5.5 Sulla base di tali considerazioni, la Sezione rimettente sottopone all’Adunanza plenaria i quesiti riportati sopra sub §§ 5.a), 5.b) e 5.c), cui aggiunge il quesito sub § 5.d) per l’ipotesi in cui si ritenga che gli appellanti siano ancora proprietari del bene.
6. Dopo il deposito e lo scambio di memorie difensive, la causa all’udienza pubblica del 17 febbraio 2021, tenutasi come da verbale, è stata trattenuta in decisione.
7. La soluzione delle questioni rimesse a questa Adunanza plenaria non può che passare attraverso l’interpretazione della sentenza civile n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari e l’individuazione dei limiti oggettivi del giudicato formatosi su tale sentenza, rimasta inoppugnata e quindi divenuta irrevocabile. Peraltro, anche nell’ordinanza di rimessione sono prospettati dei casi concreti risolti dalle ivi citate sentenze, più che con l’affermazione di principi di diritto suscettibili di contrasti giurisprudenziali, attraverso una ricostruzione della portata decisoria dei giudicati che, in quelle vicende, di volta in volta venivano in rilievo.
Più in generale, si tratta di risolvere la questione, se e in presenza di quali presupposti il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto (ormai superato) di creazione giurisprudenziale della cd. occupazione acquisitiva, precluda l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione dell’eadem res previa rimessione in pristino, quale quella esperita nel caso di specie dinanzi al TAR per la Sardegna con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Ulteriore tematica da affrontare – ancorché non rilevante ai fini della decisione della presente causa, ma pur sempre da esaminare da questa Adunanza plenaria nell’esercizio della funzione nomofilattica, attesa la stretta connessione con l’oggetto delle questioni deferite con l’ordinanza di rimessione – è se siffatto giudicato civile precluda, o meno, l’esercizio di un’azione reale di rivendicazione del bene, oppure, ancora, l’esercizio di un’azione ex artt. 31 e 117 cod. proc. amm. avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
7.1 In linea di diritto, si osserva che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa e civile, l’interpretazione del giudicato formatosi su una sentenza civile pronunciata a definizione di un giudizio ordinario di cognizione, va effettuata alla stregua non soltanto del dispositivo della sentenza, ma anche della sua motivazione: infatti, il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della delimitazione dell’estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione e risolvano questioni facenti parte del thema decidendum (v. in tal senso, ex plurimis, Cons Stato, Sez. III, 16 novembre 2018, n. 6471; Cass. civ., Sez. 1, 8 giugno 2007, n. 13513; Cass. civ., Sez. 2, 27 ottobre 1994, n. 8865).
La posizione della giurisprudenza, condivisa da questa Adunanza plenaria per preminenti ragioni di economia processuale e di garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici, è, invero, attestata su una concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, per cui il giudicato sostanziale (art. 2909 Cod. civ.) – che, in quanto riflesso di quello formale (art. 324 Cod. proc. civ.), fa stato ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi o aventi causa, relativamente all’accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto controverso – si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto, i quali rappresentino le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico della pronuncia finale, spiegando, quindi, la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale (cd. giudicato esplicito), ma estendendosi agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione e ne formano il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico-giuridico della statuizione finale (cd. giudicato implicito). Pertanto, l’accertamento su una questione di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria e il motivo portante della decisione divenuta definitiva, quando sia comune ad una causa introdotta posteriormente inter partes, preclude il riesame della questione, anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle del primo (v., ex plurimis, Cass. Civ., Sez. lav., 9 dicembre 2016, n. 25269; Cass, civ., Sez. 3, 23 ottobre 1995, n. 10999, per cui, «ualora due giudizi tra le stesse parti vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, l’accertamento compiuto circa una situazione giuridica ovvero la risoluzione di una questione di fatto o di diritto che incida su un punto fondamentale di entrambe le cause ed abbia costituito la logica premessa della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza passata in giudicato, preclude l’esame del punto accertato e risolto anche nel caso in cui l’altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo od il petitum del primo»).
In particolare, il giudicato implicito si estende anche alla questione pregiudiziale di merito rispetto ad altra di carattere dipendente su cui si sia formato il giudicato esplicito, senza che a tal fine sia necessaria la proposizione, in via principale o riconvenzionale, di una domanda di parte volta a trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale ai sensi dell’art. 34 Cod. proc. civ. (v. Cass. civ., Sez. 3, 15 maggio 2018, n. 11754), allorché la seconda sia legata alla prima da un nesso di dipendenza così indissolubile da non poter essere decisa senza la preventiva decisione di quella pregiudiziale, avente ad oggetto un antecedente giuridico necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi fra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte controversie. Ciò, a condizione che dalla sentenza emerga che gli aspetti del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale abbiano formato oggetto di una valutazione effettiva, il che, ad esempio, è da escludere allorquando la decisione sia stata adottata in applicazione del cd. ‘primato della ragione più liquida’ e la soluzione della causa sia basata su una o più questioni assorbenti, oppure si sia in presenza di un obiter dictum privo di relazione causale con il decisum (Cass. Civ., Sez. 1, Sentenza n. 5264 del 17/03/2015; Cass. civ., Sez. 3, 8 ottobre 1997, n. 9775; Cass. n. 7140/2002; Cass. n. 11672/2007; Cass. civ., Sez. 3, Sentenza 8 novembre 2006, n. 23871). Quindi l’autorità di cosa giudicata copre l’accertamento, oltre che del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto complesso dedotto come causa petendi, sia esso di natura reale o di natura obbligatoria, dal quale l’effetto trae origine.
Giova sin d’ora precisare che l’individuazione, in modo più o meno estensivo, dell’oggetto del processo e del giudicato si riflette, oltre che su una serie di altri istituti processuali (quali la litispendenza, la continenza, la competenza, la connessione, il regime delle impugnazioni, ecc.), anche su quello della modificazione della domanda (nelle forme della mutatio e, rispettivamente, della emendatio libelli), nel senso che, quanto più si estendono i limiti oggettivi del giudicato, tanto più ampia dovrà essere concepita la facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio, onde evitare che la parte attrice possa vedersi preclusa, in un futuro nuovo processo, la proposizione di domande giudiziali che, ancorché connotate da diversità di causa petendi e/o petitum, nella finalità perseguita potrebbero rilevarsi incompatibili con gli accertamenti assurti ad autorità di cosa giudicata ed essere ricomprese nella sfera del ‘deducibile’ non dedotto nel processo definito con efficacia di giudicato.
In tale prospettiva, la qui condivisa concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato su un piano generale appare senz’altro coerente con il principio richiamato nell’ordinanza di rimessione, per il quale – nel caso di occupazione illegittima del terreno da parte dell’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità di convertire la domanda nel corso del giudizio e quindi di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, sebbene basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a una posizione di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale) proposte in origine. Al proposito occorre precisare che l’operatività di tale principio presuppone che la questione sia ancora sub iudice e non si sia formato un giudicato sull’una o l’altra delle domande proposte e sulle eventuali questioni pregiudiziali, per cui lo stesso non ha modo di influire sul presente giudizio, il quale è, appunto, connotato dalla già intervenuta formazione del giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà (v. infra).
7.2 Procedendo in applicazione delle evidenziate coordinate ermeneutiche alla individuazione dei limiti oggettivi del giudicato formatosi sulla sentenza n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari, si osserva che:
– nel percorso motivazionale di detta sentenza, la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà, per intervenuta prescrizione quinquennale, si fonda sulla ricostruzione della fattispecie dedotta in giudizio a sostegno della pretesa risarcitoria in termini di cd. occupazione acquisitiva;
– infatti, nella sentenza risulta affermato che «l’occupazione materiale dell’area era stata preceduta dal decreto di occupazione d’urgenza, il quale presuppone una valida dichiarazione di pubblica utilità, che gli attori non hanno contestato», e che «l’occupazione di un suolo privato da parte di un ente pubblico, nell’ambito di un procedimento espropriativo introdotto da una valida dichiarazione di pubblica utilità e la sua irreversibile trasformazione mediante destinazione ad opera pubblica, senza che intervenga tempestivamente un valido provvedimento ablativo, determinano l’acquisizione della proprietà dell’immobile in favore della pubblica amministrazione, la quale è tenuta a rispondere del danno causato al privato»;
– nel contempo, la sentenza esclude espressamente la configurabilità della cd. occupazione usurpativa, inidonea a modificare il regime proprietario del bene illegittimamente occupato e trasformato dall’amministrazione in assenza di dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace, ed integrante un illecito permanente ricollegato alla persistente occupazione illegittima del bene da parte dell’amministrazione;
– l’accertamento – effettivo e specifico – del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva costituisce, nell’iter motivazionale della sentenza civile all’esame, un passaggio logico necessario per qualificare l’occupazione illegittima e la trasformazione irreversibile del bene come illecito istantaneo (ad effetti permanenti) ed individuare il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale alla data di scadenza del termine dell’occupazione legittima (nella specie, scaduto il 1° settembre 1983), essendo la realizzazione dell’opera pubblica intervenuta in pendenza di tale termine: infatti, secondo la costruzione pretoria di cui ha fatto applicazione il Tribunale di Cagliari, l’illecito istantaneo si perfeziona con l’evento lesivo costituito dall’estinzione del diritto di proprietà del privato in conseguenza dell’azzeramento del contenuto sostanziale del diritto e della nullificazione del bene che ne costituisce l’oggetto, con la correlata nascita del diritto al risarcimento del danno soggetto a prescrizione quinquennale, oppure, qualora tale trasformazione sia avvenuta nel periodo di occupazione legittima non seguita dal decreto di esproprio, nel momento in cui tale periodo viene a scadenza (essendo nel periodo di legittimo possesso consentite le attività sul suolo del privato);
– la statuizione finale di reiezione della domanda di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà (unitamente alle altre richieste risarcitorie riportate sopra sub § 2.), per prescrizione quinquennale (non risultando intervenuto alcun atto interruttivo prima della notificazione dell’atto di citazione in data 24 giugno 1999), contenuta nella sentenza passata in giudicato, trova pertanto il suo antecedente logico necessario nell’accertato perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti, di estinzione della proprietà sul suolo in capo all’originaria proprietaria (costituente l’evento lesivo integrante l’illecito) e di acquisizione della proprietà sullo stesso bene in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica (costituente un effetto lecito, eziologicamente non dipendente dall’illecito che costituisce un mero antecedente storico, ma ricollegato alla situazione di realizzazione dell’opera pubblica con la conseguente non restituibilità del suolo in essa incorporato e l’accessione del suolo all’opera pubblica realizzata), e nella correlata qualificazione dell’illecito generatore dell’obbligazione risarcitoria come illecito istantaneo;
– il giudicato si è dunque formato, oltre che sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione (oggetto immediato della statuizione finale), anche sul perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e sui relativi effetti, di estinzione della proprietà sul suolo in capo all’originaria proprietaria e di acquisizione della proprietà sullo stesso bene in capo all’amministrazione costruttrice, in quanto antecedenti logici necessari della statuizione finale.
Irrilevante ai fini della configurabilità del giudicato implicito sul regime proprietario scaturito dalla cd. occupazione acquisitiva è la mancata adozione, nella sentenza e nel relativo dispositivo, di una formale ed espressa statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione. Infatti, i relativi effetti scaturiscono ipso iure dal perfezionamento della citata fattispecie, complessa, di creazione giurisprudenziale – integrante un’ipotesi di estinzione della proprietà in capo al privato (effetto illecito) e di acquisto a titolo originario in capo all’amministrazione (effetto lecito) –, rispetto ai quali la pronuncia giudiziale assume natura di sentenza di accertamento (alla stregua, ad es., di una sentenza che accerti l’intervenuta usucapione). Ai fini della produzione di tali effetti non è, invece, richiesta l’adozione di una sentenza costitutiva che, nell’ordinamento processualcivilistico, a norma dell’art. 2908 Cod. civ. è relegata ad ipotesi tassativamente predeterminate dal legislatore.
Neppure rileva che, nella specie, dalla documentazione catastale prodotta in giudizio emerga la persistente intestazione della proprietà dell’area al nome dell’originaria proprietaria, mentre l’Azienda ospedaliera Brotzu vi risulta indicata come proprietaria superficiaria (dell’opera pubblica realizzata). Infatti, la sentenza con cui viene pronunciato l’acquisto a titolo originario del diritto di proprietà o di altro diritto reale ha natura dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso e, pertanto, la sua trascrizione non ricade nella disciplina dell’art. 2644 Cod. civ., bensì in quella dell’art. 2651 Cod. civ. per cui la trascrizione ha funzione di mera pubblicità notizia ed è, quindi, priva di efficacia sostanziale ai fini della soluzione del conflitto tra acquirente a titolo derivativo e acquirente a titolo originario (v., Cass. civ., Sez. 2, 29 aprile 1982, n. 2717; id., 3 febbraio 2005, n. 2161). A ciò si aggiunga che il diritto della parte interessata alla trascrizione dell’atto, in caso di rifiuto del conservatore, è specificamente tutelato dalla procedura prevista dagli artt. 2674 Cod. civ., 113-bis disp. att. Cod. civ. e 745 Cod. proc. civ., a prescindere dalla presenza, o meno, di un ordine di trascrizione nella sentenza, privo di valenza decisoria (v. Cass. civ., Sez. 2, 11 agosto 2005, n. 16853). In altri termini, il regime proprietario di diritto sostanziale si ricava dall’interpretazione del titolo giudiziale che contiene l’accertamento dell’acquisto a titolo originario, mentre a tal fine irrilevanti sono le risultanze catastali e dei registri immobiliari, comunque adeguabili alla situazione reale su iniziativa della parte interessata.
Concludendo sul punto, deve ritenersi che nel caso di specie il giudicato civile si sia formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione, sia sul regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della cd. occupazione acquisitiva.
7.3 Passando all’esame dell’effetto preclusivo scaturente da tale giudicato sulla domanda risarcitoria in forma specifica proposta nel presente giudizio, occorre premettere, in punto di qualificazione dell’azione restitutoria/riparatoria qui esercitata, che gli odierni appellanti sin dalle conclusioni del ricorso dinanzi al TAR, riproposte in appello, hanno chiesto la condanna delle amministrazioni resistenti «al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino», con ciò in modo chiaro e univoco proponendo azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento dei danni in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 Cod. civ., e non già azione (di natura reale e petitoria) di rivendicazione ex art. 948 Cod. civ..
Trattasi, invero, di azioni diverse per causa petendi e petitum, ancorché dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico di recuperare la disponibilità materiale del bene:
– infatti, con l’azione di rivendicazione, di carattere reale, petitorio e reipersecutorio/ripristinatorio, l’attore assume di essere proprietario della cosa e di non averne più il possesso, sicché agisce contro chi di fatto la possegga e la detenga, sia al fine di ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà sia al fine di recuperare l’eadem res previo ripristino dello stato anteriore per rimuovere la divergenza tra situazione di fatto e quella dominicale di diritto rispetto al bene, a prescindere dall’accertamento di un illecito;
– l’azione di reintegrazione in forma specifica è, invece, un rimedio risarcitorio finalizzato alla rimozione delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale e giuridica corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno, il cui accoglimento è subordinato al ricorrere dei presupposti della responsabilità aquiliana ex art. 2043 Cod. civ., cui si aggiungono i limiti della possibilità e della non eccessiva onerosità per l’autore dell’illecito previsti dall’art. 2058 cod. civ. (sulla differenza tra l’azione di risarcimento dei danni in forma specifica e l’azione di rivendicazione, v., ex plurimis, in via generale, Cass. civ., Sez. 3, 10 dicembre 2004, n. 23086; con specifico riguardo agli oneri di allegazione e di prova incombenti sulla parte attrice in punto di titolarità del diritto di proprietà, v. Cass. civ., Sez. 2, 27 novembre 2018, n. 30705).
Infatti, il TAR, nell’accogliere l’eccezione di giudicato, ha qualificato le pretese fatte valere nel presente giudizio, comprese quelle azionate «sotto forma di rilascio», come «sostanzialmente» identiche a quelle fatte valere dinanzi al giudice civile ed ivi dichiarate prescritte, e quindi come pretese di natura risarcitoria.
Tale qualificazione della domanda non è stata impugnata con un motivo specifico d’appello, essendo a tal fine inidoneo il passaggio testuale a p. 14 del ricorso in appello, secondo cui «la domanda restitutoria, configurandosi sostanzialmente in una azione di rivendicazione, non è soggetta ad alcun termine di prescrizione». Infatti, il citato passaggio, oltre a risolversi in un’affermazione apodittica e a non contenere una critica specifica avverso la qualificazione dell’azione quale operata dalla sentenza di primo grado (in violazione dell’art. 101, comma 1, Cod. proc. amm.), si pone comunque in contrasto e resta superata dalla chiara formulazione delle conclusioni rassegnate nel ricorso in appello in termini di richiesta di «risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio del terreno, previa rimessione in pristino», espressamente ripropositiva dell’azione risarcitoria in forma specifica esercitata in primo grado. Sulla qualificazione della domanda sub specie di azione (personale e obbligatoria) di risarcimento in forma specifica si è, pertanto, formato il giudicato interno.
Peraltro, anche l’ordinanza di rimessione parte dal presupposto che, nel presente giudizio, sia stata esercitata «azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino» (v. primo quesito).
7.3.1 Sotto un profilo strettamente processuale e procedurale, deve ritenersi che l’azione esercitata nel presente giudizio sia stata proposta ai sensi degli artt. 30, commi 1, 2 e 6, e 34, comma 1, lettera c), Cod. proc. amm., nell’ambito della giurisdizione esclusiva attribuita al giudice amministrativo dall’art. 133, comma 1, lettera g), Cod. proc. amm., secondo cui spettano alla cognizione del giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere da parte delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, quali che siano i diritti (reali o personali) fatti valere nei confronti di quest’ultima, nonché la natura (reipersecutoria/ripristinatoria o risarcitoria) della pretesa avanzata.
7.3.2 Quanto al rapporto tra l’azione di risarcimento in forma specifica (esercitata nel presente giudizio) e l’azione di risarcimento dei danni per equivalente (respinta con il giudicato civile), si osserva che si tratta di due rimedi in rapporto di concorso alternativo, diretti all’attuazione dell’unico diritto alla reintegrazione della sfera giuridica lesa che trova la sua fonte nella medesima fattispecie di illecito, con la particolarità che l’effetto programmato dalla norma al verificarsi della fattispecie si determina, nel suo specifico contenuto, con riguardo alla scelta compiuta dal titolare circa l’una o l’altra forma di tutela.
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, formatasi in sede di giurisdizione esclusiva con specifico riferimento a fattispecie di occupazione illegittima del bene da parte della pubblica amministrazione, i due rimedi costituiscono mezzi concorrenti alternativi a tutela dell’unico diritto al risarcimento dei danni, tant’è che è consentita la scelta in corso di giudizio per una delle due modalità, qualificata come ammissibile emendatio libelli anziché come vietata mutatio (v. Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306; id., 1° giugno 2011, n. 3331; per la giurisprudenza civile, v. Cass. civ., Sez. Un., 28 maggio 2014, n. 11912, secondo cui la pretesa risarcitoria, pur nella duplice alternativa attuativa, è unica, potendo la parte, tramite una mera emendatio, convertire l’originaria richiesta nell’altra ed il giudice di merito attribuire d’ufficio al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica; con la precisazione, che la giurisprudenza civile non sembra, invece, consentire la modificazione della domanda di risarcimento per equivalente a domanda di risarcimento in forma specifica, argomentando dalla maggiore onerosità di quest’ultimo rimedio: v. i richiami giurisprudenziali di cui al § 13.1 dell’ordinanza di rimessione).
Quindi, pur completandosi la fattispecie multipla con la proposizione della domanda e con l’opzione esercitata dall’attore a favore dell’una o dell’altra forma di tutela, il diritto rimane unico, come unica rimane la posizione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto della prima domanda (nella specie, quella di risarcimento per equivalente respinta dal Tribunale ordinario di Cagliari con la sentenza n. 22860/2006) preclude una nuova azione sulla seconda (nella specie, quella di risarcimento in forma specifica, proposta nel presente giudizio). Pertanto, sotto tale angolo visuale l’effetto preclusivo si è formato in ragione della circostanza che sull’unico diritto al risarcimento dei danni, scaturente dal medesimo fatto illecito, si è già deciso e si è ormai formato il giudicato di rigetto fondato sul motivo portante, comune ad entrambi i rimedi, dell’estinzione per prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei danni.
Sotto altro profilo, la domanda di risarcimento in forma specifica è, altresì, preclusa in ragione dell’incompatibilità indiretta con il giudicato formatosi sul regime proprietario del bene richiesto in restituzione, in particolare sull’effetto acquisitivo, nella ‘logica’ dell’istituto dell’occupazione appropriativa, determinatosi in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica, presupponendo invero l’azionabilità del diritto al risarcimento dei danni in forma specifica (tramite domanda di rilascio previa rimessione in pristino) la titolarità della proprietà del bene leso in capo all’attore, incompatibile con il giudicato implicito formatosi sul perfezionamento della fattispecie dell’acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’amministrazione.
7.4 L’esito di accoglimento dell’eccezione di giudicato non muterebbe neppure, qualora gli odierni appellanti avessero proposto azione reale di rivendicazione ex artt. 948 ss. Cod. civ., in quanto:
– il carattere di esclusività proprio di ogni diritto il principio logico di non contraddizione non consente la coesistenza di due di diritti dello stesso contenuto relativi ad un identico bene di cui siano titolari attivi esclusivi due soggetti diversi;
– l’essenza del giudicato sostanziale comporta l’impossibilità di far valere in un secondo processo tra le stesse parti (e/o relativi eredi e/o aventi causa) un diritto direttamente incompatibile con il diritto accertato da un primo giudicato;
– pertanto, l’esercizio dell’azione di rivendica da parte del privato nei confronti dell’amministrazione, dopo la formazione del giudicato sull’acquisto della proprietà in capo a quest’ultima, è precluso dal giudicato in ragione della relazione di incompatibilità diretta del diritto di proprietà fatto valere con l’azione di rivendicazione (avente tra l’altro natura petitoria, volta al riconoscimento del diritto di proprietà in capo all’attore, oltre che natura reipersecutoria) rispetto al diritto di proprietà acquisito dall’amministrazione oggetto dell’accertamento passato in giudicato.
7.5 Non diversamente, anche l’eventuale azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, ancorché tale istituto a norma del comma 8 sia applicabile ai fatti anteriori, trova il suo limite nei rapporti esauriti, quali quelli definiti con autorità di cosa giudicato .
Anche in questo caso, l’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm. sarebbe preclusa dal giudicato civile formatosi sul regime proprietario, per l’incompatibilità sussistente tra la situazione giuridica soggettiva azionata, presupponente la persistente titolarità della proprietà del bene in capo alla parte ricorrente, e l’accertamento, con efficacia di giudicato, dell’effetto acquisitivo in favore dell’amministrazione.
7.6 Occorre, poi, rilevare che, nella fattispecie concreta sub iudice, sussisteva la possibilità della proprietaria (rispettivamente degli eredi) di proporre non solo ‘in astratto’, ma anche ‘in concreto’, l’azione risarcitoria per equivalente entro il termine di prescrizione quinquennale decorrente dalla scadenza del periodo di occupazione legittima, essendo l’overruling della Corte di cassazione, con la pronuncia della sentenza Sez. Un. n. 1464 del 26 febbraio 1983, intervenuto addirittura prima della data di decorrenza del termine prescrizionale (1° settembre 1983), ed avendo la giurisprudenza anche negli anni immediatamente successivi ripetutamente affermato il principio per cui il dies a quo andava individuato al momento della irreversibile trasformazione del fondo rispettivamente alla scadenza del periodo di occupazione legittima (v., ex plurimis, Cass. civ., Sez. 1, 21 maggio 1984, n. 3118; id., 5 febbraio 1985, n. 784; id., 6 febbraio 1987, n. 1172), con la conseguenza che, nella specie, la proprietaria dante causa degli odierni appellanti aveva la concreta possibilità (per gli effetti di cui all’art. 2935 Cod. civ.) di impedire il compimento del termine di prescrizione attraverso eventuali atti interruttivi.
Va, altresì, rimarcato che, nelle more del giudizio di primo grado svoltosi dinanzi al Tribunale ordinario di Cagliari (instaurato nel 1999 e concluso nel 2006), sono intervenute le prime sentenze della Corte EDU (v., le sentenze 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 15 e 29 luglio 2004, Scordino c. Italia; 19 maggio 2005, Acciardi c. Italia; 15 luglio 2005, Carletta c. Italia), oltre alle prime pronunce nazionali (quale, ad es., Ad. plen. n. 2/2005), che hanno affermato il contrasto dell’istituto della cd. occupazione acquisitiva e di ogni forma di cd. espropriazione indiretta con la Convenzione EDU, sicché la parte privata ben avrebbe potuto (e dovuto, secondo criteri di ordinaria diligenza) impugnare la sentenza di primo grado facendo valere il sopravvenuto mutamento del quadro giurisprudenziale.
7.7 Quanto alla questione relativa alla forza di resistenza del giudicato nazionale in caso di eventuale contrasto con il diritto dell’Unione europea, pure accennata dall’ordinanza di rimessione, si osserva che:
– in primo luogo, la disciplina del regime di proprietà – in cui deve ritenersi compresa la disciplina dell’espropriazione pubblica e della proprietà pubblica – a norma del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 2, TUE e 345 TFUE esula dalle competenze attribuite all’Unione e appartiene dunque alla competenza degli Stat membri, salvi eventuali profili di violazione del principio fondamentale di non discriminazione e del diritto di stabilimento (Corte giust. CE 6 novembre 1984, causa C-182/83) che, tuttavia, nella fattispecie all’esame, non vengono in rilievo;
– ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 2, TUE, l’adesione dell’Unione alla Convenzione EDU non modifica o estende le competenze dell’Unione definite nei Trattati;
– come, infatti, puntualmente rilevato nella stessa ordinanza di rimessione (al § 14.1), la giurisprudenza della Corte di giustizia «non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi)»;
– la questione è, pertanto, irrilevante ai fini della decisione della presente controversia.
Ad ogni modo, come pure già rilevato nell’ordinanza di rimessione, la Corte di giustizia UE – in applicazione dei principi di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è espressione la res iudicata, diventati essi stessi princìpi non solo degli Stati membri ma anche del diritto dell’Unione – ha ripetutamente sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, rilevando che il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione (v. ex plurimis, sentenza 11 settembre 2019, causa C-676/17, con ulteriori richiami; Corte giust., 16 marzo 2006, causa C-234/04; 1° giugno 1999, causa C-126/97);
I principi fissati in materia dalla Corte di giustizia sono stati recepiti dalla Corte di cassazione, la quale ha ribadito che il diritto dell’Unione europea, così come costantemente interpretato dalla Corte di giustizia, non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salva l’ipotesi, assolutamente eccezionale, di discriminazione tra situazioni di diritto europeo e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento europeo (Cass. civ., Sez. 5, 27 gennaio 2017, n. 2046; id., 29 luglio 2015, n. 16032; Cass. civ., Sez. 1, 6 maggio 2015, n. 9127).
Concludendo sul punto, l’oggetto del giudicato civile che qui viene in rilievo esula dal campo di applicazione del diritto dell’UE, non ponendosi quindi ab imis una questione di compatibilità delle relative statuizioni con il diritto dell’Unione, mentre la questione teorica della forza di resistenza del giudicato civile eventualmente contrastante con il diritto europeo è stata risolta nel senso sopra sinteticamente riportato dalla Corte di giustizia e dalla giurisprudenza nazionale.
7.8 Per quanto, invece, attiene alla problematica del giudicato civile in contrasto con il diritto convenzionale della CEDU, in primo luogo occorre rilevare, con riferimento al caso sub iudice, che gli eredi dell’originaria proprietaria, non impugnando la sentenza di primo grado del Tribunale ordinario di Cagliari, non hanno esaurito i rimedi processuali interni, con la conseguente mancata integrazione della condizione imprescindibile per la legittimazione a ricorrere alla Corte EDU, né, tanto meno, hanno adìto la Corte entro il termine di decadenza di sei mesi dalla pronuncia nazionale definitiva di ultima istanza, stabilito dall’art. 35, comma 1, della CEDU.
In assenza di una pronuncia della Corte EDU sulla controversia decisa con la sentenza nazionale passata in giudicato, non può porsi la questione concreta circa l’obbligo di esecuzione ai sensi dell’art. 46 della Convenzione e di disapplicazione diretta del giudicato civile formatosi inter partes (rispettivamente tra gli eredi ed aventi causa).
Premesso che, a differenza di quanto accade per il diritto eurounitario, il giudice comune nazionale non può disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la CEDU, dovendo invece, laddove ravvisi un contrasto tra la prima e la seconda, non risolvibile con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. e la norma convenzionale interposta, si osserva che la Corte costituzionale, con le sentenze n. 123/2017 e n. 93/2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 106 Cod. proc. amm. e 395 e 396 Cod proc. civ. (per il processo amministrativo), rispettivamente degli artt. 395 e 396 Cod proc. civ. (per il processo civile), censurati per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, comma 1, CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU. La Corte costituzionale – dopo avere preliminarmente distinto i ricorrenti nel giudizio di revocazione che avevano vittoriosamente adito la Corte EDU da quelli che non si erano avvalsi di tale facoltà, escludendo per questi ultimi l’operatività del rimedio convenzionale, nonché previo richiamo della giurisprudenza della stessa Corte EDU –, ha escluso la sussistenza di un obbligo convenzionale generale di riapertura dei processi, diversi da quelli penali, allorquando ciò fosse necessario per conformarsi a una sentenza della Corte EDU di accertamento della violazione. La Corte costituzionale, ha, in particolare, individuato la ragione dell’atteggiamento più cauto della Corte EDU, al di fuori della materia penale, nella esigenza di tutelare i soggetti diversi dallo Stato – siano essi pubblici o privati – che avevano preso parte al giudizio interno, unitamente al rispetto della certezza del diritto garantita dalla res iudicata ed al rilievo che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale, concludendo che, nelle materie diverse da quella penale, non esiste, allo stato, un obbligo convenzionale generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo.
Su un piano ordinamentale più generale, trascendente i limiti del presente giudizio (e della causa definita con il giudicato civile), occorre rilevare che il legislatore, proprio per adeguarsi all’orientamento della Corte EDU – la quale ha più volte osservato che l’espropriazione cosiddetta indiretta, anche se frutto di ricostruzioni giurisprudenziali quali la cd. occupazione acquisitiva, si poneva in violazione del principio di legalità, perché non era in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permetteva all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da «azioni illegali» –, ha introdotto l’istituto di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2021, ritenuto dalla sentenza n. 71/2015 della Corte costituzionale conforme, tra l’altro, all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alle norme interposte di cui all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e all’art. 6 CEDU (v. anche le successive sentenze dell’Adunanza plenaria n. 2/2016 e nn. 2, 3 e 4 del 2020).
Come più sopra rilevato, l’istituto di cui all’art. 42-bis, sebbene dal comma 8 dichiarato applicabile anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, incontra il limite generale dei rapporti chiusi in modo irretrattabile con efficacia di giudicato, ossia quello dei rapporti esauriti.
Deve pertanto escludersi la possibilità di una riapertura generalizzata dei processi – siano essi civili che amministrativi – definiti con sentenza passata in giudicato, nelle quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della cd. occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati.
7.9 Alla luce delle considerazioni tutte sopra svolte, in risposta ai primi due quesiti deferiti all’Adunanza plenaria, riportati sopra sub §§ 5.a) e 5.b), devono essere formulati i seguenti principi di diritto:
«(i) In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
(ii) Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto».
Restano assorbiti i quesiti sub §§ 5.c) e 5.d), presupponenti la mancata formazione del giudicato sul regime proprietario del bene; presupposto negativo, nella specie da escludere.
8. Premesso che ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm. sussistono i presupposti per decidere l’intera controversia, e facendo applicazione degli esposti principi al caso di specie, l’appello – incentrato sull’unico, complesso motivo di violazione dell’art. 2909 Cod. civ. e del conseguente erroneo accoglimento dell’eccezione di giudicato – deve essere respinto.
Infatti, come rilevato sopra sub § 7.3.2, la domanda di risarcimento dei danni in forma specifica esercitata nel presente giudizio è preclusa dal giudicato formatosi sulla statuizione di rigetto dell’azione di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà, fondata sul motivo portante, comune ad entrambi i rimedi, dell’estinzione per prescrizione dell’unico diritto al risarcimento dei danni scaturente dal perfezionamento del medesimo illecito istantaneo della cd. occupazione acquisitiva. Pertanto, il TAR correttamente ha accolto l’eccezione di giudicato, ritenendo coperte dal giudicato di rigetto la pretesa di risarcimento dei danni in forma specifica azionata nel presente giudizio, unitamente alle altre pretese risarcitorie.
9. A fronte del prospettato contrasto giurisprudenziale, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le spese del presente grado di giudizio interamente compensate tra tutte le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 7540 del 2019), provvede come segue:
1) enuncia i principi di diritto come al punto 7.9 della parte-motiva;
2) respinge l’appello e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza ai sensi di cui in motivazione;
3) dichiara le spese del presente grado di giudizio interamente compensate fra tutte le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2021, con l’intervento dei magistrati: