Cass. penale, Sez. V, 7 dicembre 2022, n. 46467
Superata la tesi del c.d. dolo unitario (secondo cui il dolo di percosse o lesioni implicherebbe ex se la prevedibilità dell’evento morte). Si accoglie la tesi secondo cui, non diversamente da ogni altro caso di delitto aggravato da un evento necessariamente non voluto, l’evento aggravatore deve essere in concreto prevedibile.
Si evidenzia inoltre la sostanziale diversità tra la colpa in senso stretto (che caratterizza le attività a rischio base lecito) e la prevedibilità in concreto, in cui non c’è violazione di regola cautelare (prevenzionale) diversa dal dovere e di astensione, ma solo, appunto, l’elemento soggettivo della prevedibilità in concreto dell’evento più grave. Sul piano teorico, è una sostanziale adesione alla tesi (prevalente in dottrina) che esclude che vi siano “vere” regola cautelari per chi svolge attività totalmente vietate. Sebbene denominata “colpa comune”, è evidente come questa “prevedibilità” in concreto sia molto diversa sia dalla colpa generica sia da quella specifica, entrambe caratterizzate dalla violazione di una specifica regolare cautelare (non scritta o scritta) e non solo di un generale dovere di astensione.
Nell’omicidio preterintenzionale va individuato un elemento ulteriore rispetto alla causazione – non voluta dell’evento morte, scaturente dagli atti volontari diretti a percuotere o ledere: in altre parole, l’evento letale deve essere non solo causalmente derivato dalla condotta diretta a percuotere o ledere, ma deve anche essere riconducibile allo specifico rischio concretamente prodotto dall’azione lesiva.
È proprio il richiamo all’area di rischio, in realtà, ad orientare il ragionamento, nel senso di ritenere che del delitto preterintenzionale non può che rispondersi unicamente se si considera che un uomo ragionevole poteva rappresentarsi l’intervento del fattore causale che ha fatto degenerare le percosse o le lesioni nell’evento concreto, ossia nella morte della vittima.
Il che apre la strada all’inquadramento della cornice dell’elemento soggettivo del delitto preterintenzionale nell’alveo del dolo accompagnato da colpa, in quanto solo in tale contesto ha senso considerare l’operatività del criterio della prevedibilità sul piano quanto più possibile concreto, ossia sul piano delle circostanze della situazione reale conoscibili e correttamente valutabili da un soggetto modello, calato nelle condizioni di tempo e di luogo in cui opera il soggetto agente. In altre parole, quindi, nel delitto preterintenzionale si risponde solo se un uomo ragionevole poteva rappresentarsi l’intervento del fattore causale che ha fatto degenerare le percosse o le lesioni nell’evento concreto morte della vittima.
Non può del resto dimenticarsi come le stesse Sezioni Unite siano pervenute, già da tempo, ad analoghe conclusioni in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (Sez. Un., 22/01/2009, n. 22676 Ronci, Rv. 243381, in motivazione, ove è stato chiarito come “il criterio della prevedibilità in astratto è invocato come mero omaggio formale al principio di colpevolezza, e che in realtà anche questa tesi della prevedibilità in astratto si pone sullo stesso piano di quella della responsabilità oggettiva e di quella della colpa presunta per violazione della legge penale. In tutti e tre i casi, infatti, in sostanza la responsabilità viene fondata sul solo nesso causale, perchè l’evento morte non voluto viene sempre messo a carico del soggetto che ha compiuto il delitto doloso sulla sola base del nesso di causalità tra tale delitto e l’evento non voluto, indipendentemente da una indagine sull’elemento psicologico ad esso relativo”).
In tal senso, quindi, le argomentazioni del massimo consesso nomofilattico di questa Corte sono condivisibili anche in riferimento al delitto preterintenzionale, che condivide con la disposizione di cui all’art. 586 c.p. la struttura relativa alla progressione criminosa.
Il precetto penale ha un significato ambivalente, essendo volto, da un lato, a far sì che i consociati si astengano dal tenere determinate condotte, e, altresì, contenga un precetto complementare o di riserva, operante nei casi in cui il primo abbia fallito, avente lo scopo di indurre i consociati che hanno infranto la legge ad attuare la condotta criminosa con modalità che risultino in concreto le meno lesive possibili. Ne discende che il titolo d’imputazione dell’evento più grave del delitto preterintenzionale deve essere ravvisato nella colpa da accertarsi in concreto.
Questa costruzione presuppone la necessità di distinguere due tipologie di regole doverose di cautela: da un lato, quelle di natura prevenzionale, elaborate in riferimento alle attività pericolose giuridicamente autorizzate ed aventi la funzione – di garanzia – di individuare i limiti entro cui la condotta dell’autore deve ritenersi consentita; dall’altro, quelle di comportamento previste nel campo delle attività rischiose non autorizzate, ossia le attività illecite, le quali rispondono al diverso scopo di verificare se, in presenza di una condotta in sè illecita, l’evento più grave possa essere posto a carico del soggetto in quanto dal medesimo prevedibile.
In riferimento alla prima tipologia di regole, va osservato che esistono determinate attività (quale, ad esempio, la sperimentazione medica sull’uomo) che, pur presentando una intrinseca rischiosità, vengono autorizzate dall’ordinamento in vista della loro utilità sociale, purchè il loro esercizio sia subordinato al rispetto di determinate regole cautelari; tali regole, quindi, svolgono la funzione di contenimento della suddetta pericolosità e, pertanto, segnano il confine tra il “rischio consentito” ed il “rischio non consentito”.
Da ciò consegue che se ha rispettato le regole cautelari, l’agente non sarà responsabile per la realizzazione di eventi lesivi, anche se previsti o prevedibili, perchè essi rappresentano la concretizzazione del rischio consentito; mentre, qualora non abbia rispettato tali regole, sarà chiamato a risponderne, perchè essi derivano da un rischio non più consentito e, quindi, illecito.
In tali casi la colpa per l’attribuzione degli eventi lesivi cagionati nello svolgimento di tali attività, qualificata come “colpa speciale”, si fonda sulla violazione della regola cautelare di condotta – che integra l’aspetto oggettivo della colpa – e sull’attribuibilità dell’inosservanza all’agente; il che si verifica quando, secondo il parametro dell’agente modello – ossia dell’homo ejusdem professionis et condicionis era in concreto prevedibile ed evitabile che, trasgredendo tale regola cautelare, si sarebbe verificato l’evento, il che integra l’aspetto soggettivo della colpa.
Nel caso delle attività rischiose non autorizzate – che comprendono sia le attività rischiose vietate di per sè, proprio in ragione dei loro intrinseci coefficienti di rischio, sia le attività non vietate, ma punite in quanto causa di eventi lesivi -, esse, proprio in quanto pericolose, sono soggette unicamente al dovere di astensione, il quale rende del tutto irrilevanti le modalità con cui vengono, invece, eventualmente svolte.
In tal senso, quindi, la mancata astensione dalle stesse dà vita, di per sè, alla violazione di una regola cautelare, con la conseguenza che la responsabilità per gli accadimenti lesivi che ne conseguono non potrà essere esclusa, anche se l’agente aveva adottato modalità improntate alla prudenza e alla diligenza.
Si tratta, quindi, di regole di comportamento che sì risolvono in un giudizio di prevedibilità in concreto dello sviluppo causale, da cui è scaturita l’ulteriore offesa.
Ciò consente di adattare la nozione di colpa sia alle condotte lecite che a quelle illecite, superando la concezione secondo la quale, al di là della violazione delle regole cautelar’ in senso tradizionale, si aprirebbero inevitabilmente le porte della responsabilità obiettiva, come dimostrato dalla disposizione di cui all’art. 586 c.p., che prevede una pena più grave, rispetto al trattamento sanzionatorio per le corrispondenti fattispecie colpose, per la causazione di un evento ulteriore non voluto nel corso di un’attività dolosa.
La colpa per gli eventi lesivi che discendono da queste attività, denominata “colpa comune”, si fonda, quindi, tanto sull’inosservanza del dovere di astenersi dal compiere attività pericolose non autorizzate, il quale di per sè funge da regola cautelare, quanto sulla prevedibilità – e, quindi, sull’evitabilità – in concreto degli eventi lesivi, alla luce della situazione di fatto con cui essi sono stati realizzati, valutata secondo il parametro del comune uomo giudizioso.
Ne discende – considerato che l’attività di percuotere o ledere rientra nell’ambito di attività pericolose non solo non autorizzate, ma anche vietate – che, qualora da essa consegua la morte non voluta del soggetto passivo, l’agente sarà chiamato a risponderne, purchè tale evento si sia presentato come una prevedibile concretizzazione del rischio creato con la condotta di base.