1. Il nuovo art. 323 un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa. Beninteso: semprechè l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi.
2. La nuova formulazione della fattispecie dell’abuso di ufficio, restringendone l’ambito di operatività con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, determina all’evidenza serie questioni di diritto intertemporale. In linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Con il lineare corollario per cui all’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, consegue nei processi in corso il proscioglimento dell’imputato, con la formula “perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza pronunciata in data 21/11/2019 la Corte d’appello di Cagliari confermava quella del locale Tribunale, che aveva condannato G.A. alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione, oltre l’interdizione dai pubblici uffici per la medesima durata e il risarcimento danni a favore della parte civile, F.B., con una provvisionale di Euro 20.000, per il reato di cui agli artt. 81 e 323 c.p..
All’imputato, nella veste di Commissario straordinario e Direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Brotzu, viene contestato di avere, con vari atti organizzativi e fino alla conclusiva Delib. 22 dicembre 2010, n. 1782 illegittimamente dequalificato il Servizio Prevenzione e Protezione da struttura complessa a struttura semplice, così demansionando la posizione giuridica ed economica del suo Direttore, F.B., a mero Responsabile della struttura, privandolo della indennità di posizione variabile e sottoponendolo gerarchicamente al dirigente del Servizio Tecnico.
Ad avviso della Corte, che condivideva la ricostruzione probatoria della vicenda offerta dalla motivazione della sentenza di primo grado, il dolo intenzionale di G. di destrutturare l’organigramma diretto da F., di fatto consolidatosi nel corso di molti anni, e di danneggiare la posizione anche economica di quest’ultimo era desumibile da una serie di indici sintomatici, tra cui: l’assenza di una seria e urgente finalità riorganizzativa dell’Azienda, neppure esplicitata in atti; il difetto del necessario presupposto dell’adozione del c.d. atto aziendale; il persistente diniego di incontri per chiarimenti, pure richiesti da F. e dalle rappresentanze sindacali.
Quanto all’eccepita prescrizione del reato, ha affermato la Corte che, tenuto conto delle sospensioni per 7 mesi e 21 giorni in primo grado e per 11 mesi e 9 giorni in appello, per complessivi 19 mesi, il termine di prescrizione è spirato solo il 22 gennaio 2020, dopo la pronuncia della sentenza di appello, poichè i rinvii delle relative udienze dovevano qualificarsi come “meri rinvii di cortesia” e non per “legittimo impedimento” del difensore.
2. Hanno proposto ricorso i difensori di G., censurando la sentenza impugnata per i profili:
– della violazione di legge, quanto al requisito previsto dall’art. 323 c.p. della “violazione di legge o di regolamento” (oggi: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità “, ai sensi del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, comma 1), riguardante la normativa primaria relativa all’atto aziendale e la situazione di illegalità in cui versava la struttura f.te capo a F., che l’imputato avrebbe ricondotto a legalità con la Delib. 22 dicembre 2010;
– della violazione di legge e del vizio di motivazione con riferimento al requisito dell’ingiustizia del danno, non essendo mai stato nominato F. dirigente di una struttura complessa;
– della violazione dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, quanto alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione fin dal 22 agosto 2019, poichè la Corte aveva illegittimamente e illogicamente immutato la causa dei tre rinvii delle udienze di appello, con conseguente sospensione della prescrizione, dapprima giustificati con le rispettive ordinanze “per legittimo impedimento del difensore” (sospensione di complessivi 6 mesi) e poi con la sentenza come “meri rinvii di cortesia” (sospensione di mesi 11 e giorni 10).
Gli avvocati Marongiu e Costa, in data 2 e 3 dicembre 2020, hanno depositato memorie con le quali insistono nel ribadire i motivi di ricorso anche alla luce delle modifiche normative introdotte dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, intervenuta successivamente al deposito del ricorso. Sottolineano inoltre la intervenuta prescrizione del reato fin dal 22 agosto 2019, prima della pronuncia della sentenza di appello.
3. Il difensore della parte civile ha depositato in data 30/11/2020 unitamente alle conclusioni e alla nota spese – una memoria difensiva con cui contrasta le tesi del ricorrente. In particolare, sostiene che il computo dei termini di prescrizione, così come ricostruito dalla Corte di appello è corretto. Sotto diverso profilo rappresenta che la Corte territoriale ha rispettato i canoni di specificità e determinatezza nell’individuazione delle norme violate, che gli atti posti in essere dall’imputato erano finalizzati a danneggiare la parte civile, come dimostrato anche dai comportamenti contraddittori assunti dal medesimo. Inoltre, alla luce della Circolare emanata dal Presidente della Regione nel 2009, G. avrebbe dovuto attenersi all’ordinaria amministrazione, dal momento che la Struttura Prevenzione e protezione doveva considerarsi “di fatto” quale struttura complessa.
4. Il ricorso è stato trattato, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, commi 8 e 9, senza l’intervento delle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Preliminarmente, deve rilevarsi che il delitto di abuso d’ufficio, alla data della pronuncia della sentenza di appello (21 novembre 2019), era già estinto per prescrizione fin dall’agosto 2019, ai sensi e per effetto della disposizione di cui all’art. 159 c.p., comma 1, n. 3.
Ed invero, a quella data era trascorso il termine di 7 anni e 6 mesi, decorrente dal 22 dicembre 2010, cui andava aggiunto il periodo di sospensione del corso della prescrizione, nella misura di 7 mesi e 21 giorni per le sospensioni del giudizio di primo grado e di 6 mesi e 3 giorni (60 giorni x 3, oltre il giorno del singolo impedimento del difensore) per le tre sospensioni disposte nel giudizio di appello.
La Corte d’appello, con ben tre distinte ordinanze (4 dicembre 2018, 19 febbraio 2019 e 25 giugno 2019), preso atto delle tempestive e documentate istanze di rinvio dell’avvocato Massimiliano Ravenna, difensore di G., “per legittimo impedimento”, giustificato da “concomitanti impegni professionali”, “sentite le parti”, ha disposto il rinvio ad altre udienze per il dedotto legittimo impedimento e la sospensione del corso della prescrizione.
A fronte di tale esplicito apparato argomentativo delle ordinanze di rinvio, con riguardo al legittimo impedimento professionale, la perentoria affermazione espressa in sentenza, secondo cui i rinvii dovevano qualificarsi come “meri rinvii cosiddetti di cortesia”, assume la veste di un apodittico revirement, non preceduto dal contraddittorio fra le parti sul punto, nè giustificato da un congruo e logico apparato argomentativo a sostegno dell’implicita revoca.
Considerato che il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore per contemporaneo impegno professionale determina la sospensione del corso della prescrizione fino a un termine massimo di 60 giorni a far capo dalla cessazione dell’impedimento stesso (Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262913), in applicazione dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, il reato deve ritenersi estinto per prescrizione fin dall’agosto 2019, ancor prima della pronuncia della sentenza impugnata.
2. Tuttavia, la constatata estinzione del reato per prescrizione non esime questa Corte dall’esaminare la questione della rilevanza, nel caso in esame, della recente formulazione dell’art. 323 c.p., a seguito della novella introdotta dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, che ha modificato il reato di abuso di ufficio, sostituendo le parole “di norme di legge o di regolamento” con quelle “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Premesso che la ragion d’essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l’art. 323 c.p., è ravvisata nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’art. 97 Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante – introdotti dalla più recente riforma – sono costituiti dalle “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione “di norme di legge o di regolamento”, si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, nè eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Beninteso: semprechè l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi.
La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa.
3. La nuova formulazione della fattispecie dell’abuso di ufficio, restringendone l’ambito di operatività con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, determina all’evidenza serie questioni di diritto intertemporale. In linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Con il lineare corollario per cui all’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, consegue nei processi in corso il proscioglimento dell’imputato, con la formula “perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.
4. Tanto premesso, ritiene il Collegio che, alla luce della sopravvenuta modifica normativa, non possa essere confermata l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di abuso d’ufficio.
Risulta infatti assente nella condotta contestata a G. il dato strutturale nella nuova versione dell’art. 323 c.p. – della “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Ed invero, la deliberazione n. 1782 del 22/12/2010, con la quale G. ha proceduto alla dequalificazione a struttura semplice del Servizio Prevenzione e Protezione diretto da F., di fatto consolidatosi come struttura complessa fin dal 2000, e di concreto demansionamento della posizione giuridica ed economica di quest’ultimo, da Direttore a Responsabile della struttura, non può dirsi emanata in carenza di alcuna finalità di riorganizzazione dell’Azienda ospedaliera Brotzu.
Se è vero, infatti, che la citata deliberazione difettava del presupposto dell’adozione del c.d. atto aziendale, è pur vero, tuttavia, che anche l’originaria istituzione del Servizio Prevenzione e Protezione come struttura complessa f.te capo a un Direttore (mai formalmente nominato come tale) era stata attivata in carenza del prescritto atto aziendale.
Sicchè non sembra estraneo alla sfera dei poteri di riorganizzazione dell’Azienda ospedaliera (OMISSIS), affidati a G. in veste di Commissario straordinario e Direttore generale, un margine consentito di discrezionalità amministrativa – oggi sottratto al sindacato di rilievo penale – nella decisione di far cessare una situazione di fatto consolidatasi nel tempo e però originariamente viziata da illegittimità. Trattasi, a ben vedere, di un atto di riorganizzazione delle strutture e dei servizi dell’Azienda ospedaliera che, siccome non adottato dal titolare del potere deliberativo in situazione di interessi in conflitto, nè connotato da una oggettiva distorsione dai fini pubblici di buon andamento, efficienza ed economicità perseguiti dallo stesso ente, rientra fra
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quelle scelte di merito che, nel contesto della discrezionalità amministrativa, la nuova formulazione dell’art. 323 c.p. sottrae al sindacato del giudice penale.
5. In conclusione, la sentenza impugnata e quella di primo grado vanno annullate senza rinvio perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, nonchè quella emessa dal Tribunale di Cagliari in data 29/09/2017, perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021