L’Adunanza plenaria, chiamata a risolvere la questione interpretativa se sussista una legittimazione generale degli enti esponenziali di tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo in assenza di una legittimazione straordinaria espressamente prevista dal legislatore, ha affermato che essa può discendere dall’iscrizione dell’associazione negli appositi elenchi previsti dalla disciplina di riferimento e che è, comunque, ammessa in presenza, in capo all’ente collettivo, dei requisiti sostanziali elaborati dalla giurisprudenza.
FATTO
Con ordinanza n. 7208 del 23 ottobre 2019, la Sezione VI, rilevato un contrasto sul punto tra le Sezioni e ritenuta ravvisabile una questione di particolare importanza, ha rimesso all’Adunanza Plenaria il seguente quesito: se alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia piuttosto necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore.
Oggetto del giudizio sul quale la Sezione rimettente è chiamata a decidere, e dal quale è scaturito il quesito, sono i provvedimenti emessi il giorno 21 novembre 2015 e approvati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze il successivo 22 novembre 2015, con i quali la Banca d’Italia ha disposto la risoluzione degli istituti di credito controinteressati appellati, a causa del ritenuto stato di dissesto in cui essi si trovavano, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 180/2015; nonché i successivi provvedimenti con i quali ha poi disposto: a) la riduzione integrale del valore delle riserve e delle azioni; b) l’azzeramento del valore nominale degli “elementi di classe 2 computabili nei fondi propri”, ovvero in sintesi di parte delle obbligazioni subordinate; c) la cessione dei crediti in sofferenza ad un’unica apposita società veicolo, la permanenza delle residue obbligazioni subordinate nel patrimonio dell’istituto originario in liquidazione e la cessione delle relative aziende, così risanate dalle passività, a distinti enti-ponte, incaricati di cederle successivamente sul mercato; d) il finanziamento, infine, delle necessarie ricapitalizzazioni con l’intervento del Fondo di risoluzione, un fondo di scopo istituito con l’art. 78 del d.lgs. 180/2015 e alimentato con i contributi obbligatori dall’articolo stesso previsti a carico delle banche operanti in Italia.
Ad impugnare i citati provvedimenti sono un gruppo di singoli risparmiatori già titolari di azioni, ovvero di obbligazioni anche subordinate emesse dagli istituti di credito in questione, titoli il cui valore è stato azzerato dalle operazioni appena descritte. Tra i ricorrenti v’è anche Codacons, associazione iscritta nello speciale elenco delle associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 del Codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n.206, la quale ha come fine statutario quello di proteggere, anche attraverso azioni in giudizio, i diritti e gli interessi dei consumatori e dei risparmiatori.
In primo grado il TAR Lazio ha dichiarato inammissibile il ricorso per quanto riguarda la posizione dell’associazione Codacons, ritenendola non legittimata a proporlo; lo ha invece respinto nel merito quanto alla posizione dei singoli risparmiatori, ritenendo in sintesi che l’operazione fosse stata legittimamente attuata.
Sia l’associazione sia i singoli risparmiatori hanno impugnato la citata sentenza, deducendo a supporto del gravame una serie di motivi, volti anzitutto, per quanto qui rileva, a contestare il capo della sentenza che ha dichiarato il difetto di legittimazione in capo all’associazione stessa.
La Sezione rimettente, nell’esprimere i propri dubbi, si è confrontata con la tesi posta a base della citata pronuncia di inammissibilità, rinvenendone il caposaldo nella sentenza, sempre della Sezione VI, del 21 luglio 2016 n.3303.
In quella decisione è sostenuto che nell’attuale ordinamento non sarebbe più in vigore la regola di origine giurisprudenziale del cd. doppio binario, secondo la quale gli enti collettivi, e in primo luogo le associazioni, ove presentino determinati requisiti, sono legittimate di per sé, ovvero a prescindere e in aggiunta rispetto a quanto previsto da specifiche disposizioni di legge, ad impugnare dinanzi al giudice amministrativo i provvedimenti che ritengano lesivi degli interessi diffusi della collettività della quale si configurano come ente esponenziale. Tale regola sarebbe stata sostituita da un principio di tassatività, per cui la legittimazione degli enti esponenziali è eccezionale e sussiste nei soli casi espressamente previsti dalla legge, fra i quali non rientrerebbe quello in esame.
Il Collegio rimettente, viceversa, ritiene tuttora sostenibile l’orientamento tradizionale secondo il quale la legittimazione a proporre ricorso, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, sussiste in capo a tutte le associazioni, anche se sprovviste di legittimazione espressa in via legislativa, che rispondano a determinati criteri, costituiti dall’effettivo e non occasionale impegno a favore della tutela di determinati interessi diffusi o superindividuali, dall’esistenza di una previsione statutaria che qualifichi detta protezione come compito istituzionale dell’associazione, e dalla rispondenza del paventato pregiudizio agli interessi giuridici protetti posti al centro principale dell’attività dell’associazione. Osserva il Collegio rimettente che “tale indirizzo appare più consono ai valori espressi dalla Carta costituzionale, anzitutto in termini generici perché nel momento in cui, con l’art. 18, si riconosce la libertà di associazione, fra due possibili interpretazioni di una norma è preferibile quella che amplia, e non quella che restringe, le possibilità di azione dell’associazione stessa. Si osserva ancora che, ragionando nei termini opposti, propri dell’indirizzo restrittivo di cui si è detto, si rischierebbe, in ultima analisi, di rimettere alla discrezionalità del legislatore ordinario la tutela in giudizio di interessi di notevole peso e valore sociale, con evidente limitazione dell’effettività della tutela garantita dall’art. 24 Cost. Gli interessi coinvolti, infatti, riguardano settori come l’ambiente, la salute, ovvero, come in questo caso, la stabilità dei mercati finanziari, che i singoli potrebbero proteggere solo agendo in forma associata, con una modalità che del resto è pienamente consona allo spirito dell’art. 2 Cost, che riconosce e garantisce le “formazioni sociali” come luogo in cui la personalità dei singoli va a manifestarsi”.
Incardinatosi il giudizio dinanzi a questa Adunanza Plenaria, le parti hanno depositato memorie, illustrando e approfondendo il tema. Ne hanno altresì discusso all’udienza dell’11 dicembre 2019.
All’esito la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1.Giunge all’esame dell’Adunanza Plenaria la seguente generale questione: se alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia invece necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore.
1.1. Essa, come accennato nell’esposizione in fatto, insorge nell’ambito di una controversia che concerne i provvedimenti con i quali la Banca d’Italia ha disposto la risoluzione degli istituti di credito a causa del ritenuto stato di dissesto in cui essi si trovavano, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 180/2015, e adottato i provvedimenti conseguenziali. Il contenzioso si riferisce dunque al settore bancario e l’interesse azionato riguarda l’ambito della tutela dei consumatori.
1.2. L’associazione dei ricorrenti (Codacons) risulta bensì iscritta nello speciale elenco delle associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 del Codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n.206, ma la questione della sua legittimazione si pone in quanto il predetto codice non prevede espressamente che le associazioni in questione siano abilitate ad esperire azione di annullamento dinanzi al giudice amministrativo. In altri termini, argomentando dalla mancata espressa previsione, nell’ambito del codice del consumo, dell’azione di annullamento di provvedimenti amministrativi, e postulata la tassatività delle azioni esperibili dalle associazioni a tutela dei consumatori, tutte di pertinenza della giurisdizione ordinaria, si giunge a dubitare che le associazioni siano provviste di legittimazione generale in ordine alla tutela di interessi collettivi.
La questione – per come posta – può essere a ben vedere riguardata sotto il profilo della legittimazione, o della tipologia delle azioni esperibili: infatti, dal dato positivo della mancata previsione di un’azione (di annullamento in sede giurisdizionale amministrativa) si inferisce, in tesi, un’assenza di legittimazione, per così dire, in parte qua, ovvero, secondo il diverso angolo di visuale segnalato, e in positivo, una legittimazione limitata a proporre solo le azioni espressamente previste.
1.3. Tale ultima impostazione già di per sé suscita perplessità, in quanto la configurazione di una legittimazione selettivamente limitata quanto al diritto di azione appare come una situazione soggettiva monca, perché privata dell’ordinario diritto, di derivazione costituzionale, normalmente connesso alla titolarità di una situazione soggettiva.
2.Anche a non voler tener conto della considerazione appena fatta, peraltro, la questione della legittimazione all’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa va riportata nell’ambito generale della questione della legittimazione ad agire nel giudizio amministrativo delle associazioni a tutela degli interessi collettivi, qualunque sia il settore in cui abbia operato la pubblica amministrazione.
2.1. Com’è noto, la protezione degli interessi “diffusi”, ossia adesposti, non consentita in via teorica a causa della mancata sussistenza del requisito della differenziazione che tradizionalmente qualifica la posizione giuridica di interesse legittimo, è stata sin dagli anni ’70 assicurata attraverso il riconoscimento dell’esistenza di un interesse legittimo di natura collettiva imputabile ad un ente che, in forza del possesso di alcuni requisiti giurisprudenzialmente individuati (effettiva rappresentatività, finalità statutaria, stabilità e non occasionalità, in taluni casi collegamento con il territorio) diviene idoneo ad assumerne la titolarità (Cons. Stato, V, 9.3.1973, n. 253; Cass., S.U., 8.5.1978, n. 2207; Cons. Stato, A.P., 19.11.1979, n. 24).
2.2.Il riconoscimento legislativo degli interessi collettivi in materia ambientale e la conseguente legittimazione riconosciuta alle associazioni dall’articolo 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) – norma che consente alle associazioni ambientaliste individuate in base all’art. 13 (ossia quelle ricomprese in un elenco approvato con decreto del Ministro dell’Ambiente) di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi” – ha poi generato un dibattito circa l’esclusività di tale legittimazione.
2.3. In relazione a tale aspetto, è ben noto l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 13 della legge 349/86 non determina un rigido automatismo, potendo il giudice, all’esito di una verifica della concreta rappresentatività, ammettere all’esercizio dell’azione anche associazioni non iscritte, secondo il criterio del cd “doppio binario” che distingue tra la legittimazione ex lege delle associazioni di protezione ambientale di livello nazionale riconosciute (che non necessita di verifica) e la legittimazione delle altre associazioni (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760; sez. VI, 13 settembre 2010, n. 6554). Quest’ultima deve essere accertata in ciascuno dei casi concreti con riguardo alla sussistenza di tre presupposti: gli organismi devono perseguire statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale, devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (ex plurimis, Cons. Stato., IV, 16.2.2010, n. 885).
3. L’esperienza e l’evoluzione ordinamentale hanno nel tempo mostrato l’esistenza di una serie di fattispecie di rilievo superindividuale che, sebbene nel dibattito siano state descritte come di interesse collettivo, assumono valenza specifica o addirittura si ascrivono ad altri ed eterogenei fenomeni quali quello degli interessi isomorfi, fortemente avvertito soprattutto nell’ambito della tutela civilistica dei consumatori. La varietà delle fattispecie ha impegnato la giurisprudenza in una considerevole attività di selezione e di differenziazione che non ha tuttavia alterato i profili fondamentali della questione relativa alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo.
4. Il fondamento teorico della cd. collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo della sua entificazione risiede, come già accennato, nella individuazione di interessi che sono riferibili ad una collettività o a una categoria più o meno ampia di soggetti (fruitori dell’ambiente, consumatori, utenti, etc.) o in generale a una formazione sociale, senza alcuna differenziazione tra i singoli che quella collettività o categoria compongono, e ciò in ragione del carattere sociale e non esclusivo del godimento o dell’utilità che dal bene materiale o immateriale, a quell’interesse correlato, i singoli possono trarre (sul punto, Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2010, n. 6554, cit.).
4.1. E’ evidente da questa definizione, che il discrimen più complesso da stabilire sia, non quello sul versante dell’interesse legittimo individuale (caratterizzato dall’esclusività del godimento o dell’utilità riconoscibile in capo ai singoli) ma, piuttosto, sul diverso e più generale versante dell’interesse pubblico vero e proprio, la cui cura è rimessa, secondo la tradizionale impostazione, unicamente all’amministrazione sulla base del principio di legalità.
La circostanza che la cura dell’interesse pubblico generale (ad es. all’ambiente) sia rimessa all’amministrazione non toglie, tuttavia, che essa sia soggettivamente riferibile, sia pur indistintamente, a formazioni sociali, e che queste ultime, nella loro dimensione associata, rappresentino gli effettivi e finali fruitori del bene comune della cui cura trattasi. Le situazioni sono infatti diverse ed eterogenee: l’amministrazione ha il dovere di curare l’interesse pubblico e dunque gode di una situazione giuridica capace di incidere sulle collettività e sulle categorie (potestà); le associazioni rappresentative delle collettività o delle categorie invece incarnano l’interesse sostanziale, ne sono fruitrici, e dunque la situazione giuridica della quale sono titolari è quella propria dell’interesse legittimo, id est, quella pertinente alla sfera soggettiva dell’associazione, correlata a un potere pubblico, che, sul versante processuale, si pone in senso strumentale ad ottenere tutela in ordine a beni della vita, toccati dal potere riconosciuto all’amministrazione.
4.2. Del resto, che possano esservi situazioni soggettive di natura diffusa e collettiva è confermato dal legislatore, il quale, all’art. 2 del codice del consumo, espressamente prevede che “sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa”; o ancora, dallo Statuto delle imprese (l. 11 novembre 2011, n. 180) che all’art. 4, co. 2, riconosce alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative ai diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi “lesivi di interessi diffusi”; finanche, e soprattutto, dalla legge generale sul procedimento amministrativo, la quale, all’art. 9 prevede che “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”.
5. Tale ricostruzione è stata da ultimo sottoposta a critica con dovizia di argomenti dalla Sezione VI, con sentenza del 21 luglio 2016 n.3303, la quale dubita, in radice, della tenuta attuale della tradizionale impostazione basata sulla collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo dell’associazionismo spontaneo.
5.1. Il primo argomento, di carattere sistematico, utilizzato, è teso a mettere in dubbio la persistente validità e attualità dell’elaborazione giurisprudenziale attraverso la quale si è ammessa la tutela degli interessi legittimi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, a prescindere da una specifica previsione di legge (tesi del doppio binario). Secondo tale impostazione, “in una prima fase, a fronte di un ordinamento ancora non adeguato alle emergenti istanze di tutela degli interessi meta-individuali, il ruolo degli enti esponenziali è stato….determinante e meritorio, perché ha consentito a questi interessi di assumere una dimensione giuridica e di avere un centro soggettivo di riferimento. Successivamente, tuttavia, nel corso del tempo l’esigenza di supplire alla carenza di un sistema istituzionale di tutela si è via via attenuata, perché il legislatore ha progressivamente preso atto dei cambiamenti in corso e ha iniziato a prevedere – introducendole per legge – forme e modalità specifiche di tutela. Si è avuta così la progressiva istituzionalizzazione di quella tutela che prima, pretoriamente, era affidata, o lasciata, all’iniziativa dei gruppi e delle associazioni private.
Sempre più spesso, quindi, la legittimazione ad agire degli enti esponenziali trova espresso riconoscimento in una puntuale disciplina normativa, che si preoccupa però anche di stabilire chi può agire e, soprattutto, il tipo di azione che può essere esercitata. Si riscontra, in sostanza, l’affermazione di una nuova e più matura “tassatività” delle azioni esperibili (sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo) nei predetti ambiti”.
5.2. Come può evincersi dalla parte finale del riportato brano della sentenza, la tesi sostenuta fonde, in un’unica considerazione, legittimazione ad agire e tipologia delle azioni esperibili, per limitarne il riconoscimento in capo ai soggetti, e limitatamente agli oggetti, specificamente previsti per legge.
L’Adunanza plenaria non condivide una siffatta lettura interpretativa della descritta evoluzione e ritiene che il percorso compiuto dal legislatore sia stato piuttosto contraddistinto dalla consapevolezza dell’esistenza di un diritto vivente che, secondo una linea di progressivo innalzamento della tutela, ha dato protezione giuridica ad interessi sostanziali diffusi (ossia condivisi e non esclusivi) riconoscendone il rilievo per il tramite di un ente esponenziale che ne assume statutariamente e non occasionalmente la rappresentanza. In altri termini, secondo questa Adunanza plenaria, l’evoluzione del dato normativo positivo non può certamente essere letto in una chiave che si risolva nella diminuzione della tutela.
5.2.1. Tralasciando per il momento la materia consumeristica, il legislatore è infatti intervenuto dopo oltre un decennio dall’emersione giurisprudenziale degli interessi collettivi a mezzo dell’articolo 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), istitutiva del Ministero dell’Ambiente, consentendo alle associazioni ambientaliste individuate in base all’art. 13 di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”, e così dando veste positiva ad un fenomeno che, come si è detto, scinde la titolarità della funzione di cura dell’ambiente imputata al neo costituito Ministero dell’Ambiente dalla titolarità dell’interesse sostanziale collettivo, invece riconosciuto alle associazioni, quali organismi rappresentativi dei fruitori ultimi.
A questa ipotesi, speciale ratione materiae, si aggiunge la previsione generale di cui all’art. 4, co. 2, l. 11 novembre 2011, n. 180, che riconosce alle associazioni di imprenditori maggiormente rappresentative ai diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi lesivi di interessi diffusi.
5.2.2. Questi interventi normativi non devono essere letti nel senso di previsioni che scindono, in via straordinaria, la legittimazione, dalla lesione di una situazione giuridica, ma quale emersione positiva dell’esigenza di protezione giuridica di interessi diffusi, secondo lo schema già delineato in via generale dalla giurisprudenza, e in linea con il ruolo che l’art. 2 Cost. assegna alle formazioni sociali, oltre che con la più attenta ed evoluta impostazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost..
5.2.3. Ma ciò che forse è ancora più significativo è il silenzio del legislatore sul generale tema della tutela degli interessi collettivi, che testimonia più di ogni altro elemento, soprattutto in epoca di iperproduzione legislativa come quella attuale, la stabilità e la profonda condivisione di un orientamento che da ormai un cinquantennio caratterizza l’approccio giurisprudenziale, e che è del tutto incompatibile con l’affermazione di un opposto principio di tipizzazione ex lege, soggettiva o oggettiva, della legittimazione a ricorrere o delle azioni esperibili, in controtendenza con l’orientamento “storico” della giurisdizione amministrativa di selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, e perciò necessariamente tutelabili, nel confronto dinamico con il potere pubblico.
6. Il secondo argomento critico, utilizzato al fine di trarre indizi in relazione al preteso affermarsi di un principio di necessaria tipizzazione della legittimazione straordinaria delle associazioni, è ricavato da una norma processuale impeditiva, sostanziantesi nel generale divieto di sostituzione processuale sancito dall’art. 81 del Codice di procedura civile: a mente del quale “fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.
“È ben vero” – secondo l’impostazione in commento – “che uno dei risultati raggiunti attraverso la sopra richiamata teoria dell’interesse collettivo è stato quello di trasformare l’interesse diffuso dei singoli in interesse collettivo proprio dell’ente esponenziale; è altrettanto vero, tuttavia, che tale trasformazione sia stato il frutto di una fictio iuris, che non altera il connotato sostanziale del rapporto sottostante e non riesce, quindi, a superare il dato ontologico rappresentato dalla oggettiva alterità esistente tra la effettiva titolarità dell’interesse (il singolo) e il soggetto che lo fa valere (l’ente). Tale fictio iuris, pertanto, non può tradursi in una non consentita forma di legittimazione processuale straordinaria e generalizzata, priva di base legislativa (in contrasto con la regola sancita dall’art. 81 c.p.c.); giacché ogni affermazione di legittimazione ad agire, per avere fondamento, deve trovare in ogni singolo caso una base normativa positiva”.
Su tale argomento occorre soffermarsi.
6.1. L’interesse diffuso del quale si sta discorrendo è un interesse sostanziale che eccede la sfera dei singoli per assumere una connotazione condivisa e non esclusiva, quale interesse di “tutti” in relazione ad un bene dal cui godimento individuale nessuno può essere escluso, ed il cui godimento non esclude quello di tutti gli altri.
Ciò chiarito, l’interesse sostanziale del singolo, inteso quale componente individuale del più ampio interesse diffuso, non assurge ad una situazione sostanziale “personale” suscettibile di tutela giurisdizionale (non è cioè protetto da un diritto o un interesse legittimo) posto che l’ordinamento non può offrire protezione giuridica ad un interesse sostanziale individuale che non è in tutto o in parte esclusivo o suscettibile di appropriazione individuale.
6.2. E’ solo proiettato nella dimensione collettiva che l’interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e che dunque si dota della protezione propria dell’interesse legittimo, sicché – per tornare alla critica mossa dall’orientamento giurisprudenziale citato, incentrata sull’asserita violazione dell’art. 81 cpc – seppur è lecito opinare circa l’esistenza o meno, allo stato dell’attuale evoluzione sociale e ordinamentale, di un interesse legittimo collettivo, deve invece recisamente escludersi che le associazioni, nel richiedere in nome proprio la tutela giurisdizionale, azionino un “diritto” di altri. La situazione giuridica azionata è la propria. Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni. Non in forza di una fictio ma di un giudizio di individuazione e selezione degli interessi da proteggere, nonché della rigorosa verifica della rappresentatività del soggetto collettivo che ne promuove la tutela.
Sin qui la ricostruzione della tutela dell’interesse diffuso, da ritenersi ancora pienamente attuale.
7. La concreta questione portata all’attenzione dell’Adunanza, riguarda, tuttavia, un caso concernente la tutela consumeristica che richiede ulteriori approfondimenti in considerazione della sussistenza di peculiari norme di settore.
Tali norme di settore, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, 21 luglio 2016 n. 3303, più volte citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento.
L’art. 32-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che: “Le associazioni dei consumatori inserite nell’elenco di cui all’articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”.
Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe – secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata – che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (così l’art. 140 cit.)
Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua, una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento.
7.1. Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento, specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata. Ciò, non solo per le generali e dirimenti considerazioni di cui al § 1.2. ma anche per quanto ci si appresta ad argomentare.
7.2. Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo. Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante. Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori).
Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori.
Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto – quello a base associativa e con funzioni rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato – che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori.
7.3. Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo.
La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico – ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità.
8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli articoli 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla L. 12/04/2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa.
Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.
La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.
9. Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato:
“Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”.
10. Tanto chiarito in relazione al generale tema della tutela degli interessi diffusi e all’astratta ammissibilità dell’azione di annullamento introdotta dalle associazioni esponenziali, ritiene l’Adunanza di dover dare alla Sezione remittente ulteriori indicazioni utili a dirimere il caso di specie, in cui, quale nota peculiare, sembra esservi la compresenza di interessi individuali e collettivi.
Si è sin qui chiarito che, fermi i presupposti individuati nel tempo dalla giurisprudenza, nessun dubbio debba porsi in ordine alla legittimazione delle associazioni, quando siano presenti, nella situazione giuridica azionata, tutti i tratti salienti dell’interesse collettivo. In altri termini, la legittimazione, per sussistere, deve riferirsi a un interesse originariamente diffuso, e quindi adespota, che, attenendo a beni a fruizione collettiva, si “personalizza” in capo a un ente esponenziale, munito di dati caratteri, ponendosi per tale via come interesse legittimo proprio dell’ente (la qual cosa esclude la pertinenza del richiamo, per negare la legittimazione, alla sostituzione processuale di cui all’articolo 81, c.p.c.).
10.1. La situazione in esame è tuttavia peculiare poiché gli atti impugnati hanno verosimilmente provocato la lesioni di plurimi interessi legittimi individuali, e prova ne è che fra i ricorrenti vi sono anche numerosi risparmiatori.
Occorre dunque chiedersi se sia ravvisabile, a latere dell’interesse plurisoggettivo dei singoli risparmiatori (id est una sequenza di interessi legittimi di identico contenuto), anche un più ampio interesse collettivo proprio dell’associazione nei termini sino ad ora indicati, ossia una posizione giuridica derivante dalla diffusione nella comunità di meri interessi omogenei non individualmente protetti. Ovvero occorre, detto altrimenti, chiedersi se la sussistenza di interessi individualmente protetti, e quindi azionabili dagli interessati uti singuli, escluda di per sé la possibilità di una “personalizzazione” in capo all’ente di un interesse diffuso e la sua conseguente azionabilità quale interesse proprio di natura collettiva.
10.2. Il tema si pone in relazione alle deduzioni –contenute anche negli scritti di parte- concernenti il profilo dell’omogeneità degli interessi tutelati rispetto alla generalità dei consumatori rappresentati, interessi di cui l’ente esponenziale assume di farsi portatore, in modo da poter escludere qualsiasi contrasto “interno” tra i potenziali interessati.
In proposito questa Adunanza ritiene che quando vi sia compresenza di interessi collettivi in capo all’ente associativo e di interessi individuali concorrenti, autonomamente azionabili, sia necessario acclarare che l’ente non si sta affiancando alle posizioni individuali di più soggetti nella difesa di un interesse che resta individuale pur se plurisoggettivo –il che potrebbe al più sorreggere una legittimazione al mero intervento- ma sta facendo valere un interesse proprio, di natura collettiva nei termini dianzi evidenziati, che può coesistere con più posizioni individuali.
Tale accertamento non può che essere condotto alla luce dei seguenti punti fermi:
– l’interesse collettivo del quale si è occupata la giurisprudenza, sin qui considerata, è una “derivazione” dell’interesse diffuso per sua natura adespota, non già una “superfetazione” o una “posizione parallela” di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività (sul punto, Consiglio di Stato, Sez V, 12 marzo 2019, n. 1640).
– esso può considerarsi sussistente ove riferito a beni materiali o immateriali a fruizione collettiva e non esclusiva, tenendo comunque presente, in linea generale, che è pur possibile che un provvedimento amministrativo incida al contempo su interessi sia collettivi che individuali, ma che l’associazione è legittimata ad agire solo quando l’interesse collettivo possa dirsi effettivamente sussistente secondo la valutazione che ne fa il giudice;
– la diversità ontologica dell’interesse collettivo (ove accertato secondo il criterio sin qui rappresentato), rispetto all’interesse legittimo individuale, porta ad escludere, in radice, la necessità di un’indagine in termini di omogeneità (oltre che degli interessi diffusi dal quale quello collettivo promana, anche) degli interessi legittimi individuali eventualmente lesi dall’esercizio del potere contestato. Nel senso che se l’interesse collettivo c’è, si tratta di un interesse dell’ente e quindi diventa non pertinente in radice porsi anche il tema dell’omogeneità degli interessi legittimi individuali dei singoli (in tal senso, chiaramente, Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451).
E’ ben noto al Collegio quanto affermato da questa Adunanza plenaria con la decisione n. 9/2015, a mente della quale “E’, inoltre, indispensabile che l’interesse tutelato con l’intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all’associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 27 aprile 2015, n.2150)”.
L’affermazione deve però essere rettamente intesa, in coerenza con quanto si qui detto, in guisa da evitare che in casi come quello di specie (in cui accanto agli interessi diffusi, coagulatisi nella loro dimensione collettiva in capo all’associazione, convivono interessi legittimi in senso proprio dei singoli) si finisca per porre a raffronto, in nome del requisito dell’omogeneità, gli interessi indistinti e diffusi nella comunità o categoria, con i plurimi interessi legittimi individuali, posto che, com’anzi detto, la tipologia e la natura degli interessi in questione restano ontologicamente distinti.
L’omogeneità dell’interesse diffuso nella comunità o categoria rappresentata è infatti requisito consunstanziale dell’interesse collettivo tutelato, inteso quale aggregazione di interessi diffusi oggettivamente assonanti secondo la valutazione che ne fa il giudicante; per converso, l’omogeneità non è requisito che debba riferirsi agli interessi legittimi individuali.
10.3. Trasferita sul piano pratico, l’affermazione può tradursi nel senso che non è affatto necessario che la tutela dell’interesse collettivo ridondi anche in un materiale ed effettivo vantaggio per tutti i singoli componenti della comunità o della categoria che, in relazione agli atti contestati, vantino un interesse individuale, concreto e qualificato.
Esemplificando, e con riferimento al caso di specie, se l’interesse collettivo incarnato dall’associazione è quello di tutelare i risparmiatori in presenza di vicende amministrative o normative che ne possano mettere in pericolo il relativo patrimonio, il requisito dell’omogeneità potrà escludersi solo se può ragionevolmente ipotizzarsi che nell’ambito della categoria rappresentata, vi possano essere risparmiatori presso i quali è diffuso un interesse opposto.
Sarebbe invece ultroneo verificare se, in concreto, tutti i singoli risparmiatori, nessuno escluso, siano stati effettivamente lesi nel patrimonio, o se piuttosto vi siano uno o più risparmiatori, controinteressati, che da quegli atti impugnati abbiano invece ritratto un vantaggio materiale, poiché così procedendo – se si aprisse cioè ad un’indagine circa la coerenza dell’interesse collettivo (oltre che rispetto all’interesse diffuso, anche) rispetto alle posizioni di interesse legittimo in ordine a “beni della vita” dei singoli – l’inevitabile risultato sarebbe quello di confondere i piani dell’interesse collettivo e della sua lesione con quello della lesione delle singole posizioni giuridiche di ciascuno dei componenti la comunità o la categoria.
11. Tanto chiarito, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, sussistano i presupposti perché, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto di cui al precedente § 9, la causa sia rimessa alla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, la quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva, con ogni conseguenza anche in ordine alle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando nella causa d’appello come in epigrafe promossa, enuncia il principio di diritto di cui al precedente § 9, restituendo, per il resto, gli atti alla Sezione rimettente, ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati: