I diritti sociali a differenza dei diritti di libertà, traducendosi nella pretesa di una prestazione pubblica, necessitano, a seconda del grado di impatto sugli interessi pubblici potenzialmente antagonisti e in considerazione della scarsità delle risorse economiche e materiali disponibili, di una mediazione amministrativa. Una volta che il potere è stato attribuito, è al corretto esercizio di questo che deve aversi riguardo per fornire piena tutela al titolare dell’interesse sostanziale (e in ciò risiede l’essenza dell’interesse legittimo), senza che possa darsi ultroneo rilievo alla natura “fondamentale” o “sociale” della situazione giuridica.
Dinanzi alla pienezza di tutela che l’ordinamento oggi assicura, per il tramite della giurisdizione amministrativa, agli interessi fondamentali correlati ai diritti sociali, continuare a sostenere sotto l’ombrello teorico della non affievolibilità del diritto fondamentale, che il potere legalmente conferito alla pubblica amministrazione sia in quei casi inutiliter datum, equivarrebbe a qualificare la legge attributiva come incostituzionale, vieppiù irritualmente disapplicandola.
Il vincolo, o detto altrimenti, l’assenza di discrezionalità amministrativa, non riduce il potere ad un’obbligazione civilistica, poiché l’amministrazione esercita in questi casi una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale.
E’ pur vero che in questo caso la doverosa intermediazione costituisce, in ragione delle strette maglie legislative predisposte, un sottile diaframma il cui positivo superamento è ex ante oggettivamente prevedibile sulla base della semplice lettura della norme e della sussunzione in esse del fatto; nondimeno quel diaframma costituisce il proprium di una situazione giuridica soggettiva che l’ordinamento pone in sede di conformazione della sfera giuridica privata al fine di evitare che utilità spettante possa andare a detrimento dell’interesse pubblico predefinito dalla legge e affidato alle cure dell’amministrazione. Il potere, dunque, rimane espressione di “supremazia” o in termini più moderni di “funzione”, anche se l’an e il quomodo del suo esercizio sono predeterminati dalle legge.
Nessuno spostamento di giurisdizione può giustificarsi sol perché la legge determina analiticamente le modalità di esercizio del potere. Ciò che muta in conseguenza del vincolo è piuttosto la modalità di tutela. Quando l’intermediazione è prevista dalla legge secondo uno schema rigidamente predeterminato, tale da non lasciare margini di scelta all’amministrazione al ricorrere dei presupposti, la tutela della situazione giuridica lega comporta un giudizio sulla spettanza che può sfociare, contestualmente all’annullamento del provvedimento illegittimo, nella condanna dell’amministrazione all’emanazione dell’atto dovuto (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.), secondo una schema per il quale è soltanto il cattivo esercizio del potere (secondo l’accertamento che ne fa il giudice amministrativo) a genera l’obbligazione di facere pubblicistico, e non già il potere vincolato ad essere esso stesso configurabile come un’obbligazione.
FATTO e DIRITTO
1. La presente controversia verte sulla legittimità di un diniego opposto alla ricorrente in ordine alla richiesta di proseguire all’estero le cure di cui necessita, diniego espresso dall’Azienda USL Toscana Nord ovest (nel seguito: “Azienda USL”) con nota prot. n. 0209267/2019, e motivato con le circostanza che il programma riabilitativo della ricorrente medesima potrebbe essere svolto presso la U.O. Miolesi dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (nel seguito: “Azienda Universitaria”).
2. La ricorrente ha contestato dinanzi al TAR Toscana tale ricostruzione deducendo che l’Azienda Universitaria non avrebbe disponibilità di posti letto né di tutta la strumentazione adeguata e lamenta quindi violazione del diritto a beneficiare di trattamenti sanitari presso centri di alta specialità all’estero, in quanto si troverebbe nelle condizioni prescritte dalla normativa sia comunitaria che interna per continuare a fruire delle prestazioni assistenziali all’estero. La ricorrente ha chiesto inoltre di condannare le Amministrazioni convenute a rimborsare le spese sanitarie.
3. Il TAR Lazio ha declinato la giurisdizione del Giudice amministrativo. Ha sostenuto, il TAR che “in materia di autorizzazione ad effettuare cure mediche all’estero, per il tipo di valutazioni da compiere circa la sussistenza dei presupposti sanitari e per la qualifica di chi è chiamato a farle (medici), l’apprezzamento dell’Amministrazione ha carattere esclusivamente tecnico e non discrezionale in senso stretto, poiché non implica l’esercizio di alcun potere di supremazia”.
3.1. Il Tar si è dichiarato “consapevole dell’esistenza di un opposto orientamento espresso dal Giudice di appello in alcune pronunce, e segnatamente nella sentenza del Consiglio di Stato Sez. III, 11 ottobre 2018 n. 5861 (in senso contrario, per la giurisdizione ordinaria, C.d.S. III, 10 febbraio 2016 n. 592)”, ma ha ritenuto, nel caso di specie, dirimente la circostanza che “la controversia non riguarda l’organizzazione del servizio sanitario, ma attiene ad un rapporto tra il richiedente l’autorizzazione ad effettuare cure all’estero (e il relativo rimborso) e l’Amministrazione; riguarda cioè un rapporto di utenza che già l’art. 33, comma 2, lett. e) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, escludeva dall’ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa…”. 3.2. Ha soggiunto che “Il caso di specie, contrariamente a quanto statuito dalla citata sentenza del Consiglio di Stato n. 5861/2018, non rientra nel concetto di “procedimento amministrativo” richiamato dall’articolo 133, comma 1, lett. c) c.p.a. che assegna alla giurisdizione amministrativa, in via esclusiva, tra le altre “le controversie in materia di pubblici servizi…… relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione…. in un procedimento amministrativo”. Questa statuizione normativa non deve essere interpretata nel senso che qualunque provvedimento, comunque denominato, della pubblica amministrazione (o del gestore) nell’ambito di un servizio pubblico sia espressione dell’esercizio di una pubblica potestà con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Non è la presenza o meno di un atto, comunque denominato, che qualifica la posizione giuridica dedotta in giudizio. E’ noto che il nomen juris non vincola l’interprete e che una “autorizzazione” (o diniego di autorizzazione) può non essere espressiva di potestà pubblicistica, laddove venga adottata nell’ambito di un rapporto paritetico. Occorre dunque esaminare il rapporto giuridico dedotto in giudizio per verificare se nell’ambito di esso sussista quel rapporto di supremazia dell’Amministrazione sul privato che la legittima a conformare il rapporto medesimo a fini di pubblici interessi. Tanto non accade nel caso di specie poiché l’apprezzamento che l’Amministrazione deve compiere riguarda esclusivamente la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge affinché l’interessato fruisca di prestazioni sanitarie all’estero. Si tratta di un apprezzamento che si risolve in un accertamento tecnico, senza spendita di discrezionalità amministrativa nella quale venga in rilievo la comparazione dell’interesse pubblico con quello privato. Alcun potere pubblico è rinvenibile nel caso di specie nel rapporto tra Amministrazione e privato”.
4. Avverso la sentenza, l’originaria ricorrente ha proposto appello.
4.1. A supporto del gravame l’appellante sostiene, in critica alle statuizioni sopra riportate, che l’autorità amministrativa, quando riceve una richiesta di cure all’estero, esercita una discrezionalità decisionale che consegue a due apprezzamenti diversi, uno tecnico e l’altro tipicamente amministrativo:
– il primo demandato alle valutazioni tecnico-scientifiche del Centro Regionale di Riferimento chiamato a valutare, ai sensi dell’art. 4 par. 5 e ss del D.M. 3.11.1989, la sussistenza dei presupposti sanitari della impossibilità di fruire tempestivamente ovvero in forma adeguata alla particolarità del caso clinico delle prestazioni sanitarie richieste;
– il secondo rimesso invece alla discrezionalità dell’autorità amministrativa, ove l’Unità Sanitaria competente, nell’esercizio della propria potestà programmatoria, è chiamata a bilanciare l’interesse del cittadino con quello pubblico al contenimento ed alla razionalizzazione delle spese, a tutela anche dell’erario della collettività stessa, nonché della parità di trattamento dei cittadini utenti.
4.2. Tale conclusione – secondo l’appellante – troverebbe l’avallo della prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex multis, Cons. St. sez. III 5861/2018, Cons. St. sez. III 1320/2014, Cons. St. sez. III 19/2014, Cons. St. sez. III 4460/2014, Cons. St. sez. III 1989/2013; ) nonché di quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (27187/2007, 5290/2010) che, non condividendo la teoria dell’indegradabilità ad interessi legittimi dei diritti fondamentali protetti dalla Costituzione (ritenuta non più sostenibile dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 80/1998, come modificato dalla L. 205/2000), ha ritenuto la sussistenza della Giurisdizione amministrativa in tutti i casi in cui la P.A. rifiuti la prestazione sanitaria richiesta dal privato mediante l’esercizio di un potere autoritativo ed all’esito di un procedimento iniziatosi ad istanza di parte.
4.3. Né – secondo l’appellante – potrebbe sostenersi, per fondare la giurisdizione del Giudice Ordinario, che nel caso di specie si tratta di un rapporto paritetico, posto che tale situazione ricorrerebbe soltanto laddove l’amministrazione crei un vulnus alla situazione giuridica soggettiva del privato con un comportamento materiale o con una mera inerzia non legata in alcun modo, nemmeno mediato, all’esercizio di un potere autoritativo.
5. A tali censure replicano le controparti, costituitesi in giudizio (Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana e l’Azienda USL Toscana Nord Ovest). Le stesse osservano come la giurisprudenza più recente delle Sezioni Unite abbia chiarito che “La controversia relativa al diniego dell’autorizzazione ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione all’estero appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario giacché la domanda è diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo – il diritto alla salute – non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in materia alla P.A., senza che rilevi che, in concreto, sia stato chiesto l’annullamento dell’atto amministrativo, il quale implica solo un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario, giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 4, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e non osta alla possibilità per il giudice di interpretare la domanda come comprensiva della richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l’autorizzazione ad effettuare le cure all’estero”. (SS.U.U. ordinanza del 6/9/2013 n.20577 che richiama Sez. Unite, 6/2/2009, n. 2867). Chiosano evidenziando che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la AUSL non esercita, nel caso di specie, alcuna potestà programmatoria dell’attività sanitaria, tanto meno bilancia l’interesse del cittadino con quello pubblico del contenimento ed alla razionalizzazione della spesa pubblica, limitandosi a verificare se sussistono i presupposti medici richiesti dal D.M. Sanità 3 novembre 1989, art. 1, comma 2, sulla base del parere tecnico rilasciato dal Centro Regionale di Riferimento.
6. Ritiene il Collegio che l’appello sia fondato e che nel caso di specie sussista la giurisdizione del giudice amministrativo.
7. La pronuncia gravata basa le sue conclusioni in punto di giurisdizione su due concorrenti postulati:
a) il primo, relativo alla natura del potere esercitato, è che, alla luce di quanto previsto dal D.M. 3.11.1989 in materia di autorizzazione ad effettuare cure mediche all’estero, l’apprezzamento dell’Amministrazione ha carattere esclusivamente tecnico e non discrezionale in senso stretto;
b) il secondo, più strettamente correlato alla conclusione raggiunta in punto di giurisdizione, è che l’accertamento tecnico e la conseguente decisione non implica l’esercizio di alcun potere di supremazia, versandosi nell’ambito di un rapporto paritetico.
A tali assunti se ne aggiunge un terzo, sollevato dalle parti appellate e valorizzato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che può enuclearsi nella massima secondo la quale il diritto alla salute è una posizione soggettiva non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in materia alla P.A. (da ultimo, SS.U.U. ordinanza del 6/9/2013 n.20577).
8. Può partirsi da quest’ultimo punto. L’affermata non affievolibilità del diritto alla salute richiama la dottrina della degradabilità delle posizioni giuridiche, posizionate lungo una scala che dal grado “maggiore” del diritto soggettivo scende al grado “minore” dell’interesse legittimo per effetto dell’incisione provocata dall’azione amministrativa; essa è utilizzata per inferirne l’impermeabilità della posizione giuridica al potere, quantunque quest’ultimo sia legittimamente conferito all’amministrazione dalla legge.
8.1. La tesi è debitrice di una concezione dell’interesse legittimo largamente superata, in cui quest’ultimo è visto quale interesse occasionalmente protetto dall’ordinamento per finalità che esulano in tutto e in parte dall’interesse sostanziale cui il titolare aspira, in guisa che la massima utilità ricavabile dal processo è l’annullamento dell’atto (misura in grado di coniugare interesse pubblico e sia pur in via occasionale quello privato) e giammai il riconoscimento del bene della vita.
8.2. La teoria dei diritti che non degradano, e fra questi quella dei diritti fondamentali inaffievolibili, nasce, invero, per dare tutela effettiva al “bene della vita”, in una fase storica in cui la posizione di semplice interesse legittimo non era sufficiente a cagione delle limitazioni che caratterizzavano il processo amministrativo da una parte, e per la stessa connotazione dell’interesse legittimo quale interesse non direttamente protetto dall’ordinamento dall’altra. Dunque, una soluzione finalizzata all’individuazione del giudice meglio rispondente al bisogno di tutela.
8.3. Sviluppata a partire dalla nota Sezioni Unite dalle due note decisioni del 1979 della Cassazione in materia di diritto alla salute (nn. 1463 e 5172) concernenti la localizzazione di una centrale nucleare e l’impianto per il disinquinamento del golfo di Napoli, e successivamente riaffermata dalle Sezioni Unite per la tutela di diritti fondamentali quali quello alla salute e all’ambiente, siffatta soluzione ha consentito al giudice ordinario di pronunciarsi su domande tese ad ottenere sentenze di condanna nei confronti della pubblica amministrazione nell’ambito di rapporti segnati dall’adozione di provvedimenti amministrativi, sfuggendo all’asfittica e insoddisfacente prospettiva della mera tutela demolitoria.
9. Oggi, tre passaggi che possono dirsi epocali, impongono di ritenere del tutto superata la tesi della degradazione:
9.1. Dopo la nota sentenza delle SS.UU. n. 500/99 nessuno più dubita della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo, ormai definito come interesse in ordine ad un bene della vita meritevole di protezione (esattamente come nel caso del diritto soggettivo) toccato dall’esercizio del potere. Come chiarito dalla Sezione con sentenza 2 settembre 2014 n. 4460 “L’esercizio del potere pubblico non <degrada> la situazione giuridica soggettiva del privato, con una sorta di capitis deminutio, così come, per converso, la <forza> della situazione giuridica soggettiva non annulla l’esercizio del potere…. Il sostrato sostanziale della situazione giuridica soggettiva è sempre il medesimo e non è degradato dall’esercizio del potere …..”. Sono piuttosto gli strumenti di tutela a cambiare a seconda di come la legge, attraverso la previsione e la disciplina del potere, conforma le situazioni giuridiche, fermo restando che la tutela è sempre “piena” in quanto riferita al pregiudizio che l’azione amministrativa lesiva arreca al bene della vita, sicchè, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi “capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo”(così, Cons. Stato Sez. VI, 25-02-2019, n. 1321).
Si è più volte fatto cenno alla pienezza della tutela. Essa costituisce il secondo passaggio che si vuol qui evidenziare.
9.2. Le situazioni giuridiche fondamentali, ossia collegate ad un bene della vita costituzionalmente protetto o socialmente considerato essenziale, godono, nell’ambito del processo amministrativo di una tutela pienamente satisfattiva dell’interesse del privato. Come è stato di recente sottolineato da questo Consiglio “All’esito dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo, il sistema delle tutele è stato segnato dai seguenti principali sviluppi, che si pongono tutti in direzione di una maggiore “effettività” del sindacato del giudice amministrativo in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali, come delineata dal suddetto nuovo codice del processo amministrativo” (così Cons. Stato Sez. VI, 25-02-2019, n. 1321).
La protezione dell’interesse legittimo ha nel contempo guadagnato in “effettività”. Il codice del processo amministrativo – espressamente finalizzato a garantire una tutela piena ed effettiva “secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo” prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche, “il quale riflette l’esigenza di una tutela conformata non alla situazioni giuridiche sostantive (secondo la tradizione romanistica) bensì al bisogno differenziato di tutela dell’interesse protetto, il cui grado e la cui intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante” (così Cons. Stato Sez. VI, 25-02-2019, n. 1321, cit.).
Per quanto permanga la centralità della struttura impugnatoria, il c.p.a. valorizza al massimo grado le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, sino a prevedere l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.). E’ altresì oramai acclarato che il controllo di legittimità del giudice amministrativo importi un sindacato pieno sul fatto, (Cass. Sezioni Unite,9 marzo 2020, n. 6691; Cass. civ. Sez. Unite, 7 settembre 2020, n. 18592) e che, in definitiva, la giurisdizione sia piena, nel senso che il giudice ha il potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall’autorità amministrativa.
9.3. Il terzo passaggio è compiuto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. In essa è rinvenibile un chiaro e lineare percorso teso a negare che le situazioni giuridiche fondamentali possano essere, in ragione di ciò solo, sottratte al giudice amministrativa in forza del predetto assioma della inaffievolibilità delle stesse dinanzi al potere amministrativo. A partire dalla sentenza n. 204 del 2004, la Corte, basando sul principio di “parità delle situazioni soggettive” configura il giudice amministrativo come giudice ordinario degli interessi legittimi e tende a configurare la giurisdizione amministrativa come giurisdizione sulle controversie in cui sia coinvolta l’amministrazione come autorità, superando ogni possibile distinguo ancorato, in punto di giurisdizione allo, spessore e alla pregnanza dell’interesse sostanziale del quale è chiesta tutela.
Questa tendenza è confermata dalla sentenza n. 140 del 2007, in cui la Corte afferma esplicitamente che non esiste alcuna norma o principio che escluda la devoluzione al giudice amministrativo della cognizione dei diritti fondamentali, i quali, sul piano del riparto, sono omologati ai diritti in genere; con la sentenza n. 35 del 2010, la Corte, giunge ad affermare che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può riguardare “particolari materie” in cui manchi il nodo gordiano dell’intreccio tra diritti e interessi e ben può riguardare soltanto diritti purchè ineriscano ad una sfera giuridica privata interferita da un pubblico potere legittimamente attribuito.
Suddetta linea di riparto è stata pienamente recepita dalle Sezioni Unite le quali hanno ribadito il “principio, già affermato da questa Suprema Corte (cfr. Cass. n. 27187 del 2007, resa a sezioni unite), secondo cui anche in materia di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali il diritto alla salute (art. 32 Cost.) – allorché la loro lesione sia dedotta come effetto di un comportamento materiale espressione di poteri autoritativi e conseguente ad atti della p.a. di cui sia denunciata la illegittimità, in materie riservate alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi, come quella della gestione del territorio – compete a detti giudici la cognizione esclusiva delle relative controversie in ordine alla sussistenza in concreto dei diritti vantati, al contemperamento o alla limitazione di tali diritti in rapporto all’interesse generale pubblico all’ambiente salubre, nonché alla emissione dei relativi provvedimenti cautelari, che siano necessari per assicurare provvisoriamente gli effetti della futura decisione finale sulle richieste inibitorie, demolitorie ed eventualmente risarcitorie dei soggetti che deducono di essere danneggiati da detti comportamenti o provvedimenti” (Cass., Sez. Un., 5.3.2010, n. 5290).
10. Dunque, in ordine a tale primo argomento, nessun dubbio nutre il Collegio circa l’inidoneità del carattere fondamentale della situazione giuridica fatta valere, a giustificare una deroga alla generalissima regola di riparto che vede il giudice amministrativo titolare della giurisdizione ove l’amministrazione agisca nell’esercizio di un potere dalla legge previsto a conformazione di quella situazione giuridica.
10.1. Non c’è nella dinamica delle posizioni giuridiche alcun fenomeno di degradazione: diritti soggettivi e interessi legittimi piuttosto convivono tutte le volte in cui l’interesse sostanziale di cui la persona è titolare è protetto nella vita di relazione e al contempo il suo godimento è conformato dalla legge attraverso la previsione di un potere pubblico che ne assicuri la compatibilità rispetto agli interessi della collettività.
10.2. I diritti sociali a differenza dei diritti di libertà, traducendosi nella pretesa di una prestazione pubblica, necessitano, a seconda del grado di impatto sugli interessi pubblici potenzialmente antagonisti e in considerazione della scarsità delle risorse economiche e materiali disponibili, di una mediazione amministrativa. Una volta che il potere è stato attribuito, è al corretto esercizio di questo che deve aversi riguardo per fornire piena tutela al titolare dell’interesse sostanziale (e in ciò risiede l’essenza dell’interesse legittimo), senza che possa darsi ultroneo rilievo alla natura “fondamentale” o “sociale” della situazione giuridica.
10.3. Dinanzi alla pienezza di tutela che l’ordinamento oggi assicura, per il tramite della giurisdizione amministrativa, agli interessi fondamentali correlati ai diritti sociali, continuare a sostenere sotto l’ombrello teorico della non affievolibilità del diritto fondamentale, che il potere legalmente conferito alla pubblica amministrazione sia in quei casi inutiliter datum, equivarrebbe a qualificare la legge attributiva come incostituzionale, vieppiù irritualmente disapplicandola.
11. Rimane da approfondire e valutare l’altra serie di argomenti sui quali il giudice di prime cure basa il suo approdo: argomenti essenzialmente legati al carattere vincolato dell’azione amministrativa considerata.
11.1. Il sillogismo esposto in prime cure ricava dal carattere vincolato dell’azione l’assenza di una posizione di “supremazia” dell’amministrazione, nonchè la conseguente natura “paritetica” degli atti da quest’ultima adottati nel rapporto con l’amministrato.
11.2. Il Collegio esclude recisamente che il carattere vincolato dell’azione amministrativa possa ipso iure portare con se il corollario della natura “paritetica” dei relativi atti. Il riferimento richiama una nozione nata alla fine degli anni trenta del secolo scorso in materia di impiego pubblico (Consiglio di Stato, sez. V, 1.12.1939, n. 795) in cui l’elemento caratterizzante è che l’atto, pur avendo la forma di un atto pubblico unilaterale, è adottato nell’ambito di un rapporto non già di supremazia – soggezione, ma di parità e dunque ad esso non si applicano le regole caratteristiche dell’atto amministrativo, ma quelli dei negozi aventi contenuto patrimoniale. In tali casi l’amministrazione è in realtà parte di un rapporto negoziale nell’ambito del quale essa gode di specifiche prerogative che le consentono di agire unilateralmente per la tutela dei propri interesse di “parte contrattuale”. La circostanza che ad essa sia consentito decidere su alcuni aspetti del rapporto negoziale prescindendo dal consenso, non configura tuttavia un “potestà pubblica”, ma un diritto potestativo che non muta le sue caratteristiche negoziali sol perché è nella titolarità di un soggetto pubblico. Da ciò le coerenti conseguenze in tema di tutela e giurisdizione.
11.3. Diversa ed eterogenea situazione è quella del potere amministrativo “vincolato”. Il vincolo, o detto altrimenti, l’assenza di discrezionalità amministrativa, non riduce il potere ad un’obbligazione civilistica, poiché l’amministrazione esercita in questi casi una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale.
11.4. E’ pur vero che in questo caso la doverosa intermediazione costituisce, in ragione delle strette maglie legislative predisposte, un sottile diaframma il cui positivo superamento è ex ante oggettivamente prevedibile sulla base della semplice lettura della norme e della sussunzione in esse del fatto; nondimeno quel diaframma costituisce il proprium di una situazione giuridica soggettiva che l’ordinamento pone in sede di conformazione della sfera giuridica privata al fine di evitare che utilità spettante possa andare a detrimento dell’interesse pubblico predefinito dalla legge e affidato alle cure dell’amministrazione. Il potere, dunque, rimane espressione di “supremazia” o in termini più moderni di “funzione”, anche se l’an e il quomodo del suo esercizio sono predeterminati dalle legge.
11.5. Nessuno spostamento di giurisdizione può giustificarsi sol perché la legge determina analiticamente le modalità di esercizio del potere. Ciò che muta in conseguenza del vincolo è piuttosto la modalità di tutela. Quando l’intermediazione è prevista dalla legge secondo uno schema rigidamente predeterminato, tale da non lasciare margini di scelta all’amministrazione al ricorrere dei presupposti, la tutela della situazione giuridica lega comporta un giudizio sulla spettanza che può sfociare, contestualmente all’annullamento del provvedimento illegittimo, nella condanna dell’amministrazione all’emanazione dell’atto dovuto (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.), secondo una schema per il quale è soltanto il cattivo esercizio del potere (secondo l’accertamento che ne fa il giudice amministrativo) a genera l’obbligazione di facere pubblicistico, e non già il potere vincolato ad essere esso stesso configurabile come un’obbligazione.
11.6. Del resto, che il vincolo al potere non muti i termini del riparto di giurisdizione emerge chiaramente dalle numerose disposizioni del codice del processo amministrativo o della legge generale sul procedimento amministrativo che dedicano all’area vincolata dell’azione amministrativa norme ad hoc, funzionali al principio di satisfattività e pienezza delle tutela dell’interesse sostanziale, destinate a trovare applicazione proprio nella giurisdizione amministrativa. Oltre all’azione di adempimento, sopra cennata, si pensi all’azione tesa a contrastare l’inerzia della pubblica amministrazione, ex art. 31 comma 3, ovvero, sul versante opposto, alle norme che, esaltando la componente sostanziale e soggettiva dell’interesse legittimo (cd bene della vita) inibiscono il potere giudiziale di annullamento del giudice amministrativo in ordine a provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, “per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
12. Una volta chiarito quanto sopra, la soluzione della questione di giurisdizione sottoposta dall’appellante appare al Collegio agevole. La fonte che disciplina il potere azionato dall’amministrazione nel caso di specie è il Decreto del Ministero della Sanità del 3/11/1989, il quale nel prevedere che ai cittadini italiani sono assicurate prestazioni assistenziali presso centri di altissima specializzazione all’estero, “conforma” il profilato diritto attribuendo il potere autorizzativo alle ASL sulla base della previa acquisizione del parere tecnico di un centro medico regionale di riferimento, precisando che “Possono essere erogate le prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione, che richiedono specifiche professionalità del personale, non comuni procedure tecniche o curative o attrezzature ad avanzata tecnologia e che non sono ottenibili tempestivamente o adeguatamente presso i presidi e i servizi di alta specialità italiani di cui all’art. 5 della legge 23 ottobre 1985, n. 595, nonché, limitatamente alle prestazioni che non rientrano fra quelle di competenza dei predetti presidi e servizi di alta specialità, presso gli altri presidi e servizi pubblici o convenzionati con il Servizio sanitario nazionale”. La disposizione non manca di dettagliare i concetti giuridici indeterminati contenuti nell’enunciato sopra riportato, precisando che “è considerata «prestazione non ottenibile tempestivamente in Italia» la prestazione per la cui erogazione le strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio sanitario nazionale richiedono un periodo di attesa incompatibile con l’esigenza di assicurare con immediatezza la prestazione stessa, ossia quando il periodo di attesa comprometterebbe gravemente lo stato di salute dell’assistito ovvero precluderebbe la possibilità dell’intervento o delle cure… È considerata «prestazione non ottenibile in forma adeguata alla particolarità del caso clinico» la prestazione garantita ai propri assistiti dall’autorità sanitaria nazionale del Paese nel quale è effettuata che richiede specifiche professionalità ovvero procedure tecniche o curative non praticate, ma ritenute, in base alla letteratura scientifica internazionale, di efficacia superiore alle procedure tecniche o curative praticate in Italia ovvero realizzate mediante attrezzature più idonee di quelle presenti nelle strutture italiane pubbliche o accreditate dal servizio sanitario nazionale”.
12.1. Le disposizioni sopra riportate delineano un potere amministrativo il cui esercizio – anche ove voglia definirsi vincolato, sussumendo, com’è corretto che sia, le valutazioni tecniche ivi contemplate nell’area della complessità del “fatto” piuttosto che in quella della discrezionalità propriamente detta – intermedia la situazione giuridica soggettiva del cittadino che aspira ad ottenere cure gratuite all’estero, al fine di verificare il ricorrere di alcune specifiche condizioni prese in considerazione dalla legge a tutela dell’interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse e al buon andamento dell’amministrazione sanitaria.
12.2. Sgomberato il campo dalla teoretica dei diritti non affievolibili, la fattispecie non presenta alcun tratto peculiare che possa determinarne la sottrazione alla giurisdizione del giudice amministrativo in favore della giurisdizione ordinaria.
13. Il Collegio, giusto quanto sopra chiarito in punto di caratteristiche e dinamiche delle situazioni giuridiche che si confrontano con il potere, non rinviene dunque motivi per discostarsi da quanto già affermato dalla Sezione con decisione 11 ottobre 2018 n. 5861 (decisione dalla quale il primo giudice ha invece ritenuto di non poter aderire).
14. Per tali ragioni l’appello dev’essere accolto, con restituzione degli atti al primo giudice.
15. Avuto riguardo all’oscillazione degli orientamenti giurisprudenziali sul punto, il Collegio ritiene sussistano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del doppio grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie. Per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, dichiara sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo e restituisce gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Franco Frattini, Presidente
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore
Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere
Stefania Santoleri, Consigliere
Giovanni Pescatore, Consigliere