1. Tra le evenienze che comportano il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, si pongono, fra le altre: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la prosecuzione di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma l’esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini, che sia ancora legittimamente in corso di svolgimento, in quanto vi si dimostrino effettivo impegno ed adeguati risultati, mediante la tempestività e l’adeguatezza dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso; c) l’essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, svolti dal figlio nell’ambito del ciclo di studi che il soggetto abbia reputato a sé idoneo, lasso in cui questi si sia razionalmente ed attivamente adoperato nella ricerca di un lavoro; d) la mancanza di un qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello stesso, sia o no confacente alla propria specifica preparazione professionale.
2. Nella concreta valutazione di tali elementi, può essere ragionevolmente operato dal giudice proficuo riferimento ai dati statistici, da cui risulti il tempo medio, in un dato momento storico, al reperimento di una occupazione, a seconda del grado di preparazione conseguito.
3. L’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente. Ai fini dell’accoglimento della domanda, pertanto, è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – che è la precondizione del diritto preteso – ma di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro.
FATTI DI CAUSA
Viene proposto ricorso da P.M. , sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze del 29 marzo 2018, la quale, in riforma della decisione del Tribunale di Grosseto che aveva ridotto l’assegno di mantenimento in favore della medesima per il figlio A. da Euro 300,00 ad Euro 200,00 mensili, ha revocato con decorrenza dal 1 dicembre 2015 l’assegno medesimo, nonché l’assegnazione della ex casa familiare.
Si difende l’intimato con controricorso.
La ricorrente ha depositato la memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I motivi. I motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., avendo la sentenza impugnata erroneamente affermato che il figlio abbia conseguito redditi significativi, sebbene modesti, sulla base dei documenti prodotti in atti: ed, invece, il reddito annuo lordo di Euro 20.973,22, di cui è parola nel decreto del tribunale in primo grado, attiene alla media annua, non a quanto percepito effettivamente dal medesimo, nè il giudice può porre a fondamento della decisione la sua scienza personale; il figlio è inserito nelle graduatorie di fascia III, quale insegnante non abilitato, onde compie solo supplenze occasionali e, per essere inserito in graduatoria ai fini di una cattedra di insegnante, dovrebbe frequentare un tirocinio formativo attivo di circa un anno, con il costo della relativa tassa fino ad Euro 3.600,00;
2) violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 148, 315-bis, 326-bis, 337-sexies e 337-septies c.c., per avere la corte di merito richiamato la capacità del figlio maggiorenne di mantenersi autonomamente, senza però considerare che egli, che ha comunque prescelto la carriera dell’insegnamento, è un insegnante precario, che conclude meri contratti a tempo determinato, come tale di fatto incapace di mantenersi da sé: onde manca il comprovato raggiungimento di una effettiva e stabile indipendenza economica; e la S.C. ha affermato come l’impiego, cui il figlio possa dedicarsi, deve essere all’altezza della sua professionalità ed offrirgli un’appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue aspirazioni, in mancanza dovendo l’obbligo di mantenimento permanere invariato in capo al genitore.
2. – La sentenza impugnata. La corte territoriale, per quanto ancora rileva in questa sede, ha ritenuto che l’obbligo di mantenimento cessa in relazione alla raggiunta capacità di mantenersi, che deve essere presunta oltre i trenta anni, quando una persona normale deve presumersi autosufficiente da ogni punto di vista, anche economico, salvi comprovati deficit, come avviene in tutte le parti del mondo, ma meno in Italia; nè la mancanza congiunturale del lavoro, in dati momenti storici, equivale ad incapacità di mantenersi, potendo essa riguardare anche persone più avanti con l’età (come lo stesso padre sessantenne, che è stato costretto a tornare dalla anziana madre, dopo la chiusura del negozio di ferramenta), senza che ciò faccia sopravvivere l’obbligo parentale di mantenimento, il quale altrimenti si trasformerebbe in una copertura assicurativa. Altro è l’obbligo alimentare, che resta perennemente in vita tra congiunti ed è reciproco.
In particolare, il figlio maggiorenne della coppia (33 anni nel (…)) ha da tempo concluso gli studi ed ha trovato occupazione precaria come insegnante supplente, conseguendo redditi modesti, ma significativi; anche la coabitazione con la madre si è rarefatta, recandosi egli in una diversa provincia per insegnare. Onde egli, eventualmente riducendo le proprie ambizioni adolescenziali, è tenuto a trovare il modo di auto-mantenersi, risultato che dipenderà dall’impegno profuso per incrementare le supplenze o integrare le proprie entrate con ogni opportunità disponibile.
3. – Profili di inammissibilità dei motivi. I due motivi, che affrontano entrambi la questione dei limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, possono essere trattati congiuntamente.
Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati: la prima statuizione coglie i motivi, laddove essi intendono ripetere un giudizio sul fatto o censurano affermazioni che non sono proprie della corte d’appello, ma del giudice di primo grado, quale il riferimento ad un reddito annuo di oltre ventimila Euro.
4. – Infondatezza dei motivi: il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne. L’assunto della ricorrente, in punto di diritto, è che il figlio maggiorenne, quando non goda di redditi sufficienti per provvedere al suo mantenimento, abbia sempre e per sempre il diritto di ricevere tali mezzi dai genitori: ciò, in ragione della mera circostanza che egli non abbia ancora raggiunto la completa indipendenza economica nello specifico lavoro prescelto (nella specie, insegnante di musica), adeguato alle sue aspirazioni ed idoneo ad inserirlo, col dovuto prestigio, nel contesto economico-sociale.
Tale assunto è infondato.
4.1. – Le norme positive. Il dovere di mantenimento dei figli ha assunto connotati nuovi sin dalla riforma di cui alla L. 8 febbraio 2006, n. 54, che con l’art. 155-quinquies c.c., ha dettato una disposizione ad hoc “in favore di figli maggiorenni”.
La norma, abrogata dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 106, ma è stata trasposta nell’art. 337-septies c.c., da esso introdotto.
Da allora, dunque, sussistono modalità diverse per l’adempimento del dovere di mantenimento verso il figlio, a seconda che questi sia un minore (art. 337-ter) o un maggiorenne ma non indipendente economicamente (art. 337-septies).
Il quadro normativo era, dunque, anteriormente costituito dall’art. 155-quinquies c.c., introdotto dalla L. n. 54 del 2006, secondo cui “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”.
Prevede ora l’art. 337-septies c.c., comma 1, che il giudice “valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico” (l’articolo è stato aggiunto dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55, decreto che ha, nel contempo, abrogato l’altra disposizione).
Peraltro, occorre sin d’ora osservare come la questione si ponga in generale, fuori dalla specifica situazione di una crisi coniugale; dove, sovente, il reale conflitto che emerge e gli interessi sottesi, che impropriamente giocano un ruolo, sono quelli tra i genitori, non con il figlio maggiorenne ormai adulto.
E l’estraneità del tema al rapporto fra i genitori risulta in modo incontrovertibile dal diritto positivo: l’assegno “è versato direttamente all’avente diritto”, salvo diversa determinazione del giudice (art. 337-septies c.c., comma 2).
Uno è l’elemento indeterminato della fattispecie, dalla cui integrazione discende il diritto all’assegno per il figlio ed il corrispondente obbligo in capo al genitore: la qualità dell’essere il primo “non indipendente economicamente”. Il vero elemento discretivo è, tuttavia, un altro: esso risiede nell’uso del verbo “può”, che indica mera possibilità, accanto al criterio generale ed usuale della “valutazione delle circostanze”. Peraltro, è pur vero che, come in altre disposizioni, in cui il legislatore utilizza detto verbo servile, alla raggiunta prova della integrazione delle circostanze che fondano il diritto, il giudice sarà tenuto a disporre l’assegno in discorso.
Si tratta, dunque, di un tipico giudizio discrezionale, rimesso al prudente apprezzamento del giudice del merito. Qui si apprezza il ruolo che l’ordinamento, in tutte le norme di mero standard, assegna al giudice del caso concreto.
Peraltro, la necessaria valutazione fattuale non esclude che, in ordine al diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne a carico del genitore, la Corte detti, in coerenza al proprio compito di nomofilachia ex art. 65 ord. giud., alcuni parametri di riferimento, a fini di uniformità, uguaglianza e più corretta interpretazione ed applicazione della norma. Ciò è quanto, appunto, questa Corte negli anni ha compiuto.
4.2. – I precedenti. Sono stati già affermati, infatti, dalla Suprema Corte alcuni condivisibili principi.
4.2.1. – In via generale, si è, anzitutto, precisato come la valutazione delle circostanze, che giustificano il permanere dell’obbligo dei genitori al mantenimento dei figli maggiorenni, conviventi o no con i genitori o con uno d’essi, vada effettuata dal giudice del merito caso per caso (Cass. 22 giugno 2016, n. 12952; Cass. 6 aprile 1993 n. 4108, in tema di assegnazione della casa coniugale per convivenza con i figli maggiorenni; si veda pure Cass. 12 marzo 2018, n. 5883).
Si è pure condivisibilmente osservato come il relativo accertamento non possa che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle occupazioni ed al percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il medesimo abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione, investendo impegno personale ed economie familiari (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830).
È stato puntualizzato, inoltre, come la valutazione debba necessariamente essere condotta con “rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all’età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura” (Cass. 22 giugno 2016, n. 12952; Cass. 7 luglio 2004, n. 12477) e che, oltre tali “ragionevoli limiti”, l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani” (Cass. 6 aprile 1993 n. 4108, in motivazione, in tema di assegnazione della casa coniugale per convivenza con i figli maggiorenni; concetto ripreso es. da Cass. 22 giugno 2016, n. 12952).
Questa Corte, pertanto, ha già operato un’interpretazione del sistema normativo, che pone una stretta e necessaria correlazione tra diritto-dovere all’istruzione ed all’educazione e diritto al mantenimento: sussiste “il diritto del figlio all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, “tenendo conto” (e, a norma dei novellati art. 147 c.c. e art. 315-bis c.c., comma 1, “nel rispetto…”) delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, com’è reso palese dal collegamento inscindibile tra gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione”. Dunque, ha concluso la Corte, “la funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società” (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nonché Cass. 22 giugno 20i.6, n. 12952, in motiv.).
Inoltre, è stato ormai chiarito che il progetto educativo ed il percorso di formazione prescelto dal figlio, se deve essere rispettoso delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, deve tuttavia essere “compatibile con le condizioni economiche dei genitori” (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nello stesso senso molte altre, ad es. Cass. 11 aprile 2019, n. 10207, non massimata).
A ciò, si aggiunge coerentemente che il matrimonio o, comunque, la formazione di un autonomo nucleo familiare escludono l’esistenza dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne: posto che il matrimonio, come la convivenza, sono espressione di una raggiunta maturità affettiva e personale, implicando di regola che nessun obbligo di mantenimento possa sopravvivere (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830; Cass. 17 novembre 2006, n. 24498).
Dunque, ormai è acquisita la “funzione educativa del mantenimento”, in una col “principio di autoresponsabilità”, anche tenendo conto, di contro, dei doveri gravanti sui figli adulti.
Si è anche osservato come il riconoscimento d’un diritto al mantenimento protratto oltre tali i limiti in favore dei figli conviventi e sedicenti non autonomi finirebbe per determinare una “disparità di trattamento ingiustificata ed ingiustificabile” nei confronti dei figli coetanei che, essendosi in precedenza resi autosufficienti, abbiano in seguito perduto tale condizione: solo i primi, infatti, si gioverebbero della normativa sul mantenimento, più favorevole, mentre per gli altri varrebbe solo il diritto agi alimenti (Cass. 7 luglio 2004, n. 12477).
Nessun rilievo ha la situazione economico-patrimoniale del genitore, posto che, al contrario, il diritto e l’obbligo de quibus si fondano sulla situazione del figlio, non sulle capacità reddituali dell’obbligato: onde si è reputato inammissibile il motivo che tendeva a denunziare l’omessa considerazione delle “ottime condizioni economiche” del padre, il quale “era titolare di diversi fabbricati e terreni e aveva acquisito bene in via ereditaria” (Cass. 25 settembre 2017, n. 22314).
4.2.2. – Nell’inventario delle situazioni che sicuramente escludono il diritto al mantenimento, questa Corte ne ha individuate diverse.
Si è, così, affermato che l’obbligo dei genitori non possa protrarsi sine die e che, pertanto – a parte le situazioni di minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall’ordinamento – esso trovi il suo limite logico e naturale: allorquando i figli si siano già avviati ad un’effettiva attività lavorativa tale da consentir loro una concreta prospettiva d’indipendenza economica; quando siano stati messi in condizioni di reperire un lavoro idoneo a procurar loro di che sopperire alle normali esigenze di vita; od ancora quando abbiano ricevuto la possibilità di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare un’attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne; o, comunque, quando abbiano raggiunto un’età tale da far presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a se stessi; infine, vi sono le ipotesi, che inducono alle medesime conclusioni, nelle quali il figlio si sia inserito in un diverso nucleo familiare o di vita comune, in tal modo interrompendo il legame e la dipendenza morali e materiali con la famiglia d’origine (cfr., per tali concetti: Cass. 7 luglio 2004, n. 12477).
4.2.3. – Si nota, pertanto, già un’evoluzione del diritto vivente, con riguardo alla ritenuta autonomia del figlio, che tiene conto del mutamento dei tempi e sempre più richiama il principio dell’autoresponsabilità: se, un tempo, vi era il riferimento ad una raggiunta “capacità del figlio di provvedere a sé con appropriata collocazione in seno al corpo sociale” (Cass. 10 aprile 1985, n. 2372) ed alla “percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita” (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830), in seguito le mutate condizioni del mercato del lavoro e la non infrequente sopravvenuta mancanza di autonomia “di ritorno” – a volte in capo allo stesso genitore, come nel caso di specie – hanno ormai indotto a ritenere che l’avanzare dell’età abbia notevole rilievo, giacché si discorre, come sopra ricordato, di una “funzione educativa del mantenimento” e del “tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società” (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076).
Infatti: “l’obbligo di mantenimento non può essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto. Sotto questo profilo la crisi occupazionale giovanile conserva un’incidenza nel senso di dare al parametro dell’adeguatezza un carattere relativo sia in ordine al contenuto dell’attività lavorativa che del livello reddituale conseguente. L’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli” (Cass. 22 giugno 2016, n. 12952, in motiv.), in quanto “il diritto del figlio si giustifica all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, posto che la funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società” (Cass. 5 marzo 2018, n. 5088: pur nell’ambito dell’affermazione secondo cui l’onere della prova per sottrarsi all’obbligo di mantenimento del maggiorenne grava sul genitore).
In sostanza, è esigibile l’utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell’auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni; non potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro sia adatti soltanto, in vece sua, il genitore.
Un’analoga evoluzione di concetti, si noti, ha interessato il diritto all’assegnazione della casa familiare, dove si afferma con maggior rigore, nell’attuale diritto vivente, che “il ritorno, in una data frazione temporale, deve non solo avvenire con cadenza regolare, ma anche essere frequente, sicché non può affermarsi la convivenza del figlio che, in una data unità temporale, particolarmente estesa, risulti obiettivamente assente da casa, sia pure per esigenze lavorative o di studio, e che sebbene vi ritorni regolarmente non appena possibile. L’assenza per tutto il periodo considerato e la rarità dei rientri per quanto regolari, non possono essere controbilanciati dalla sola ipotetica regolarità del ritorno, altrimenti il collegamento con l’abitazione diverrebbe troppo labile, sconfinando nel mero rapporto di ospitalità” (Cass. 17 giugno 2019, n. 16134, in motivazione, la quale ha confermato il decreto di revoca dell’assegnazione della casa coniugale, basato sull’accertato rientro della figlia, iscritta all’università in altra città, nell’abitazione del genitore divorziato solo per pochi giorni durante le vacanze natalizie, pasquali ed estive), così superando il precedente più lato orientamento.
Ciò conferma come, quando siano di rilievo i concetti del dovere e dell’autoresponsabilità – e non solo quelli del “diritto ad ogni possibile diritto” – dall’assistenzialismo anche il nostro ordinamento giuridico proceda di pari passo con l’evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con l’applicazione razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2 Cost..
4.2.4. – Invero, il principio dell’autoresponsabilità” ha fatto ampio ingresso nel nostro ordinamento, anche in presenza di un diritto che chieda di essere affermato, ed, anzi, proprio per rendere ragionevole e “sostenibile” qualsiasi diritto. La pienezza della scelta esistenziale personale deve pur fare i conti nel bilanciamento con le libertà e diritti altrui di pari dignità.
Nei precedenti di questa Corte, il principio di “autoresponsabilità” è spesso richiamato, nei settori più diversi: a delimitare il diritto soggettivo secondo ragionevolezza, alla stregua delle clausole generali della diligenza e della buona fede. Si tratta di un principio sovente richiamato nella giurisprudenza di questa Corte, man mano che l’evoluzione dei tempi induce ad accentuare i legami tra la pretesa dei diritti e l’adempimento dei doveri, indissolubilmente legati già nell’art. 2 Cost..
Detto principio si rinviene, infatti, in una pluralità di decisioni: sia quanto ai rapporti personali, con riguardo ad esempio all’assegno di divorzio (Cass. 9 agosto 2019, n. 21228; Cass. 29 agosto 2017, n. 20525; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926) o del separato con nuova convivenza, che tale scelta consapevole abbia compiuto (Cass. 19 dicembre 2018, n. 32871; Cass. 27 giugno 2018, n. 16982).
Del pari, nei rapporti patrimoniali, dove si richiama l’autoresponsabilità dell’operatore qualificato, allorché sottoscriva la relativa dichiarazione nel contratto d’investimento finanziario (Cass. 24 aprile 2018, n. 10115, non mass.; Cass. 20 marzo 2018, n. 6962, non mass.); dell’acquirente nel contratto di compravendita, dove viene esclusa la garanzia nel caso di facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1491 c.c. (Cass. 6 febbraio 2020, n. 2756); quanto agli effetti della trascrizione, agganciati all’autoresponsabilità del trascrivente, con riguardo all’inesatta indicazione, nella nota, delle generalità della persona contro cui si intenda trascrivere (Cass. 19 marzo 2019, n. 7680).
Il concetto è poi criterio cui ampiamente si fa ricorso, alla stregua della regola generale ex art. 1227 c.c., nelle decisioni sui danni, fra gli altri, da fumo attivo (Cass. 10 maggio 2018, n. 11272; Cass. 30 luglio 2013, n. 18267; Cass. 4 luglio 2007, n. 15131; nonché Cass. pen. 21 giugno 2013, n. 37762; Cass. pen. 27 gennaio 2012, n. 9479; Cass. pen. 21 dicembre 2011, n. 11197), al lavoratore per l’omissione di cautele doverose (Cass. pen., sez. IV, 28 novembre 2018, n. 5007; Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883 e Cass. pen., sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 3616), all’utente nel trasporto ferroviario (Cass. 27 aprile 2011, n. 9409); per il concorso del danneggiato pur minorenne (Cass. 1 febbraio 2018, n. 248) e per i danni cagionati dai cd. grandi minori, ai sensi dell’art. 2048 c.c. (Cass. 31 gennaio 2018, n. 2334); per la responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. si richiede, da parte del danneggiato, l’adozione delle cautele normalmente attese (fra le tante, Cass. 1 febbraio 2018, n. 2480).
E non mancano numerose decisioni che adottano il criterio della autoresponsabilità processuale: quanto all’interpretazione dell’art. 37 c.p.c. (Cass., sez. un., 20 aprile 2018, n. 9912; Cass., sez. un. 20 ottobre 2016, n. 21260; Cass., sez. un., 29 marzo 2011, n. 7097; Cass., sez. un., 28 gennaio 2011 n. 2067; Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883), ed, ancora, in tema di scelta del foro competente, di notificazione, di mancata integrazione del contraddittorio, di appello incidentale ex art. 346 c.p.c., nella lettura dell’art. 547 c.p.c., sulla dichiarazione di terzo, per l’irripetibilità delle spese eccessive o superflue di cui all’art. 92 c.p.c., comma 1, o nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi (rispettivamente, cfr. Cass. 16 luglio 2019, n. 19048; Cass. 26 settembre 2019, n. 24071; Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940 e Cass. 31 luglio 2019, n. 20726; Cass. 26 febbraio 2019, n. 5489; Cass. 5 ottobre 2018, n. 24571; Cass. 12 giugno 2018, n. 15193); ed in tema di notifica nel domicilio eletto dell’invito al pagamento del contributo unificato, la stessa Corte costituzionale ha fatto ricorso al principio (Corte Cost. 29 marzo 2019, n. 67).
4.3. – I figli minorenni. Nella materia in esame, occorre ora ulteriormente osservare come, alla stregua della lettera e della ratio dell’art. 337-septies c.c., comma 1, la legge si fondi sull’assunto secondo cui l’obbligo in questione permane a carico dei genitori sino al momento in cui il figlio raggiunga la maggiore età, alla stregua del dovere di mantenere e del diritto di essere mantenuto, rispettivamente previsti dall’art. 147 c.c. (per gli adottivi, dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 48, comma 2) e art. 315-bis c.c., comma 1.
Tale obbligo economico viene configurato, in modo paritario, unitamente ad altri essenziali diritti-doveri verso la prole: ossia quelli di “istruire, educare e assistere moralmente i figli”.
Così come il dovere di educare a tutte le esigenze della vita e di procurare un’istruzione ai figli – e, specularmente, di esigere la continuazione negli studi oltre quelli dell’obbligo – può ragionevolmente datarsi dalla nascita alla maggiore età del figlio, del pari il dovere di mantenere i figli permane sicuramente fino a quella età, ai sensi degli artt. 147 e 315-bis c.c..
4.4. – I figli maggiorenni. Da tale momento, subentra la diversa disposizione “in favore dei figli maggiorenni”, di cui all’art. 337-septies c.c., comma 1, ogniqualvolta essi siano “non indipendenti economicamente”: nella quale l’obbligo non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le “circostanze” del caso concreto.
Esso sarà quindi disposto – pena la superfluità della norma di riserva alla decisione del giudice – non solamente e non semplicemente perché manchi l’indipendenza economica del figlio maggiorenne.
Affinché la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero, eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l’attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente.
Nel concetto di “indipendenza economica” questa Corte ha condivisibilmente ricondotto quanto occorre per soddisfare le primarie esigenze di vita, secondo nozione ricavabile dall’art. 36 Cost., dunque in presenza della idoneità della retribuzione a consentire un’esistenza dignitosa (Cass. 11 gennaio 2007, n. 407). La legge, quindi, fonda l’estinzione dell’obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni, in concomitanza all’acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore età.
Tale la conclusione appare coerente, sul piano assiologico, con gli artt. 1, 4 e 30 Cost.: i primi due che proclamano – addirittura in cima ai principi fondamentali della Repubblica – essere questa “fondata sul lavoro”; il terzo che afferma il “dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, secondo una correlazione ineliminabile fra funzione educativo-formativa ed obbligo di mantenimento.
Osservandosi dunque dalla dottrina, che si è occupata ex professo dell’argomento, come, perché si dia un senso all’obbligo economico a favore dei figli maggiorenni a carico dei genitori, ormai non più titolari di poteri disciplinari e rappresentativi, tale obbligo necessariamente si correla alla concreta condotta di impegno nella personale formazione, o, dove terminata, nella ricerca di un impiego.
Si tratta, in sostanza, dell’applicazione del principio dell’abuso del diritto, o, meglio, ricorrendo alle clausole generali da tempo caratterizzanti il nostro ordinamento, della buona fede oggettiva: il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non può sorgere già “abusivo” o “di mala fede”: onde, perché esso sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta una indipendenza economica.
Al riguardo, questa Corte ha da tempo operato condivisibili riferimenti ai principi predetti della “ragionevolezza”, della “normalità” e del divieto di abuso del diritto (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nonché Cass. 1 febbraio 2016, n. 1858).
Secondo il principio della autoresponsabilità dei soggetti, più sopra richiamato.
Non è dunque necessaria una prescrizione legislativa, che, come da taluno in dottrina aveva auspicato, fissi in modo specifico l’età in cui l’obbligo di mantenimento del figlio viene meno: in quanto, sulla base del sistema positivo, tale limite è già rinvenibile e risiede nel raggiungimento della maggiore età, salva la prova (sovente raggiunta agevolmente ed in via indiziaria) che il diritto permanga per l’esistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l’indipendenza economica.
Il concetto è quello della cd. capacità lavorativa, intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato. Essa si acquista con la maggiore età, quando la legge presuppone raggiunta l’autonomia ed attribuisce piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode della capacità di agire (e di voto): salva la prova di circostanze che giustificano, al contrario, il permanere di un obbligo di mantenimento.
In mancanza, il figlio maggiorenne non ne ha diritto; ed, anzi, può essere ritenuto egli stesso inadempiente all’obbligo, posto a suo carico dall’art. 315-bis c.c., comma 4, di “contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.
4.5. – Fondamenti sostanziali del diritto al mantenimento del maggiorenne. I criteri del diritto all’ulteriore mantenimento sono quelli sopra esposti, come di seguito specificati in ordine alle diverse circostanze, peraltro limitatamente a quelle afferenti l’odierno thema decidendum.
4.5.1. – La raggiunta età matura del figlio, in ragione dello stretto collegamento tra doveri educativi e di istruzione, da un lato, ed obbligo di mantenimento, dall’altro lato, assume rilievo in sé (i primi non potendo che cessare ad un certo punto dell’evoluzione umana): l’età maggiore, pertanto, tanto più quando è matura – perché sia raggiunta, secondo l’id quod plerumque accidit, quell’età in cui si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita, anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne – implica l’insussistenza del diritto al mantenimento.
4.5.2. – Con particolare riguardo all’attività di studio, occorre osservare come sia del tutto corretto che tale opportunità venga dai genitori offerta alla prole, atteso che l’ordinamento giuridico tutela le esigenze formative e culturali (artt. 9, 30, 33 e 34 Cost.), comportando tale arricchimento personale anche un indiretto beneficio alla società.
Ciò vuol dire che, trascorso un lasso di tempo sufficiente dopo il conseguimento di un titolo di studio, non potrà più affermarsi il diritto del figlio ad essere mantenuto: il diritto non sussiste, cioè, certamente dopo che, raggiunta la maggiore età, sia altresì trascorso un ulteriore lasso di tempo, dopo il conseguimento dello specifico titolo di studio in considerazione (diploma superiore, laurea triennale, laurea quinquennale, ecc.), che possa ritenersi idoneo a procurare un qualche lavoro, dovendo essere riconosciuto al figlio il diritto di godere di un lasso di tempo per inserirsi nel mondo del lavoro.
Tale regola vale in tutti i casi in cui il soggetto ritenga di avere concluso il proprio percorso formativo e non abbia, pertanto, l’intenzione di proseguire negli studi per un migliore approfondimento, in quanto il figlio reputi terminato il periodo di formazione ed acquisizione di competenze.
La capacità di mantenersi e l’attitudine al lavoro sussistono sempre, in sostanza, dopo una certa età, che è quella tipica della conclusione media un percorso di studio anche lungo, purché proficuamente perseguito, e con la tolleranza di un ragionevole lasso di tempo ancora per la ricerca di un lavoro.
Invero, occorre affermare come il diritto al mantenimento debba trovare un limite sulla base di un termine, desunto dalla durata ufficiale degli studi e dal tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica, affinché possa trovare un impiego; salvo che il figlio non provi non solo che non sia stato possibile procurarsi il lavoro ambito per causa a lui non imputabile, ma che neppure un altro lavoro fosse conseguibile, tale da assicurargli l’auto-mantenimento.
A ciò si aggiunga che, del pari, dovrà tenersi conto dell’adeguatezza e ragionevolezza delle opzioni formative, operate dal figlio, rispetto alle condizioni della famiglia, cui non è ammesso imporre un contributo per essa eccessivamente gravoso e non rientrante nelle sue concrete possibilità economiche, tenuto conto – secondo buona fede – della non imposizione di un eccessivo sacrificio alle altrui esigenze di vita.
Occorre, altresì, considerare l’esistenza di provvidenze e sovvenzioni, che lo Stato e molte istituzioni formative predispongono in favore degli studenti meritevoli: i quali – laddove maggiorenni, che pretendano il mantenimento dai propri genitori – potranno, in tal modo, agevolmente dimostrare come la vincita, ad esempio, di una borsa di studio palesi la proficuità della prosecuzione negli studi e la debenza, quindi, dell’intero mantenimento in proprio favore.
Più in generale, pertanto, una maggiore tutela meriterà il figlio che prosegua negli studi con impegno, diligenza e passione, rispetto a chi si trascini stancamente in un percorso di “studi” nient’affatto proficuo.
4.5.3. – Quanto al tipo di impiego desiderato, non sussiste, nella dovuta ricerca dell’aspirato lavoro, un rigido vincolo alla preparazione teorica in atto, dal momento che integra, invece, un dovere del figlio la ricerca comunque dell’autosufficienza economica, secondo un principio di autoresponsabilità nel contemperare le aspirazioni di lavoro con il concreto mercato del lavoro.
Anzi, deve ritenersi che tale dovere sussista, vuoi ex ante, sin dagli esordi del corso di studi, che il figlio ha l’onere di ponderare in comparazione con le proprie effettive capacità personali, di studio e di impegno, oltre che con le concrete offerte ed opportunità di prestazioni lavorative; vuoi ex post, quando esso si atteggia quale dovere di ricercare qualsiasi lavoro e di attivarsi in qualunque direzione sia necessario.
4.5.4. – Riassuntivamente, tra le evenienze che comportano il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente, si pongono, fra le altre: a) la condizione di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la prosecuzione di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma l’esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini, che sia ancora legittimamente in corso di svolgimento, in quanto vi si dimostrino effettivo impegno ed adeguati risultati, mediante la tempestività e l’adeguatezza dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso; c) l’essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, svolti dal figlio nell’ambito del ciclo di studi che il soggetto abbia reputato a sé idoneo, lasso in cui questi si sia razionalmente ed attivamente adoperato nella ricerca di un lavoro; d) la mancanza di un qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello stesso, sia o no confacente alla propria specifica preparazione professionale.
Nella concreta valutazione di tali elementi, può essere ragionevolmente operato dal giudice proficuo riferimento ai dati statistici, da cui risulti il tempo medio, in un dato momento storico, al reperimento di una occupazione, a seconda del grado di preparazione conseguito.
4.6. – Conseguenze sull’onere della prova. Da quanto esposto deriva che l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente.
L’obbligo di mantenimento legale cessa con la maggiore età del figlio; in seguito ad essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal giudice, sulla base delle norme richiamate.
Ai fini dell’accoglimento della domanda, pertanto, è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – che è la precondizione del diritto preteso – ma di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro.
Non è dunque il convenuto – soggetto passivo del rapporto – onerato della prova della raggiunta effettiva e stabile indipendenza economica del figlio, o della circostanza che questi abbia conseguito un lavoro adeguato alle aspirazioni soggettive.
Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito, che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore.
Ciò è coerente con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell’onere probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all’art. 24 Cost, ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad essa compete l’onere della prova, pur negativa (Cass. 25 luglio 2008, n. 20484; nonché ancora Cass. 16 agosto 2016, n. 17108; Cass. 14 gennaio 2016, n. 486; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533; Cass. 25 luglio 2008, n. 20484; Cass. 1 luglio 2009, n. 15406).
4.7. – La prova presuntiva. Peraltro, le concrete situazioni di vita saranno sovente ragione d’integrazione della prova presuntiva circa l’esistenza del diritto, in quanto, ad esempio, incolpevole del tutto o inesigibile sia la conquista attuale di una posizione lavorativa, che renda il figlio maggiorenne economicamente autosufficiente.
Se, pertanto, sussista una condotta caratterizzata da intenzionalità (ad es. uno stile di vita volutamente inconcludente e sregolato) o da colpa (come l’inconcludente ricerca di un lavoro protratta all’infinito e senza presa di coscienza sulle proprie reali competenze), certamente il figlio non avrà dimostrato di avere diritto al mantenimento.
Ne deriva che, in generale, la prova sarà tanto più lieve per il figlio, quanto più prossima sia la sua età a quella di un recente maggiorenne; di converso, la prova del diritto all’assegno di mantenimento sarà più gravosa, man mano che l’età del figlio aumenti, sino a configurare il “figlio adulto”, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate ed all’impegno profuso, nella ricerca, prima, di una sufficiente qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa.
In particolare, tale onere della prova risulterà particolarmente lieve in prossimità della maggiore età, appena compiuta, ed anche per gli immediati anni a seguire, quando il soggetto abbia intrapreso, ad esempio, un serio e non pretestuoso studio universitario: già questo integrando la prova presuntiva del compimento del giusto sforzo per meglio avanzare verso l’ingresso nel mondo del lavoro (e non solo).
4.8. – Volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento. Giova appena aggiungere che la volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento da parte del genitore, sia egli convivente o no, è ben ammissibile anche al di fuori delle condizioni esposte.
Ciò, tuttavia, sulla base del diverso principio della libera autodeterminazione delle opzioni proprie della famiglia.
4.9. – L’obbligo degli alimenti. Altro è il perdurare dell’obbligo degli alimenti.
La disciplina prevede che presupposto per il conseguimento dell’assegno sia la mancanza dei mezzi necessari di sussistenza, nè essi sono rinunciabili.
L’entità dell’assegno viene qui commisurata ai bisogni primari ed essenziali, per tutto il tempo in cui ciò sia necessario, posto che il relativo diritto viene meno solo se cessino i requisiti richiesti per la sua erogazione; onde il genitore non interromperà comunque l’adempimento della prestazione de qua, che permane dopo la maggiore età.
4.10. – Nella specie, la corte territoriale non ha violato i predetti principi, onde si palesa l’infondatezza dei motivi proposti.
5. – Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 3.200,00, ivi compresi Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori pi legge.
Dispone oscuramento dei dati sensibili come previsto dalla legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 15, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.