In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo).
Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida”.
Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di risarcimento, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico-relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito, sì integralmente, ma anche unitariamente.
Allo stesso modo, in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poichè il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, l’azienda ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale erroneamente ascritto la responsabilità della struttura sanitaria in relazione a condotte verificatesi nel periodo compreso tra il 9 e il 16 novembre 2007, là dove la domanda originariamente proposta dagli attori era stata limitata alle condotte della struttura sanitaria convenuta poste in essere in occasione dell’accesso della paziente al pronto soccorso in data 9/11/2007, con la conseguente decisione della causa in violazione del principio di obbligatoria corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
2. Il motivo è inammissibile.
3. Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2467 del 06/02/2006, Rv. 586752 – 01).
4. Peraltro, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015, Rv. 637476 – 01).
5. Nella specie, l’odierna ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme dell’eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale, risulta essersi limitata ad argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità; e tanto, al di là dall’assorbente rilievo concernente il carente assolvimento degli oneri di puntuale e completa allegazione del ricorso, di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, con particolare riferimento all’omessa integrale allegazione degli atti processuali indispensabili ai fini dell’esatta ricostruzione del contenuto della domanda originariamente proposta dagli attori.
6. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 40 c.p., comma 2 e degli artt. 1218, 1228, 1175 e 1375 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sussistenza di un nesso di derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e il decesso della M., sulla base di un’inadeguata valutazione degli elementi di prova complessivamente acquisiti nel corso del giudizio e delle contraddittorie risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, giungendo ad affermare erroneamente la responsabilità della struttura sanitaria, ai sensi dell’art. 1228 c.c., nonostante l’avvenuta attestazione dell’insussistenza di alcun illecito colposo dei medici della medesima struttura.
7. Il motivo è infondato.
8. Dev’essere preliminarmente disattesa la censura avanzata dalla ricorrente con riguardo alla contestazione del ragionamento probatorio contenuto nella sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra il fatto della struttura sanitaria e il decesso della M., trattandosi della pretesa ridiscussione nel merito del significato rappresentativo degli elementi di prova complessivamente richiamati dal giudice d’appello, secondo i termini di un’operazione critica radicalmente inammissibile in sede di legittimità.
9. Ciò posto, varrà osservare come la corte territoriale abbia deciso sulla domanda degli originari attori allineandosi con puntualità al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale l’accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta l’assunzione di una prestazione strumentale e accessoria – rispetto a quella principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la patologia del ricoverato – avente ad oggetto la salvaguardia della sua incolumità fisica e patrimoniale, quantomeno dalle forme più gravi di aggressione (Sez. 3, Sentenza n. 19658 del 18/09/2014, Rv. 632999 – 01).
10. Nella specie, una volta comprovata la riconducibilità causale del danno alla salute al fatto della struttura sanitaria che aveva accettato il ricovero della M., incombeva su detta struttura l’onere di fornire la prova della riconducibilità dell’inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, in coerenza al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’insorgenza di una nuova malattia e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018, Rv. 651166 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017 (Rv. 645164 – 01).
11. Avendo dunque gli attori comprovato la sussistenza di un preciso nesso di derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e l’insorgenza della patologia che condusse la M. al decesso, e non avendo detta struttura dimostrato la riconducibilità dell’inadempimento, o dell’impossibilità dell’adempimento, a una causa ad essa non imputabile, del tutto correttamente il giudice a quo ha sancito la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria convenuta per l’inadempimento contrattuale ad essa concretamente ascritto.
12. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale omesso di considerare il complesso delle circostanze di fatto analiticamente richiamate in ricorso che avrebbero, ove esaminate, contribuito a escludere il riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta ascritta alla struttura sanitaria convenuta e il decesso della M..
13. Il motivo è inammissibile.
14. Osserva il Collegio come al caso di specie (relativo all’impugnazione di una sentenza pubblicata dopo la data del 11/9/12) trovi applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (quale risultante dalla formulazione del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., con la L. n. 134 del 2012), ai sensi del quale la sentenza è impugnabile con ricorso per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
15. Secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
16. Ciò posto, occorre rilevare l’inammissibilità della censura in esame, avendo la ricorrente propriamente trascurato di circostanziare gli aspetti dell’asserita decisività della mancata considerazione, da parte della corte territoriale, delle occorrenze di fatto analiticamente richiamate in ricorso e asseritamente dalla stessa trascurate, e che avrebbero al contrario (in ipotesi) condotto a una sicura diversa risoluzione dell’odierna controversia.
17. Converrà pertanto rilevare come, attraverso l’odierna censura, la ricorrente altro non prospetti se non una rilettura nel merito dei fatti di causa secondo il proprio soggettivo punto di vista, ancora una volta in coerenza ai tratti di un’operazione critica come tale inammissibilmente prospettata in questa sede di legittimità.
18. Con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1226,2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1218 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente liquidato, in favore degli attori, una somma a titolo di risarcimento del danno morale soggettivo dopo aver già riconosciuto, in favore degli stessi soggetti, il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, con la conseguente indebita duplicazione degli importi risarcitori riferiti a un medesimo pregiudizio, e per avere altresì riconosciuto, in favore degli attori, l’importo massimo previsto dalle tabelle utilizzate per la liquidazione del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale, nonostante la sopravvivenza di altri congiunti e il mancato venir meno dell’intero nucleo familiare dei danneggiati.
19. Il motivo è fondato.
20. Osserva il Collegio come, seguendo l’iter motivazionale dipanato nella sentenza impugnata, la corte territoriale abbia liquidato, in favore degli attori, un risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale unitamente a un risarcimento a titolo di danno morale soggettivo per lo stesso fatto, procedendo, dunque, dopo la liquidazione del primo danno, a un’ulteriore maggiorazione a titolo di danno morale, in tal modo pervenendo a una vera e propria duplicazione, ossia a una doppia considerazione della stessa lesione di interessi, consistente nel peculiare patimento che affligge una persona per la perdita del rapporto parentale.
21. Varrà al riguardo richiamare la testuale previsione di Cass. Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 (punto 4.8) secondo cui: “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato”.
22. La conclusione è stata riaffermata, con nettezza, tra le altre, da Sez. 3, Sentenza n. 25351 del 17/12/2015, Rv. 638116 – 01 (v. altresì Cass. 8 luglio 2014, n. 15491; Cass. 23 settembre 2013, n. 21716) in cui si ribadisce come, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di risarcimento, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico-relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito, sì integralmente, ma anche unitariamente.
Allo stesso modo, in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poichè il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca (Sez. 3, Ordinanza n. 30997 del 30/11/2018, Rv. 651667 – 01).
23. Le richiamate esigenze di integralità e di unitarietà del risarcimento, in particolare, trovano radice nella più recente elaborazione della giurisprudenza di questa stessa Terza Sezione, là dove è intervenuta a delimitare i contorni del compito liquidatorio del giudice in caso di danno non patrimoniale, precisando come la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario concetto di danno non patrimoniale, in tanto è ammessa, in quanto sia evidente la diversità del bene o interesse oggetto di lesione (Cass. 9 giugno 2015, n. 11851; Cass. 8 maggio 2015, n. 9320).
24. Tali principi hanno trovato ulteriore conferma nelle conclusioni cui, da ultimo, è pervenuta questa Corte, là dove ha stabilito, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, come costituisca duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale). Non costituisce invece duplicazione la congiunta attribuzione del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (Sez. 3, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 – 01, successivamente confermata da Sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018, Rv. 650858 – 02).
25. Ciò posto, in caso di risarcimento del danno da perdita, o da lesione, del rapporto parentale, ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità delle ricadute della condotta (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 11212 del 24/04/2019, Rv. 653591 – 01), spetterà al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale sussistenza di uno solo, o di entrambi, i profili di danno non patrimoniale in precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita). E’ in tale quadro che emergerà, con intuitiva evidenza, il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benchè di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale.
Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nono e nipote, Sez. 3, Sentenza n. 21230 del 20/10/2016, Rv. 642944 – 01. V. ancora Sez. 3, Sentenza n. 12146 del 14/06/2016, Rv. 640287 – 01), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita (come, ad es., l’età delle parti del rapporto parentale) che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere.
26. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, sì che, ad esempio, nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso e ulteriore rispetto alla sofferenza morale (rigorosamente comprovata) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 16992 del 20/08/2015, Rv. 636308 – 01).
Rimane, infine, altresì ferma la netta distinzione tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione unitaria (Sez. 3, Sentenza n. 21084 del 19/10/2015, Rv. 637744 – 01).
27. Ciò posto, dovendo procedersi – in forza dell’accoglimento del motivo in esame e della conseguente cassazione, sul punto, della sentenza impugnata – all’integrale rielaborazione dei calcoli per la liquidazione del danno relativo alla perdita del rapporto parentale, la successiva censura, riferita al riconoscimento del massimo importo tabellare, deve ritenersi assorbita.
28. Con il quinto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale erroneamente riconosciuto, in favore degli attori, il risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, nella specie dagli stessi non concretamente rivendicato, con la conseguente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
29. Con il sesto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1126,2056 e 2059 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sussistenza del diritto degli attori al risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, in contrasto con i più recenti arresti della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
30. Il sesto motivo è fondato e idoneo ad assorbire la rilevanza del quinto.
31. Osserva il Collegio come, sulla base dell’articolazione argo-mentativa seguita nella sentenza impugnata, il giudice a quo abbia obiettivamente riconosciuto la liquidazione, in favore degli attori, di un danno, iure haereditario, per la perdita, da parte della de cuius, del bene della vita in sè considerato, ossia di un danno in sè diverso, tanto dal danno alla salute, quanto dal c.d. danno biologico terminale e dal c.d. danno morale terminale (c.d. catastrofale) e, dunque, indipendente dalla consapevolezza che il danneggiato possa averne avuto.
32. Ciò posto, la decisione così compendiata deve ritenersi errata, dovendo nella specie trovare applicazione i principi sul punto statuiti da questa Corte, secondo cui, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, Rv. 635985 – 01).
Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida” (Sez. 3 -, Sentenza n. 26727 del 23/10/2018, Rv. 650909 – 01).
In ogni caso, rimane esclusa l’indennizzabilità ex se del danno non patrimoniale da perdita della vita; e tale esclusione non vale a contraddire il riconoscimento del “diritto alla vita” di cui all’art. 2 CEDU, atteso che tale norma (pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene-vita) non detta specifiche prescrizioni sull’ambito e i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, nè, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela ri-sarcitoria, il cui riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sè considerato (Sez. L, Sentenza n. 14940 del 20/07/2016, Rv. 640733 – 01).
33. Sulla base delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del quarto e del sesto motivo, la complessiva infondatezza dei primi tre e l’assorbimento del quinto, dev’essere pronunciata la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.