[vc_row css=”.vc_custom_1595493734065{margin-bottom: 30px !important;}”][vc_column][edumax_title title=”DANNI DA LESIONE DEL CONSENSO INFORMATO” subtitle=”Cassazione Civile Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985 – Pres. Travaglino, Est. Olivieri”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]
Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativa dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale. Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che: a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”; c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'”id quod plerumque accidit”. Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile.
p. 1. Primo motivo: violazione artt. 1176, 2236 e 2043 c.c..
L’Istituto ricorrente contesta l’accertamento della responsabilità dei medici compiuto dalla Corte d’appello, nonostante i sanitari avessero osservato i protocolli terapeutici in vigore all’epoca e dovendosi ravvisare nella specie la particolare difficoltà tecnica della prestazione, non essendo stato, inoltre, indicato dai Giudici quale avrebbe dovuto essere la esatta proporzione del dosaggio radio da somministrare.
1.1 Il motivo è inammissibile criticando la ricorrente non la violazione di norme di diritto ma l’accertamento di fatto, in concreto compiuto dalla Corte di merito, in tal modo venendo a richiedere una inammissibile revisione delle risultanze probatorie.
Indipendentemente dalla novità della questione concernente la “speciale difficoltà tecnica” dell’intervento terapeutico, che non risulta eccepita nè discussa nei precedenti gradi di merito e rimane quindi preclusa al sindacato di legittimità, si osserva che la Corte territoriale, dopo aver escluso dall’oggetto del giudizio – non essendo stata investita dai motivi di gravame delle parti – ogni questione relativa all’accertamento del nesso eziologico tra la somministrazione dell’elevato dosaggio della radioterapia e l’evento lesivo della salute consistito nella “mielopatia dorsale trasversa”, ha poi deciso la controversia in base alla disciplina degli artt. 1218 e 2697 c.c., secondo cui spetta al debitore della prestazione contrattuale fornire la prova della non imputabilità per colpa dell’inadempimento, o dimostrando di avere correttamente eseguito la prestazione, od indicando che l’evento sopravvenuto non era in ogni caso prevedibile ed evitabile con la dovuta diligenza.
La Corte d’appello al riguardo ha rilevato che tale prova liberatoria non era stata fornita, ed anzi sussisteva al contrario la prova della colpa professionale in relazione alla mancata osservanza della generale regola di prudenza secondo cui, se il paziente deve essere sottoposto a trattamenti invasivi, il medico deve tentare di coniugare la “misura” del trattamento da somministrare (nella specie il dosaggio) con il risultato che si intende conseguire, avendo specifico riguardo alle condizioni del paziente ed alla reattività alla cura, ed evitando, quindi, una inutile e dannosa sproporzione tra il mezzo impiegato e l’effetto da raggiungere, sia quando non sono ancora bene noti e definiti i possibili effetti indesiderati derivanti da un elevato dosaggio, e tanto più quando sono, invece, noti i numerosi e possibili danni collaterali determinati da una massiccia esposizione alla radioterapia (sentenza appello, in motivazione, pag. 11 e 12).
Nella specie la colpa professionale è stata ascritta ai medici dell’Istituto, in quanto le elevate dosi di energia radiante cui era stata sottoposta la G., in relazione alle quali erano noti molteplici effetti negativi collaterali (pur non essendo acquisito a livello statistico e di conoscenza scientifica, come probabilisticamente certo, anche il rischio della specifica patologia in concreto derivata), non potevano comunque trovare giustificazione, avuto riguardo ai risultati positivi che erano stati già conseguiti dalla paziente con il precedente ciclo di chemioterapia, con la conseguenza che nel caso di specie rimaneva integrata la violazione della generale regola di prudenza, non essendo proporzionato il dosaggio rispetto alle condizioni di salute del soggetto.
1.2 Le considerazioni, svolte nel motivo, in ordine alla mancanza di indicazioni certe nelle fonti scientifiche circa la corretta proporzione tra dosaggio e risultato conseguibile ai fini della “definitiva remissione di una patologia ad effetti mortali”, non fanno altro che rimarcare la assenza della prova liberatoria ex art. 1218 c.c. che l’Istituto sanitario non è stato in grado di offrire, e cioè la prova che nella incertezza scientifica indicata la somministrazione di un elevato dosaggio – anzichè di un dosaggio mantenuto al di sotto della incidenza riscontrata per le altre “complicanze” conosciute – rispondesse al canone della prudenza cui è tenuto l’operatore sanitario.
Al riguardo deve essere ribadito il principio secondo cui nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all’art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una “complicanza”, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione (indicativa nella letteratura medica di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile) priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 13328 del 30/06/2015). Nella specie la Corte di merito ha ritenuto, per un verso, che la complicanza di “mielopatia dorsale”, se pure rara, fosse stata rilevata dagli studi scientifici (il primo caso fu accertato nel 1941 come riportato negli Atti del XXIII Congresso AIRO 2013: cfr. sentenza appello, in motivazione, pag. 10); per altro verso tenuto conto dei rischi conosciuti derivanti dall’alto dosaggio di terapia radiante, ha ritenuto comunque ininfluente la conoscenza della effettiva rilevanza statistica della predetta complicanza, atteso che l’avere sottoposto la paziente, senza una plausibile giustificazione fornita dal suo stato di salute apprezzato all’esito della chemioterapia, ad un trattamento (dosaggio superiore a 40 Gy) che comunque acuiva il rischio di gravi effetti collaterali – in questo caso conosciuti: “polmonite, cardite, ipertiroidismo, alterazioni ossee, sterilità, ipoplasia midollare, leucemia acuta non linfoide” – integrava già di per sè la violazione della regola di prudenza che impone la somministrazione di un trattamento terapeutico proporzionato al risultato da perseguire in relazione alle condizioni concrete sulle quali si intende intervenire.
1.3 All’accertamento in concreto della colpa generica e della non assoluta imprevedibilità della indicata complicanza (in quanto rischio possibile se pure non probabile), corrisponde la assenza della prova liberatoria della responsabilità professionale, dovendo ritenersi esente dal vizio denunciato la statuizione della sentenza di appello impugnata.
p. 2. Secondo motivo: violazione art. 2395 c.c. (recte: 2935) e art. 2043 c.c. (in relazione all’accertamento diritto risarcitorio per mancato consenso informato); violazione artt. 1223 e 2043 c.c. (in ordine al nesso causale).
Terzo motivo: violazione art. 2943 c.c. (in relazione agli atti interruttivi della prescrizione del 18.2.1991 e del 2.2.1996).
L’Istituto ricorrente deduce:
con il secondo motivo, che, sia le norme della Unione Europea (art. 3, comma 2, primo alinea della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea – CDFUE, detta Carta di Nizza proclamata il 7.12.2000 ed adottata con la firma del Trattato di Lisbona – che ha modificato l’art. 6, comma 1, TUE statuendo che la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati – del 13.12.2007, ratificato con L. 2 agosto 2008, n. 130), sia la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo (convenzione di Oviedo del 4.4.1997, ratificata con L. 28 marzo 2001, n. 145) – che prescrivevano nei rapporti tra medico e paziente la necessità del preventivo consenso informato – erano successive ai fatti e, dunque, al tempo del trattamento terapeutico, non poteva integrare inadempimento contrattuale la mancata acquisizione del consenso del paziente; in ogni caso, essendo ignota, al tempo, la “complicanza” del mieloma, veniva meno il nesso eziologico tra carenza del consenso ed evento lesivo con il terzo motivo, che era errato il differimento, alla data degli accertamenti strumentali compiuti nell’anno 1990 presso l’Istituto “Besta”, dell’inizio della decorrenza del termine prescrizionale relativo alla pretesa risarcitoria per mancanza di consenso informato.
2.1 Il secondo motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
La parte ricorrente non considera che le norme Eurounitarie ed internazionali richiamate non hanno fatto altro che recepire quello che era già considerato un dovere informativo oggetto della obbligazione assunta dal medico verso il paziente con il rapporto di assistenza sanitaria (cfr. tra le prime decisioni in merito: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3906 del 06/12/1968).
Deve ritenersi, infatti, ormai definitivamente acquisito nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18513 del 03/09/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 7237 del 30/03/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 20984 del 27/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 25764 del 15/11/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 14642 del 14/07/2015) che la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria, costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica (la quale in piena libertà e consapevolezza sceglie di sottoporsi a terapia farmacologica o ad esami clinici e strumentali, o ad interventi o trattamenti anche invasivi, laddove comportino costrizioni o lesioni fisiche ovvero alterazioni di natura psichica, in funzione della cura e della eliminazione di uno stato patologico preesistente o per prevenire una prevedibile patologia od un aggravamento della patologia futuri), che – se pure connesso – deve essere tuttavia tenuto nettamente distinto – sul piano del contenuto sostanziale – dal diritto alla salute, ossia dal diritto del soggetto alla propria integrità psico-fisica (cfr. Corte costituzionale, sentenza 23.12.2008 n. 438 “….il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2,13 e 32 Cost. pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32 Cost., comma 2″). Al diritto indicato corrisponde l’obbligo del medico (di fonte contrattuale o comunque correlato ad analoga obbligazione ex lege che insorge dal cd. “contatto sociale”: cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2847 del 09/02/2010) di fornire informazioni dettagliate, in quanto adempimento strettamente strumentale a rendere consapevole il paziente della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20984 del 27/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 27751 del 11/12/2013).
Il medico è tenuto, in ogni caso, a rendere edotto il paziente, indipendentemente dalla riconducibilità o meno di tale attività informativa ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale, trovando titolo il dovere in questione nella qualificazione “illecita” della condotta omissiva o reticente, in quanto violativa di un diritto fondamentale della persona, e dunque da ritenere “contra jus”, indipendentemente dalla sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o del contatto sociale, ovvero dell’illecito extracontrattuale: ai fini della verifica della violazione del diritto alla autodeterminazione, non assume, dunque, alcun rilievo la modifica legislativa della natura della responsabilità professionale medica, trasformata da contrattuale o paracontrattuale ad extracontrattuale, operata dalle leggi intervenute nel 2012 (D.L. n. 158 del 2012 conv. L. n. 189 del 2012, cd. Balduzzi) e nel 2017 (L. n. 24 del 2017, cd. Gelli-Bianco). L’obbligo informativo in questione, ha trovato, peraltro, definitivo inquadramento come obbligo ex lege, la cui violazione integra responsabilità penale e civile, nella L. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1, commi 3-6, art. 3, commi 1-5 e art. 5 (recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), prescrivendo tali norme che “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonchè riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole”, essendo stato altresì disposto che “Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico” (art. 1, comma 3), e che il consenso deve essere acquisito secondo le modalità prescritte – anche dai soggetti incapaci naturali e legali minori, interdetti, inabilitati ed amministrati – (art. 3).
Ne segue che il mero dato cronologico riferito alle fonti di diritto Eurounitario ed internazionale non è argomento spendibile per sostenere la inesistenza nel 1989 – avuto riguardo al tempo di esecuzione della prestazione sanitaria – di un corretto obbligo informativo sulla tipologia e modalità delle cure, sui benefici conseguibili, sui possibili effetti indesiderati, sul rischio di complicanze anche peggiorative dell’attuale stato di salute (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 24074 del 13/10/2017).
2.2 La censura afferente la carenza del nesso eziologico tra mancanza del consenso informato e danno alla salute è inammissibile per carenza di interesse, in quanto l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo informativo non riveste, nella fattispecie, rilievo causale “determinante” nella produzione del “danno biologico”, nè di alcun altro danno di qualsiasi natura: Tale affermazione necessita, tuttavia, di alcune precisazioni.
Come emerge dalla sentenza di appello (motiv. pag. 19-21) la Corte territoriale, pur avendo affermato che “il peggioramento dello stato di salute della G.” doveva ritenersi “danno-conseguenza pure di tale violazione (omessa acquisizione del consenso)….e comporta il riconoscimento del diritto degli attori-appellanti al risarcimento invocato”, non ha poi riconosciuto e risarcito alcun danno ulteriore per la “lesione della libertà di autodeterminazione” (non vengono individuate voci di danno diverse da quello “biologico” inteso come compromissione della capacità psicofisica del soggetto sotto il profilo dinamico-relazionale – invalidità temporanea e permanente -, ritenuto inclusivo anche della sofferenza psico-fisica), ma ha soltanto ritenuto che, la condotta omissione informativa, in quanto integrante inadempimento contrattuale, aveva anch’essa concorso causalmente a produrre il danno alla salute. Al proposito occorre osservare che l’Istituto ricorrente incorre, evidentemente, in equivoco, laddove imputa al Giudice di appello l’errore di avere contestato al medico di non aver rappresentato alla paziente il rischio di “mielopatia dorsale trasversa”, sebbene tale patologia non fosse al tempo conosciuta come complicanza della radioterapia. La Corte territoriale, infatti, ha imputato ai sanitari la colpa per omissione informativa, non in relazione al rischio di tale complicanza, ma, in generale, con riferimento ad una serie di altre circostanze rilevanti ai fini di una scelta consapevole della paziente: i medici cioè non avevano fornito alcuna informazione sulla “tipologia dei cicli terapeutici”, sui “possibili effetti iatrogeni all’epoca conosciuti”, sulla individuazione della “giusta dose”, sulla “illustrazione dei rischi e benefici” inerenti alle diverse opzioni.
La decisione adottata dalla Corte di merito, con riferimento all'”contenuto oggettivo” delle informazioni omesse, è da ritenere, pertanto, corretta e dunque rimane accertata la violazione del diritto alla autodeterminazione per inosservanza dell’obbligo informativo.
La contestazione dell’Istituto ricorrente ha riguardato altresì l’affermazione del Giudice di appello che ha riconosciuto la rilevanza eziologica della omessa informazione, e dunque della violazione del diritto alla autodeterminazione, nella determinazione del danno alla salute, sostenendo che non era stata svolta alcuna indagine sulla scelta che la paziente avrebbe effettuate, in ordine alla accettazione dei rischi connessi al trattamento terapeutico, se posta in condizione di conoscere tutte le informazioni rilevanti.
2.3 Osserva il Collegio che astrattamente fondato è il rilievo per cui, in presenza di richiesta di risarcimento del solo “danno biologico” quale danno-conseguenza, la condotta omissiva informativa, viene a rilevare in modo differente sul piano della antecedenza causale, secondo che – con giudizio da formulare di ex ante – il paziente, se posto in grado di compiere la scelta alternativa, avrebbe accettato o rifiutato di sottoporsi al trattamento sanitario.
E’ bene vero, come afferma la parte ricorrente, che la condotta illecita, per omessa informazione, è autonoma rispetto a quella inerente il trattamento terapeutico, ed è altresì indubitabile che l’interesse leso da tale condotta è oggettivamente distinto da quello della salute del soggetto, identificandosi nella compromissione della libertà di autodeterminazione della persona. Tuttavia la relazione medico-paziente si caratterizza per la unitarietà del rapporto giuridico articolato in plurime obbligazioni tra loro poste in nesso di connessione strumentale, in quanto tutte convergenti al perseguimento del risultato della cura e del risanamento del soggetto, sicchè non può affermarsi come vorrebbe l’Istituto- una assoluta autonomia delle fattispecie illecite (per omessa informazione e per errata esecuzione del trattamento terapeutico), tale da escludere ogni interferenza delle stesse nella produzione del medesimo danno-conseguenza, bene essendo – invece – possibile che anche l’inadempimento della obbligazione avente ad oggetto la corretta informazione sui rischi-benefici della terapia venga ad inserirsi tra i fattori “concorrenti” della stessa serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo, pertanto, riconoscersi alla omissione informativa una astratta capacità plurioffensiva, in quanto potenzialmente idonea a ledere distinti interessi sostanziali, rispettivamente, il diritto alla autodeterminazione ed il diritto alla salute – entrambi, quindi, suscettibili di reintegrazione risarcitoria, laddove sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di tali diritti siano derivate specifiche conseguenze dannose.
2.4 Deve al riguardo essere chiarito come la struttura dell’illecito civile non si esaurisce con l'”eventus-damni”, e cioè con la violazione del diritto o dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma richiede altresì per la insorgenza della responsabilità (con la relativa corrispondente venuta ad esistenza, da un lato, del credito del danneggiato, avente ad oggetto la pretesa risarcitoria della perdita subita e, dall’altro, della obbligazione del responsabile, avente ad oggetto la prestazione reintegratoria – in forma specifica o per equivalente – della “deminutio” cagionata al danneggiato) della prova della esistenza di una “determinata conseguenza pregiudizievole” di natura patrimoniale o non patrimoniale, ricollegabile -secondo un nesso di diretta immediatezza ex art. 1223 c.c. – all'”eventum-damni” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 907 del 17/01/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 5807 del 28/02/2019, entrambe con riferimento al danno parentale da perdita del congiunto – id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 31233 del 04/12/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 11203 del 24/04/2019 – entrambe relative al danno da lesione di diritto assoluto -; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7594 del 28/03/2018 – in tema di danno da lesione di diritto della personalità -; id. Sez. 3, Sentenza n. 15240 del 03/07/2014 – in tema di danno derivante da violazione della privacy -).
Orbene la domanda di risarcimento danni per violazione del diritto alla autodeterminazione, in materia di responsabilità sanitaria, può, in astratto, avere per oggetto tanto il danno biologico conseguito ad un intervento inesattamente eseguito, quanto “altri e diversi” danni di natura non patrimoniale – non incidenti sulla capacità psicofisica – o di natura patrimoniale (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 7248 del 23/03/2018 – non massimata -; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 17022 del 28/06/2018).
Come è stato puntualmente rilevato “se la compromissione dell’interesse giuridico del paziente a compiere in piena autonomia una valutazione complessiva dei “costi-benefici” dell’intervento (ndr eventuali damni), ….. non si limita soltanto al risultato terapeutico, ma investe anche aspetti ulteriori quali gli eventuali effetti collaterali invalidanti, la durata della riabilitazione, il perdurare o riprodursi di sofferenze dovute ai postumi, la accettazione di eventuali mutamenti irreversibili delle abituali condizioni di vita (ndr danni-conseguenza) non altrettanto evidenzia “ex se”, con assoluta diretta immediatezza, la relazione causale con altre conseguenze pregiudizievoli, quali per l’appunto il danno da lesione del diritto alla salute, quale esito negativo prevedibile dell’atto operatorio eseguito “secundum leges artis”, atteso che con riferimento a tale evento – la omessa informazione assume di per sè carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa “consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito – e l’esito infausto non si sarebbe verificato – non essendo stato voluto dal paziente. La allegazione dei fatti dimostrativi della opzione “a monte” che il paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati….” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, in motivazione).
Pertanto nel caso in cui alla mancanza di preventivo consenso consegua soltanto un “danno biologico” (perchè soltanto questo danno viene allegato e dimostrato dal danneggiato: e tale è la ipotesi oggetto del presente giudizio), ai fini dell’accertamento della causa immediata e diretta di tale danno-conseguenza, deve essere indagata la relazione che viene ad istituirsi tra inadempimento dell’obbligo di acquisizione del consenso informato del paziente ed inesatta esecuzione della prestazione professionale, dovendo accertarsi quale sarebbe stata la scelta compiuta dal paziente se correttamente informato:
se il paziente, qualora fosse stato compiutamente informato dei rischi prevedibili derivanti dal trattamento, avrebbe comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento (avuto riguardo alla necessità dello stesso, alle proprie condizioni di salute, al tempo ed alle modalità di esecuzione), l’inadempimento dell’obbligo informativo viene ad esaurirsi in una fattispecie autonoma priva di conseguenze dannose, e pertanto detta omissione non solo non può concorrere ma neppure costituire mero presupposto del “danno biologico”, essendo questo, invece, da imputare in via esclusiva quale conseguenza diretta della lesione del diritto alla salute determinata dalla – successiva – errata esecuzione della prestazione professionale: in tal caso, quindi, in assenza di altre specifiche tipologie di danni-conseguenza allegati e dimostrati dal danneggiato, all’accertamento della omissione informativa non consegue alcun (ulteriore) obbligo risarcitorio, non inserendosi la violazione del diritto alla autodeterminazione nella serie causale originata, invece, esclusivamente dall’inesatto adempimento della prestazione professionale da cui è derivato il danno biologico: il corretto adempimento di tale obbligo informativo, infatti, non avrebbe comunque impedito o modificato la esecuzione di quel trattamento terapeutico (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 24074 del 13/10/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018)
se il paziente, debitamente informato, avrebbe, invece, rifiutato di sottoporsi al trattamento sanitario, l’atto medico successivo viene a palesarsi come lesione personale arrecata “contra nolentem” e l’effetto negativo per la salute scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione (danno biologico) viene a costituire danno-conseguenza riferibile “ab origine” alla violazione – derivante dall’inadempimento dell’obbligo informativo – del diritto di scelta contraria del paziente (scelta da ricostruire ora per allora mediante giudizio controfattuale), configurandosi la prestazione sanitaria inesatta come condotta illecita susseguente violativa, al tempo stesso, della presunta volontà contraria e del diritto alla salute: la originaria condotta omissiva si inserisce e dà origine, quindi, alla serie causale, in cui, anche l’atto lesivo della salute, concorre alla produzione del danno-conseguenza (danno biologico).
Il paziente avrebbe, peraltro, potuto prestare il consenso ma a condizioni diverse (dunque con alcune riserve rispetto al contenuto informativo), allegando ad esempio che avrebbe assentito al trattamento sanitario, ma che consentendolo lo stato patologico accertato -, se correttamente informato, avrebbe tuttavia optato per un differimento del tempo in cui sottoporsi all’intervento, in modo da poter perseguire altri interessi od assolvere a propri impegni che non avrebbero potuto essere altrimenti soddisfatti in un tempo successivo, ed ai quali aveva dovuto invece rinunciare. Ma in tal caso, è agevole rilevare che: o il paziente allega e dimostra quali “ulteriori” pregiudizi (danni-conseguenza) ha subito (rispetto al “danno biologico” derivato dall’inesatta esecuzione della prestazione terapeutica), per non essere stato posto in grado di effettuare tale opzione temporale, e qualora trattasi di pregiudizi di natura non patrimoniale, condizione di risarcibilità di tale tipo di danno sarà l’obbiettivo superamento della soglia della serietà/gravità, secondo l’insegnamento di cui a Corte cass. SSUU n. 26972/2008 e Corte cass. n. 26975/2008), predicative del principio per cui il diritto leso, per essere oggetto di tutela risarcitoria, deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento con il principio di solidarietà secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 7248 del 23/03/2018 – non massimata -; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 17022 del 28/06/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20885 del 22/08/2018); oppure si viene a ricadere nella ipotesi, sopra descritta, della irrilevanza dell’inadempimento all’obbligo informativo in presenza di un consenso al trattamento (desunto in esito a giudizio controfattuale), che per ciò stesso esclude una incidenza causale della condotta omissiva sul “danno biologico” quando solo tale danno-conseguenza viene allegato e dimostrato dal danneggiato.
2.5 Gli argomenti svolti nel precedente paragrafo, intendono confermare e dare seguito, implementandola e perfezionandola, alla elaborazione giurisprudenziale che questa Corte di legittimità ha svolto, nell’ultimo decennio, nella materia del consenso informato relativo alla somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e della violazione della libertà di autodeterminazione del paziente (si veda, in riferimento al periodo indicato: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2847 del 09/02/2010; Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7248 del 23/03/2018), dovendosi pervenire alla formulazione dei seguenti enunciati:
“La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:
a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti);
b) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. (ex multis Cass. 2854/2015; 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017; Cass. 7248/2018).
Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omesso od insufficiente informazione:
A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni, “hic et nunc”: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale;
– 8) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente;
– C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poichè, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto;
– D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto”;
– E) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l’esistenza di test assai più attendibili, quali l’amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile (giusta il già richiamato insegnamento del giudice delle leggi) qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente – salva possibilità di provata contestazione della controparte.
“Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:
a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;
b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicchè la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”;
c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'”id quod plerumque accidit”.
Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile”.
2.6 Tanto premesso il motivo di censura, pure se astrattamente fondato, in quanto alcun accertamento è stato compiuto dalla Corte d’appello in ordine ad un presumibile rifiuto della G. – ove correttamente informata dei rischi connessi al trattamento – a sottoporsi a ciclo di radioterapia ad elevato dosaggio, deve ritenersi, tuttavia, carente di interesse, ed è quindi inammissibile, in quanto il riconoscimento e la liquidazione del danno biologico, trova in ogni caso fondamento eziologico nella inesatta esecuzione della prestazione radioterapica, che integra autonoma “ratio decidendi” idonea a sostenere la condanna dell’Istituto al risarcimento del danno.
2.7 Il terzo motivo è infondato.
La Corte d’appello non ha affatto sovrapposto fattispecie di diritto diverse (diritto alla salute; libertà di autodeterminazione), nè ha inteso ravvisare un “impedimento di fatto” alla decorrenza del termine prescrizionale in violazione dell’art. 2935 c.c. – giusta la interpretazione consolidata di tale norma secondo cui rilevano esclusivamente gli “impedimenti di diritto” -, ma ha invece fatto applicazione del principio enunciato da questa Corte secondo cui l’insorgenza del credito risarcitorio, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, implica la necessaria epifania degli elementi costitutivi dello stesso diritto – nel caso di specie la riferibilità della conseguenza dannosa all’atto medico: in assenza della quale neppure sarebbe astrattamente configurabile un inadempimento della obbligazione contrattuale – tale da consentire la percepibilità – secondo la normale diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche – della patologia “quale danno ingiusto” conseguente al comportamento del terzo, sicchè, in assenza di tale manifestazione, non venendo ad esistenza alcun diritto, lo stesso neppure può iniziare a prescriversi (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 12699 del 25/05/2010; Sez. 3, Sentenza n. 12699 del 25/05/2010 id. Sez. 3, Sentenza n. 15453 del 14/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 17572 del 18/07/2013 – con riferimento a danni derivati da illeciti finanziari -; id. Sez. 3, Sentenza n. 21715 del 23/09/2013 – con riferimento a danni da ipossia perinatale -; id. Sez. 3, Sentenza n. 28464 del 19/12/2013; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 22045 del 22/09/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 13745 del 31/05/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 18521 del 13/07/2018).
2.8 Nella specie la Corte territoriale, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, ha affermato che la evidenza di tale collegamento eziologico, tra patologia ed atto medico, era emersa per la prima volta dalla diagnosi che era stata posta all’esito degli esami neurologici eseguiti nel mese di settembre 1990 presso l’Istituto Besta, data in relazione alla quale l’atto di citazione, notificato in data 20.6.2000, aveva validamente interrotto la ordinaria prescrizione decennale.
p. 3. Quarto motivo: omesso esame fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Sostiene la ricorrente che il Giudice di appello avrebbe illegittimamente liquidato il danno biologico alla G. su base tabellare, senza tener conto che il soggetto, anteriormente alla prestazione sanitaria non presentava una validità biologica piena, essendo affetto dal morbo di Hodgkin (patologia letale), e dunque poteva essere imputato alla struttura sanitaria soltanto il cd. “danno differenziale”.
3.1 Il motivo è inammissibile per difetto di specificità, mancando del tutto la indicazione del “fatto storico decisivo”, acquisito ritualmente al giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, come richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo riformato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012.
3.2 Indipendentemente da ogni questione concernente la delimitazione dei postumi invalidanti imputabili esclusivamente alla condotta illecita, ed il conseguente scorporo dalla complessiva invalidità biologica residuata dopo l’intervento, del grado percentuale di invalidità corrispondente alla minorata condizione di cui il soggetto era già affetto per altra causa, occorrendo a tal fine distinguere tra menomazioni concorrenti – che incidono, aggravandoli, sui postumi – e menomazioni coesistenti – che attengono ad un diverso distretto anatomo-funzionale e non incidono sulla gravità dei postumi -, osserva il Collegio che, nella specie, la parte ricorrente ha omesso di indicare:
a) se tale questione, concernente la liquidazione del solo danno cd. differenziale, fosse stata o meno dedotta fin dal primo grado di giudizio;
b) se e quale fosse l’effettivo stato invalidante anteriore della paziente, e cioè quale fosse la pregressa effettiva riduzione delle “capacità relazionali” del soggetto, non essendo sufficiente a tal fine la mera indicazione della “esistenza della patologia tumorale”, della quale non viene allegato lo stadio e gli effetti concreti sulla capacità di svolgere le normali attività fisiche e sociali: in particolare neppure viene allegato se, a causa del morbo di Hodgkin, la paziente fosse già impossibilitata a deambulare, od a svolgere attività fisica o fosse già affetta da altre limitazioni di origine mielopatica.
Tali elementi di fatto, essenziali per potere verificare l’errore asseritamente commesso dalla Corte territoriale, non sono stati neppure allegati dall’Istituto ricorrente, che neppure si è peritato di chiarire quale indagini siano state svolte al riguardo dal CTU e se nella determinazione del grado di percentuale di invalidità permanente abbiano avuto o meno rilievo le pregresse condizioni della paziente.
3.3 La censura si palesa pertanto inammissibile.
p. 4. Quinto motivo: violazione dell’art. 1223 c.c. (e dell’art. 1225 c.c. imprevedibilità della complicanza).
Sostiene la ricorrente che, non essendo nota la “mielopatia dorsale trasversa” tra le possibili complicanze della radioterapia ad alto dosaggio, detta patologia non era “prevedibile” quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento contrattuale colposo.
4.1 Il motivo è infondato.
La “complicanza” non attiene infatti al momento del “danno-conseguenza”, ma in quanto lesione del diritto alla salute, al momento dell’evento-lesivo (eventus-damni) che si colloca in una fase cronologicamente e logicamente precedente dello sviluppo della fattispecie illecita dannosa:
1) inadempimento della obbligazione/errore nella esecuzione della prestazione professionale;
2) determinazione o aggravamento dello stato patologico del paziente/evento lesivo della salute;
3) invalidità temporanea o permanente che ne è derivata/danno conseguenza (non patrimoniale);
4.2 Occorre, infatti, distinguere la relazione eziologica “tra condotta ed evento-lesivo”, che deve essere indagata sul piano della cd. “causalità materiale” (che richiede la copertura di leggi scientifiche o statistiche, o della applicazione del principio di conseguenzialità logica espresso dalla teoria cd. della causalità adeguata articolata in base alla “causa prevalente” ovvero alla causa “più probabile che non”, e che trova fondamento normativo negli artt. 40 e 41 c.p. e nell’art. 1227 c.c., comma 1) dalla relazione eziologica “tra evento-lesivo e conseguenze dannose”, che va invece indagata sul piano della cd. “causalità giuridica” (ossia applicando il criterio di regolarità inteso come riconoscibilità della perdita di capacità o della perdita patrimoniale tra le ipotizzabili situazioni che possono attendersi – secondo un criterio di vicinanza fondato sull'”id quod prelumque accidit” – da quel determinato evento lesivo, e che trova fondamento giuridico nell’art. 1223 c.c., rimanendo quindi escluse quelle sole situazioni che si caratterizzano per l’assoluta abnormità o per la eccezionale sproporzione della loro dimensione – art. 1225 c.c. che pone a carico del responsabile anche queste ultime in caso di condotta dolosa -).
Ed infatti questa Corte ha avuto modo di precisare che un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della “conditio sine qua non”): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno). In tal senso viene in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da quella delle conseguenze dannose, cui allude l’art. 1225 c.c., ed anche dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poichè essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell’uomo medio, ossia all’elemento soggettivo dell’illecito, e concerne, invece, le regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un fatto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 31/05/2005; Sez. 1, Sentenza n. 26042 del 23/12/2010); mentre solo successivamente il Giudice deve procedere ad accertare il secondo segmento della fattispecie illecita dannosa, indagando il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest’ultimo, da compiersi in applicazione dell’art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013).
4.3 Orbene la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del criterio di “causalità cd. giuridica” che lega l’evento lesivo (eventus-damni) alle conseguenze dannose risarcibili (danni-conseguenza), in relazione alla perdita della capacità biologica, alla sofferenza psichica patita dalla G. ed al danno non patrimoniale liquidato al coniuge di quella, in relazione alla grave alterazione dei rapporti interfamiliari (sentenza appello in motiv. pag. 19-23).
4.4 La mancata conoscenza, alla stregua della dottrina e della prassi scientifica del tempo, della “mielopatia trasversa” quale “complicanza possibile” del trattamento radioterapico (peraltro confutata dal Giudice di appello laddove riconosce che tali episodi erano stati registrati già nell’anno 1941), è circostanza infatti del tutto ininfluente sulla verifica del nesso di derivazione causale giuridica tra evento lesivo e conseguenze-dannose da quello derivate (e cioè i postumi invalidanti della capacità biologica della paziente; le sofferenze e le difficoltà nelle relazioni e nelle dinamiche interne alla famiglia), rimanendo ad essa estranea la nozione di “prevedibilità” dell’evento lesivo (lesione midollare), nozione che – attenendo alla misura dello sforzo diligente che può essere preteso dal professionista – assume, invece, rilievo nell’accertamento dell’elemento soggettivo della “colpa” e quindi della prova liberatoria dalla responsabilità per inadempimento.
4.5 Ma la censura è da ritenere errata anche se riguardata sotto il profilo del nesso di “causalità materiale” tra condotta ed evento lesivo. Infatti, anche a prescindere dal rilievo evidenziato dalla Corte d’appello secondo cui “la mielopatia da raggi (MR) è una complicanza relativamente rara, ma non sconosciuta, tanto che il primo caso fu riportato nel 1941” (in motivazione, pag. 10), il fulcro della imputazione di tale lesione della salute alla condotta terapeutica, viene individuato dalla sentenza impugnata alla stregua del parametro fornito dai protocolli sanitari vigenti al tempo (1989), che indicavano molteplici e gravi complicanze riscontrate in caso di “eccessivo dosaggio” della somministrazione della terapia radiante (tra le quali anche alterazioni ossee, ipoplasia midollare, leucemia acuta non linfoide: cfr. sentenza appello, in motiv. pag. 12), e consigliavano per la cura del “linfoma di Hodgkin” la somministrazione di dosi nel range da 35 Gy a 50 Gy, con livello critico per rischio di lesioni midollari di dosaggi superiori a 40 Gy. Tali parametri conducevano, pertanto, a ritenere la diretta derivazione causale dell'”eventum damni” – indipendentemente dalla esatta identificazione della patologia – dalla sovraesposizione cui era stata sottoposta la paziente con il trattamento radiante del distretto mediastinico basso, con il dosaggio di 45 Gy, essendo dunque del tutto ininfluente, ai fini dell’accertamento del nesso eziologico, la previa esatta individuazione dello specifico “tipo” di patologia midollare derivata dal sovradosaggio (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 17084 del 11/07/2017).
4.6 E’ del tutto improprio, in conseguenza, anche il richiamo all’art. 1225 c.c., laddove l’Istituto ricorrente sostiene che, in difetto di “dolo”, non possono essere risarcite anche le conseguenze dannose imprevedibili.
Premesso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la norma in questione che considera la prevedibilità del danno come limite alla risarcibilità, ha per oggetto una mera astratta prevedibilità del “danno-conseguenza”, poi concretamente verificatosi, essendo, quindi, a tal fine sufficiente che questo anche se non esattamente identificato ex ante – sia comunque virtualmente ricollegabile, alla stregua di dati obbiettivi, alla condotta contrattuale illecita da cui deriva, secondo l’incensurabile apprezzamento istituzionalmente demandato al giudice del merito (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3694 del 28/05/1983; id. Sez. 2, Sentenza n. 5778 del 21/05/1993; id. Sez. 3, Sentenza n. 18239 del 28/11/2003), in tal senso venendo ad operare l’imprevedibilità del danno conseguente all’inadempimento colpevole del debitore, di cui all’art. 1225 c.c., non come un limite all’esistenza del danno stesso, ma soltanto alla misura del suo ammontare e (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15559 del 11/08/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 11189 del 15/05/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 16763 del 29/07/2011), osserva il Collegio che il riferimento alla norma predetta si palesa inconferente, atteso che, nella specie, la “complicanza” non integra un “danno-conseguenza” derivato dall’evento lesivo procurato dal sovradosaggio (in ordine alla quale soltanto opera la norma richiamata) ma si identifica con lo stesso “evento-lesivo”, e cioè con la lesione del diritto alla salute che è il necessario antecedente presupposto della produzione di danni-conseguenza risarcibili (danno biologico).
p. 5. Sesto motivo: violazione art. 1226 c.c. (in relazione alla liquidazione del danno da lesione del rapporto familiare).
La parte ricorrente si duole della errata liquidazione equitativa del danno risarcito al coniuge D.R.G., nonchè della mancanza di allegazioni in fatto, da parte del danneggiato, necessarie ad operare una quantificazione del danno risarcibile.
5.1 Il motivo è infondato.
La Corte d’appello – diversamente da quanto prospettato dall’Istituto – non ha affatto operato una equiparazione del danno non patrimoniale patito dal marito della G., per compromissione del rapporto personale di coppia durante il periodo di vita di quest’ultima, con la “perdita definitiva” del rapporto parentale per morte del congiunto, ma ha dato, invece, atto che i criteri tabellari milanesi non prevedevano la ipotesi di grave pregiudizio arrecato, in caso di macrolesioni, al rapporto familiare, ed ha ritenuto di optare per una liquidazione equitativa pura, determinata in complessivi Euro 200.000,00 tenendo conto che il maggior danno da “perdita definitiva” di tale rapporto si collocava nel “range” compreso tra Euro 163.990,00 ed Euro 327.990,00.
5.2 Il Giudice di appello ha rinvenuto nelle risultanze probatorie acquisite al giudizio gli elementi di parametrazione del “quantum”, desunti dalla irreversibile alterazione della vita quotidiana della famiglia, con il trasferimento al marito di tutti i compiti di gestione e conduzione della famiglia, anche in considerazione della presenza di due minori in tenera età.
5.3 La critica svolta sul punto dalla parte ricorrente si risolve, pertanto, in una inammissibile richiesta di revisione del giudizio di merito che non può trovare accesso in sede di legittimità.
p. 6. Settimo motivo: violazione art. 1917 c.c. (omessa condanna delle coassicuratrici al pagamento di rivalutazione ed interessi).
La parte ricorrente sostiene che la domanda di garanzia svolta con la chiamata in causa includeva implicitamente anche la condanna per “responsabilità ultramassimale”: richiama al proposito il precedente di questa Corte Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10221 del 26/04/2017 secondo cui in caso di “mala gestio propria” l’assicuratore dal momento in cui gli perviene la richiesta di indennizzo è tenuto ad attivarsi diligentemente per liquidare il danno, diversamente potendo incorrere nella responsabilità per danno da ritardo nell’adempimento del contratto assicurativo. Poichè il massimale di polizza era incapiente già al momento del sinistro, le coassicuratrici dovevano rispondere del maggior danno da ritardo colpevole determinato nella misura degli interessi moratori al tasso legale.
6.1 Il motivo è inammissibile, in quanto la parte ricorrente neppure deduce se e quando sia stata proposta la domanda per “mala gestio” propria, e se la stessa sia stata riproposta in grado di appello, non potendo essere ricompresa tale domanda nella mera richiesta di adempimento della obbligazione indennitaria, ma dovendo essere specificamente formulata dall’assicurato (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15397 del 28/06/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 3014 del 17/02/2016).
6.2 Il motivo non assolve neppure al requisito ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non evidenziando in alcun modo se e quando le società coassicuratrici abbiano omesso di attivarsi tempestivamente per porre l’assicurato al riparo dalle conseguenze economiche pregiudizievoli della domanda proposta dai danneggiati, tenuto conto della soccombenza di questi ultimi in primo grado, non emergendo dalla lettura degli atti regolamentari che le società assicurative abbiano posto in essere comportamenti elusivi o posto ostacoli capziosi alle pretese di liquidazione dell’indennizzo, od abbiano rifiutato in mala fede proposte transattive vantaggiose.
6.3 Tra l’altro risulta del tutto indimostrata l’affermazione della incapienza del massimale di polizza, a fronte dei dati contraddittori che emergono dagli atti, essendo indicato nei controricorsi delle società il massimale assicurato in Lire 5.000.000.000, mentre viene indicato nella sentenza di appello in Lire 500.000.000.
p. 7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna l’Istituto ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti D.R.G., in proprio, e unitamente a Di.Re.Ra. e R., quali eredi di G.M., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ed in favore di ciascuna delle controricorrenti SACE BT s.p.a. e Mediolanum Assicurazioni s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuna società, in Euro 4.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di G.M. riportati nella sentenza.
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