È ECCEZIONALE OGNI IPOTESI NON PUNIBILITÀ FONDATA SULL’INESIGIBILITÀ: A PROPOSITO DEL “GRAVE TURBAMENTO” NELL’ECCESSO COLPOSO IN LEGITTIMA DIFESA DOPO LA LEGGE N. 36/2019

L’art. 55, comma 2, c.p. (nel testo risultante dalla legge n. 36 del 2019) recepisce  quell’orientamento giurisprudenziale, nel tempo divenuto dominante, che richiede un giudizio sul profilo di colpa compiuto avendo riguardo anche alla concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento. Il cennato profilo di (ulteriore) valutazione rispetto all’adozione degli ordinari criteri che presiedono all’imputazione colposa del fatto si apprezza ancor più in relazione alla seconda, alternativa, situazione che l’art. 55 c.p., comma 2, impone di considerare, vale a dire se chi ha posto in essere l’azione difensiva abbia agito in stato di grave turbamento. La nuova previsione dà eccezionalmente rilevanza agli stati emotivi  e, tenendo anche conto del fatto che si tratta di una causa di non punibilità, rappresenta senz’altro una situazione codificata di inesigibilità della condotta che non potrebbe trovare ingresso nell’ordinamento se non espressamente prevista.

Questa inesigibilità, che certamente si fonda sulla non facile ricostruzione di un elemento psicologico interno come il “grave turbamento” che la legge vuole prodotto “dalla situazione di pericolo in atto” – del soggetto agente al momento del fatto va valutata alla luce di parametri oggettivi. Se, dunque, sono per un verso irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti e/o diverse, d’altro lato occorrerà esaminare, con giudizio ancora una volta calibrato sulla globale considerazione di tutti gli elementi della situazione di specie, se, e in che misura, il pericolo in atto – per concretezza e gravità rispetto alla lesione dell’integrità fisica propria o altrui – possa aver determinato nell’agente un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa. Per poter fondare l’esclusione di responsabilità, peraltro, la gravità del turbamento non potrà non essere parametrata anche alla gravità del rimprovero che discenderebbe dall’applicazione degli ordinari parametri di ricostruzione del profilo di colpa. Ancora, utili parametri di riferimento per la valutazione della contingente situazione di turbamento possono essere costituiti dall’analisi circa la maggiore o minore lucidità e freddezza che hanno contraddistinto l’azione difensiva, anche nei momenti ad essa immediatamente precedenti e successivi.

  

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso – da esaminarsi congiuntamente al secondo quanto alla dedotta violazione dell’art. 52 c.p., – non è fondato.

Ricostruendo il fatto principalmente in base alle stesse dichiarazioni rese dall’imputato nella fase delle indagini, la sentenza impugnata attesta che, nottetempo, dopo essersi svegliato per aver sentito rumori sospetti, accortosi che un malintenzionato stava tentando di entrare in casa propria dalla finestra sul balcone, lasciata aperta per il caldo, della camera da letto in cui dormivano i suoi tre figli ed aver imbracciato un fucile legalmente detenuto, C.G. era uscito sul balcone di casa e aveva fatto fuoco all’indirizzo dell’uomo, che, intanto, accortosi di essere stato notato, si era allontanato dal balcone di qualche metro ed era fermo nel terreno antistante l’abitazione.

La Corte territoriale afferma espressamente di ritenere che l’imputato fosse persuaso di dover difendere se stesso, la propria famiglia ed i propri beni da malintenzionati – si accertò che l’uomo non era solo, ma che, pur non visti dall’imputato, vi erano altri complici – i quali avevano in animo di commettere un furto in abitazione e per questo aveva legittimamente pensato di imbracciare il fucile da caccia legalmente detenuto e di affrontare i ladri. Avendo sparato più colpi all’indirizzo dell’uomo, benchè questi avesse momentaneamente desistito dall’azione illecita, essendosi allontanato dal balcone e posizionato nel cortile, sotto ad un albero, al fine di verificare se il furto fosse definitivamente sfumato oppure no, l’imputato, a fronte di un pericolo ancora attuale e tuttavia scemato, aveva adottato una reazione eccessiva: “egli non ha considerato che il parziale allontanamento non richiedeva più la lesione fisica dell’aggressore, mentre nella nuova posizione era sufficiente ad interrompere l’azione criminosa ai suoi danni l’uso dimostrativo dell’arma…prima di sparare ad altezza d’uomo, andava percorsa la strada dissuasiva dello sparo non diretto, adeguato stante la distanza che li separava”. L’aver invece sparato ad altezza d’uomo – poi identificato in X.D., che l’esame autoptico attestò essere stato colpito ad organi vitali (tra l’altro: polmone sinistro, fegato e milza) da sette pallettoni che ne cagionarono l’immediato decesso – integrava, si legge in sentenza, “una condotta gravemente imprudente, non più proporzionata all’offesa effettivamente in essere nel momento in cui è stato esploso” il colpo (trattandosi di fucile da caccia a pallettoni, secondo la sentenza è ben possibile che i sette pallini rinvenuti sul cadavere potessero essere stati generati dalla “rosa” partita da un unico colpo, benchè lo stesso imputato avesse dichiarato, secondo la ricostruzione della Corte, di aver esploso più colpi, non in aria, ma tutti dall’alto del balcone verso il terreno sottostante). Di qui il riconosciuto eccesso colposo in legittima difesa, non avendo il giudice d’appello ritenuto provato che l’uomo impugnasse un’arma – od un oggetto che per essa potesse essere scambiato nulla essendo stato rinvenuto nei pressi del cadavere, benchè l’imputato fosse immediatamente sceso per accertarsi dell’accaduto e, come meglio di seguito si dirà, avesse caricato il cadavere sul proprio mezzo fuoristrada e lo avesse trasportato su un ponte del vicino fiume Volturno, gettandolo poi in acqua.

2. La ricostruzione operata in sentenza viene in ricorso contestata in relazione a due aspetti: l’omessa valutazione della dichiarazione dell’imputato nella parte in cui il medesimo aveva riferito di aver esploso dei colpi in aria;

l’illogica conclusione che il malfattore non impugnasse un oggetto metallico (che l’imputato ritenne essere un’arma contro di sè puntata).

Essendo stato al proposito dedotto il vizio di motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), osserva innanzitutto il Collegio che esso non concerne nè la ricostruzione dei fatti, nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, nè illogicità evidenti (cfr. Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516).

Quanto alla illogicità della motivazione come vizio denunciabile, la menzionata disposizione vuole che essa sia manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, Cento e a., Rv. 259643). L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, inoltre, ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e senza che sia possibile dedurre nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099). Alla Corte di cassazione, invero, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).

E’ invece deducibile il vizio di travisamento della prova, che ricorre quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva (Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499). Il vizio deve tuttavia risultare dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti processuali specificamente indicati nei motivi di gravame ed è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato od omesso (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774). Quanto al primo dei cennati profili, il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere coerente e logica rispetto agli elementi di prova in essa rappresentati ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. Sotto il secondo profilo, la motivazione non deve risultare incompatibile con altri atti del processo indicati in modo specifico ed esaustivo dal ricorrente nei motivi del suo ricorso (c.d. autosufficienza), in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr. Sez. 2, n. 38800 del 01/10/2008, Gagliardo e a., Rv. 241449).

2.1. Alla luce di tali premesse in diritto, le due contestazioni mosse dal ricorrente sulla ricostruzione del fatto e sulla motivazione della sentenza impugnata non sono fondate.

Quanto al travisamento della dichiarazione che l’imputato avrebbe fatto nell’affermare di aver sparato in aria, la sentenza attesta che, nell’interrogatorio reso il 10 luglio 2012 (pochi giorni dopo l’accaduto), egli dichiarò di aver sparato “alla cieca 4 o 5 cartucce, senza poter dire se in aria o ad altezza uomo” (pag. 1) e che soltanto nel successivo interrogatorio del 14 marzo 2013 affermò di aver dapprima sparato in aria e di aver poi puntato il fucile contro l’uomo perchè gli sembrava che questi avesse una pistola in mano.

Nel ritenere (pag. 4) che l’imputato avesse esploso tutti i colpi verso il terreno, la sentenza impugnata ha evidentemente attribuito credibilità alle prime dichiarazioni rese, ritenendole maggiormente genuine, e tale valutazione di merito non può dirsi manifestamente illogica, se si pensa che, nel secondo interrogatorio, l’imputato può ben aver inteso “aggiustare” le sue precedenti dichiarazioni, peraltro riferendo, per la prima volta, il dato relativo alla pistola (o similare oggetto) che il malvivente avrebbe contro di lui puntato, così inducendolo a fare fuoco nella sua direzione. Anche questa (successiva) dichiarazione non è stata creduta dai giudici di merito, che non illogicamente hanno utilizzato a conforto della conclusione il fatto che nulla fosse stato rinvenuto nei pressi del cadavere, essendo l’alternativa spiegazione fornita dal ricorrente (vale a dire, che la pistola fosse stata recuperata dai complici dell’imputato) una mera congettura, non suffragata da alcun indizio e, anzi, smentita da ciò che sul posto accadde subito dopo il decesso di X. secondo le stesse dichiarazioni dell’imputato, che – a quanto risulta dalla sentenza impugnata, da quella di primo grado e dal ricorso, unici atti cui il Collegio ha accesso – non ha mai dichiarato di aver visto qualcuno avvicinarsi al cadavere.

3. Ciò premesso, reputa il Collegio che in relazione al fatto siccome ricostruito dai giudici di merito sia stata correttamente esclusa la sussistenza della causa di giustificazione della legittima difesa, sia reale, sia putativa, e che tale conclusione non muti a seguito della modifica apportata all’art. 52 c.p., dalla L. 26 aprile 2019, n. 36.

Nei suoi elementi costitutivi, la descrizione della menzionata scriminante quale prevista dall’art. 52 c.p., comma 1, è tuttora quella originariamente delineata dal codice Rocco: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Secondo il consolidato orientamento interpretativo, dunque, la causa di giustificazione postula tre elementi: il pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio od altrui; la necessità di reagire a scopo difensivo; la proporzione tra la difesa e l’offesa.

Com’è noto, le modifiche che hanno successivamente interessato la definizione della scriminante in parola hanno riguardato – dapprima ad opera della L. 13 febbraio 2006, n. 59, e recentemente con la già citata L. 36 del 2019 le reazioni difensive poste in essere contro chi commetta fatti di violazione di domicilio ai sensi dell’art. 614 c.p., commi 1 e 2, situazione a cui è stata parificata la commissione di fatti avvenuti “all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale” (art. 52 c.p., comma 3).

Va subito detto che nella vicenda in esame non viene in rilievo la nuova previsione di cui all’ultimo capoverso della disposizione quale inserito, dalla L. n. 36 del 2019, art. 1, comma 1, lett. c), a mente del quale nei luoghi di cui si è detto “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Neppure il ricorrente, invero, invoca tale previsione, di cui nella specie – giusta la ricostruzione del fatto più sopra operata – non ricorrono i presupposti per l’assorbente ragione che X.D. non tentò d’introdursi in casa dell’imputato con violenza o minaccia di uso di armi od altri mezzi di coazione (per la medesima conclusione affermata in analogo caso, v. Sez. 5, n. 40414 del 13/06/2019, Gueye).

3.1. Occorre dunque valutare se sia invece applicabile il disposto di cui al primo capoverso della disposizione, giusto il quale nei medesimi luoghi “sussiste sempre” – e l’introduzione di tale avverbio costituisce l’unica modifica apportata dalla L. n. 36 del 2019, alla norma introdotta con la L. n. 59 del 2006 – “il rapporto di proporzione di cui al comma 1, del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”.

Con riguardo alla previsione introdotta nel 2006, questa Corte aveva ritenuto che la stessa avesse configurato una presunzione circa la sussistenza del requisito della proporzione tra offesa e difesa, quando sia ravvisabile la violazione del domicilio dell’aggressore, ossia l’effettiva introduzione del soggetto nel domicilio altrui – o nelle sue appartenenze – contro la volontà di colui che è legittimato ad escluderne la presenza, ferma restando la necessità del concorso dei presupposti dell’attualità dell’offesa e della inevitabilità dell’uso delle armi come mezzo di difesa della propria o altrui incolumità (Sez. 1, n. 50909 del 07/10/2014, Thekna, Rv. 261491; Sez. 1, n. 16677 del 08/03/2007, Grimoli, Rv. 236502). A quest’ultimo proposito, con riguardo all’impiego di armi in modo idoneo ad attentare alla vita dell’aggressore, continua dunque a trovare applicazione il principio secondo cui è configurabile l’esimente della legittima difesa solo qualora l’autore del fatto versi in una situazione di pericolo attuale per la propria incolumità fisica, tale da rendere necessitata e priva di alternative la sua reazione all’offesa mediante aggressione (Sez. 1, n. 51262 del 13/06/2017, Can, Rv. 272080).

Al di là delle intenzioni del legislatore storico, certamente mosso dalla volontà, anche alla luce di preoccupanti fatti di cronaca, di inasprire la reazione penale verso le aggressioni perpetrate nel domicilio (si vedano gli aggravamenti di pena apportati ai reati di cui agli artt. 614,624 bis e 628 c.p.) e, nelle stesse situazioni, di guardare con indulgenza alle condotte di autodifesa del cittadino (si consideri la L. n. 36 del 2019, art. 8), questa conclusione condivisa dal Collegio – non può dirsi venuta meno a seguito dell’inserimento dell’avverbio “sempre” ad opera della recente “novella”, potendo ad esso attribuirsi un mero significato rafforzativo della presunzione posta dalla norma, presunzione che, tuttavia, da un lato, riguarda la sussistenza di uno soltanto degli elementi costitutivi della fattispecie scriminante e che non esclude il giudizio sull’accertamento degli altri, vale a dire la necessità di reagire ad un’offesa in atto; d’altro lato opera diversamente a seconda che il pericolo riguardi l’aggressione alla persona oppure ai beni (in termini analoghi, v., in motivazione, Sez. 1, n. 39977 del 14/05/2019, Addis, Rv. 276949). In quest’ottica, l’uso di un’arma – purchè legittimamente detenuta – può dirsi reazione sempre proporzionata nei confronti di chi si sia illecitamente introdotto, o illecitamente si trattenga, all’interno del domicilio o dei luoghi a questo equiparati, nei quali il legislatore ha ritenuto maggiormente avvertita l’esigenza dell’autodifesa, a patto che, appunto, il pericolo di offesa ad un diritto (personale o patrimoniale) sia attuale e che l’impiego dell’arma quale in concreto avvenuto sia necessario a difendere l’incolumità propria o altrui, ovvero anche soltanto i beni se ricorra pur sempre un pericolo di aggressione personale.

Laddove questo accada, non si potrà negare la sussistenza della scriminante per difetto di proporzione tra difesa ed offesa sul rilievo – ad es. che l’aggressione fisica a mani nude patita dalla vittima in casa propria avrebbe imposto il tentativo di difendersi con lo stesso mezzo (vale a dire, a mani nude piuttosto che con un’arma), ovvero, laddove il pericolo attuale di offesa riguardi i soli beni patrimoniali, che si dovrebbe escludere in radice una qualsiasi, pur in concreto necessaria ed appropriata, reazione attraverso l’uso di un’arma per sproporzione tra i diversi beni in conflitto (da un lato il patrimonio, d’altro lato l’incolumità fisica), quando, in assenza di desistenza, una diversa difesa potrebbe ragionevolmente provocare un’aggressione fisica. Va interpretato in questo senso, infatti, il riferimento al “pericolo di aggressione” di cui all’ultima parte dell’art. 52 c.p., comma 2, lett. b), altrimenti inutile, posto il pericolo attuale di offesa del diritto – nella specie, patrimoniale – è già richiesto dal comma 1, della disposizione. A differenza di quest’ultimo, strutturalmente richiesto dalla fattispecie scriminante in termini di attualità, il pericolo di aggressione di cui al comma 2, che tale ulteriore connotazione significativamente non richiede, implica una ragionevole prognosi sulla condotta del malintenzionato che si trovi nell’altrui domicilio o nei luoghi equiparati, il quale, pur mirando a commettere reati contro il patrimonio e non avendo (ancora) posto in essere (o minacciato) azioni aggressive nei confronti della persona, a ciò potrebbe determinarsi qualora la vittima tentasse di opporre resistenza (reputa invece legittima la reazione a difesa dei beni solo quando sussista un pericolo attuale per l’incolumità fisica dell’aggredito o di altri Sez. 1, n. 16677 del 08/03/2007, Grimoli, Rv. 236502).

Per contro, la perdurante esigenza di ravvisare gli altri elementi costitutivi della legittima difesa impone tuttora di ritenere che non possa dirsi scriminato l’impiego offensivo di un’arma contro la persona quando questa, pur trovandosi ancora illecitamente all’interno del domicilio, delle appartenenze o dei luoghi equiparati, non stia tenendo una condotta da cui possa ravvisarsi l’attualità del pericolo di offesa alla persona o ai beni che esiga una preventiva reazione difensiva, dovendosi questa ritenere ingiustificata (prima ancora che suscettibile di valutazione in termini di proporzione) qualora difetti il carattere della necessità della difesa. Allo stesso modo, pur a fronte della necessità di difesa contro il pericolo attuale di un’offesa diretta soltanto ai beni, la presunzione di proporzione circa l’uso dell’arma potrà dirsi operante quando il reo non desista dall’azione criminosa e sussista il pericolo – ancorchè non attuale, e pur tuttavia concreto – che questa possa trasmodare in un’aggressione alla persona.

Ed è quanto avvenuto nel caso di specie secondo la ricostruzione operata dalla Corte territoriale: trovandosi X. in situazione, e posizione, di “attesa”, per verificare se davvero era stato scoperto e, quindi, per decidere se allontanarsi definitivamente dal luogo, ovvero insistere nella furtiva intrusione, la situazione di pericolo non era attuale al punto da giustificare l’uso preventivo della micidiale arma impiegata per far fuoco contro la persona. Non opera qui la presunzione di proporzione tra offesa in atto e difesa attuata – da compiersi alla luce della previsione di cui all’art. 52 c.p., comma 2, – poichè, quanto all’offesa alla persona, il giudizio si arresta alla valutazione dell’insussistenza di quella situazione di necessità della difesa posta da un pericolo attuale che l’art. 52 c.p., comma 1, continua a richiedere; quanto al pericolo di offesa ai beni – pur attuale, ma scemato, reputa ragionevolmente la sentenza impugnata – non essendosi ravvisato, anche per la distanza e la reciproca posizione, un pericolo di aggressione alla persona ai sensi dell’art. 52 c.p., comma 2, lett. b), ultima parte, non può invocarsi la presunzione di proporzione posta da tale norma.

3.2. La conclusione che precede s’impone non soltanto alla luce dell’interpretazione del disposto del codice – peraltro confermato dalla stessa nuova previsione che la L. 36 del 2019 ha inserito nell’art. 55 c.p., nuovo comma 2, (v., in particolare, il rilievo di cui infra, sub p. 4.3.) – ma anche per il doveroso rispetto delle previsioni ricavabili dalla Costituzione, lette pure nell’ottica degli obblighi internazionali assunti dallo Stato.

3.2.1. In via generale, nella giurisprudenza della Corte costituzionale è principio costante quello secondo cui le cause di non punibilità costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, sicchè la loro valutazione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi, ed è stato riconosciuto, come appartenere primariamente al legislatore (cfr. Corte Cost., sent. n. 140 del 04/05/2009, ove si richiamano in senso conforme le sentt. n. 385 del 1992, n. 267 del 1992, n. 32 del 1992; n. 1063 del 1988; n. 241 del 1983). Nell’individuare e delineare le cause scriminanti – e, più in generale, le cause di non punibilità – il legislatore ordinario deve tuttavia operare un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco (Corte Cost., sent. n. 148 del 02/06/1983) e, nelle poche occasioni in cui è stata chiamata ad occuparsi di questioni di legittimità costituzionale concernenti la scriminante della legittima difesa, la Corte costituzionale ha dato per scontato che l’istituto postuli la reazione ad un’offesa in atto, non essendo invece configurabile quando al momento del fatto la stessa si sia esaurita e l’agente intenda soltanto reagire alla minaccia di un male futuro ed eventuale (Corte Cost., sent. n. 278 del 23/05/1990): proprio il requisito dell’attualità – si è detto – aiuta a risolvere, caso per caso, le situazioni in cui di fatto può manifestarsi l’effettività dell’aggressione che giustifica la reazione difensiva (Corte Cost., sent. n. 225 del 03/06/1987).

3.2.2. Quanto agli obblighi internazionali assunti dall’Italia e che, anche in forza del principio affermato dall’art. 117 Cost., comma 1, vincolano il legislatore ordinario – come pure l’interprete (cfr. Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486) – viene innanzitutto in rilievo l’art. 2 CEDU, uno degli articoli fondamentali della Convenzione, non suscettibili di deroga, ai sensi dell’art. 15, in tempo di pace. Dopo aver al paragrafo 1 sancito la protezione del diritto alla vita ed il divieto di volontariamente provocare la morte di alcuno, l’art. 2, par. 2, lett. a), considera come non data in violazione di detto articolo la morte di una persona “determinata da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per difendere ogni persona da una violenza illegittima”. Sul punto, la giurisprudenza della Corte EDU ha più volte precisato che il ricorso alla forza tale da poter condurre a provocare, anche involontariamente, la morte di un uomo è da ritenersi giustificato – alla luce dell’art. 2, par. 2, lett. a), CEDU – soltanto se, appunto, “assolutamente necessario” per assicurare la difesa delle persone da una violenza illegale (cfr., anche per ulteriori riferimenti, Corte EDU, Sez. 2, 14 giugno 2011, Trèvalec c. Belgo; Corte EDU, Sez. 4, 25/08/2009, Giuliani e Gaggio c. Italia).

Benchè, nella casistica della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, detta previsione sia stata di regola analizzata in vicende in cui il ricorso alla forza lesivo del diritto alla vita era stato attuato da organi pubblici, specialmente da forze di polizia – come avvenuto nei casi più sopra richiamati – non v’è ragione di non utilizzare analogo parametro allorquando la lesione si determini in un contesto di autodifesa tra privati, trattandosi del criterio di bilanciamento che, secondo la Convenzione, esclude la violazione del diritto alla vita in via generale affermato dal precedente paragrafo e “le circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione devono essere interpretate in modo stretto” (Corte EDU, Grande Camera, 24/03/2011, Giuliani e Gaggio c. Italia).

Secondo il consolidato orientamento della Corte di Strasburgo, del resto, l’art. 2 CEDU obbliga gli Stati ad adottare appropriate misure per salvaguardare la vita di coloro che si trovano nella loro giurisdizione (v., anche per ulteriori riferimenti, Corte EDU, 15/01/2009, Branko Tomasic e aa. c. Croatia; Corte EDU, 09/06/1998, L.C.B. c. Regno Unito), misure che sono di carattere sostanziale e attengono all’individuazione di un quadro giuridico appropriato – tra cui l’adozione di norme dissuasive, dunque anche penali, idonee a prevenire la violazione del diritto – e di carattere procedurale, vale a dire afferenti al dovere delle autorità di effettuare indagini effettive in grado di assicurare che le violazioni del diritto siano represse e sanzionate (cfr. Corte EDU, Sez. 5, 19/07/2018, Sarischvili-Bolkvadze c. Georgia; Corte EDU, Grande Camera, 24/03/2011, Giuliani e Gaggio c. Italia).

Analogo, forte, dovere di protezione del diritto alla vita da parte della legge degli Stati è sancito dall’art. 6, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 e ratificato con L. 25 ottobre 1977, n. 881, del pari fonte di quegli obblighi internazionali che, a norma dell’art. 117 Cost., comma 1, vincolano il legislatore nazionale e l’interprete.

Anche al fine di dare all’art. 52 c.p., un’interpretazione costituzionalmente orientata, vi e più quando si tratti di valutare condotte difensive in concreto lesive del fondamentale diritto alla vita, non può dunque prescindersi dalla verifica del requisito della necessità rispetto alla tutela della persona da violenze illegittime, in difetto del quale la lesione di tale diritto non può mai dirsi giustificata.

3.3. Quanto, da ultimo, alla putatività della scriminante, la sentenza impugnata non l’ha riconosciuta con motivazione che non presta il fianco a censure, essendosi escluso non solo che X. avesse puntato una pistola contro C. – ciò che avrebbe indotto a ritenere l’effettività della scriminante – ma pure che potesse aver impugnato un qualsiasi similare oggetto tale da poter creare un fraintendimento nell’imputato. Si tratta, dunque, di valutazione insindacabile in fatto, perchè non illogicamente motivata, e corretta in diritto alla luce del principio secondo cui l’errore scusabile, nell’ambito della legittima difesa putativa, deve trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta (Sez. 1, n. 3464 del 24/11/2009, dep. 2010, Narcisio, Rv. 245634). La Corte territoriale, ha bensì ritenuto che tale pericolo – sia pur scemato rispetto alla prima fase di condotta tenuta da X. – fosse sussistente, ma, pur valutando lo stato di turbamento che la situazione aveva determinato in C., ha correttamente giudicato che non richiedesse la necessità di utilizzare l’arma per colpire un uomo disarmato che si trovava oramai ad una certa distanza dall’abitazione, essendosene volontariamente allontanato e mantenendo l’atteggiamento attendista di chi non aveva ancora abbandonato l’idea di commettere il reato, sì che l’anzidetto impiego dell’arma ha colposamente ecceduto i limiti imposti dalla necessità della reazione.

Il giudizio di merito – insindacabile in questa sede: cfr. Sez. 1, n. 3148 del 19/02/2013, dep. 2014, Mariani, Rv. 258408; Sez. F, n. 39049 del 26/08/2008, Greco, Rv. 241553 – risponde, ad avviso del Collegio, al consolidato principio secondo cui l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sè considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sè o altri da un’ingiusta aggressione (Sez. 4, n. 24084 del 28/02/2018, Perrore e a., Rv. 273401; Sez. 5, n. 3507 del 04/11/2009, dep. 2010, Sivgilia e a., Rv. 245843).

4. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato con riguardo alla violazione dell’art. 55 c.p..

Come si è detto, la sentenza impugnata – applicando la citata disposizione prima che la stessa fosse modificata dalla L. n. 36 del 2019 – ha ritenuto che, pur avendo agito in un contesto difensivo, l’imputato avesse ecceduto colposamente i limiti imposti dalla necessità della reazione; in particolare, si è osservato, “resta comunque un grado di colpa, ravvisabile nella sottovalutazione dell’affievolimento della situazione di pericolo”. Di fatti – si rileva – “l’imputato ha agito in stato di turbamento per difendersi; ha ecceduto nella scelta delle modalità, ponendo in essere comunque ciò che sarebbe stato giustificato nella prima situazione percepita, ma divenuto superfluo (almeno in prima battuta) alla luce della più lontana posizione assunta dall’aggressore. Si configura pertanto l’eccesso colposo nella supposta condizione di legittima difesa”.

Al di là dell’ambiguo riferimento alla “supposizione” circa una condizione che avrebbe giustificato la legittima difesa – ciò che potrebbe far pensare ad un’applicazione putativa della scriminante, tuttavia imputabile a colpa e quindi riconducibile alla previsione di cui all’art. 59 c.p., comma 4, – il chiaro riferimento all’eccesso colposo (affermato con nettezza a pag. 3 della sentenza), fa invece comprendere come la Corte territoriale abbia fatto applicazione dell’art. 55 c.p., e lo abbia fatto proprio con riguardo al profilo che il comma 1, della disposizione da sempre prevede, vale a dire l’aver colposamente ecceduto i limiti imposti dalla necessità, ciò che si verifica quando la giusta proporzione fra offesa e difesa venga meno per colpa, intesa come errore inescusabile, ovvero per precipitazione, imprudenza o imperizia nel calcolare il pericolo e i mezzi di salvezza (Sez. 4, n. 9463 del 13/02/2019, Ouldhnini, Rv. 275269; Sez. 3, n. 30910 del 27/04/2018, L., Rv. 273731).

Ciò che il giudice di merito ha rimproverato all’imputato – ravvisandovi, peraltro, “una condotta gravemente imprudente” (pag. 5), tanto da attestarsi nella quantificazione della pena addirittura sul massimo edittale – è di aver aperto il fuoco contro l’uomo che si era allontanato dal balcone (ma non ancora dalle pertinenze del domicilio), facendo peraltro “uso diretto dell’arma da fuoco nei confronti di persona non molto distante” (pag. 6), piuttosto che limitare l’uso dell’arma a scopo dissuasivo, esplodendo soltanto colpi in aria.

4.1. Come si è sopra ricordato, la sentenza attesta che l’imputato agì “in stato di turbamento per difendersi” e, in altra parte (pag. 3), ribadisce che “l’imputato ha agito nella concitazione indotta dall’imminenza dell’indesiderata intrusione in casa, specificamente dove dormivano i figli minori: ciò ha determinato sicuramente un turbamento significativo che egli ha fatto ravvisare nell’uso del fucile l’unica possibile difesa. Va inoltre tenuto conto che si tratta di un edificio isolato in campagna e che si erano già verificati precedenti tentativi di furto”.

Il rilevato turbamento – ripetutamente affermato e definito anche “significativo” – non impediva, tuttavia, sulla scorta della previsione quale vigente al momento del giudizio, l’individuazione di quel profilo di colpa bastevole ad integrare gli estremi dell’eccesso colposo in legittima difesa disciplinato dall’art. 55 c.p..

4.2. Com’è noto – e come giustamente rileva il ricorrente – la recentissima L. n. 36 del 2019, ha inciso in maniera profonda su tale istituto inserendo nel corpo dell’articolo un comma 2 che così recita: “nei casi di cui all’art. 52, commi 2, 3 e 4, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, comma 1, n. 5) ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”.

La disposizione introdotta dalla “novella”, che, all’evidenza, restringe l’ambito del penalmente rilevante ravvisando una – del tutto nuova – causa di non punibilità che accede all’istituto dell’eccesso colposo in legittima difesa è certamente applicabile ai fatti pregressi, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4, quale legge più favorevole (nello stesso senso, Sez. 4, n. 28782 del 28/05/2019, Dattoli).

4.3. Ciò premesso, rileva il Collegio come la nuova disposizione non abbia codificato un’ulteriore scriminante, che si aggiunge a quelle previste dagli artt. 50 ss. c.p. Queste ultime sono situazioni oggettive di esclusione dell’antigiuridicità del fatto che, se sussistenti, si applicano in favore dell’agente a prescindere dalla consapevolezza che il medesimo ne abbia (art. 59 c.p., comma 1) e che, laddove erroneamente reputate esistenti, sono parimenti valutate in suo favore, salva, in caso di colpevole errore, la responsabilità laddove il fatto sia previsto come delitto colposo (art. 59 c.p., comma 4). Si tratta, invece, di una situazione che, inserendosi nell’ambito di applicazione di una scriminante esistente, esclude la soggettiva imputabilità all’agente di condotte antigiuridiche colpose rispetto alle quali sia già stata accertata la violazione di una regola cautelare.

La situazione codificata nell’art. 55 c.p., comma 2, – va in primo luogo osservato – si riferisce, tra le diverse cause di giustificazione, soltanto a quella della legittima difesa e, nell’ambito di questa, è ulteriormente circoscritta alle sole ipotesi in cui il fatto avvenga nei casi previsti dall’art. 52 c.p., commi 2, 3 e 4. Essa, inoltre, non si riferisce a tutte le possibili situazioni che, pur nei riferiti luoghi, possono dar luogo ad una difesa legittima, essendone stato delimitato il campo di applicazione con esclusivo riferimento a chi abbia “commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità”, da ritenersi comprensiva dei casi di eccesso colposo commessi in legittima difesa di beni propri o altrui quando sia ragionevolmente ipotizzabile quel pericolo di aggressione personale considerato dall’art. 52 c.p., comma 2, lett. b). Laddove non sia neppure ipotizzabile che l’azione difensiva illecita ascritta a titolo di eccesso colposo possa essere stata determinata dall’intento di difendere l’incolumità dell’agente o di terzi – per essere la stessa esclusivamente riferibile alla difesa dei beni propri o altrui – la causa di non punibilità non è dunque configurabile. La previsione di una causa di non punibilità connessa all’eccesso colposo per essere stati superati i limiti imposti dalla necessità nel caso disciplinato dall’art. 52 c.p., comma 2, – per il quale, come detto, vige la presunzione di proporzione tra difesa e offesa – rappresenta, peraltro, oggettiva conferma di quanto argomentato supra, sub p. 3.1. circa il fatto che anche nel domicilio e nei luoghi equiparati l’uso scriminato dell’arma imponga il rispetto del requisito della necessità della difesa.

In secondo luogo, la nuova disposizione si colloca in una fattispecie di per sè certamente antigiuridica, per difetto della necessità della reazione in concreto tenuta, strutturalmente configurabile quale reato colposo rispetto al quale sussiste un profilo di rimproverabilità della condotta (altrimenti, il soggetto agente andrebbe già esente da responsabilità ai sensi della previsione di cui al comma 1). Mentre sul piano civile la condotta continua ad essere fonte di responsabilità – sia pur nella forma attenuata dell’indennizzo, piuttosto che in quella, piena, del risarcimento del danno: cfr. l’art. 2044 c.c., u.c., quale introdotto dalla L. n. 36 del 2019, art. 7, – sul piano penale essa viene invece ritenuta non punibile perchè i limiti imposti dalla necessità della reazione sono stati (colpevolmente) superati per avere il soggetto agito in stato di minorata difesa, ovvero di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto. Una volta positivamente compiuto il giudizio di soggettiva rimproverabilità effettuato con riguardo all’agente modello, dunque, ricorrendo le altre condizioni quali più sopra riepilogate, l’agente non sarà punibile laddove, alternativamente, ricorra una delle due, distinte, situazioni codificate.

4.3.1. Con riguardo alla prima, il riferimento alle condizioni di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 5), è sufficientemente chiaro. Sia pur dovendo ricavarsi le caratteristiche del soggetto che si sia difeso in una condizione “minorata” da una disposizione che, a contrario, aggrava in via generale la responsabilità penale per chi abbia commesso il reato profittando di tali condizioni, le circostanze da prendere in esame sono quelle “di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Si tratta di connotazioni oggettive che, se dal punto di vista dell’agente facilitano il compimento dell’azione criminosa sì da meritare l’inasprimento di pena (Sez. 1, n. 39560 del 06/06/2019, Souhi, Rv. 276871; Sez. 1, n. 40293 del 10/07/2013, Congiusti, Rv. 257248), dal punto di vista della vittima la quale, difendendosi, ecceda i limiti consentiti, giustificano qui la non punibilità per il reato colposo commesso proprio perchè incidenti sull’impossibilità di opporre una “normale” difesa rispetto all’aggressione subita. La valutazione, dunque, dovrà essere compiuta in relazione a tale ultimo aspetto e soltanto in questi limiti sono riproponibili le letture dell’art. 61 c.p., n. 5, rese con riguardo alla sussistenza della circostanza aggravante.

Così, con particolare riguardo agli elementi che rilevano ai fini della decisione del caso di specie, posto che – mutatis mutandis – occorre effettuare una valutazione in concreto delle condizioni che hanno ostacolato o impedito la normale difesa, non vale ad integrare automaticamente la situazione descritta la sola situazione astratta del tempo di notte (Sez. 4, n. 30990 del 17/05/2019, Tanzi, Rv. 276794; Sez. 4, n. 15214 del 06/03/2018, Ghezzi, Rv. 273725; Sez. 5, n. 8819 del 02/02/2010, Maero, Rv. 246160), come pure non basta la mera constatazione che l’azione criminosa contro cui ci si difende sia stata posta in essere di notte ed in luoghi isolati, dovendo il giudice accertare se dette condizioni abbiano effettivamente influito sulla possibilità di difesa (Sez. 2, n. 23153 del 19/12/2018, dep. 2019, 0., Rv. 276655). Poichè nel caso di specie la situazione rileva non solo per rendere possibile un aumento di pena – peraltro, nella misura ordinaria propria delle circostanze aggravanti comuni, che può essere elisa nell’ambito del giudizio di bilanciamento con circostanze di opposto segno – bensì per escludere la punibilità, il giudizio dovrà essere rigoroso, non potendosi ritenere sufficiente un mero ostacolo agevolmente superabile, senza che si debba pretendere, per contro, che la difesa sia del tutto impedita o resa impossibile (Sez. 1, n. 50699 del 18/05/2017, B., Rv. 271592). Occorrerà, in ogni caso, effettuare una complessiva valutazione, volta ad appurare se, in concreto, si sia realizzata una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata (Sez. 4, n. 53570 del 05/10/2017, Torre e a., Rv. 271259; Sez. 4, n. 53343 del 30/11/2016, Mihai, Rv. 268697) che possa aver oggettivamente influito sull’errata valutazione della necessità di reagire all’aggressione nel modo in cui lo si è fatto. Detta interpretazione teleologica dell’art. 55 c.p., comma 2, è imprescindibile, dovendosi rifuggire da interpretazioni astratte che perdano di mira la ratio della previsione, da individuarsi nell’intento di adeguare il giudizio di rimproverabilità effettuato ex ante sul modello razionale di agente (cfr. Sez. 6, n. 49573 del 19/09/2018, Bruno, Rv. 274277; Sez. 4, n. 8058 del 23/09/2016, dep. 2017, Malocaj e a., Rv. 269127; Sez. 4, n. 9390 del 13/12/2016, dep. 2017, Di Pietro e a., Rv. 269254; Sez. 4, n. 36400 del 23/05/2013, Testa, Rv. 257112) alle particolari condizioni in cui l’azione si è in concreto verificata. Ciò che il legislatore chiede al giudice è di calare la valutazione sul superamento dei limiti imposti dalla necessità nella concreta situazione in cui il soggetto agente è venuto a trovarsi per le oggettive condizioni (di tempo, di luogo, di persona) in cui l’azione difensiva è stata posta in essere, onde verificare se queste abbiano inciso sulle modalità della reazione, significativamente ostacolandola e, quindi, “deformandola” rispetto a ciò che si sarebbe potuto pretendere da un agente razionale sottoposto alla medesima aggressione non connotata da quelle caratteristiche.

La disposizione, in buona sostanza, recepisce – ed espressamente attua con riguardo alla situazione in esame, riempiendola di contenuti oggettivi perchè ancorati ai criteri individuati dall’art. 61 c.p., n. 5), ed estendendola anche a connotazioni di tempo e di luogo – quell’orientamento giurisprudenziale, nel tempo divenuto dominante, che richiede un giudizio sul profilo di colpa compiuto avendo riguardo anche alla concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento (Sez. 4, n. 20270 del 06/03/2019, Palmeri, Rv. 276238; Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018, Galdino de Lima, Rv. 274500; Sez. 4, n. 49707 del 04/11/2014, Incorvaia e a., Rv. 263283).

4.3.2. Il cennato profilo di (ulteriore) valutazione rispetto all’adozione degli ordinari criteri che presiedono all’imputazione colposa del fatto si apprezza ancor più in relazione alla seconda, alternativa, situazione che l’art. 55 c.p., comma 2, impone di considerare, vale a dire se chi ha posto in essere l’azione difensiva abbia agito in stato di grave turbamento. Più ancora che con riguardo alla prima delle situazioni considerate, ci si allontana qui dal riferimento al modello razionale di agente – pur delineato il più possibile con riguardo alle caratteristiche personali e spazio – temporali del caso di specie – per dare rilievo ad una situazione psicologica fondata su connotazioni emotive che secondo l’impostazione originaria del codice penale, indotta da evidenti finalità di carattere generalpreventivo, vengono invece di regola considerate ininfluenti ai fini della responsabilità penale (cfr. art. 90 c.p.; per qualche applicazione v. Sez. 1, n. 48841 del 31/01/2013, Venzi e a., Rv. 258444; Sez. 5, n. 9843 del 16/01/2013, Picini, Rv. 255226; Sez. 6, n. 12621 del 25/03/2010, M., Rv. 246741). Com’è noto, la rigidità di questa impostazione e la necessità di valutarne la tenuta alla luce dei modelli costituzionali – anche di matrice sovranazionale – che impongono quantomeno la rimproverabilità della condotta per giustificare l’applicazione di una sanzione penale formano da tempo oggetto di discussione, anche alla luce di acquisizioni scientifiche che sottolineano come stati emotivi e passionali non riconducibili ad infermità possano sostanzialmente produrre gli stessi effetti che sulla capacità di intendere e di volere determinano le situazioni patologiche. E’ un fatto, peraltro, che lo stesso codice riconosca talora rilievo, in particolari casi, a situazioni emotive dell’agente che, pur non dipendenti da infermità, hanno influito sulla sua capacità di autodeterminarsi, prevedendo circostanze attenuanti (v. art. 62 c.p., nn. 2 e 3) o addirittura cause di non punibilità (art. 599 c.p., comma 2). La stessa giurisprudenza ha talvolta riconosciuto rilevanza agli stati emotivi o passionali ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, sul rilievo che essi influiscono sulla misura della responsabilità penale (Sez. 1, n. 7272 del 05/04/2013, dep. 2014, Disha, Rv. 259160; Sez. 1, n. 2897 del 15/11/1982, dep. 1983, Langella, Rv. 158296).

La nuova previsione, reputa il Collegio, ha qualche analogia con queste ipotesi e, tenendo anche conto del fatto che si tratta di una causa di non punibilità, rappresenta senz’altro una situazione codificata di inesigibilità della condotta che non potrebbe trovare ingresso nell’ordinamento se non espressamente prevista (cfr. Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833; Sez. 6, n. 973 del 02/04/1993, Bove, Rv. 194384). Di fatti, anche in tempi recenti si è affermato che l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sè considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sè o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Sez. 1, n. 13370 del 05/03/2013, R., Rv. 255268). La valutazione di questi ultimi, nelle condizioni descritte dalla norma, diviene oggi, invece, eccezionalmente ammessa e, anzi, doverosa.

Ciò premesso, questa inesigibilità, che certamente si fonda sulla non facile ricostruzione di un elemento psicologico interno come il “grave turbamento” che la legge vuole prodotto “dalla situazione di pericolo in atto” – del soggetto agente al momento del fatto va valutata alla luce di parametri oggettivi. Se, dunque, sono per un verso irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti e/o diverse, d’altro lato occorrerà esaminare, con giudizio ancora una volta calibrato sulla globale considerazione di tutti gli elementi della situazione di specie, se, e in che misura, il pericolo in atto – per concretezza e gravità rispetto alla lesione dell’integrità fisica propria o altrui – possa aver determinato nell’agente un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa. Per poter fondare l’esclusione di responsabilità, peraltro, la gravità del turbamento non potrà non essere parametrata anche alla gravità del rimprovero che discenderebbe dall’applicazione degli ordinari parametri di ricostruzione del profilo di colpa. Ancora, utili parametri di riferimento per la valutazione della contingente situazione di turbamento possono essere costituiti dall’analisi circa la maggiore o minore lucidità e freddezza che hanno contraddistinto l’azione difensiva, anche nei momenti ad essa immediatamente precedenti e successivi.

4.4. Trattandosi, dunque, di complessa valutazione di fatto che dev’essere ex novo necessariamente condotta dal giudice di merito alla luce della sopravvenuta disposizione normativa, la sentenza impugnata va annullata limitatamente al giudizio sulla causa di non punibilità di cui all’art. 55 c.p., comma 2, come introdotto dalla L. n. 36 del 2019, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di assise d’appello di Napoli.

Diversamente da quanto si allega in ricorso, infatti, non è certo sufficiente il generico riferimento fatto dalla sentenza impugnata alla situazione di significativo turbamento in cui C. agì, ciò che, peraltro, viene attestato con particolare riguardo alla situazione di pericolo generata dalla prima fase della condotta di aggressione tenuta da X., mentre occorrerà valutarne la permanenza al momento degli spari, sciogliendo l’ambiguità che la sentenza impugnata ha sul punto lasciato (v. pag. 3). Nell’applicare la nuova normativa attenendosi ai principi sopra enunciati, il giudice del rinvio dovrà in particolare accertare, in primo luogo, se nel far fuoco contro X. provocandone la morte, l’imputato – pur eccedendo i limiti imposti dalla necessità – abbia commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, piuttosto che soltanto dei beni, poichè la nuova causa di non punibilità opera soltanto nel primo caso; in secondo luogo, superato positivamente il primo vaglio, se abbia agito in stato di minorata difesa ovvero di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto.

5. Il terzo motivo di ricorso è infondato.

In imputazione si contestava all’imputato il delitto di cui all’art. 411 c.p., per aver occultato il cadavere della vittima gettandolo nel fiume (OMISSIS), anche al fine di determinarne il trascinamento lontano dai luoghi e la decomposizione, così commettendo il reato di “sottrazione, distruzione e soppressione del cadavere”.

La sentenza impugnata – confermando, sul punto, quella di primo grado dopo aver ricostruito il fatto in modo che non viene contestato (lo stesso imputato ha riferito che, dopo aver accertato la morte dell’uomo, egli ne coprì il cadavere con delle buste, lo caricò sul proprio fuoristrada e lo buttò dal ponte sul fiume (OMISSIS) sulla strada per Ruviano), ha ritenuto la sussistenza del delitto contestato piuttosto che di quello, meno grave, di cui all’art. 412 c.p.. La Corte territoriale ha motivato il proprio convincimento osservando che C. intendeva disfarsi definitivamente del corpo, rendendone impossibile il rinvenimento e l’identificazione e che soltanto un caso fortuito valutabile come post factum – vale a dire il trattenimento da parte di alcuni arbusti non lontano dal ponte da dove fu gettato – unito alla resipiscente condotta dall’imputato, il quale a distanza di pochi giorni confessò il fatto dando le opportune indicazioni, ne consentì il recupero.

5.1. Reputa il Collegio che la valutazione del giudice d’appello sia logicamente motivata e corretta in diritto.

Ed invero, secondo il costante orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio e anche di recente ribadito, nel delitto di occultamento di cadavere, il celamento dello stesso deve essere temporaneo, ossia operato in modo tale che esso sia in seguito necessariamente ritrovato, mentre, nel delitto di soppressione o sottrazione o distruzione di cadavere, il nascondimento deve avvenire in modo da assicurare, con alto grado di probabilità, la definitiva sottrazione del cadavere alle ricerche altrui (Sez. 1, n. 1000 del 11/09/2018, dep. 2019, Santangelo, Rv. 274789; Sez. 1, n. 36465 del 26/09/2011, Misseri e a., Rv. 250813; Sez. 3, n. 5772 del 21/01/2005, Rossello e aa., Rv. 230658). Si aggiunge che la sottrazione alle ricerche va valutata non in senso assoluto bensì relativo, sulla base di presunzioni fondate su elementi obiettivi, quali il luogo prescelto e le modalità adottate, con apprezzamento ex ante, non rilevando in proposito che il cadavere venga eventualmente ritrovato fortuitamente o a seguito di difficili ricerche, atteso che la durata effettiva del nascondimento non costituisce elemento di distinzione fra le due ipotesi di reato (Sez. 3, n. 27290 del 06/05/2004, Michaeler, Rv. 229061).

Alla luce di questi principi, correttamente nel caso di specie è stato ritenuto il più grave delitto di cui all’art. 411 c.p., posto che l’aver gettato il cadavere nel fiume – “dopo averlo imbustato e legato”, attesta a pag. 12 la conforme sentenza di primo grado – era condotta del tutto idonea a sbarazzarsene definitivamente, posto che esso sarebbe stato ragionevolmente trasportato dalla corrente in un luogo lontano ed imprecisato, così sottraendolo alle ricerche e rendendolo potenzialmente introvabile, oltre che difficilmente identificabile per la più rapida e significativa alterazione. La casistica, infatti, rivela come il meno grave reato di cui all’art. 412 c.p., sia stato ritenuto in casi di occultamento temporaneo in luoghi ove il cadavere sarebbe stato molto probabilmente ritrovato, senza subire alterazioni diverse da quelle connesse al passare del tempo (cfr. Sez. 1, n. 18019 del 13/04/2011, Ghisco, Rv. 250426, relativa a nascondimento del corpo della vittima di un omicidio nel portabagagli di una vettura parcheggiata a pochi metri dal luogo in cui era stato consumato il delitto; Sez. 1, n. 8748 del 02/02/2011, Paiotti, Rv. 249604, relativa a nascondimento parziale del cadavere dentro ad una macchia di rovi in luogo isolato).

Nel caso di specie, del resto, è stata giustamente valorizzata la volontà di definitiva sottrazione e soppressione connessa alle modalità – del tutto idonee prescelte, nonchè, come accennato, al pur contestato rilievo della decomposizione (riconducibile al concetto di distruzione) che la condotta tenuta era idonea a determinare. Benchè la confessione dell’imputato abbia consentito il rinvenimento del cadavere prima della sua distruzione, l’azione compiuta aveva già consumato il delitto con riguardo alle altre due, alternative, condotte considerate dalla fattispecie incriminatrice. Va inoltre considerato come il più grave delitto di cui all’art. 411 c.p. – che assorbe il reato di vilipendio di cadavere laddove gli atti di deturpamento siano naturalmente conseguenti alle modalità di sottrazione e soppressione prescelte (cfr. Sez. 1, n. 1081 del 05/11/1970, Terzoli, Rv. 116048) – determini una ben più significativa lesione del bene penalmente protetto della pietà dei defunti, ciò che è certamente rinvenibile nel caso di specie e che, invece, non ricorre laddove l’agente si limiti ad occultare un cadavere senza compiere su di esso atti diversi da quelli richiesti dal mero, precario, nascondimento (e, in questo caso, il reato concorre infatti con quello di vilipendio di cadavere: Sez. 3, n. 1107 del 17/05/1971, Musu, Rv. 119010).

6. Quanto ai restanti due motivi, gli stessi sono stati espressamente limitati al trattamento sanzionatorio inflitto in relazione al solo reato di omicidio colposo e sono dunque assorbiti dalla pronuncia di parziale annullamento sul punto.

Dovendosi per il resto rigettare il ricorso, deve pertanto dichiararsi, ai sensi dell’art. 624 c.p.p., comma 2, l’irrevocabilità della sentenza con riguardo alla condanna per il reato di cui all’art. 411 c.p..

Posto che la costituzione di parte civile riguarda entrambi i reati e che uno di essi è ancora sub iudice, potendo l’esito incidere, ai sensi dell’art. 541 c.p.p., comma 1, sulla eventuale compensazione nonostante l’infondatezza di parte del ricorso (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e aa., Rv. 207946), all’esito del giudizio il giudice del rinvio provvederà al regolamento delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado.

Da ultimo, essendo l’intestazione della sentenza impugnata viziata da errore materiale quanto alla data di nascita dell’imputato C.G., detto errore va qui corretto – ai sensi dell’art. 130 c.p.p., comma 1, ult. parte, – disponendosi che tale data si legga quale 1 ottobre 1969.