ALLE SEZIONI UNITE LA POSSIBILITA’ DI APPLICARE LA CONFISCA FACOLTATIVA DEL PROFITTO IN CASO DI PRESCRIZIONE

[vc_row css=”.vc_custom_1595493734065{margin-bottom: 30px !important;}”][vc_column][edumax_title title=”ALLE SEZIONI UNITE LA POSSIBILITA’ DI APPLICARE LA CONFISCA FACOLTATIVA DEL PROFITTO IN CASO DI PRESCRIZIONE” subtitle=”Cassazione penale, Sez. VI, 27 febbraio 2020, n. 7881 – Pres. Vessichelli, Est. Guardiano”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Va rimessa alle Sezioni Unite la questione circa la legittimità o meno della confisca facoltativa diretta del profitto del reato ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1, in presenza di pronuncia di prescrizione, pur facente seguito a condanna di primo grado. In particolare, se la confisca facoltativa citata presupponga o meno un giudicato formale di condanna o, piuttosto, se la stessa possa semplicemente accedere ad un completo accertamento da parte del giudice del merito in ordine al profilo soggettivo e oggettivo del reato di riferimento, accertamento che può essere ribadito anche in una sentenza di proscioglimento per prescrizione.

 

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di assise di appello di Milano, in qualità di giudice del rinvio, confermava quella pronunciata in primo grado nei confronti di C.E., relativamente alla confisca dei beni di quest’ultimo, ritenuti profitto del reato di cui all’art. 416 c.p., confisca disposta ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1.

A tale decisione si arrivava all’esito del seguente percorso processuale.

1.1 C. era stato condannato dalla Corte d’assise di Milano, in ordine ai reati di cui all’art. 416 c.p. e art. 262 c.p., comma 1 e 4, (capi 1 e 37), con confisca dei beni sequestratigli (complessivamente circa 14 milioni di Euro su conti esteri ed una villa) in quanto ritenuti parte del profitto ricavato grazie alla sua partecipazione all’associazione a delinquere descritta nel capo 1. Il giudice aveva motivato il provvedimento ablativo, evidenziando il carattere cautelare e non punitivo della confisca in esame, ritenuta una misura di sicurezza fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità delle cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato.

1.2 Con sentenza del 13.12.2016 la Corte d’assise di appello di Milano aveva dichiarato non doversi procedere in ordine al reato ex art. 416 c.p., perchè estinto per prescrizione, confermando la sentenza impugnata quanto alla statuizione della confisca.

1.3 Con sentenza del 23.5.2018 la prima Sezione penale della Corte di Cassazione, decidendo sul ricorso presentato dalla difesa del C., lo accoglieva parzialmente, annullando la sentenza impugnata limitatamente alla confisca, con rinvio per un nuovo giudizio sul punto.

Richiedeva al giudice di merito di chiarire “se l’ablazione dei beni di C. fosse stata adottata a norma dell’art. 240 c.p., comma 1, ovvero a norma dell’art. 240 c.p., comma 2”, essendo rilevante la “differenza dei presupposti applicativi” delle due ipotesi di confisca.

Nel rigettare gli altri motivi di ricorso, la prima Sezione escludeva che il C. potesse considerarsi estraneo alla compagine associativa, in relazione alla quale, anzi, la Corte affermava avere egli rivestito il ruolo di organizzatore.

Giudicava adeguata la motivazione sui profitti acquisiti da C. riconoscendo che i beni sequestrati costituivano i profitti conseguiti attraverso le attività di intelligence che gli venivano contestate nell’ambito del reato associativo (c.d. caso Telecom), profitti poi reinvestiti tramite conti correnti esteri allo scopo di occultarne la provenienza illegale.

Infine – sia pure nell’ottica di rigettare la censura difensiva con cui, in relazione alle statuizioni risarcitorie disposte in favore delle costituite parti civili, il ricorrente aveva sollecitato una distinzione tra i danni non patrimoniali prodotti dal reato associativo e quelli prodotti dal reato di cui al capo n. 37 – la Corte di Cassazione evidenziava l’impossibilità di distinguere tra le condotte associative poste in essere attraverso il sodalizio criminale di cui al capo 1 e le attività illecite costituenti reati-fine eseguiti in attuazione del programma consortile della medesima organizzazione.

Tale soluzione, proseguiva, deve considerarsi in linea con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “il profitto derivante dal delitto di associazione per delinquere è autonomo rispetto a quello prodotto dai reati fine ed è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme di questi ultimi, posto che l’istituzione della “societas sceleris” è funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma criminoso”.

2. Il giudice del rinvio, nella sentenza oggetto del presente ricorso, ha confermato la confisca facoltativa del profitto del reato di associazione per delinquere.

La Corte territoriale – pur a fronte della lettera dell’art. 240 c.p., comma 1, che sembra condizionare alla pronuncia di una sentenza di condanna, l’adozione della confisca facoltativa (come, del resto, anche quella obbligatoria, con l’unica eccezione della confisca dei beni dotati di intrinseca pericolosità, indicati nel n. 2 del comma 2 dell’art. 240: così Sez. U. 10.7.2008) e posto che, nel caso in esame, con riferimento al reato associativo in relazione al quale è stata adottata la confisca, alla condanna pronunciata in primo grado è seguita in appello sentenza di non doversi procedere per prescrizione – ha optato per la soluzione secondo cui la confisca può essere mantenuta.

Ha ritenuto di estendere al caso in esame, i principi affermati dalle Sezioni Unite “Lucci” n. 31617 del 26.6.2015, rv. 264434, secondo cui il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 1), la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato, a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio.

Per giungere a tale conclusione, i giudici del rinvio hanno argomentato la sostanziale identità funzionale delle due misure di sicurezza (confisca facoltativa del profitto del reato, da un lato, e, dall’altro, le diverse ipotesi della confisca obbligatoria del prezzo del reato e delle confische obbligatorie speciali riguardanti il profitto di determinati reati), attraverso un esame delle numerosissime modifiche normative in tema di confisca che sarebbero idonee a dimostrare che l’obbligatorietà della confisca del profitto del reato costituisce principio generale ricavabile dall’ordinamento, sicchè la confisca facoltativa del profitto di cui all’art. 240, comma 1 rappresenterebbe oggi l’espressione di un impianto normativo ormai superato.

Aggiunge la Corte territoriale che il legislatore, nel plasmare nel tempo varie forme di confisca obbligatoria, avrebbe suggerito una unificante “lettura specialpreventiva della scelta generalizzata di sterilizzazione del profitto del reato in capo al suo autore (come auspicato anche da S.U. De Maio) sicchè si imporrebbe, oggi, la “inevitabile applicazione della massima di esperienza secondo la quale la disponibilità del profitto del reato da parte del suo autore costituisce stimolo per la commissione di futuri reati”: massima tradotta dallo stesso legislatore, nella forma della presunzione iuris et de iure nei casi, appunto, di confisca obbligatoria del profitto di taluni reati.

In conclusione, secondo l’interpretazione accolta, la confisca del profitto dovrebbe essere esclusa solo in ipotesi necessariamente marginali, che è quello “di beni di scarsissimo valore”.

Pertanto, la Corte territoriale, ritenuto non esservi dubbi sulla natura di profitto del reato dei beni oggetto di confisca, ha qualificato il provvedimento ablativo di cui si discute come confisca facoltativa. Inoltre, ha rilevato che, nonostante la pronuncia di proscioglimento per sopravvenuta prescrizione del reato associativo, era comunque intervenuta una sentenza di condanna, “in senso sostanziale, se non formale”.

Ha anche rilevato la pericolosità intrinseca del denaro sequestrato, profitto di un reato commesso attraverso allarmanti modalità, che denotano “una marcata capacità a delinquere dell’imputato”, in grado di manifestarsi in futuro con altre forme ed in contesti diversi dall’attività di investigazione privata utilizzando proprio le ingenti disponibilità illecite accumulate con la commissione del reato associativo.

3. Avverso la sentenza della Corte ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, denunciando violazione di legge anche nella forma della motivazione assente, sotto tre profili.

3.1 Lamenta in primo luogo la erronea motivazione in ordine al tema, preliminare, della possibilità o meno di affermare che il reato di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., genera, autonomamente dai reati-fine, vantaggi economici, costituenti prodotto o profitto illecito, immediatamente riconducibili al sodalizio criminale, come tali suscettibili di confisca ex art. 240.

Cita, a sostegno della soluzione negativa, Sez. 1, n. 7860 del 20.1.2015, Meli, rv. 262758, sentenza che, oltretutto, si era avvalsa anche dell’approdo in sede convenzionale dato dalla sentenza Corte EDU del 29 ottobre 2013 nel caso Varvara c. Italia, per sostenere che l’estinzione del reato per prescrizione preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prodotto o il profitto, a prescindere dalla sua connotazione come obbligatoria o facoltativa, per la necessità di interpretare tassativamente il concetto di condanna quale presupposto dell’ablazione.

3.2 Quanto, poi, al tema della compatibilità prescrizione/confisca, il ricorrente lamenta la inappropriatezza della estensione dei principi affermati nella citata sentenza “Lucci”, per la decisiva ragione che tale decisione ha riguardato la confisca di una somma di denaro ritenuta “prezzo” del reato (di corruzione) e non “profitto”.

Rileva, al riguardo, che 1) il concetto di profitto – pure citato in tale arresto – è riferito, ex art. 322 ter, alle sole ipotesi di confisca obbligatoria e per equivalente, risultando, per tale ragione, non adattabile alla diversa ipotesi di confisca facoltativa, disciplinata dall’art. 240 c.p., comma 1; 2) solo con riferimento al prezzo del reato di corruzione è possibile affermare che il provvedimento ablativo non intacchi il patrimonio dell’agente, a differenza della confisca facoltativa, in cui l’incremento è assoggettato non solo alla valutazione della pertinenzialità, ma anche a quello del periculum; 3) il giudice del gravame non stabilisce cosa debba essere considerato “profitto del reato”, nozione che differisce a seconda del tipo di confisca, obbligatoria, per equivalente e facoltativa prevista dagli articoli più volte richiamati; 4) le stesse ipotesi di confisca prese in esame nella sentenza “Lucci” non sono omogenee, dovendosi distinguere la confisca per valore equivalente di cui all’art. 322 ter c.p., connotata da una dimensione afflittiva e da un rapporto conseguenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, e la confisca obbligatoria prevista dall’art. 240 c.p., comma 2, n. 2), a loro volta del tutto diverse dalla confisca facoltativa, di cui all’art. 240 c.p., comma 1, ed in ogni caso non applicabili al caso in esame.

Pone in evidenza, il ricorrente, che la Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento aveva stigmatizzato, ritenendoli inconferenti, i richiami alla sentenza “Lucci”, già operati dalla Corte territoriale milanese nella decisione annullata.

Più in generale, rileva che il principio di stretta legalità impedisce di estendere alla confisca facoltativa di cui all’art. 240 c.p., comma 1, i principi tassativamente previsti per tutte le ipotesi di confisca obbligatoria indicate dalla Corte territoriale.

Al di fuori dei casi specifici di confisca obbligatoria continua cioè ad operare la previsione della confisca facoltativa quale misura di sicurezza disciplinata dall’art. 240 c.p., comma 1, avente come presupposti una sentenza definitiva di condanna e l’accertamento di pertinenzialità tra il bene e il reato.

Neanche le norme sovranazionali, nell’interpretazione fornitane dalla CEDU, consentono di condividere l’impostazione della Corte territoriale: la sentenza CEDU relativa al caso “G.I.E.M. S.r.l.”, del 28.6.2018 – che pure pur ha confermato la compatibilità della confisca compatibile con una pronuncia prescrizione – era intervenuta in tema lottizzazione abusiva, vale a dire in un caso di confisca obbligatoria, anche secondo il nostro ordinamento.

Il ricorrente lamenta poi la scelta della Corte di territoriale di addossare all’imputato l’onere di dimostrare le ragioni della non confiscabilità di beni sottoposti a sequestro ma non oggettivamente pericolosi, con l’effetto paradossale di operare il passaggio della pericolosità dalla cosa al soggetto.

Costituirebbe violazione di legge la scelta della Corte territoriale – che pure ha ritenuto necessario individuare il rapporto di pertinenzialità tra il bene confiscato e il reato oggetto della condanna – di avvalersi del disposto dell’art. 578 bis c.p.p., norma che regola, in presenza di estinzione del reato per prescrizione, particolari ipotesi di confisca obbligatoria per i quali non è richiesto un rapporto di pertinenzialità: la norma in questione non può essere invocata, perchè opera con “specialità” in relazione ai casi disciplinati tassativamente dall’art. 240 bis c.p., tra i quali sono ricomprese esclusivamente le condotte associative ex art. 416 c.p., comma 6 e 7, non contestate al C..

3.3 Il terzo vizio di motivazione riguarderebbe poi l’esatta individuazione dell’utile che il ricorrente avrebbe tratto dalla partecipazione al sodalizio criminoso di cui al capo n. 1.

Come affermato dalla sentenza “Meli” e come ribadito da Sez. U n. 25291 del 27.2.2014, la partecipazione ad un’associazione a delinquere genera vantaggi economici per il reo, qualificabili come prodotto o profitto illecito, come tali confiscabili, solo se i suddetti vantaggi sono conseguenza del contributo prestato per assicurare il regolare funzionamento del sodalizio, rappresentando degli utili ulteriori, non coincidenti con quelli riferibili ai singoli reati-fine.

Del tutto carente sarebbe la motivazione della Corte territoriale nella individuazione del rapporto pertinenziale tra la confisca ed il reato per cui è stata disposta, ritenuto necessario dalla stessa sentenza “Lucci” più volte richiamata dallo stesso giudice del rinvio.

In definitiva il ricorrente contesta l’assoluta assenza dell’apparato motivazionale del provvedimento impugnato, che discende da una omessa risposta della Corte di Cassazione ai motivi di ricorso.

Nella sentenza di annullamento con rinvio, infatti, non sarebbe stata fornita risposta alle analitiche richieste su specifici temi pur devoluti, sicchè su di essi non può ritenersi formato il giudicato. Nel non prenderli in considerazione, nonostante fossero stati indicati anche con i “motivi nuovi” datati 7.11.2018, la Corte territoriale, che pure ne ha dato contezza nella premessa della sentenza impugnata, sarebbe venuta meno al suo dovere di autonoma valutazione di tutti gli elementi della fattispecie: la Corte territoriale non ha spiegato, in conclusione, per quale motivo i beni sequestrati al C. costituirebbero in concreto prodotto o profitto del reato oggetto di contestazione, ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1.

Per le ragioni illustrate il ricorrente chiede, in subordine all’annullamento senza o con rinvio, la rimessione alle Sezioni unite della questione inerente la possibilità o meno di procedere a confisca facoltativa ex art. 240 c.p., comma 1, in assenza di un provvedimento definitivo di condanna.

4. Con memoria depositata il 30.1.2020, il ricorrente reitera le proprie doglianze, con ulteriori riferimenti normativi e giurisprudenziali.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Rileva il Collegio che questione decisiva ed assorbente delle altre poste nel ricorso, sia quella inerente la legittimità o meno della confisca facoltativa diretta del profitto del reato ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1, in presenza di pronuncia di prescrizione, pur facente seguito a condanna di primo grado; altrimenti detto, quella del se la confisca facoltativa citata presupponga o meno un giudicato formale di condanna o, piuttosto, se la stessa possa semplicemente accedere ad un completo accertamento da parte del giudice del merito in ordine al profilo soggettivo e oggettivo del reato di riferimento, accertamento che può essere ribadito anche in una sentenza di proscioglimento per prescrizione.

La questione deve essere rimessa alle Sezioni unite, ai sensi sia del comma 1 che del comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p., in quanto, accedendo, come ha mostrato di fare plausibilmente la Corte territoriale, alla tesi secondo cui i principi espressi dalle Sez. II, Lucci in tema di confisca obbligatoria siano in realtà di natura generale e presentino l’attitudine, perciò, ad essere estesi anche alla ipotesi della confisca facoltativa di cui all’art. 240 c.p., comma 1, si perviene ad un risultato ermeneutico, rilevante per la fattispecie in esame, della cui legittimità, però, questo Collegio dubita fortemente.

Si investono, dunque, le Sezioni unite della richiesta di affermare, ove si riconoscesse carattere sistematico ai principi della sentenza appena citata, che gli stessi debbano essere superati o comunque circoscritti in modo da non operare con riferimento al caso specifico della confisca facoltativa diretta del profitto, in assenza di sentenza definitiva di condanna.

Ove fosse condivisa la premessa, peraltro, si registrerebbe già la presenza di una sentenza di legittimità in contrasto con i principi della sentenza Lucci, sicchè verrebbe in considerazione anche la ipotesi della rimessione per la attualità di contrasto giurisprudenziale.

2. Come si è detto sopra, il giudice del provvedimento impugnato ha fornito risposta positiva al quesito, applicando “in estensione” i principi di diritto affermati nella sentenza “Lucci” delle Sezioni Unite di questa Corte.

La operatività dei suddetti principi anche nel caso in esame si argomenterebbe in primo luogo dalla sentenza di annullamento della Corte di Cassazione, formulata non senza ma con rinvio.

Ma soprattutto, secondo i giudici a quibus, deriverebbe dallo stesso schema logico della sentenza “Lucci” delle Sezioni Unite, essendosi in essa valorizzata la natura preventiva che accomuna tanto la confisca obbligatoria del prezzo del reato, prevista dall’art. 240 c.p., comma 2, quanto la confisca obbligatoria del profitto del reato, nei casi, come quello contemplato dall’art. 322-ter c.p., in cui essa è frutto di una espressa ed unitaria scelta legislativa volta a sterilizzare tutte le utilità che talune specifiche figure di reato possono aver prodotto in capo al suo autore, “all’interno di un nucleo…unitario di finalità ripristinatoria dello status quo ante”.

Ebbene, se obbligatorietà della confisca nei casi appena menzionati apprezzata preventivamente dal legislatore – unitamente alla natura non sanzionatoria delle appena citate misure di sicurezza fanno si che non sia ritenuto necessario il formarsi di un giudicato formale sulla responsabilità penale, essendo sufficiente che sia intervenuta una sentenza “contenente l’accertamento pieno del reato e della responsabilità dell’imputato” (sentenza di condanna in senso sostanziale), anche se dichiarativa della prescrizione, ad analoga conclusione dovrebbe pervenirsi con riferimento alla fattispecie di confisca facoltativa riguardante il C..

Ed invero, relativamente al ricorrente, la Corte territoriale ha rilevato che nella sentenza di annullamento della Cassazione si rinviene la definizione del tema della responsabilità e di quello della qualificazione delle cose oggetto di confisca come profitto del reato di cui all’art. 416 c.p..

In conclusione, secondo la Corte territoriale, i principi affermati nella sentenza Lucci non sarebbero calibrati sulla natura obbligatoria della misura di sicurezza che ha dato origine al caso (prezzo del reato ex art. 240 c.p., comma 2, n. 1, e del profitto del reato ex art. 322 ter c.p.), quanto piuttosto sull’apprezzamento della finalità specialpreventiva delle dette ipotesi di confisca, rinvenibile anche in ipotesi diverse, compresa quella della confisca facoltativa del profitto.

Altrimenti detto, la finalità special preventiva, che si attua attraverso la sterilizzazione delle utilità del reato in capo al suo autore, non può certo dirsi estranea alla confisca del profitto ex art. 240 c.p., comma 1, mentre non dovrebbe rilevare che in essa difetti una presunzione iuris et de iure di pericolosità formulata dal legislatore.

2. Ritiene, tuttavia, il Collegio che l’esegesi compiuta dalla Corte territoriale, pur contenente un nucleo di intrinseca logicità, finisca per mettere in luce una possibile aporia del sistema delineato dalla sentenza delle Sezioni Unite Lucci, quando i relativi principi vengono collaudati con riferimento alla specifica fattispecie di confisca facoltativa diretta del profitto come regolata in via generale dall’art. 240 c.p., comma 1.

Dovrebbe, cioè, secondo il Collegio, essere attribuito valore specifico e differenziale alla disciplina della confisca facoltativa e diretta del profitto del reato come promanante dalla citata norma.

In tale ottica, appare utile premettere che i principi di diritto affermati nella sentenza “Lucci”, rappresentano un superamento di quelli sostenuti dai due precedenti approdi delle stesse Sezioni Unite, sul tema specificamente preso in considerazione: e cioè quello della interpretazione dell’art. 240 c.p., commi 1 e 2.

Nel primo di tali approdi, la sentenza n. 5 del 25.3.1993, Carlea, rv. 193120, infatti, si era affermata la preminenza, per specialità, del testo dell’art. 240 c.p. ai fini della individuazione dei presupposti per la disposizione della confisca. E si era concluso che la confisca ai sensi del comma 1 non potesse presupporre se non una sentenza formale di condanna, posti anche i limiti di accertamento insiti nella sentenza di prescrizione.

Nel secondo approdo, la sentenza n. 38834 del 10.7.2008, De Maio, rv. 240565, il principio veniva nuovamente sostenuto, questa volta con riferimento alla confisca del prezzo del reato, ritenuta subordinata alla sentenza di condanna, in ragione della scelta sistematica effettuata dal legislatore nell’art. 240. In tale sentenza tuttavia, si riconosceva la possibilità che il legislatore modulasse i poteri di accertamento del giudice, da attivare per verificare i presupposti applicativi della confisca, anche in presenza di una sentenza diversa da quella formale di condanna, rinvenendo tracce di un simile modello processuale sia all’interno del codice di rito (art. 578 e 425 c.p.p.), sia nella legislazione speciale (confisca edilizia D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 44). Si citava la sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2008 che aveva negato qualsiasi anomalia nell’esservi accertamento di responsabilità in una sentenza di proscioglimento per prescrizione.

La sentenza n. 31617 del 26.6.2015, Lucci, rv. 264434, pur non volendosi distaccare da una interpretazione dell’art. 240 fedele al testo di legge, ha aperto ad una lettura del presupposto della “condanna” – ove previsto dalla norma – in senso non più soltanto formale, ma sostanziale. Da intendersi come potere di accertamento, rivendicato in capo al giudice anche a prescindere da una formale attribuzione da parte del legislatore nella materia de qua, e compatibile col sistema processuale e sostanziale vigente. Un accertamento condotto in concreto dal giudice del merito che, a tal fine, attiva dapprima i poteri che gli hanno consentito di giungere ad una affermazione piena di responsabilità con la sentenza di condanna di primo grado e poi, quegli stessi accertamenti consolida in occasione della pronuncia proscioglitiva per prescrizione.

Nel far ciò, la sentenza Lucci ha propugnato una lettura tendenzialmente unificante della misura di sicurezza patrimoniale obbligatoria – sia del profitto negli speciali casi previsti dal legislatore, che del prezzo del reato – in ragione della comune finalità, traendo spunti dalla giurisprudenza della CEDU e della Corte costituzionale per sostenere, quale principio elevabile a minimo comun denominatore, quello secondo cui il presupposto della confisca rappresentato dalla necessità di una condanna è fungibile con quello rappresentato dall’accertamento di responsabilità, anche in presenza di un proscioglimento per prescrizione.

Senonchè, proprio nella ricerca del precedente capace di offrire copertura con un principio di carattere generale, la sentenza Lucci ha operato essa stessa una “estensione” commentata problematicamente da taluni autori: pur trattando essenzialmente il tema della confisca del prezzo del reato, individuandone i connotati nella obbligatorietà e nel presupposto della condanna, le Sezioni Unite hanno utilizzato direttamente e applicato principi interpretativi che la giurisprudenza CEDU (sentenza sul caso Varvara contro Italia del 2013) ma soprattutto la Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015) avevano plasmato (in punto di interpretazione del presupposto della “condanna” come requisito di accertamento sostanziale di responsabilità) con riferimento alla ipotesi della confisca per lottizzazione abusiva di cui al citato art. 44.

Una ipotesi di confisca diversa, non tanto perchè qualificata dalla Corte Europea come dotata di natura sanzionatoria, ma soprattutto perchè declinata espressamente dal legislatore con riferimento al presupposto non già della “condanna” ma dell'”accertamento” della responsabilità, dunque sganciato testualmente dal dato formale della formula conclusiva del processo, e così correttamente ritenuto, senza frizioni col principio di legalità.

In definitiva la peculiarità della sentenza delle Sezioni Unite Lucci, per quanto qui di interesse, sta nell’avere riportato i principi interpretativi sostanzialistici accreditati in sede convenzionale e costituzionale per sostenere la confisca-sanzione di cui all’art. 44 anche in caso di prescrizione, alla confisca-misura di sicurezza avente ad oggetto il prezzo del reato. Ciò, in virtù di una sorta di rapporto di continenza, dove ciò che vale per il caso più “grave” (confisca-sanzione penale), non può non valere per il caso “meno grave” (confisca-misura di sicurezza), tenuto conto del fondamentale punto di contatto fra le due fattispecie, rappresentato dall’apprezzamento preventivo della pericolosità del bene ablato, tradotta nella “obbligatorietà” di entrambe le misure; sia pure col non secondario correttivo che la prescrizione dovesse seguire ad un accertamento pieno di primo grado.

Ma se questa riflessione è corretta, vi è da domandarsi se, con riferimento al caso che ci occupa e cioè alla confisca facoltativa diretta del profitto del reato, possa ravvisarsi fondamento giuridico nel procedere ad una ulteriore applicazione estensiva – quella sostenuta dal giudice a quo – di una precedente interpretazione che era già essa stessa estensiva, essendo, le materie disciplinate, niente affatto omogenee se non altro per essere l’una confisca facoltativa e l’altra obbligatoria.

Come già osservato ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità (per quanto ci riguarda, a partire dalla sentenza “Carlea”), la confisca si presenta come un istituto non riconducibile ad una dimensione unitaria, se non sotto il profilo dell’effetto concreto da essa prodotto, mentre, con riferimento alle condizioni per la sua applicazione ed alle finalità perseguite con tale misura, deve aversi riguardo alla disciplina predisposta per le singole ipotesi di confisca che possono essere disposte per motivi diversi e coesistere in modelli diversi. Possono infatti essere indirizzate a varie finalità, sì da assumere natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero di misura giuridica civile o amministrativa.

Conseguentemente, l’apertura delle Sezioni Unite Lucci alla interpretazione non formalistica del presupposto della “condanna” relativamente alla confisca obbligatoria del prezzo del reato e del prezzo o profitto di determinate ipotesi di reato elencate nell’art. 322-ter c.p., dovrebbe incontrare un ostacolo – all’atto dell’essere trasferita sulla confisca facoltativa del profitto del reato disciplinata dall’art. 240 c.p., comma 1, – nel principio di legalità, oggetto di tutela costituzionale anche in riferimento alle misure di sicurezza (per una affermazione di principio in tal senso, v. Sez. 6, n. 232219 del 2019 e, sul principi di legalità, in motivazione, Sez. 1, n. 7860 del 20 gennaio 2015).

Come sopra anticipato, non appare secondaria la circostanza, che, a differenza dell’art. 44 citato che pone all’interprete, quale presupposto della confisca obbligatoria, il solo requisito dell'”accertamento” soggettivo e oggettivo in tema di lottizzazione edilizia, l’art. 240, comma 1, per la confisca facoltativa del profitto richieda invece testualmente versarsi nel “caso di condanna”: e cioè in presenza di una specifica conclusione processuale che connota di sè la fattispecie come riconoscibile dal destinatario del precetto.

A ciò va aggiunto che la motivazione che il giudice deve rendere in tema di confisca facoltativa del profitto – come anche del prodotto o della cosa che servì o fu destinata a commettere il reato – si basa su una valutazione prognostica riguardo alla idoneità incentivante al delitto che possa riconoscersi nel mantenimento del possesso di tali beni, i quali non sono caratterizzati da intrinseca pericolosità già ritenuta dal legislatore (a differenza che nei casi di cui all’art. 240, comma 2, dove, in particolare, il prezzo del reato attiene direttamente ai motivi di commissione di esso): una valutazione, dunque, in cui in cui il bilanciamento tra il diritto di proprietà e la finalità socialpreventiva della confisca, non risolto preventivamente ex lege, si connota di una valenza anche punitiva da connettersi solo alla condanna definitiva.

D’altra parte, la garanzia che la confisca avvenga sulla base di un accertamento della responsabilità dell’imputato in ordine al reato e della relazione di pertinenzialità del profitto – accertamento che sia rimasto immutato nei successivi gradi del giudizio -, una volta che sia stato collegato dal legislatore alla “condanna”, non può, sempre in virtù del principio di legalità e di prevedibilità, essere sostituito dall’accertamento raggiunto in primo grado e posto in discussione dai motivi di appello, in ipotesi anche di natura istruttoria. Motivi che la ormai maturata prescrizione sacrifica, lasciando al giudice il solo potere di motivazione approfondito in relazione alla misura di sicurezza.

Il tema della specialità delle confische sostanzia, del resto, i due recenti interventi normativi che hanno portato alla formulazione del novello art. 578-bis c.p.p. (D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 4; L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 4, lett. f)): norma che, sulla falsariga dello schema dell’art. 578 c.p.p., disciplina l’obbligo per il giudice della impugnazione che dichiarino il reato estinto per prescrizione (o per amnistia) di decidere ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato.

Non, tuttavia, in ogni ipotesi di confisca, ma solo con riferimento a ipotesi di confisca obbligatoria specificamente enunciate (ex art. 240-bis c.p., comma 1 ed ex art. 322-ter c.p.).

Una scelta, quella del legislatore, che ha evidentemente inteso recepire e quindi consolidare gli approdi raggiunti fino a quel momento dalla giurisprudenza, tuttavia mostrando, con la tecnica redazionale della norma, improntata al criterio della specialità, di volere evitare di formalizzare un principio generale, estensibile anche ad ipotesi sostanzialmente diverse da quelle espressamente prese in considerazione. E il principio non sembrerebbe posto in dubbio neppure dalla recente decisione delle Sezioni Unite del 24 ottobre 2019, che ha dato soluzione affermativa al quesito sulla applicabilità del predetto modello di accertamento anche in caso di prescrizione dichiarata dal giudice della impugnazione relativamente al reato di lottizzazione abusiva (cioè reato non espressamente ricompreso nell’art. 578-bis). Infatti, per la confisca obbligatoria prevista dall’art. 44 l’accreditamento del predetto modello non ha necessità di passare attraverso l’art. 578-bis bensì discende da una interpretazione convenzionalmente conforme del precetto (il riferimento è a sentenza CEDU del 28 giugno 2018, GIEM ed altri contro Italia, che l’ha legittimato).

L’aspetto sul quale questo Collegio ritiene di dover marcare il proprio dissenso è dunque quello di una interpretazione generalizzante della decisione delle Sezioni Unite “Lucci”, che, viceversa, hanno elaborato le loro tesi attorno ad una peculiare tipologia di confisca, fortemente connotata dalla funzione specialpreventiva di sterilizzare tutte le utilità prodotte dal reato in capo al suo autore.

Una funzione, infatti, che, nell’interpretazione proposta dalle Sezioni Unite e nel bilanciamento con diritti fondamentali dell’individuo, come il diritto di proprietà e di iniziativa economica, è stata ritenuta prevalente con riferimento alla speciale tipologia di provvedimento ablativo obbligatorio considerato, ma che, proprio per tale peculiarità non sembra poter divenire criterio univoco di interpretazione in malam partem, anche laddove quel bilanciamento sia operabile partendo da presupposti diversi.

E che la funzione socialpreventiva comune alla confisca facoltativa del profitto e a quella obbligatoria del prezzo del reato non possa valere ad esaurire il tema del rapporto fra le due misure, rendendole sovrapponibili quanto a disciplina applicativa, è dimostrato anche dal fatto che solo la seconda viene ritenuta, dal legislatore, compatibile col decreto penale di condanna (art. 460 c.p.p., comma 2).

Come ricordato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019 in tema di confisca di prevenzione, l’applicazione della misura ablativa non può non tenere conto del compendio di garanzie che la Costituzione (artt. 41 e 42) e le Carte internazionali dei diritti umani (art. 1 Prot. add. Cedu) accordano ai suddetti diritti, tra le quali va annoverata la garanzia della legalità, ossia l’esistenza di una previsione di legge, che consenta al destinatario della misura limitativa del diritto di prevederne la futura possibile applicazione.

Si rimette pertanto il ricorso alle Sezioni Unite, in ordine al quesito indicato in premessa.

PQM

Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2020.

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