Cass. Civile, Sez. Un., 27 gennaio 2025 n. 1898
Ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla lettura del testo dell’art. 2901, primo comma, cod. civ., il quale subordina la dichiarazione di inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal debitore in pregiudizio alle ragioni del creditore alle seguenti condizioni: 111) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione”.
La tesi del dolo generico attribuisce portata non decisiva alla differente formulazione delle due parti di cui si compone il n. 1 della norma in esame, osservando che la stessa non richiede, ai fini della configurabilità della dolosa preordinazione, che il debitore abbia agito con la specifica intenzione di danneggiare i creditori, ma solo che abbia posto in essere l1atto nella consapevolezza di pregiudicarne le ragioni, ed escludendo quindi, in entrambe le ipotesi da essa contemplate, la necessità sia dell’animus nocendi, ovverosia di “una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore“.
In realtà, la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, primo comma, cod. civ. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato .
La seconda espressione implica pertanto una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso.
L’utilizzazione di due espressioni aventi un significato completamente differente nell’ambito della medesima disposizione appare tutt’altro che casuale, se solo si tiene conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, proprio con riguardo all’azione revocatoria, precedentemente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942.
Nel Codice civile del 1865, la medesima azione era infatti disciplinata dallo art. 1235, il quale, oltre a prevedere (almeno secondo l’opinione prevalente) soltanto la revocabilità degli atti dispositivi posti in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito, la subordinava alla condizione che gli stessi fossero stati “fatti in frode” delle ragioni dei creditori.
Il significato di tale espressione era controverso, ritenendosi da parte di alcuni autori che con la stessa il legislatore avesse inteso fare riferimento all’intenzione di recare danno ai creditori (c.d. animus nocendi), e da parte di altri che avesse voluto invece richiedere, ai fini dell’accoglimento della domanda, la mera coscienza del pregiudizio arrecato ai creditori, attraverso la creazione o l’aggravamento di una situazione d’insolvibilità (c.d. scientia damni). Alla fine prevalse la seconda tesi, in virtù della considerazione che l’individuazione del presupposto soggettivo della revocatoria nell’animus nocendi avrebbe comportato un eccessivo restringimento dei limiti di operatività dell’azione, impedendo alla stessa di svolgere efficacemente la propria funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale.
Tale indirizzo trovò accoglimento anche in sede di redazione del Codice vigente, il quale, tuttavia, ha ampliato l’ambito applicativo dell’azione, ammettendone l’esercizio anche nei confronti degli atti dispositivi posti in essere anteriormente al sorgere del credito, ma differenziandone il presupposto soggettivo da quello richiesto ai fini della revocatoria degli atti posti in essere successivamente, nel senso che, mentre per la dichiarazione d’inefficacia di questi ultimi è necessaria soltanto la prova della “conoscenza del pregiudizio” arrecato alle ragioni dei creditori, per quella dei primi occorre la prova della “dolosa preordinazione” al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito. In quanto adottata nella piena consapevolezza dei contrasti insorti in ordine all’interpretazione della disciplina previgente, la formulazione letterale dello art. 2901, primo comma, cod. civ. non può dar luogo ad equivoci, testimoniando chiaramente la volontà del legislatore di regolare in maniera diversa il profilo soggettivo delle due fattispecie da esso contemplate, attraverso l’introduzione di una disciplina più restrittiva per la revocatoria degli atti compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito: diversamente, infatti, la norma si sarebbe limitata a chiarire che l’azione era proponibile anche contro gli atti dispositivi compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito, richiedendo per entrambe le ipotesi la prova della consapevolezza da parte del debitore della dell’incidenza dell’atto sulla consistenza quantitativa o qualitativa del proprio patrimonio, e quindi sulla garanzia generica dei creditori, senza fare alcun riferimento alla necessità di un disegno fraudolento, volto a sottrarre il bene alienato o vincolato all’azione esecutiva del creditore o a rendere più difficile il soddisfacimento del suo credito .
La differenza esistente tra la pura e semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori e la volontà di danneggiarli mediante il compimento dell’atto dispositivo era stata d’altronde già colta dalla dottrina in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice civi le del 1942, anche se ne era stata sminuita la portata concreta: premesso infatti che il consilium fraudis presuppone ad un tempo la rappresentazione dell’effetto dannoso dell’atto e la volontà di porlo ugualmente in essere, si era osservato che nella gestione del proprio patrimonio il debitore non tiene normalmente conto dell’interesse del creditore, ma agisce come se lo stesso non esistesse, e si era pertanto concluso che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, non era necessaria una specifica intenzione di danneggiare il creditore o determinati creditori, ma era sufficiente la coscienza, da parte del debitore, di determinare o accrescere la propria insolvenza, attraverso il compimento dell’atto dispositivo, mettendo quindi il proprio patrimonio in condizione di non poter offrire ai creditori la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte .
La necessità di un quid pluris, sotto il profilo soggettivo, era invece emersa in giurisprudenza, proprio nell’ambito di un orientamento volto a ricondurre nell’ambito applicativo dell’azione revocatoria anche gli atti dispositivi anteriori al sorgere del credito: nel dichiarare ammissibile la domanda proposta dal primo acquirente di un immobile a tutela del credito risarcitorio vantato nei confronti del venditore, il quale aveva successivamente alienato il medesimo bene ad un terzo, che aveva reso inattaccabile il proprio acquisto mediante la tempestiva trascrizione, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti ritenuto che l’azione potesse essere esercitata anche nel caso in cui l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto “con l’obliquo intento di rendere vano il credito che stava per sorgere”, non essendovi ragione di negare tutela al soggetto rimasto danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis. (cfr. Cass., Sez. Un., 22/12/1930, n. 3669).
Al di là dei profili collegati all’interpretazione letterale e storico-sistematica della norma in esame, la scelta tra l’una e l’altra tesi impone peraltro d’interrogarsi anche in ordine alle conseguenze che l’accoglimento di una concezione più o meno restrittiva del consilium fraudis può produrre nei rapporti tra le parti dell’obbligazione ed in quelli con i terzi che siano entrati in contatto con le stesse, nonché, più in generale, sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici.
L’identificazione dell’elemento soggettivo della revocatoria nella mera consapevolezza da parte del debitore del pregiudizio arrecato i creditori comporta infatti un’indubbia dilatazione dei margini di operatività dell’istituto, già alquanto estesi per effetto dell’opinione comune, che ritiene configurabile il presupposto dell’eventus damninon solo in presenza di una compromissione totale della consistenza del patrimonio del debitore, ma anche a fronte di una variazione quantitativa o qualitativa dello stesso tale da rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito .
Tale dilatazione, che si traduce naturalmente in un rafforzamento della tutela dei diritti dei creditori, si pone tuttavia in contrasto con la natura eccezionale che l’azione revocatoria viene ad assumere nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: in quanto avente la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi su beni che hanno cessato di far parte del patrimonio del debitore prima dell’insorgenza dell’obbligazione, essa costituisce una deroga al principio generale, sancito dall’art. 2740, primo comma, cod. civ., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento “con tutti suoi beni presenti e futuri”, cioè con quelli esistenti nel suo patrimonio alla data in cui è sorta l’obbligazione e con quelli che abbia acquistato in epoca successiva, e non anche con quelli di cui al la predetta data avesse già cessato di essere titolare.
Questa esclusione trova giustificazione nella considerazione che, nel momento in cui entra in contatto con il debitore, il creditore è perfettamente in grado di rendersi conto dell’attuale consistenza e composizione del suo patrimonio, nonché di apprezzarne l’idoneità a garantire il soddisfacimento del credito in caso d’inadempimento: può quindi ritenersi ragionevole che l’esercizio dell’azione revocatoria resti limitato all’ipotesi, avente carattere ordinario, in cui il debitore abbia disposto dei propri beni in epoca successiva, nella consapevolezza del pregiudizio in tal modo arrecato al creditore, nonché a quella, eccezionale, in cui l’atto dispositivo, pur essendo stato posto in essere in epoca anteriore, costituisca attuazione di un disegno volto a disfarsi dei propri beni, proprio in vista dell’assunzione di quello specifico debito.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. A.A., creditore di B.B., in virtù di un assegno bancario dell’importo di Euro 100.000,00 emesso il 30 settembre 2008 e rimasto insoluto, convenne in giudizio la debitrice e l’Immofinanziaria Srl, per sentir dichiarare inefficaci, ai sensi dell’art. 2901 cod. civ., un atto di compravendita stipulato il 16 settembre 2008 ed un atto integrativo stipulato il 6 ottobre 2008, con cui la B.B. aveva alienato all’Immofinanziaria cinque beni immobili, costituenti il suo intero patrimonio immobiliare, verso il corrispettivo di Euro 490.000,00, nonché una quietanza rilasciata il 20 ottobre 2008, attestante il pagamento del prezzo.
Si costituì l’Immofinanziaria, e resistette alla domanda, sostenendo che la compravendita era anteriore al sorgere del credito, e negando la dolosa preordinazione dell’atto a pregiudicare i diritti dei creditori, nonché la propria consapevolezza di tale intenzione.
Il giudizio, dichiarato interrotto a causa della dichiarazione di fallimento della società convenuta, fu riassunto nei confronti del curatore, il quale si costituì.
1.1. Con sentenza del 15 maggio 2015, il Tribunale di Roma rigettò la domanda.
2. L’impugnazione proposta dal A.A. è stata accolta dalla Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 27 luglio 2021 ha dichiarato inefficaci gli atti impugnati.
A fondamento della decisione, la Corte ha escluso che l’atto impugnato fosse anteriore al sorgere del credito, ritenendo non provato che l’assegno prodotto a sostegno della domanda fosse stato consegnato in sostituzione di un altro emesso il 15 settembre 2008 ed incluso tra gli atti di un procedimento penale pendente presso la Procura della Repubblica di Bari: rilevato infatti che quest’ultimo aveva un importo diverso e non recava l’indicazione del beneficiario, ha rilevato che dagli atti non emergevano altri elementi, aggiungendo che soltanto in comparsa conclusionale era stato dedotto che la fonte dell’obbligazione era costituita da un accordo transattivo concluso con il coniuge della B.B. Premesso inoltre che, rispetto ai quattro immobili già indicati nel contratto del 16 settembre 2008, l’atto integrativo del 6 ottobre 2008 non aveva portata novativa, avendo il medesimo oggetto ed essendo volto soltanto a specificarne gli estremi catastali, ha ritenuto che esso avesse efficacia traslativa esclusivamente in ordine al quinto bene in esso riportato, ed ha quindi concluso che soltanto per quest’ultimo la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2901 cod. civ. doveva essere accertata sulla base della disciplina relativa agli atti posteriori al sorgere del credito.
Ritenuto poi che, ai fini della sussistenza dell’eventus damni, è sufficiente che l’atto impugnato comporti una variazione quantitativa o qualitativa del patrimonio del debitore, tale da rendere più incerto o difficile il soddisfacimento del credito, ha rilevato che la B.B., rimasta contumace, non aveva adempiuto l’onere, ad essa incombente, di provare l’effettiva disponibilità di un patrimonio residuo idoneo ad essere assoggettato ad esecuzione.
Precisato inoltre che, quando l’atto dispositivo è anteriore al sorgere del credito, per la sussistenza dell’animus nocendi non occorre il dolo specifico, ossia la consapevole volontà di arrecare pregiudizio ai creditori, ma è sufficiente il dolo generico, cioè la previsione di tale pregiudizio, mentre la participatio fraudis del terzo può essere accertata anche mediante il ricorso a presunzioni, laddove, quando l’atto è successivo al sorgere del credito, è sufficiente la consapevolezza del medesimo pregiudizio, ha osservato che, avendo l’atto ad oggetto la contestuale disposizione di una pluralità di beni, l’esistenza e la consapevolezza del pregiudizio dovevano considerarsi in re ipsa. Ha aggiunto che la conoscenza del pregiudizio da parte del terzo poteva essere desunta anche dalla documentazione prodotta, da cui emergeva che il 14 ottobre 2008 l’attore aveva inviato via fax all’Immofinanziaria copia dello assegno bancario emesso dalla B.B., il 20 ottobre 2008 era stata formalizzata la quietanza di pagamento del prezzo residuo, in anticipo rispetto alla data prevista, e la dilazione del pagamento non era accompagnata dal rilascio di alcuna garanzia, avendo la venditrice rinunciato all’ipoteca legale.
3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il curatore del fallimento DELL’IMMOFINANZIARIA in liquidazione, per quattro motivi, illustrati anche con memoria. A.A. ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria. La B.B. non ha svolto attività difensiva.
La causa è stata avviata alla trattazione dinanzi alla Terza Sezione civile, che con ordinanza interlocutoria del 27 novembre 2023 ha trasmesso gli atti alla Prima Presidente, la quale ne ha disposto l’assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della risoluzione di un contrasto di giurisprudenza riguardante la natura generica o specifica del dolo del debitore richiesto dall’art. 2901, primo comma, cod. civ. ai fini della revocatoria degli atti di disposizione patrimoniale anteriori al sorgere del credito.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2901, primo comma, nn. 1 e 2 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo ritenuto che l’atto di compravendita fosse anteriore al sorgere del credito, ha considerato sufficiente, per la sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, la mera consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori, anziché la dolosa preordinazione dell’atto a tale scopo. Premesso che ai fini di tale preordinazione occorre che l’atto di disposizione sia stato posto in essere dall’autore per precostituirsi una situazione d’insolvenza, in vista della successiva assunzione di un’obbligazione, sostiene che, oltre al dolo specifico del debitore, è necessario quello generico del terzo, consistente nella conoscenza dell’intenzione del debitore e del piano da lui ordito.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2901 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto provati il consilium fraudis della debitrice e la participatio fraudis del terzo sulla base di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Premesso che, nel dare atto della mancata dimostrazione della disponibilità di un patrimonio residuo sufficiente per il soddisfacimento dell’obbligazione, la Corte territoriale ha riferito tale requisito allo elemento oggettivo, anziché a quello soggettivo, ponendo la relativa prova a carico delle convenute, senza tenere conto dell’accertamento già compiuto al riguardo dal Giudice di primo grado, sostiene che la sentenza impugnata ha erroneamente applicato ad entrambi gli atti impugnati una presunzione riferibile esclusivamente a quelli posteriori al sorgere del credito. Precisato infatti che per gli atti anteriori la vendita contestuale di una pluralità d’immobili non riveste valore sintomatico di un disegno frodatorio, in assenza di un’esatta conoscenza della composizione del patrimonio del debitore, afferma l’irrilevanza, a tal fine, sia della scansione temporale della vicenda che delle modalità di versamento del prezzo della compravendita, osservando inoltre che gli altri elementi considerati si riferivano ad un periodo di tempo successivo alla stipulazione dell’atto. Rilevato inoltre che il contratto di compravendita era stato preceduto dalla stipulazione di un preliminare, avvenuta svariati mesi prima, quando l’assunzione dell’obbligazione nei confronti dell’attore non era ancora prevedibile, afferma che la Corte territoriale ha omesso di verificare se l’Immofinanziaria fosse a conoscenza dei rapporti pregressi tra la B.B. ed il A.A., avendo conferito rilievo al fax inviato da quest’ultimo alla società acquirente, senza considerare che lo stesso era successivo alla stipulazione del contratto.
3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1351, 1401, 1402, 1403, 1404 e 2901 cod. civ., nonché l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, ribadendo che l’atto di compravendita era stato stipulato in adempimento dell’obbligo assunto con un preliminare per persona da nominare, stipulato dalla B.B. con la Iside 1 Srl il 18 aprile 2008, e seguito in data 31 luglio 2008 dalla designazione e dall’accettazione della Immofinanziaria, e sostenendo che la sussistenza dell’eventus damni avrebbe dovuto essere valutata in riferimento alla data di stipulazione del contratto definitivo, mentre il consilium fraudis avrebbe dovuto essere valutato in riferimento alla data di stipulazione del preliminare. Aggiunge che la Corte territoriale non ha tenuto conto di elementi idonei ad escludere la sussistenza di un intento fraudolento delle parti, ed in particolare della congruità del prezzo della compravendita, del pagamento dell’intero prezzo e dell’estinzione, con lo stesso, di vincoli precedentemente gravanti sui beni.
4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e degli artt. 1362, 2697 e 2901 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver attribuito all’atto del 6 ottobre 2008 efficacia traslativa del quinto immobile nello stesso indicato, con la conseguente valutazione dell’elemento soggettivo della revocatoria sulla base della disciplina relativa agli atti posteriori al sorgere del credito. Sostiene infatti che, nell’interpretazione dell’atto, la Corte territoriale non ha tenuto conto del chiaro tenore letterale dello stesso, recante la conferma delle condizioni precedentemente concordate, ivi compreso il prezzo, la cui mancata variazione confermava la natura sostanziale dell’atto, volto ad integrare quello di compravendita, nel quale era stata omessa per mero errore materiale l’indicazione di uno dei beni.
5. Così riassunte le censure proposte dal ricorrente, non merita accoglimento l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa del controricorrente, secondo cui, attraverso l’apparente deduzione dei vizi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. l’impugnazione mira in realtà a sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita al Giudice di legittimità.
Il curatore del fallimento non si limita infatti a prospettare una ricostruzione della vicenda diversa da quella risultante dalla sentenza impugnata, ma lamenta l’omessa valutazione di circostanze emerse dal dibattito processuale, puntualmente indicate, proponendo inoltre quattro distinte questioni di diritto, aventi ad oggetto, rispettivamente, a) l’individuazione dell’elemento soggettivo necessario ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria, nel caso in cui abbia ad oggetto un atto dispositivo anteriore al sorgere del credito, b) la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza necessari per il riconoscimento di valore indiziario agli elementi utilizzati ai fini dell’accertamento del predetto presupposto, c) l’individuazione della data da assumere come riferimento ai fini della predetta valutazione, e d) l’osservanza dei criteri ermeneutici legali nell’interpretazione dell’atto di compravendita stipulato dalla B.B. con l’Immofinanziaria. L’articolazione delle censure risulta pertanto conforme alla natura del ricorso per cassazione, quale mezzo d’impugnazione a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi, i quali, assumendo una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi previste dal codice di rito, devono necessariamente riflettere vizi riconducibili alle categorie logiche tassativamente elencate dall’art. 360 cod. proc. civ., e non possono quindi risolversi in una mera critica dell’apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice di merito (cfr. Cass., Sez. VI, 14/05/2018, n. 11603; 22/09/2014, n. 19959; Cass., Sez. V, 28/11/2014, n. 25332).
6. Venendo quindi all’esame del primo motivo, si osserva che la Terza Sezione civile, nel rimettere gli atti alla Prima Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ha rilevato che con riguardo all’individuazione dell’elemento soggettivo della revocatoria, nell’ipotesi in cui la stessa abbia ad oggetto un atto dispositivo anteriore al sorgere del credito, coesistono nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti, che identificano il consilium fraudis rispettivamente nella dolosa preordinazione dell’atto alla compromissione del soddisfacimento del credito e nella mera previsione del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori.
Secondo il primo orientamento, finora prevalente, mentre nel caso in cui l’azione revocatoria abbia ad oggetto atti posteriori al sorgere del credito, ad integrare l’elemento soggettivo è sufficiente la semplice conoscenza da parte del debitore e del terzo acquirente del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (atteggiamento psicologico denominato, con terminologia mutuata dalla dottrina penalistica, “dolo generico”), nel caso in cui essa abbia ad oggetto atti anteriori al sorgere del credito è richiesta, quale condizione per l’esercizio dell’azione, la dolosa preordinazione dell’atto da parte del debitore al fine di compromettere il soddisfacimento del credito (si parla in tal caso di “dolo specifico”), nonché, ove si tratti di atto a titolo oneroso, la partecipazione del terzo a tale pregiudizievole programma (cfr. Cass., Sez. III, 7/06/2023, n. 16092; 15/11/2016, n. 23205; 19/09/2015, n. 18315; Cass., Sez. II, 20/02/2015, n. 3461; Cass., Sez. I, 9/05/2008, n. 11577; 21/ 09/2001, n. 11916). Occorre cioè che l’autore dell’atto, alla data della sua stipulazione, avesse l’intenzione di contrarre debiti oppure fosse consapevole del sorgere della futura obbligazione, e che lo stesso soggetto abbia compiuto l’atto dispositivo appunto in funzione del sorgere dell’obbligazione, per porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto (cfr. Cass., Sez. I, 27/02/1985, n. 1716). In riferimento alla posizione del terzo acquirente, si richiede poi, ai fini della configurabilità della participatio fraudis, prescritta dall’art. 2901, primo comma, n. 2 cod. civ. per il caso in cui si tratti di atto a titolo oneroso, la conoscenza della dolosa preordinazione dell’atto ad opera del disponente rispetto al credito futuro, la quale presuppone anche la conoscenza da parte del terzo dello specifico credito per cui è proposta l’azione, non necessaria invece nel caso di atto successivo al sorgere del credito, per la quale si ritiene sufficiente la mera consapevolezza da parte del terzo della diminuzione della garanzia generica, derivante dalla riduzione della consistenza patrimoniale del debitore (cfr. Cass., Sez. III, 15/10/2021, n. 28423; Cass., Sez. VI, 3/12/2014, n. 25614; Cass., Sez. I, 5/07/2013, n. 16825).
Un altro indirizzo, sviluppatosi più recentemente, sostiene invece che, anche nel caso in cui l’atto impugnato sia anteriore al sorgere del credito, non è necessaria la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore, ma è sufficiente la semplice coscienza, da parte del primo, del pregiudizio arrecato al secondo (cfr. Cass., Sez. III, 4/09/2023, n. 25687; 27/ 02/2023, n. 5812; 15/10/2010, n. 21338; 7/10/2008, n. 24757). In altri termini, non è richiesta la volontà del debitore di contrarre debiti, ovvero la consapevolezza da parte sua del sorgere della futura obbligazione, né il compimento dell’atto allo specifico fine di impedire o ostacolare l’attuazione coattiva del diritto del creditore, ma è sufficiente la mera previsione del pregiudizio arrecato ai creditori, da intendersi anche quale mero pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo) per il creditore (cfr. Cass., Sez. III, 23/9/2004, n. 19131).
Come segnala l’ordinanza interlocutoria, la diversa definizione dell’elemento soggettivo della fattispecie si ripercuote, sul piano processuale, oltre che sull’individuazione dell’oggetto dell’onere probatorio incombente sull’attore in revocatoria, anche sulla delimitazione dell’ambito del giudizio, nel senso che, proprio in virtù dell’identificazione del consilium fraudis nell’intento di arrecare pregiudizio al creditore, si è ritenuto che, una volta proposta un’azione revocatoria ordinaria, fondata sull’assunto che il debitore abbia compiuto l’atto dispositivo prima del sorgere del debito, costituisce inammissibile mutamento della domanda la deduzione, in corso di causa, che l’atto dispositivo sia stato compiuto dopo il sorgere del debito, comportando la stessa un allargamento del thema probandum, giacché nel primo caso l’attore ha l’onere di provare il dolo specifico del debitore, cioè la dolosa preordinazione di un intento fraudolento, mentre nel secondo caso può limitarsi a provarne il solo dolo generico, cioè la generica consapevolezza di nuocere alle ragioni del creditore (cfr. Cass., Sez. III, 29/05/2013, n. 13446). Benché non si rinvenga, nella giurisprudenza di legittimità, un’esplicita affermazione contraria, appare invece evidente che, ove si accolga la tesi secondo cui ai fini della dichiarazione d’inefficacia è sufficiente in entrambi i casi la mera consapevolezza del pregiudizio arrecato al creditore, l’allegazione nel corso del giudizio dell’avvenuto compimento dell’atto dispositivo in epoca successiva, anziché anteriore, all’insorgenza del credito non può considerarsi preclusa, non comportando l’introduzione di un nuovo tema d’indagine, completamente diverso da quello originariamente dedotto, e non traducendosi quindi in un’alterazione dei termini sostanziali della controversia, tale da determinare la lesione del diritto di difesa del debitore.
6.1. Ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla lettura del testo dell’art. 2901, primo comma, cod. civ., il quale subordina la dichiarazione d’inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal debitore in pregiudizio alle ragioni del creditore alle seguenti condizioni: “1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione”.
La tesi del dolo generico attribuisce portata non decisiva alla differente formulazione delle due parti di cui si compone il n. 1 della norma in esame, osservando che la stessa non richiede, ai fini della configurabilità della dolosa preordinazione, che il debitore abbia agito con la specifica intenzione di danneggiare i creditori, ma solo che abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza di pregiudicarne le ragioni, ed escludendo quindi, in entrambe le ipotesi da essa contemplate, la necessità sia dell’animus nocendi, ovverosia di “una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore”, sia, nel caso di atto a titolo oneroso, della conoscenza da parte del terzo dello specifico credito di cui l’atto dispositivo è volto a pregiudicare la soddisfazione (cfr. a quest’ultimo riguardo, Cass., Sez. III, 14/05/2024, n. 13265, cit.; Cass., Sez. II, 3/05/ 2010, n. 10623; Cass., Sez. I, 25/10/2007, n. 22365). Nella sua formulazione più compiuta, la tesi in esame esclude finanche la necessità della volontà del debitore di contrarre debiti o la consapevolezza da parte sua del sorgere della futura obbligazione, ritenendo sufficiente la mera “previsione dell’insorgenza del debito e del pregiudizio… per il creditore”, da intendersi anche quale mero pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante o quale maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo (cfr. Cass., Sez. III, 7/10/2008, n. 24757, cit.), e ciò sostanzialmente in linea con l’opinione di un’autorevole dottrina, che ai fini dell’assoggettabilità dell’atto alla revocatoria richiede che il debitore a) abbia previsto il sorgere del credito, b) abbia voluto sottrarre il bene all’azione esecutiva del debitore, e c) abbia previsto che le ragioni del futuro creditore rimarranno pregiudicate. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la riproposizione di tale assunto si risolve nella tralatizia affermazione della sufficienza del dolo generico, da intendersi quale generica consapevolezza di nuocere alle ragioni del creditore (cfr. Cass., Sez. III, 4/09/2023, n. 25687; 27/02/2023, n. 5812; 28/07/2014, n. 17096; 15/10/2010, n. 21338), accompagnata per lo più dal richiamo ai precedenti giurisprudenziali conformi, nonché, talvolta, dalla segnalazione dell’esigenza di una “diversa misura dell’intenzione fraudolenta”, rispetto a quella richiesta nel caso in cui l’atto dispositivo sia successivo al sorgere del credito, senza però che venga precisato in che cosa debba consistere la supposta maggiore intensità del dolo richiesto (cfr. Cass., Sez. III, 14/05/2024, n. 13265).
6.2. In realtà, la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, primo comma, cod. civ. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato. La seconda espressione implica pertanto una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso.
6.3. L’utilizzazione di due espressioni aventi un significato completamente differente nell’ambito della medesima disposizione appare tutt’altro che casuale, se solo si tiene conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, proprio con riguardo all’azione revocatoria, precedentemente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942.
Nel Codice civile del 1865, la medesima azione era infatti disciplinata dallo art. 1235, il quale, oltre a prevedere (almeno secondo l’opinione prevalente) soltanto la revocabilità degli atti dispositivi posti in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito, la subordinava alla condizione che gli stessi fossero stati “fatti in frode” delle ragioni dei creditori: il significato di tale espressione era controverso, ritenendosi da parte di alcuni autori che con la stessa il legislatore avesse inteso fare riferimento all’intenzione di recare danno ai creditori (c.d. animus nocendi), e da parte di altri che avesse voluto invece richiedere, ai fini dell’accoglimento della domanda, la mera coscienza del pregiudizio arrecato ai creditori, attraverso la creazione o l’aggravamento di una situazione d’insolvibilità (c.d. scientia damni). Alla fine prevalse la seconda tesi, in virtù della considerazione che l’individuazione del presupposto soggettivo della revocatoria nell’animus nocendi avrebbe comportato un eccessivo restringimento dei limiti di operatività dell’azione, impedendo alla stessa di svolgere efficacemente la propria funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale.
Tale indirizzo trovò accoglimento anche in sede di redazione del Codice vigente, il quale, tuttavia, ha ampliato l’ambito applicativo dell’azione, ammettendone l’esercizio anche nei confronti degli atti dispositivi posti in essere anteriormente al sorgere del credito, ma differenziandone il presupposto soggettivo da quello richiesto ai fini della revocatoria degli atti posti in essere successivamente, nel senso che, mentre per la dichiarazione d’inefficacia di questi ultimi è necessaria soltanto la prova della “conoscenza del pregiudizio” arrecato alle ragioni dei creditori, per quella dei primi occorre la prova della “dolosa preordinazione” al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito. In quanto adottata nella piena consapevolezza dei contrasti insorti in ordine all’interpretazione della disciplina previgente, la formulazione letterale dello art. 2901, primo comma, cod. civ. non può dar luogo ad equivoci, testimoniando chiaramente la volontà del legislatore di regolare in maniera diversa il profilo soggettivo delle due fattispecie da esso contemplate, attraverso l’introduzione di una disciplina più restrittiva per la revocatoria degli atti compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito: diversamente, infatti, la norma si sarebbe limitata a chiarire che l’azione era proponibile anche contro gli atti dispositivi compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito, richiedendo per entrambe le ipotesi la prova della consapevolezza da parte del debitore della dell’incidenza dell’atto sulla consistenza quantitativa o qualitativa del proprio patrimonio, e quindi sulla garanzia generica dei creditori, senza fare alcun riferimento alla necessità di un disegno fraudolento, volto a sottrarre il bene alienato o vincolato all’azione esecutiva del creditore o a rendere più difficile il soddisfacimento del suo credito.
6.4. La differenza esistente tra la pura e semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori e la volontà di danneggiarli mediante il compimento dell’atto dispositivo era stata d’altronde già colta dalla dottrina in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, anche se ne era stata sminuita la portata concreta: premesso infatti che il consilium fraudis presuppone ad un tempo la rappresentazione dell’effetto dannoso dell’atto e la volontà di porlo ugualmente in essere, si era osservato che nella gestione del proprio patrimonio il creditore non tiene normalmente conto dell’interesse del creditore, ma agisce come se lo stesso non esistesse, e si era pertanto concluso che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, non era necessaria una specifica intenzione di danneggiare il creditore o determinati creditori, ma era sufficiente la coscienza, da parte del debitore, di determinare o accrescere la propria insolvenza, attraverso il compimento dell’atto dispositivo, mettendo quindi il proprio patrimonio in condizione di non poter offrire ai creditori la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte.
La necessità di un quid pluris, sotto il profilo soggettivo, era invece emersa in giurisprudenza, proprio nell’ambito di un orientamento volto a ricondurre nell’ambito applicativo dell’azione revocatoria anche gli atti dispositivi anteriori al sorgere del credito: nel dichiarare ammissibile la domanda proposta dal primo acquirente di un immobile a tutela del credito risarcitorio vantato nei confronti del venditore, il quale aveva successivamente alienato il medesimo bene ad un terzo, che aveva reso inattaccabile il proprio acquisto mediante la tempestiva trascrizione, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti ritenuto che l’azione potesse essere esercitata anche nel caso in cui l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto “con l’obliquo intento di rendere vano il credito che stava per sorgere”, non essendovi ragione di negare tutela al soggetto rimasto danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis. In proposito, era stato richiamato anche l’art. 194 del Codice penale da poco approvato ed in procinto di entrare in vigore, il quale prevedeva che potessero essere dichiarati inefficaci, rispetto ai crediti indicati nell’art. 189, gli atti a titolo gratuito posti in essere dal colpevole prima del reato, purché fosse stato provato che erano stati compiuti in frode, e gli atti a titolo oneroso eccedenti la semplice amministrazione ovvero la gestione dell’ordinario commercio, a condizione che fosse provata anche la mala fede dell’altro contraente (cfr. Cass., Sez. Un., 22/12/1930, n. 3669).
Non può quindi meravigliare che, nell’estendere l’ambito applicativo della revocatoria anche agli atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito, anche il legislatore del 1942 abbia avvertito l’esigenza di subordinarne l’esercizio ad un presupposto soggettivo più rigoroso di quello richiesto per la dichiarazione d’inefficacia degli atti successivi: in tal senso depone chiaramente la Relazione del Ministro guardasigilli, nella quale, dopo essere stato evidenziato che “l’azione non è sempre legata all’anteriorità del credito rispetto all’atto che s’impugna; anche quando l’atto è anteriore al sorgere del credito l’azione è ammissibile, se l’atto è dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito stesso”, viene richiamato il principio precedentemente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, precisandosi che “la deroga al principio dell’anteriorità del credito è giustificata dalla particolare nota di perversità che caratterizza in questo caso il consilium fraudis”.
6.5. Al di là dei profili collegati all’interpretazione letterale e storico-sistematica della norma in esame, la scelta tra l’una e l’altra tesi impone peraltro d’interrogarsi anche in ordine alle conseguenze che l’accoglimento di una concezione più o meno restrittiva del consilium fraudis può produrre nei rapporti tra le parti dell’obbligazione ed in quelli con i terzi che siano entrati in contatto con le stesse, nonché, più in generale, sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici.
L’identificazione dell’elemento soggettivo della revocatoria nella mera consapevolezza da parte del debitore del pregiudizio arrecato ai creditori comporta infatti un’indubbia dilatazione dei margini di operatività dell’istituto, già alquanto estesi per effetto dell’opinione comune, che ritiene configurabile il presupposto dell’eventus damni non solo in presenza di una compromissione totale della consistenza del patrimonio del debitore, ma anche a fronte di una variazione quantitativa o qualitativa dello stesso tale da rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito (cfr. Cass., Sez. III, 14/07/2023, n. 20232; Cass., Sez. VI, 18/06/2019, n. 16221; Cass., Sez. II, 3/02/2015, n. 1902). Tale dilatazione, che si traduce naturalmente in un rafforzamento della tutela dei diritti dei creditori, si pone tuttavia in contrasto con la natura eccezionale che l’azione revocatoria viene ad assumere nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: in quanto avente la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi su beni che hanno cessato di far parte del patrimonio del debitore prima dell’insorgenza dell’obbligazione, essa costituisce una deroga al principio generale, sancito dall’art. 2740, primo comma, cod. civ., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento “con tutti i suoi beni presenti e futuri”, cioè con quelli esistenti nel suo patrimonio alla data in cui è sorta l’obbligazione e con quelli che abbia acquistato in epoca successiva, e non anche con quelli di cui alla predetta data avesse già cessato di essere titolare. Questa esclusione trova giustificazione nella considerazione che, nel momento in cui entra in contatto con il debitore, il creditore è perfettamente in grado di rendersi conto dell’attuale consistenza e composizione del suo patrimonio, nonché di apprezzarne l’idoneità a garantire il soddisfacimento del credito in caso d’inadempimento: può quindi ritenersi ragionevole che l’esercizio dell’azione revocatoria resti limitato all’ipotesi, avente carattere ordinario, in cui il debitore abbia disposto dei propri beni in epoca successiva, nella consapevolezza del pregiudizio in tal modo arrecato al creditore, nonché a quella, eccezionale, in cui l’atto dispositivo, pur essendo stato posto in essere in epoca anteriore, costituisca attuazione di un disegno volto a disfarsi dei propri beni, proprio in vista dell’assunzione di quello specifico debito.
A ciò si aggiunga che l’accoglimento della revocatoria è inevitabilmente destinato ad incidere sulle posizioni giuridiche di una pluralità di soggetti (oltre al debitore, il terzo acquirente ed eventuali subacquirenti, nonché i loro creditori) i cui interessi vanno tenuti debitamente in conto, nell’ambito di un opportuno bilanciamento con quello dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale: proprio a tutela delle predette posizioni, e quindi della sicurezza degli scambi, il legislatore ha subordinato l’accoglimento della domanda all’ulteriore condizione che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse partecipe della dolosa preordinazione, cioè a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro (cfr. Cass., Sez. III, 18/09/2015, n. 18315; Cass., Sez. I, 9/05/2008, n. 11577; 21/09/ 2001, n. 11916), ed ha disposto, all’art. 2903 cod. civ., che l’azione revocatoria si prescriva in cinque anni dal compimento dell’atto, ovverosia in un termine breve, anziché in quello di dieci anni ordinariamente previsto per i diritti di credito.
6.6. In conclusione, il quesito proposto dalla Terza Sezione civile può essere risolto mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto:
“In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dallo art. 2901, primo comma, cod. civ. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro”.
Alla stregua di tale principio, non può condividersi la sentenza impugnata, la quale, conformandosi all’orientamento minoritario della giurisprudenza di legittimità precedentemente richiamato, ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’accertamento del consilium fraudis, la prova della mera previsione, da parte della debitrice, del pregiudizio arrecato al creditore, astenendosi dall’indagare in ordine all’intento specificamente perseguito dalla B.B. attraverso il compimento dell’atto ed all’eventuale conoscenza di tale intento da parte dell’Immofinanziaria, terza acquirente degl’immobili alienati. In proposito, la Corte d’appello si è limitata per un verso ad evidenziare l’oggetto dell’atto dispositivo, costituito dal contestuale trasferimento di una pluralità di beni, reputandolo di per sé idoneo a comprovare la scientia damni della debitrice, e per altro verso a dare atto della corrispondenza intercorsa tra il creditore e la terza acquirente, con cui il primo aveva portato a conoscenza della seconda l’esistenza del credito vantato nei confronti della venditrice, nonché dell’anticipato pagamento del corrispettivo, non accompagnato dal rilascio di alcuna garanzia, desumendone la participatio fraudis da parte DELL’IMMOFINANZIARIA. La mera consapevolezza, da parte di quest’ultima e della B.B., del pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore non poteva tuttavia considerarsi sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda, giacché, trattandosi di atto compiuto in epoca anteriore al sorgere del credito, del quale il A.A. sarebbe potuto venire agevolmente a conoscenza mediante l’uso dell’ordinaria diligenza al momento dell’emissione dell’assegno da parte della debitrice, sarebbe occorsa la prova che l’alienazione dei propri beni costituisse attuazione da parte della B.B. di un disegno fraudolento, noto anche all’Immofinanziaria, volto a porsi in una situazione d’impossidenza, proprio in vista dell’assunzione del debito nei confronti del A.A.
7. La sentenza impugnata va pertanto cassata, in accoglimento del primo motivo, restando assorbiti gli altri motivi, riguardanti rispettivamente la valenza indiziaria degli elementi addotti a sostegno del consilium fraudis del debitore e della participatio fraudis del terzo, l’individuazione della data da assumere come riferimento ai fini della valutazione dei presupposti dell’azione, e la qualificazione dell’atto integrativo stipulato tra la debitrice ed il terzo, nella parte concernente l’immobile non indicato nell’originario atto di compravendita.
La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’Appello di Roma, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.