IMPORTANTI CHIARIMENTI SUL DANNO DA PERDITA DI CHANCE CONFIGURABILE SOLO IN CASO DI INELIMINABILE INCERTEZZA MA QUANDO IL GIUDIZIO PROBABILISTICO E’ POSSIBILE E NON SUPERA LA SOGLIA DEL PIU’ PROBABILE CHE NON

Cass. civile, Sez. III, 27 luglio 2024, n. 21045

 

Il danno da perdita di chance è danno distinto da quello da perdita definitiva del vantaggio atteso non perché connotato da minore gradiente causale o probatorio, ma per ragioni legate alla sua stessa essenza.

Chance, infatti, non è soltanto la possibilità di conseguire un risultato vantaggioso (ovvero di evitarne uno sfavorevole), perchè il termine implica anche e soprattutto incertezza e l’incertezza è la cifra che connota, come dato essenziale, il concetto anche nelle sue declinazioni giuridiche.

L’essenza della figura è, dunque, rappresentata da una condizione di insuperabile incertezza eventistica.

La chance (tanto di carattere patrimoniale quanto non patrimoniale) resta confinata nelle relazioni incerte tra eventi non interdipendenti, in quanto non causalmente collegati da una “legge di connessione”.

Per converso se una tale connessione è possibile non si ricade più nel campo della chance ma in quello della relazione causale tra condotta ed evento di danno (inteso come lesione piena ed effettiva dell’interesse avuto di mira). Nel caso della responsabilità professionale dell’avvocato cui si imputa una condotta diligente non è configurabile un danno da perdita di chance perchè è certamente possibile, in astratto, formulare , in un senso o nell’altro, un giudizio prognostico sulle aspettative di successo del mandato difensivo sulla base delle leggi e dei principi applicabili al caso, sebbene in termini di mera probabilità).

La responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente, con la conseguenza che la mancanza di elementi probatori, atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell’attività del prestatore d’opera, induce ad escludere l’affermazione della responsabilità del legale, in quanto, la responsabilità dell’esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone.

L’inadempimento è solo uno degli elementi che compongono il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno. Esso connota la condotta causativa del danno in termini di disvalore, in quanto violativa dell’obbligo contrattualmente assunto, e dunque idonea a costituire criterio di imputazione soggettiva del danno, ma non coincide certo con il danno risarcibile (danno conseguenza), e ancor prima non vale di per sé a dimostrare nemmeno l’esistenza di un evento di danno, ossia della lesione dell’interesse presupposto a quello contrattualmente regolato: evento legato alla condotta da nesso di causalità materiale ma da essa naturalisticamente distinto, come dimostra l’art. 1227 c.c., primo comma, che disciplina proprio il fenomeno della causalità materiale rispetto al danno evento sotto il profilo del concorso del fatto colposo del creditore.

Se nelle obbligazioni di dare o facere non professionale il danno evento può considerarsi provato già dall’inadempimento, poiché quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto (si parla in tal caso di “assorbimento pratico” della causalità materiale nell’inadempimento, ma sarebbe più appropriato parlare di “prova evidenziale”, poiché quel che accade in questi casi è che la stessa fattispecie legale sta a dimostrare ex se il nesso causale, senza però che per tal motivo si possa negare, concettualmente e naturalisticamente, la relazione tra due fatti che restano distinti), nelle obbligazioni di diligenza professionale (qual è quella per cui è causa), dove l’interesse corrispondente alla prestazione (resistenza nel giudizio promosso per la declaratoria della cessazione del contratto di locazione e il rilascio dell’immobile) è solo strumentale all’interesse primario del creditore (permanenza nell’immobile), causalità ed imputazione per inadempimento tornano a distinguersi anche sul piano funzionale, ossia della prova, e non solo su quello strutturale, perché il danno evento consta non della lesione dell’interesse alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, ma della lesione dell’interesse presupposto a quello contrattualmente regolato.

Il diritto al risarcimento sorge poi – va ribadito – solo in presenza di un danno conseguenza, distinto a sua volta dal danno evento e ad esso legato da un nesso di causalità giuridica (art. 1223 cod. civ.), da verificare secondo i medesimi criteri probabilistici.

 

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, rubricato “violazione degli artt. 101112115116126130132 n. 4, 168 c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.”, la ricorrente si duole della ritenuta irrilevanza della mancata acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado, il quale – assume – conteneva le risultanze dei mezzi istruttori che avevano portato il Tribunale a condannare in primo grado l’Avv. B.B.

Sostiene che:

– La lettura integrale degli atti, dei documenti e dei verbali di udienza avrebbe consentito alla Corte di avere una visione piena e completa dei fatti oggetto di causa, non potendo essere considerato sufficiente il loro richiamo parziale ed incompleto negli atti di parte;

– La Corte incorre in una evidente contraddizione per avere prima ritenuto che le risultanze istruttorie di cui al giudizio di primo grado non incidono sulla sua motivazione, salvo poi sostenere che nel giudizio di primo grado essa avrebbe dovuto fornire la prova del fatto che la negligenza dell’Avv. B.B. sia stata l’unica causa della sua soccombenza in giudizio;

– Con i testimoni escussi in primo grado era stata provata la “ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza di quella condotta colpevole”;

– in particolare, all’udienza del 12 maggio 2009 erano stati escussi i testi C.C., + Altri Omessi, i quali avevano confermato ogni circostanza allegata dalla ricorrente sia in ordine alla condotta tenuta dall’Avv. B.B., sia in ordine alle linee difensive imposte dall’Avv. B.B.;

– il teste D.D. aveva dichiarato di aver accompagnato la ricorrente presso lo studio dell’Avv. B.B. nell’estate del 2004 e in tale occasione il professionista aveva dettato alla propria cliente una dichiarazione, imponendole di redigere tale documento, perché parte della linea difensiva che solo lui avrebbe dovuto stabilire;

– l’Avv. E.E. aveva confermato di avere inviato la richiesta di pagamento delle spese di lite all’Avv. B.B., il quale però non ne informava la ricorrente che si vedeva quindi costretta a subire anche l’aggravio di spese per il precetto;

– Era stato dimostrato che il contratto di locazione era orale e non registrato e pertanto lo stesso era pacificamente nullo ai sensi dell’art. 1, comma 346, L. n. 311 del 2004, e tale nullità, se fosse stata eccepita dall’Avv. B.B., avrebbe comportato il rigetto della domanda di risoluzione proposta da controparte nel giudizio locatizio;

– L’Avv. B.B. aveva anche omesso di informare la ricorrente dell’esito del giudizio e della possibilità di impugnare in appello la sentenza di primo grado n. 2743 del 25 ottobre 2005 del Tribunale di Bologna, proprio sul punto della nullità del contratto di locazione non registrato, con le note conseguenze anche ai fini del diritto alla ripetizione dell’indebito;

– Risultava dai verbali di causa che di tutte tali circostanze, come anche delle trattative avviate con il legale della controparte, l’avvocato aveva omesso di informare la cliente.

2. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

2.1. L’acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., non costituisce condizione essenziale per la validità del giudizio d’appello, con la conseguenza che la relativa omissione non determina un vizio del procedimento o della sentenza di secondo grado, bensì, al più, il vizio di difetto di motivazione, ove venga specificamente prospettato che da detto fascicolo il giudice d’appello avrebbe potuto o dovuto trarre elementi decisivi per la decisione della causa, non rilevabili aliunde ed esplicitati dalla parte interessata (Cass. 4/04/2019, n. 9498Cass. 30/03/2022, n. 10164; 17/04/2023, n. 10202, Rv. 667389).

Nel caso di specie la Corte d’appello non ha attribuito rilievo di per sé dirimente alla mancata acquisizione del fascicolo d’ufficio, né da essa ha fatto discendere alcuna conseguenza pregiudizievole per le parti del processo (il che avrebbe certamente comportato una patente violazione delle regole processuali: v. Cass. 24/03/2023, n. 8506, Rv. 667108), ma ben diversamente, ha rilevato che, da un lato, gli elementi di giudizio da esso desumibili erano tutti pacificamente esposti negli atti introduttivi del giudizio di appello e, dall’altro, tali elementi non valevano comunque a dimostrare la riconducibilità causale al dedotto inadempimento dei danni di cui l’attrice/appellata aveva chiesto il risarcimento.

2.2. Tale motivazione non è certamente tacciabile di intrinseca irrisolvibile contraddittorietà, come sostiene la ricorrente deducendo, tra i vari vizi oggetto di contestuali sovrapposte censure, anche la violazione dell’art. 132, secondo comma, num. 4, cod. proc. civ.

È del tutto chiaro, infatti, che la mancata prova del nesso causale tra inadempimento e danno non è affermata in sentenza a motivo della mancata acquisizione del fascicolo di primo grado ma, ben diversamente, perché gli elementi traibili da quel fascicolo, comunque aliunde acquisiti al giudizio, quella prova non erano in grado di offrire.

2.3. L’assunto secondo cui dai verbali di causa avrebbero potuto e dovuto desumersi elementi idonei a confermare l’esistenza anche di un nesso causale tra inadempimento e danno si risolve – alla stregua del principio sopra ricordato – nella prospettazione di un vizio di omesso esame ex art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., che però come tale si appalesa inammissibile: a) con riferimento a tutte le circostanze indicate, perché generico e inosservante degli oneri di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ.; b) per talune, in sovrappiù, anche per la loro evidente non decisività.

2.3.1. In tal senso, mette conto precisare che la nullità del contratto di locazione non avrebbe potuto affermarsi, ai sensi dell’evocato art. 1, comma 346, L. n. 311 del 2004, per la sua mancata registrazione, essendo pacificamente riferito che il contratto ebbe inizio anteriormente alla sua entrata in vigore (v. Cass. 28/12/2016, n. 27169, Rv. 642348; v. anche, in motivazione, Cass. 3/04/2009, n. 8148Cass. Sez. U. 17/09/2015, n. 18213Cass. 2/03/2018, n. 4920). Essa, piuttosto, avrebbe dovuto e potuto essere rilevata, anche d’ufficio, ai sensi degli artt. 1, comma 4, e 13, comma 1, l. n. 431 del 1998, perché non stipulato in forma scritta (V. Cass. Sez. U. 17/09/2015, n. 18214, Rv. 636227).

Ciò però non avrebbe potuto giovare alla posizione della odierna ricorrente nella controversia cui era riferito il mandato professionale, avendo questa pacificamente ad oggetto la pretesa di controparte di ottenere il rilascio dell’immobile, rilascio al quale, evidentemente, anche in presenza di un contratto nullo, essa avrebbe avuto ugualmente diritto.

2.3.2. Quanto poi alla dedotta mancata informazione circa l’esito del giudizio (circostanza idonea a dimostrare una negligenza causalmente efficiente non rispetto alla soccombenza, ma rispetto all’aggravio delle spese di precetto) e circa l’esistenza di trattative avviate con il legale della controparte (anche questa circostanza potenzialmente idonea a dimostrare l’esistenza di un danno causalmente correlabile all’omissione ove dagli elementi pretesamente ricavabili dai verbali emergessero anche i termini di tale trattativa), risulta assorbente il rilievo già dianzi esposto della aspecificità dell’allegazione, quanto alla indicazione degli elementi che, a riprova di tali omissioni, avrebbero potuto trarsi dal fascicolo di primo grado non acquisito.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., “violazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.”.

Lamenta che la Corte d’appello abbia mancato di considerare che dalla sentenza passata in giudicato resa nel giudizio cui è riferita la dedotta responsabilità professionale dell’avvocato emergeva la prova che la Corte d’Appello ha ritenuto mancante.

In tale sentenza era, infatti, espressamente affermato che, a fronte della domanda di sfratto e risoluzione per finita locazione avanzata dalla proprietaria dell’immobile, la resistente, pur avendo contestato la natura transitoria del rapporto, non si era costituita tempestivamente, così decadendo dalle prove, e lasciando cristallizzare la situazione allegata da controparte.

4. Il motivo è inammissibile, sotto più profili.

In disparte l’inosservanza anche in tal caso dell’onere di specifica indicazione del documento richiamato, è certamente da escludere che da quella sentenza potesse ricavarsi alcun giudicato vincolante nel presente giudizio, sia perché reso inter alios, sia perché reso su questione del tutto diversa da quella che costituisce oggetto del presente giudizio.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia “violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1176 comma 2, 2230, 2236 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.”.

Dalla illustrazione del motivo si traggono i seguenti argomenti:

i) La tardiva costituzione ha negato la chance di provare la sussistenza di un contratto di locazione ascrivibile alla fattispecie di cui all’art. 5 L. n. 431 del 1998;

ii) La motivazione della sentenza resa nella causa di sfratto lascia intravedere la possibilità che la tempestiva costituzione in giudizio avrebbe potuto determinare un esito completamente diverso;

iii) Se solo l’Avv. B.B. avesse provato che tra la Sig.ra A.A. e la Sig.ra F.F. era stato concluso un autonomo contratto di locazione a decorrere dal febbraio 2004, avrebbe trovato applicazione l’art. 5 della L. 431 del 1998;

iv) Tale prova avrebbe potuto agevolmente essere fornita se fosse stato ammesso il capitolo di prova formulato nell’atto di costituzione e risposta, il quale così recitava: “vero che la signora A.A. ha preso possesso dell’immobile posto in via (Omissis) a B nel febbraio 2004 e che in base al contratto verbale in essere tra le parti lo stesso doveva avere termine il 28.02.06. Si indica a teste la Sig.ra C.C. res.te ad A (F)”;

v) L’Avv. B.B. non ha in alcun modo fornito una valida giustificazione circa la propria negligente condotta, essendosi limitato ad una mera difesa negativa;

vi) Tale condotta processuale è inidonea a superare la presunzione di responsabilità insistente sul professionista ai sensi dell’art. 1218 c.c.; se è vero che il cliente è tenuto a dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra inadempimento e danno, è altresì vero che il professionista è tenuto a dimostrare che l’inesatta prestazione derivi da causa a lui non imputabile;

vii) Parte resistente non ha provato di aver tempestivamente richiesto il nome dei soggetti da indicare quali testi, di aver correttamente reso edotta la propria cliente circa il termine entro cui avrebbe dovuto fornire la documentazione, e ogni ulteriore elemento utile ai fini della difesa, di aver provveduto alla costituzione in giudizio tardivamente a causa di una qualche condotta della propria assistita;

viii) La Corte d’appello ha omesso di considerare che, sin dal proprio atto di citazione, essa aveva chiaramente specificato di non essere mai stata contattata dall’Avv. B.B., il quale ha deciso in totale autonomia la strategia processuale;

ix) La Corte d’appello ha errato sia nella concreta applicazione, ai fini della individuazione del nesso di causalità, della regola del più probabile che non, sia nella concreta applicazione, ai fini dell’individuazione della perdita di chance, della regola individualizzante la perdita della possibilità di conseguire il risultato utile;

x) La Corte d’appello desume la mancata prova del nesso causale dal fatto che non sono stati indicati nell’atto di citazione i nomi dei testi e le circostanze sulle quali avrebbero dovuto essere ascoltati, non tenendo conto del fatto che i mezzi istruttori possono essere articolati anche nel termine di cui all’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ.;

xi) La Corte di merito ha omesso di considerare che, per ragioni rimaste ignote, l’Avv. B.B. aveva arbitrariamente deciso di produrre un certificato medico attestante false condizioni di salute della propria assistita, alla quale aveva detto di non presenziare all’udienza del 31 marzo 2005 perché la sua presenza non era necessaria;

6. Il motivo è inammissibile sotto plurimi profili.

6.1. È anzitutto palese la sovrapposizione di censure del tutto eterogenee.

Il motivo cumula al suo interno deduzioni in fatto ed in diritto e la sua formulazione – del tutto mancante di una seppur minima articolazione degli argomenti di critica (l’elencazione sopra proposta essendo il risultato di una opera di estrapolazione di alcune proposizioni da un testo che, da pag. 23 a pag. 37 del ricorso, si sviluppa senza interruzioni di alcun tipo e quasi senza capoversi) – non permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato, così rimettendo a questa Corte il compito di isolare e qualificare le singole censure, al fine di decidere successivamente su di esse, e pertanto la censura, articolata come motivo misto, è inammissibile (v. Cass., Sez. U, 6/05/2015, n. 9100; v. anche Cass. 17/05/2023, n. 13542Cass., 23/09/2011, n. 19443Cass., sez. n. 15242 del 12/09/2012n. 9793 del 23/04/2013).

Quand’anche si potesse prescindere da tale rilievo, occorrerebbe comunque rilevare quanto segue.

6.2. La massima parte degli argomenti di critica (sopra sintetizzati ai nn. i, ii, iii, iv, vii, viii) ha consistenza meramente fattuale e oppositiva rispetto alla valutazione di merito operata dai giudici d’appello nel senso della mancanza di elementi idonei a dar prova di un nesso causale tra la dedotta e pur ritenuta condotta inadempiente dell’avvocato e il danno dedotto.

Lungi dall’evidenziare le affermazioni contenute in sentenza che rivelino una erronea impostazione qualificatoria, sotto i profili indicati, della fattispecie così come accertata, le censure intendono investire proprio tale accertamento di fatto, sollecitandone una inammissibile revisione in questa sede, peraltro anche in termini inosservanti dell’onere di cui agli artt. 366 n. 6 c.p.c. oltre che alla stregua di argomenti in qualche caso del tutto generici (nn. i, ii), in altri palesemente inconferenti (nn. iii, iv, vii, viii, x, xi) avuto riguardo a quanto sopra s’è detto circa l’irrilevanza del tema della nullità del contratto rispetto all’esito della lite e alla pluralità di argomenti che costituiscono la ratio decidendi.

6.3. La prospettazione della causa petendi in termini di danno da perdita di chance, oltre a introdurre inammissibilmente un tema ontologicamente diverso da quello trattato nel giudizio di merito, non può comunque trovare spazio nella fattispecie.

Giova rammentare al riguardo che quello da perdita di chance è danno distinto da quello da perdita definitiva del vantaggio atteso non perché connotato da minore gradiente causale o probatorio, ma per ragioni legate alla sua stessa essenza.

Chance, infatti, è bensì (soltanto) la possibilità di conseguire un risultato vantaggioso (ovvero di evitarne uno sfavorevole), ma il termine implica anche e soprattutto incertezza e l’incertezza è la cifra che connota, come dato essenziale, il concetto anche nelle sue declinazioni giuridiche.

L’essenza della figura è, dunque, rappresentata da una condizione di insuperabile incertezza eventistica.

La chance (tanto di carattere patrimoniale quanto non patrimoniale) resta confinata nelle relazioni incerte tra eventi non interdipendenti, in quanto non causalmente collegati da una “legge di connessione”.

Per converso se una tale connessione è possibile (e nel caso di specie era certamente possibile, in astratto, formulare, in senso o nell’altro, un giudizio prognostico sulle aspettative di successo del mandato difensivo sulla base delle leggi e dei principi applicabili al caso, sebbene in termini di mera probabilità) non si ricade più nel campo della chance ma in quello della relazione causale tra condotta ed evento di danno (inteso come lesione piena ed effettiva dell’interesse avuto di mira) (v. sul tema, con riferimento alla perdita di chance a carattere non patrimoniale, ma con argomenti spendibili anche in ambito patrimoniale: Cass. 11/11/2019, n. 28993, e, prima ancora, Cass. 9/03/2018, n. 5641Cass. 19/03/2018, n. 6688; v. anche Cass. 7/10/2021, n. 27287Cass. 26/01/2022, n. 2261; v. anche per un caso analogo, da ultimo, Cass. 21/05/2024, n. 14163).

In tal senso va ricordato che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo cui “la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente” (Cass. n. 10966 del 2004n. 34787 del 2022), con la conseguenza che “la mancanza di elementi probatori, atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell’attività del prestatore d’opera, induce ad escludere l’affermazione della responsabilità del legale, in quanto, la responsabilità dell’esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone” (v., ex multis, Cass. n. 11901 del 2002, citata in sentenza; n. 9917 del 2010; n. 22376 del 2012; n. 2638 del 2013; n. 1984 del 2016; n. 25112 del 2017; n. 13873 del 2020; n. 4655 del 2021; n. 33466 del 2022).

6.4. Sotto altro profilo occorre, peraltro, anche rammentare che quello sul detto nesso causale è giudizio – da compiere, come detto, sulla base di una valutazione necessariamente probabilistica – che è riservato al giudice di merito, con decisione non sindacabile da questa Corte se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., ratione temporis vigente.

È vero, infatti, che, nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la motivazione del giudice di merito in ordine alla valutazione prognostica circa il probabile esito dell’azione giudiziale è una valutazione connotata da un contenuto giuridico, fondata cioè su di una previsione probabilistica di contenuto tecnico giuridico, ma nel giudizio di responsabilità professionale dell’avvocato tale valutazione, ancorché in diritto, assume i connotati di un giudizio di merito, il che esclude che questa Corte possa essere chiamata a controllarne l’esattezza in termini giuridici (in tal senso, Cass. 13/02/2014, n. 3355, secondo cui “nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell’azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione”; v. anche, in senso conforme, Cass. 20/08/2015, n. 17016; 28/06/2016, n. 13292; 8/11/2016, n. 22606; 26/09/2017, n. 22420; 20/03/2018, n. 6862; 26/06/2018, n. 16803; 12/07/2018, n. 18455; 14/11/2022, n. 33466; 25/07/2023, n. 22451).

6.5. Gli argomenti di critica sopra sintetizzati ai nn. v, vi postulano che una volta provato l’inadempimento o l’inesatto adempimento del convenuto, sarebbe spettato a lui l’onere di provare l’assenza di nesso causale tra l’inadempimento medesimo e il danno.

A prescindere dal fatto che dalla sentenza non si ricava una esplicita e univoca affermazione circa il carattere inadempiente della condotta dell’avvocato, l’assunto è comunque destituito di fondamento.

L’inadempimento è solo uno degli elementi che compongono il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno. Esso connota la condotta causativa del danno in termini di disvalore, in quanto violativa dell’obbligo contrattualmente assunto, e dunque idonea a costituire criterio di imputazione soggettiva del danno, ma non coincide certo con il danno risarcibile (danno conseguenza), e ancor prima non vale di per sé a dimostrare nemmeno l’esistenza di un evento di danno, ossia della lesione dell’interesse presupposto a quello contrattualmente regolato: evento legato alla condotta da nesso di causalità materiale ma da essa naturalisticamente distinto, come dimostra l’art. 1227 c.c., primo comma, che disciplina proprio il fenomeno della causalità materiale rispetto al danno evento sotto il profilo del concorso del fatto colposo del creditore.

Se nelle obbligazioni di dare o facere non professionale il danno evento può considerarsi provato già dall’inadempimento, poiché quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto (si parla in tal caso di “assorbimento pratico” della causalità materiale nell’inadempimento, ma sarebbe più appropriato parlare di “prova evidenziale”, poiché quel che accade in questi casi è che la stessa fattispecie legale sta a dimostrare ex se il nesso causale, senza però che per tal motivo si possa negare, concettualmente e naturalisticamente, la relazione tra due fatti che restano distinti), nelle obbligazioni di diligenza professionale (qual è quella per cui è causa), dove l’interesse corrispondente alla prestazione (resistenza nel giudizio promosso per la declaratoria della cessazione del contratto di locazione e il rilascio dell’immobile) è solo strumentale all’interesse primario del creditore (permanenza nell’immobile), causalità ed imputazione per inadempimento tornano a distinguersi anche sul piano funzionale, ossia della prova, e non solo su quello strutturale, perché il danno evento consta non della lesione dell’interesse alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, ma della lesione dell’interesse presupposto a quello contrattualmente regolato (v. Cass. 11/11/2019, nn. 28991-28992).

Il diritto al risarcimento sorge poi – va ribadito – solo in presenza di un danno conseguenza, distinto a sua volta dal danno evento e ad esso legato da un nesso di causalità giuridica (art. 1223 cod. civ.), da verificare secondo i medesimi criteri probabilistici (Cass. 24/10/2017, n. 25112; 26/06/2018, n. 16803; 14/11/2022, n. 33466).

7. Con il quarto motivo – rubricato “violazione degli artt. 1218, 1375, 1176 comma 2, 2230, 2232, 2233, 2236 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.” – la ricorrente lamenta che contraddittoriamente con la pur riconosciuta negligenza della condotta professionale, la Corte d’appello abbia accolto la domanda riconvenzionale dell’appellante di condanna di essa appellata al pagamento dei compensi professionali.

8. Il motivo è infondato.

8.1. Come s’è detto, la sentenza non contiene un chiaro e specifico accertamento della sussistenza del dedotto inadempimento. L’inciso leggibile a pag. 4 (“… anche a volere ritenere provata una condotta non diligente dell’appellante (le deposizioni dei testi escussi, come riportate negli atti difensivi, sono sul punto del tutto contrastanti) …”) sembra piuttosto interpretabile come volto a indicare l’irrilevanza del tema e così esprimere anche un giudizio di assorbimento.

8.2. In ogni caso, quand’anche potesse trarsi dalla sentenza un tale accertamento, nondimeno il riconoscimento della spettanza dei compensi professionali resterebbe statuizione corretta in iure.

Il diritto ai compensi professionali trova infatti titolo nel contratto di prestazione d’opera professionale, il quale non viene automaticamente meno in conseguenza dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento dell’obbligo assunto dall’avvocato, a tal fine richiedendosi la risoluzione del contratto, che è pronuncia costitutiva, non dichiarativa, subordinata alla domanda della parte ed alla valutazione giudiziale della gravità dell’inadempimento (artt. 14531455 cod. civ.), salvo il rimedio preventivo dell’eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.) (v. Cass. 25/01/2024, n. 2471, in motivazione).

Una domanda di risoluzione peraltro – poiché distinta e autonoma, quanto a presupposti ed effetti – non può ritenersi implicitamente contenuta nella domanda di risarcimento (v., in tal senso, Cass. n. 23820 del 24/11/2010; principio espressamente richiamato e ribadito da Cass. n. 11348 del 12/06/2020; v. anche Cass. 7/11/2023, n. 31026, in motivazione).

Non risultando che nella specie una tale domanda (di risoluzione) sia stata proposta, né tanto meno pronunciata la risoluzione del contratto d’opera professionale, la decisione sul punto deve ritenersi, come detto, corretta.

9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. in relazione alla statuita condanna alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio anche nei confronti della compagnia d’assicurazioni chiamata in causa dal convenuto/appellante.

9.1. Tale condanna è stata pronunciata in sentenza in applicazione del principio secondo cui “in tema di spese processuali … solo la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l’applicabilità del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra loro, anche quando l’attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto chiamante, atteso che quest’ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale” (Cass. n. 10070 del 2017n. 8363 del 2010n. 7431 del 2012).

Alla luce di tale principio ha ritenuto la Corte territoriale che, nel caso di specie, “senza la necessità di affrontare nello specifico la questione, è sufficiente rilevare che non può essere ravvisata una “palese infondatezza della domanda di garanzia”, non accolta nel precedente grado di giudizio solo per la dichiarata intervenuta prescrizione”.

9.2. Lamenta la ricorrente trattarsi di “laconica motivazione” che “lascia aperti diversi dubbi circa la correttezza delle valutazioni effettuate dal Giudice di seconde cure, il quale avrebbe quanto meno dovuto motivare il perché le argomentazioni di Generali Assicurazioni non fossero meritevoli di accoglimento e, soprattutto, specificare se, anche solo ipoteticamente, la generali avrebbe dovuto eventualmente provvedere a tenere manlevato il proprio assicurato”.

10. Il motivo è fondato e merita accoglimento.

Non è dato comprendere, infatti, per quale ragione la “sola” prescrizione non potrebbe mai costituire ragione di palese infondatezza della domanda di garanzia.

A fronte dell’esplicito accertamento di tale causa estintiva della invocata copertura assicurativa contenuto nella sentenza di primo grado, che aveva anche giustificato, insieme col rigetto della domanda di garanzia, anche la condanna alle spese del chiamante nei confronti della chiamata, si richiedeva da parte della Corte felsinea lo specifico vaglio della fondatezza dell’appello anche sul punto proposto dal B.B., non potendo costituire, alla luce del principio sopra richiamato, ragione assorbente di riforma anche di quella statuizione la riconosciuta infondatezza della domanda risarcitoria.

Omettendo un tale accertamento la Corte ha applicato erroneamente il principio della soccombenza che regola l’individuazione della parte gravata delle spese del processo, atteso che, in presenza di chiamata in garanzia palesemente infondata – e tale è certamente la domanda con cui si faccia valere un diritto indennitario prescritto -, soccombente nei confronti del terzo chiamato è comunque il convenuto chiamante e non l’attore la cui domanda nei confronti di quest’ultimo sia stata rigettata.

All’onere di un tale accertamento si è ingiustificatamente sottratta nella specie la Corte d’appello, incorrendo così nel denunciato error in procedendo.

11. In accoglimento, dunque, del quinto motivo, rigettati il primo e il quarto, inammissibili gli altri, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale deve essere anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il quinto motivo di ricorso; rigetta il primo e il quarto; dichiara inammissibili il secondo e il terzo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 luglio 2024.

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2024.